Coscienza letteraria di Renato Serra
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COSCIENZA LETTERARIA
DI RENATO SERRA
Benchè Renato Serra sempre si dimostrasse lettore attentissimo del Croce, e al Croce amasse scrivere come a maestro, e ricorresse a lui tante volte, per sua pace, e sempre poi ricordasse certe conversazioni cesenati, in cui, com’egli stesso diceva, pareva come per magia rinascere il miracolo di non so che «altro dialogo e coro», pure un crociano egli non fu mai. Forse per il timore d’essere confuso con quegli altri crociani che disprezzava: «cotesti flagelli di tutte le età e di tutte le dimensioni», imperversanti «nelle scuole, nei caffè, nelle redazioni dei giornali o presso le cattedre universitarie». Ma era troppo superiore, e troppo aristocraticamente colto, per temere d’esser macchiato agli occhi del pubblico da quella brutta pece. La ragione è un’altra, e s’illumina con l’opera critica del Serra, tutta di finissima tempra, di finissima letteratura, non sorda al gusto dei problemi generali, ma che amava servirsene come d’una spinta a pensare piuttosto che farsene sostegno ad ambiziose architetture; e amante egli era sopra tutto di discorrere intorno ai suoi argomenti, movendo da più parti, dal ritratto psicologico, dalle pitture d’ambiente, da certe care e inutili divagazioni, e da sottilissimi rapporti e squisitezze: e poi veniva, anche, quand’era il momento, l’analisi più propriamente letteraria, il giudizio folgorante. Intorno al suo tema egli aveva bisogno di oziare a suo modo, intrattenervisi con quella sua presenza da signore svogliato che degnasse ogni tanto di dir la sua, toccasse o no il tasto vero dell’arte; e se non lo toccava, che si pazientasse. Quello intanto che diceva, era bello, detto con sapiente grazia, da un prediletto delle muse, da una intelligenza rara. Prima di tutto questo si sentiva: che era un’intelligenza rara, superiore tanto alle cose che diceva.
Superiore era anche a tutti quei crociani infesti di cui provava sì forte il fastidio, menti appena dirozzate sotto il potente impulso del Croce, nudi di lettere, nudi di letture (ce ne sono ancora), oltraggiosamente sicuri di sè. Serra doveva sorriderne, lui così sottilmente chiamato a dubitare e a distinguere, come d’un barbaro portento. E Croce, dalla sua parte, ogni tanto faceva viaggio a Cesena per conversare con Serra.
Da una natura così fatta, già potentemente chiara a se stessa, vedete se si poteva cavarne il tipo del crociano. E Serra poi sapeva per certo essere il Croce di tale apertura («con lui si può parlare di tutto», «la sua intelligenza non rifiuta nulla del mondo»), da capire come e perchè, nel caso suo, proprio non se ne potesse fare un discepolo, uno scolaro sia pure indocile. Egli godette, vorrei dire, degli acquisti del Croce come d’un superbo spettacolo; per ciò ch’essi potevano valere come testimonio d’un ingegno e d’un lavoro grande. Ma nel leggere e nel giudicare, per suo conto, portò altro criterio, quello che aveva appreso non, tanto, alla scuola del Carducci, quanto col cotidiano studio delle sue opere, dietro quella guida rifacendo il corso delle proprie letture, affinando il gusto, assottigliando l’acume della mente. Per un lettore e giudice di rara intuizione come fu il Serra, quella scorta, antica forse, non però antiquata, bastò.
Carducciano è intanto il suo primo lavoro, la sua tesi di laurea Dei «Trionfi» di Francesco Petrarca. Per verità, un rapporto, uno schema di saggio, più che un saggio; nella più parte un’aridissima dissertazione su fonti e concordanze, senza l’ombra di quei personali riflessi dei quali sarà piena, poi, l’opera sua. «L’opera dei Trionfi comparata con l’Amorosa Visione e, in genere, con tutti i suoi antecedenti nella letteratura italiana», «I Trionfi e la Commedia», «I Trionfi e le anteriori opere del Poeta», «La erudizione classica dei Trionfi: la materia», «La imitazione classica: la lingua, lo stile, le forme»: ecco i principali capitoli. C’è la minuzia dei primi studi di poesia del Carducci, anzi dei suoi commenti, del famosissimo commento alle Stanze l’Orfeo le Rime del Poliziano, per esempio. Che fu il modo suo di prepararsi a capire la poesia dei poeti, d’internarsi nel segreto della loro arte, di respirare quell’aria. Qui Serra è lo scolaro: lo scolaro del Petrarca e lo scolaro del Carducci. Annota e basta. Riscopre il filo della tradizione del linguaggio petrarchesco, dà la figura del vario tono delle Rime e dei Trionfi, con pochissime osservazioni sue, del resto, e molti dati, molti elenchi, molte nude cifre. Quanto a scrivere, risente sempre del Carducci.
Ha da riflettere un’impressione? «Mala nominanza in vero va accompagnando per lunga stagione i Trionfi; e par quasi una voluta riazione al grido, che levarono universale e glorioso nei primi tempi della loro pubblicazione ecc. ecc.», dice, con uno di quei cominciamenti di pretto stampo carducciano. Ha da avviarsi ad una conclusione? «Posso prender securamente mio cammino», dice, con una punta di stile un poco fredda. Ha da rigettare una interpretazione? «Ben posso io chiedere se invece di ricercare nuvilosamente la inspirazion psicologica dei Trionfi, e trovar ch’essa manca di spontaneità lirica e di grandezza epica, non sia da tentar di chiarire ecc. ecc.», dice, con quell’uso dei tronchi cari al Carducci, e le gelide graziette dell’Acri. E le sue citazioni le chiama «luculente», i suoi riscontri, «luculenti», e «luculente» sono le sue riprove. Gli piace anche un popolaresco e stridente «serio serio», che non gli piacerà più tra qualche anno. Parrebbe facesse a posta, dove la materia era più inerte, o inerte il proposito, a giocare con questi abbellimenti raggiustati. O era l’impaccio della sua mente alacre, del suo ingegno vivido, costretti a un lavoro di ricerca da condurre avanti con la fredda impassibilità del dotto stile scientifico.
Il nuovo scappava fuori d’impeto, in poche righe fuggitive, in poche affermazioni nette, composte in una schiva chiara prosa. Era la contropartita, era la rivincita. «I Trionfi non sono, per raccogliere una accusa dei critici moderni, una rappresentazione della vita reale; è ben vero: ma sono pure in qualche modo rappresentazione di una vita. Essi si muovono, se m’è lecito dir così, nell’aura più tenue e sottile della vita letteraria: rappresentano il mondo fantastico e ideale dell’antica letteratura, colto, nelle forme se non negli spiriti, con perspicuità, e nettezza mirabile, di visione; e sì le figure e le persone ne rendono, in loro atti e atteggiamenti e parvenze più caratteristiche, mirabilmente». A vent’anni Renato Serra scriveva così, che era un bello scrivere. Nessun vizio del «discorso critico» intanto, com’era dato trovarne specialmente allora nelle pagine dei giovani anche più dotati, nessun uso di terminologia aspra, quei comodi luoghi comuni della pigrizia e della superbia. Solo mancava la corrente viva che unificasse le qualità latenti e differenti del Serra, quell’annotare ancora anonimo, tradotto in un rendiconto nudo di letture, in un quadro di rapporti, e la sua facoltà, già prepotente in lui, di ricapitolazione.
Dovettero passare degli anni, perchè quell’unità vivificante si formasse. Tre anni almeno. E viaggi a Roma, a Torino, a Firenze; aria libera, nuovi contatti; quell’eccitamento di chi cerca la sua via, quella febbre di chi s’affaccia la prima volta a vedere il mondo. Fino a vent’anni, libri e studi. Aveva consumato fino a vent’anni le tappe che altri, a consumarle, impiega e oltrepassa la giovinezza. La giovinezza comincia per lui ora, e cominciano le scoperte vere, proprio negli studi, gli acquisti che fruttano. Con Virgilio, Catullo, Poliziano, Boccaccio, Petrarca, anche Montaigne, anche La Fontaine, e Molière, e Maupassant, Flaubert, Carducci, Kipling. Kipling è la sua vera vacanza dopo la laurea. Si laureava il 28 nov. del 1904, e ai primi di gennaio dell’anno dopo, scrivendo ad Ambrosini, non parla che di Kipling, annotando certi appunti vivi. «L’opera di poesia più originale di questi ultimi anni, che scopre proprio regioni nuove e incantate e infantilmente mirabili nell’anima e nel segreto dell’essere». Ma prima che lettore, e chiamato alle lettere, si sente giovane, si sente felice; guarda le cose intorno del dolce mondo, ed è felice. Da Roma, da un ospedale militare, nell’estate dello stesso anno, scrive sempre ad Ambrosini:
Anch’io lavoro, e volgo assai cose, e nuove in mente. Quel ch’io ne farò, non so: nè mi curo di saperlo, lieto del piacere che oggi mi danno a vagheggiarle; anche se nessun piacere me ne debba seguitare poi aggiungendole. Questa sosta, chiassosa, agitata, dura, della mia vita e delle mie consuetudini, credo che m’abbia giovato assai. Me ne accorgo ora, in questa gran pace dell’ospedale, quando ho potuto porger l’orecchio riposato, dopo tanto tumulto, finalmente alle voci che fanno, sottili e pur così varie e dolci e forti, i sogni e i pensieri nel silenzio della mente sola.
Molto che era acerbo, va maturando; vedrò presto se il sugo ne sia soave, o alleghi ancora e sempre i denti del suo agresto.
Ma intanto lì, in quell’ospedale, come sta bene! E non può chiudere la lettera senza dirne le lodi, «alcune poche di un novero infinito»:
Pare che sia stato fatto a posta per me; coi suoi padiglioni rossi disposti in lungo ordine su la costa del Celio, fra carpini e felci e pini dalla verdissima ombra. Io ci passeggio in veste tra d’ammalato e di frate zoccolante — camiciotto di bordatino azzurro, calzoni bianchi e amplissime ciabatte; e m’assaporo tutta, in silenzio raccolto, la gioia dell’ozio, la gioia di una vita povera di avvenimenti ma così fiorita dall’immaginazione, così ricca nella sua placida egualità. Io percorro sempre gli stessi viali e vedo sempre le stesse cose; il sole nascere in quel cielo e arrossare primi quegli embrici; e tramontare in quel luogo e dorare — che magnificenza di crepuscoli a Roma — ultimi quei pini e quel nodo di roveri; scorgo fuor delle mura sempre quelle rovine quelle colonnette quella cappella e quei bigi palazzi: ma sempre nuovo è il mio cuore e il sogno che l’accompagna. Questa veste ondeggiante di monaco, queste ciabatte che m’obbligano a una lentezza capricciosa e tranquilla, tutto ciò che qua dentro mi sequestra dagli uomini, dai loro usi e dagli affanni, mi rende più sicuro, più lieto di me; il mio corpo e il mio spirito ritrovano un’agevolezza, così lontana dalla goffaggine ben nota delle vesti e delle parole e dei modi che sempre m’ha afflitto: e come il sole, filtrandomi tra le grandi persiane verdi nella camera tacita, sui letti bianchi e sui muri cilestrini, par che mi bagni di frescura e di pace, così le amarezze e i rimpianti degli anni perduti, della dolce vita ch’io non so bere, dell’amore che non ebbi, dell’arte che non so, mi si tramutano qui in un piacevole incantamento di memorie serene, in un sapore di quieti desideri, in uno splendore di fantasmi molto grato — ch’io posso rimirare e fingere a mille a mille più nuovi, poichè nulla mi urge, nulla mi tocca da presso; tutto è indefinito, indistinto, tra il sonno e il sogno. Tutti uguali i giorni; e immobile l’ozio: e ogni azione, decisione, ogni battaglia lontana.
Ricordiamoci di questa data, 7 agosto 1905. È nato lo scrittore Renato Serra. Buttato ha via da sè ogni scoria professorale, ogni ambizione; è libero e nuovo finalmente. Gli studi sì, ma prima di tutto il suo occhio, e i suoi sensi, che vedano e godano.
Oh gli studi! Letture soltanto, o riletture («ma io non leggo: riunisco e rimastico»). Dopo due anni, ritornando su questo tema, ancora Maupassant, Boccaccio, Aristofane, Virgilio, Montaigne, Sainte-Beuve, Ariosto, Catullo, le reliquie della lirica greca, i toscani dal 3 al 500, nelle cose minori, Renan, Leopardi. Per cavarne argomento di analisi critiche? No. «Con questi soli credo che saprei vivere e morire: in agello cum libello. Quando ricerco le ragioni della mia preferenza con calma di critico, trovo un punto in cui il rationabile vien meno; scopro l’anima nuda. Li amo perchè son fatto per amarli: qui finisce la critica». E cominciano le mormorazioni degli altri, dei sicuri di sè, ai quali, in verità, Serra sempre si divertì a dar filo. «Già io, di critica seria, non ho mai conosciuto altro che la lettura pura e semplice. E poi, dei divertimenti personali, in margine. Oppure, il volume di mille pagine: ed è un’assoluta necessità, per poco che uno abbia di coscienza; e preferisca il dire al tacere». Diceva così, veramente, un poco per dispregio, e un poco ragionando per assurdo. Per dispregio di quelli che giudicavano (e giudicano) a libro non letto; ragionando per assurdo contro quegli altri, che con una formuletta pensavano (e pensano) d’aver capito tutto, detto tutto, superato l’argomento e il tema dell’argomento. Serra, intanto, nel tempo stesso che diceva di rinunciare alla critica, si preparava a scrivere un vero e proprio saggio critico, il suo primo vero saggio, quello su Rudyard Kipling. Nella lettera citata c’è, direi, il «fatto personale», la radice di quel suo interesse a Kipling. «C’è dei giorni in cui a leggere soltanto o a dire il nome, a scoprirlo in un indice o a indovinarlo di lontano fra le righe minute d’una colonna di gazzetta, provo lo stesso rapido trasalire, e la gioia fisica con che un innamorato scandisce e assapora il nome dell’amata». Troppo umano? Ma Francesco De Sanctis non disse diversamente delle sue letture, da cui nacquero i Saggi. E leggiamo ora quel che Serra scrisse su Rudyard Kipling.
Comincia come una diana: «Basta profferire le sillabe del bel nome, squillante come una fanfara esotica, ed ecco da tutte le parti concorrere come per se stesse mosse le grandi frasi sonore; ecco gli aggettivi lustri come un soldo nuovo, le imagini sontuose e le osservazioni profonde rannodarsi, come soldati alla bandiera, intorno ai punti culminanti: ‘il professore d’energia degli anglo-sassoni’, ‘il rosso poeta del sangue’, ‘il confessore e il banditore delle virtù, delle vittorie, dell’orgoglio e dell’anima della razza’, ‘il poeta dell’imperialismo’». Quelle frasi sonore, smorzate poi ad una ad una, se non spente a dirittura, faranno presto un curioso effetto; ma non diminuiranno la grandezza di Kipling, nè l’amore di Serra per Kipling. Altro amore, d’una mente eletta, che fugge le parole grosse. Egli domina, si vede, fin dal principio il suo tema. Mostra sì di concedere, con grazia, agli avversari, d’essere un poco esitante; ma poi è lui che stravince. Quella pienezza delle prime righe, quella sorta d’enfasi si mantiene in tutte le sessanta pagine. Serra vi ha messo in questo suo lavoro giovanile tutto il suo caldo, con una vena, un impeto che forse non si ripeteranno più. Sarà la mistura di toni diversi, l’avere attinto forza da varie fonti, l’incontro con un soggetto che mai sentì altra volta sì potentemente e giovanilmente. Tanto caldo, sebbene con classica misuratezza, concederà più tardi solo all’esaltante ritratto del Carducci, a quel mito della sua gioventù studiosa. Qui discorre, traduce, ha un piglio allegro; dà il senso e l’aria dei racconti e dei romanzi; s’intrattiene a certe minuzie, le care minuzie serriane; fa parlare, e par che ne rida, un grammatico, e gli attribuisce cose che sente e dissente, con quel suo giuoco furbo e scattante; e adopra immagini a iosa che danno la misura della sua felicità e della padronanza dell’argomento; sottilizza e affina, ma, anche, leva il tono e monta. Questo personaggio che è Kipling entra veramente nella nostra vita, com’è entrato nella vita di Serra. Voi sapete tutto di lui, ora: della sua educazione, del trionfo letterario, del successo politico. Sapete quanto gli frutta il manoscritto di Kim («ceduto a un editore americano un dollaro la parola»), e quanto una novella firmata da lui. Oh non è tutto qui! Ma la tecnica del suo raccontare, l’impasto della sua lingua, e che scrittore è Kipling, perfino che cosa sa fare dei suoi lettori, e per che via li prende e li disarma. Nomina una volta, o fa nominare, il Taine, Ippolito Taine, come un innamorato; chè gli piacerebbe scrivere un bel capitolo, compagno a quelli che sono nella Storia della Letteratura inglese, possedere le sue qualità. Ed ecco mette già in opera quelle sue qualità, parla anche lui, o vi accenna, di ambiente e di razza, senza però farsene schiavo, senza troppo gravarne la pagina. Aspettatelo alla resa dei conti, e vedrete come tutto alla fine avrà servito a comporre il ritratto, questo arioso ritratto di Rudyard Kipling, lumeggiandolo e investendolo da ogni parte; e come anche avrà servito a parlare dello scrittore e della sua «magia», a rapirne il segreto, con quella sua arte già così accorta, procedente per esclusioni fortissime e per tanti no, per arrivare al sì che più vale. Grammatico, dunque, stilista, uomo di lettere, e deliziosa penna. Forse è la penna che concede, qualche volta; concede, dico, per amor dell’argomento, a bei pretesti. Ma la mano del lettore e giudice è ben ferma; ed egli dice quel che ha da dire con un accento che sconsiglia ogni replica. Serra aveva ventiquattr’anni. E perdoniamo, a questo saggio d’un giovanissimo, quel poco d’intemperanza (felix culpa). La misura, il bello studio delle parti, la proporzione del taglio, la nettezza di tono, verranno poi. Ma già è cominciato l’anno ch’egli scriverà i suoi primi saggi perfetti: quello su Pascoli e l’altro su Beltramelli; e nelle pieghe d’una recensione mezzo erudita lascerà detto qualcosa che può essere buona spia a intendere il carattere della critica serriana, la sua formazione, le sue preferenze.
La recensione è quella scritta su un volume postumo del Carducci, Melica e lirica del Settecento. E ci sono certi primi appunti per il saggio su Carducci e Croce, a dirittura rivelatori. Ma sopra tutto ci son giudizi sulla critica del Carducci, e sull’influenza che su essa esercitò l’opera del Sainte-Beuve, che ci danno il modo di comporre un curioso quadro della critica del Serra, come la sognò e praticò, con le parole sue stesse. Legge le pagine del Carducci sull’Adolescenza e gioventù poetica di Ugo Foscolo, e queste righe subito ci fermano, dove par di vedere un riflesso del particolare sentimento del Serra, delle sue più genuine disposizioni all’esercizio della critica: «quella varietà di osservazione biografica e psicologica e squisitezza di gusto e ricchezza di dilettazione letteraria», «tra le più nuove e care cose che il Carducci abbia scritto». E non si contenta di questa notazione marginale, quasi fortuita; dice che il Carducci non aveva dato sin allora, fino a «codesti discorsi sulla melica e lirica del Settecento», nessun esempio di «quella maniera mezzana, più bassa di tono e più varia che non i discorsi sullo svolgimento della letteratura nazionale, meno accademica che non le prime prefazioni, più circoscritta, e con meno di amenità e di conversazione, diciamo così, personale e meno larghezza fantastica che gli studi su Dante»; per concludere che «se il C. avesse dovuto scegliere, avrebbe voluto, nella critica, essere rappresentato da questo e non da altri»; e per domandarsi in fine: «che parte ha avuto nella sua novità di ritratti, colti sull'uomo vivo e coloriti con ricchezza di aneddoti e particolari pittoreschi, il Sainte-Beuve?». Che parte, ci domanderemo noi, ha avuto su quegli altri ritratti, i ritratti del Serra, colti anch’essi «sull’uomo vivo», e coloriti anch’essi «con ricchezza di aneddoti e particolari pittoreschi», l’opera del Carducci, e prima ancora l’opera del Sainte-Beuve?
Basta spigolare in una paginetta ciò che il Serra scrive del Carducci e del Sainte-Beuve, e comporremo la sua vera immagine. «Han pure tante cose comuni», egli dice. «Erudizione e lettura universale». E, fatte le debite proporzioni, del Serra si può dire lo stesso, del Serra morto di trentun anno. «Religione delle lettere, profondità e tenacia nella tradizione». E Serra ebbe la stessa religione. «Indipendenza assoluta dello spirito». E Serra indipendente fu, sino all’indifferenza. Il Sainte-Beuve, egli nota infine, «si può dir che non abbia stile, tanto è rotto e molle nel prender forma e qualità dagli spiriti con cui ha che fare»; mentre il Carducci «non mostra nulla così rilevato e vivo e gagliardo come lo stile». Da una media delle non-qualità dello stile del Sainte-Beuve e delle spiccatissime qualità dello stile del Carducci, di quella mollezza e cedevolezza e di quella prepotenza, ecco approssimativamente farsi l’idea delle qualità proprie dello stile del Serra, inconfondibili qualità, e che ad apertura di libro subito s’avvertono, molli anch’esse un poco, ma direi anche, prepotenti. C’è una prepotenza, anche, nell’essere insinuante, e il Serra fu tra i più insinuanti scrittori, con i suoi vizi, naturalmente, i vezzi, le graziette, le smorfiette. In questo, assai vicino al Pascoli, e a quelle sue civetterie or fanciullesche e care ora fastidiosissime. Ma abbiamo, senza volere, anticipato qualcosa che egli stesso dirà tra poco, accostandosi, al modo suo, di grado in grado, sempre più al vero, che è un insinuarsi anche questo. Dice dunque del Sainte-Beuve, ch’egli ha «l’intelligenza infinitamente aperta e sottile, la curiosità che trova tutte le vie, la malizia che s’insinua per tutte le crepe»; e sono qualità che mi pare di riscontrarle tutte nel Serra. Ma non una di quest’altre, invece, ch’egli riconosce al Carducci, io riconoscerei al Serra: «il potere e l’autorità, la franchezza della linea e la bravura del colore e la vigoria delle grandi composizioni serrate». E così, ancora, ciò che egli trovava nel Sainte-Beuve, «l’interesse spirituale» che «si adempie nei termini di un uomo frugato nella carne viva o di un’arte o di una maniera, realizzata nella sua qualità», mi par di ritrovarlo in lui, Serra, in una certa misura e potenza. Ma che cosa può esserci di riferibile al suo ingegno in questi tratti con cui compie e determina la figura del Carducci? «Egli ha bisogno non meno di giudicare che di penetrare e rappresentare; e nel giudizio osserva alcuna legge, che non nasce solo dal temperamento e dall’occasione, ma già era posta come regola ferma, vorrei dire che egli sottopone volentieri la parte del gusto, che ha finissimo, e della intuizione e penetrazione psicologica, alla parte della classificazione, dell’opera nel genere e dell’uomo nel mezzo storico». Serra, nel suo giudizio, non osservò alcuna legge, e non sottopose la parte del gusto, che ebbe anche lui finissimo, e della intuizione e penetrazione psicologica, alla parte della classificazione dell’opera nel genere e dell’uomo nel mezzo storico. Gusto, intuizione, penetrazione psicologica agirono come potenze divinatrici, e si quietarono di sè. In quella indipendenza, io direi che sta la perenne novità delle sue scoperte, la modernità dell’accento, la limpidità della sua lunga vista. Se mai, al Carducci fu vicino per una virtù creativa. E nell’attribuirla al Carducci ci fu forse, senza saperlo, una spinta a confessarsi. «Certo», egli dice, «con questo schema non si esaurisce la sua critica; e bisognerebbe guardare anche al bozzetto della persona, che ha quella felicità e quella vivezza che è solo sua — non aveva egli dalla natura tutti i doni per riuscire il più bello dei nostri novellatori? — e alle osservazioni che a tratti rivelano stupendamente l’uomo dell’arte e l’intendente squisito ecc.». Già, quella specie di idea fissa che il Carducci avesse tutti i doni per riuscire «il più bello dei nostri novellatori», che vide poi avverarsi, in parte almeno, in certe splendenti pagine del Panzini, non è, a parer nostro, che una stramberia, un trascorso della felice penna del Serra. Il Carducci novellatore non fu, neppure potenzialmente. La sua prosa, quella creativa e inventiva, è sempre troppo bella e uguale troppo di tono, pur nella sua ricchezza di linfa, troppo tesa e vibrata, perchè potesse variamente accompagnare una vicenda narrativa. Mutevole è tanto più la prosa del Serra, più flessuosa, più smorzata; e non so se neppur lui sarebbe riuscito un novellatore. Ma il tono del novellatore pur lo sento, tante volte, in quei vivi ritratti, in quelle indiscrezioni e insinuazioni, e nel modo, nel piglio, nella forza del raccontare (non dico già descrivere ma raccontare) le altrui novelle, gli altrui romanzi, nel suo moraleggiare e dar l’idea, con lentissimi indugi e freschezza e piacevolezza, di quel che si dice il mondo d’uno scrittore, dell’indole sua, riflessa, com’egli asseriva del Carducci, «nel mezzo storico». Per concludere, egli non amò sacrificare lo «scioglimento diritto del problema estetico» alla «esattezza della rappresentazione». Se mai sembrò talvolta rimanere imprigionato nello scioglimento del problema estetico, inquieto ed esitante; che è il pericolo della razza fina cui apparteneva.
Dico la razza del «lettore», com’egli stesso diceva, del «lettore intendente», dall’«animo quieto», che «in sè è puro di movimenti mondani». Si gloriava di pronunziare queste parole pianissime, sommesse, a proposito di Borgese, anzi contro Borgese, contro il gridante Borgese. Che parrà poco a tanti, forse. Ma è che Serra voleva apposta opporre quel poco certo, al molto torbido e incerto dei critici problematici che facevano (e ancora fanno), delle loro formulette, sostegno a cattive letture. «Quando verrà un tempo in cui persone bennate parleranno ancora lietamente della lieta poesia, per alcun diletto loro e candidezza dell’animo?». «Lettore», «bennato», ecco ciò che gli piaceva dir di sè, e gli pareva che bastasse. Non che non riconoscesse e apprezzasse in altri le qualità che gli mancavano. In Croce, per esempio, egli ammirava «la passione intellettuale di comprendere e definire», ch’era, diceva, la sua «qualità prima», e che, sebbene avesse «per fine unico il vero», «nella schiettezza della sua operazione» riusciva «anche bella». Sentiva però anche che «infinite grazie» mancavano nei suoi saggi «verso la perfezione del gusto e della letteratura», sentiva che quell’uomo era nato «per portare anche davanti alla bellezza la sua curiosità intellettuale», e che in lui «la parte del gusto e dell’impressione ingenua» passava «in seconda linea», diventava quasi «materia» su cui si esercitava «il travaglio di chiarire e sciogliere e valutare». Quelle «grazie», quelle «infinite grazie», e «gusto», e «impressione ingenua», il Serra n’ebbe a dovizia. Vuol dire che era nato critico, e quel dono nativo credette meglio rafforzarlo con le letture, con la serietà del lavoro, con la devozione al senso della tradizione, intesa come un freschissimo lavacro, e non con affermazioni superbe, con dottrinarismi e con imprestiti.
Oh vediamo dunque queste letture del Serra, come leggeva il Serra. In verità, scrivendo egli del Pascoli, del Beltramelli, e poi del Panzini e di Severino Ferrari e di D’Annunzio, sempre affrontò il problema critico alla radice, con quelle sue strenue analisi. E le divagazioni, come altri disse, le sottili descrizioni, le più vaste composizioni partono da quelle analisi, a quelle analisi fanno centro. Ma il suo analizzare, con quell’aria apparentemente svagata, e pur con quella sua lama infallibile, da che cosa prendeva certezza, da che forza si alimentava? È di quel tempo, anzi d’un poco lo precede, almeno nella prima parte, che è la parte sostanziale, una delle più fini, più nuove, più allettanti esplorazioni del Serra, in un campo apparentemente lontano, e toccante il tema che non parrebbe avere intimo rapporto con la sua professione di critico di lettere, e di lettere italiane. Sono le pagine Intorno al modo di leggere i Greci, dove è fissato, senza parere, un punto essenziale, da cui s’irradia la inquieta e pur potente forza analitica del Serra. Vi si parla dell’intraducibilità della poesia greca, e come la lingua greca non suoni più a noi come doveva suonare ai Greci di mille e mille anni fa, e nulla dia più a noi di quel segreto senso che ai Greci d’allora era sì aperto, e che parlava in loro e respirava come una cosa viva, una cosa del sangue. «Mi si presenta l’antica pagina, così chiara e svelta nei suoi caratteri un poco inclinati correnti; e i miei occhi si fissano in quella, ma non vedono nulla. Nulla di ciò che importa. Poichè se anche m’accorgo che il verso precedente ha un piede men regolare, questo accorgere mio si confonde con un tritume di lineette e di mezze lune sopra le sillabe, con una trama sottile quasi di segni algebrici che mi dà più noia che aiuto. Essa trema sopra le belle sillabe come tela operosa di ragno e a me affatica la vista: tutto quello che scorgo attraverso i fili minuti non è più puro, ha un’ombra addosso di polvere e di stento». E già in certi suoi appunti inediti per il saggio pascoliano, da dove si vede che l’un argomento gli richiamava l’altro, l’un problema, per lui, risaliva all’altro, con un sottil legame, in quegli appunti aveva detto: «la poesia greca nessuno la recupera; perchè chi mi rende il suono e gli accenti che un verso di Saffo o di Alcmano prendevano sulle labbra di un coro di vergini, e il senso che essi prendevano della loro voce quando li modulava».
Preso ha le mosse da tanto lontano per affermare una verità più vasta, di portata generale, da cui poi nascerà la forza e il limite del suo analizzare. (Ed è dei forti accettare il limite; degli sciocchi neppure proporselo). Quale verità dunque? Che nel fare opera di critica è necessario guardare all’imponderabile, acquistare il senso dell’imponderabile; e nel leggere, rapire quanto si può più di segreto alla pagina, in quei primi sondaggi che precedono il giudizio. Vero è che i nove decimi dei critici d’oggi leggono con tutt’altro animo, e come si farebbe leggendo non opere originali ma traduzioni. Cattive letture, Serra sentenziava. Lui che si crucciava con queste parole: «Io non ho il senso schietto, immediato, diretto del greco: quello che possedeva il più umile artigiano, spettatore del teatro di Dioniso, sì che quando si sentiva ripetere il verso stiracchiato di Euripide, alla comica interrogazione dell’attore che col dito gli segnava nello spazio la stonatura quasi fatta visibile, gli poteva ridendo consentire ὁρῶ». «Senso schietto, immediato, diretto» della propria lingua, e sapersene valere, vorrei dire saperci credere come alla fonte prima del leggere e giudicare. Serra così lesse i poeti. E rafforzò il suo infallibile senso con l’altro più vasto senso della tradizione, con la presenza viva in lui di tutto il nostro linguaggio poetico. Soltanto così egli potè avvertire e la novità d’un Pascoli, e la frattura da lui operata. Quelle sue acute analisi, che più acute non potrebbero essere, quelle penetrazioni in profondità sul classicismo pascoliano, sulla tecnica del verso pascoliano, sull’antistoricità pascoliana, pigliano rilievo da quel senso della tradizione, vorrei dire, da quell’immanente senso (e piglia di lì, anche, forza e unità il discorso critico). La immaturità stilistica d’un Beltramelli è giudicata da quello sguardo, si decompone e sfascia sotto il peso di quello sguardo. E perfino l’esilità costruttiva, il lusso ornamentale d’una novella di D’Annunzio son denunciati alla stessa luce, acquistando al giudizio critico il valore pacifico d’una dimostrazione in quel vivente contrasto con una classica novella del Boccaccio. Per converso, la prosa panziniana, il sentore di poesia che è nei versi di Severino, risaltano, e se ne giovano, per quella concordanza, per quella vicinanza, che più e meno, con più e meno d’ombra e splendore, il Serra ritrova con la prosa e la poesia di tradizione. Non è un procedimento questo, come pur potrebbe sembrare, così scoperto e semplice da toccare l’ingenuità. Tanto è sottile, invece, che pochi l’avvertono; ed è continuamente rifranto in una inquieta analisi sinuosa che mantiene a tutto il lavoro l’impressione viva d’una cosa nel suo farsi, col gusto e la bellezza dell’improvviso. Poi s’aggiungono quelle intrusioni personali, quegli intercalari, a togliere ogni apparenza di rigore alla pagina e al capitolo, e a dare, nel tempo stesso, nelle mani dei lettori grossi un’infinità di prove che, sì, Serra non sa ragionare d’arte e di poesia senza quegli scadimenti, quelle inflessioni tenere, quelle svogliatezze crepuscolari. E non s’accorgono, quei tali lettori, che questi son vezzi, civetterie, d’uno che la sa lunga; che questi vezzi, queste civetterie per nulla rompono la linea del saggio, le comunicano se mai una vibrazione e un che d’incognito.
Ma non è qui tutto Serra. Qui è la fonte prima delle sue qualità di critico, e di qui nascono le sue descrizioni prospettiche, i suoi ritratti, le sue ricapitolazioni. È la virtù di quelle analisi condotte sino in fondo che dà a queste ultime espressioni un accento di novità e di verità singolarissimo, e allontana ogni sospetto di bravura o, quando mai, d’un pennelleggiare dovizioso soltanto. Dirò anzi che quelle descrizioni, quei ritratti, quelle ricapitolazioni sono altrettante risoluzioni felici di quelle analisi protratte, e che il loro piglio è tanto più rude quanto più la lettura era stata lenta. Sazio ormai di tante degustazioni, alla fine egli affretta i tempi, e un che di caldo e inaspettato, un che di vittorioso, passa nella sua prosa. I suoi ritratti, sopra tutto, paiono trasfigurazioni di giudizi lungamente lavorati. Non conta che, talvolta, essi muovano e si determinino da ragioni personalissime. Di quelle ragioni anzi si scalderanno, senza nulla perdere di nettezza e di rigore. «Lasciate dunque che vi parli di me. Per studiare gli effetti di quella spirituale imitazione che occupa oggi la nostra criosità, non trovo nessun altro esemplare di umanità meglio alla mano. Con un poco di buon volere, anche la mia storia ordinaria può servire di specchio a molte altre». Così, a un certo punto, egli ama segnare il passaggio da un discorso apparentemente fortuito incominciato per un catalogo di scrittori italiani, al ritratto e alla esaltazione del Carducci e della sua perennis humanitas. E quel ritratto voi sapete quanto gli riuscisse vero. O se cercate qualcosa di men caldo, ma fermo lo stesso, anzi, vorrei dire, ruvidamente condotto, inesorabilmente circostanziato, aprite all'ultime pagine il saggio su Beltramelli. V’accorgerete come da quella fittissima analisi di stile è potuta nascere una conclusione sì esatta, una conclusione fulminea, dove solo un lettore avvertito saprà scoprire il riflesso d’una lettura e d'un'attenzione strenua. V'aveva sì suggerito innanzi, e lì era il punto di trapasso, che « dal modo com’è scritta sola una pagina si può comprendere quale sia in lui il novellatore; l’osservatore di uomini e il descrittore di paesi; il celebratore della Romagna». Pure quelle due pagine paiono nuove affatto, e la educazione letteraria dello scrittore, la nascita dell’uomo, i gusti, il destino ingrato («nulla dalla natura par che gli manchi; se non la felicità») paiono come tante prove, l’una all’altra strette, d’un giudizio ripreso nuovamente e condotto rapidamente a termine. E il ritratto di Panzini? Prima, tutto rilevato, con la forza delle parole sue stesse, come fosse un autoritratto; e poi alla fine con quel lungo gherone di noterelle in margine, un discorso scaltrissimo d’uno che ha visto chiaro e l’uomo e l'artista, e gioca come gli piace, con umanissima grazia e intelligenza sveglia. E nomineremo ancora il saggio su Severino, tutto sfumato; le pagine forse più aerate che Serra abbia scritte; un misto, con mille gradazioni, di analisi e notazioni psicologiche, mai finito e sempre ripreso, con un’arte accortamente combinata, una scrittura leggera, un’ombra di malinconia per questo ineffabile nulla di poeta e d’uomo rivivente da una imitazione devota.
Il ritratto del Pascoli l’abbiamo apposta lasciato ultimo; per innestarvi altro discorso, per entrare nel segreto del lavoro del Serra. E ci aiuterà la lettura di certi appunti inediti.1 Quello del Pascoli fu un tema che occupò a lungo la mente del Serra, o perchè si provava la prima volta a un argomento che tanto lo toccava, o perchè imprendibile era la figura del Pascoli. Voi ricordate come finisce quel saggio. Finisce con i versi di D’Annunzio, di quella ode «curvata in ghirlanda con l’arte sua più leggera»:
....l’ultimo figlio di Virgilio
prole divina,
quei che intende i linguaggi degli alati,
strida di falchi, pianti di colombe,
ch’eguale offre il cor candido ai rinati
fiori e alle tombe.
E vi sono aggiunte queste due righe sole di commento: «Credo che sia qualche vero in queste parole di un altro poeta; o almeno a me piace che sia». «Qualche vero», dice. E quell’immagine dannunziana, «l’ultimo figlio di Virgilio», nella quale il Serra in certo modo mostra d’acquetarsi, per quante altre vie la verrà rinforzando! «Il figlio di Virgilio», dice prima annotando, e nella stessa pagina: «facies rustica, lingua tarda, timidus poёsis», in fretta scrivendo a matita. Poi, più tardi: «il romagnolo: facies, sermo, forma: oculorum acies vaga», più per lasciare un ricordo sulla carta che per il gusto di scriver nulla di netto. Assai meglio dopo, con qua e là qualche vibrazione: «Pascoli facies. uomini di cui l’aspetto è ingenuo: non una maschera, ma un viso; limpido viso. tutto quello che la vita vi ha scritto, caratteri di dolore e di tempo sulla pagina che ingiallisce non cambiano la linea e la specie — l’uomo rustico. il fattore di Romagna. il pianto. i moti del bimbo. del poeta — e mi veniva a mente Virgilio. facies rustica. timidus. vox tarda». Ma non è ancora contento o, per dir meglio, sente che, sì, ha allargato il campo, ma non è andato oltre l’apparenza di quell’ingannevole immagine. E scava dentro. Un Virgilio sì, ma «un Virgilio smarrito fra noi; un Virgilio rimasto, fuor che nell’arte di comporre le sillabe in versi, fanciullo; con tutte le piccole vanità, i vizietti, le bizze del fanciullo, e la piccola mente ombrosa; un Virgilio senza la tenacia tranquilla e la timidezza superba del figliolo dei coltivatori di Pietole — ma infine Virgilio; o qualcuno di molto simile a lui». Il ritratto non c’è ancora, chè non gli son chiare tutte le ragioni da cui esso debba acquistare figura e accento; ma ci ha lavorato ad arricchirlo e schiarirlo. Ed ecco quelle ragioni, con un movimento nel principio che è rimasto come apertura dell’ultimo capitolo del Saggio, e con una logica dipendenza delle parti che anch’essa è rimasta, intatta, nell’ultimo capitolo. «Ma alla fine dopo aver guardato tanti punti (dopo aver cambiato aver mutato tante disposizioni d’affetto e di giudizio) accade di fissar gli occhi dirittamente su lui, cercare d’abbracciarlo tutto con uno sguardo, di acquietarsi finalmente in una disposizione dell’animo definitiva ed esauriente. Ed ecco la fantasia mi rappresenta la sua viva persona: vedo quel corpo quel viso: sento quella voce. O abbia fatto e detto quel che volete: questi è un poeta; è l’uomo che ha l’anima vergine e lo spirito tramutabile nell’opera della creazione. È il figlio di Virgilio; figlio più scoperto, inerme, smarrito. Io non so giudicarlo; ma sento, com’è, che lo amo». Quella sua «viva persona» quel «corpo» quel «viso» quella «voce», e quel che c’è in lui di virgiliano, ma «più scoperto, inerme, smarrito», son gettati a dar vita a neppur venti righe d’un superbo ritratto. Voi lo ricordate...: «Se vi cammina davanti, tarchiato nella sua statura mezzana, con quella impostatura così spiccata del petto, che si dondola un poco ecc. ecc.». E di quelle venti righe c’è rimasto assai più che un abbozzo, senza naturalmente la finitezza delle parti:
Se vi cammina dinanzi è un romagnolo schietto. Di statura mezzana ma largo traversato ha (il collo) l’incollatura breve e taurina la testa e il passo (leggermente oscillante) dei nostri agenti di campagna a cui le braccia corte e le gambette assecondano ondeggiando l’impostatura fiera del largo torace. Ma quando si rivolge è un altro; ne gli occhi grigi che si aprono nel suo viso largo e sopratutto la fronte (solcata) e tormentata, mostrando nei solchi profondi il tormento e il travaglio del pensiero, dello spirito, si presente l’anima (sognante e dolorosa). E quando vi parla con la sua frase rotta, con la sua voce senza accento, coi suoi movimenti (bruschi) rapidi e profondi a cui la parola a ogni tratto vien meno e si rompe, quando si vede in quella fronte tormentata e in quegli occhi grigi (passare) l’ombra del pensiero e del sogno trascorrere come l’ombra della nuvola nel cielo allora si sente che è lui, il Pascoli, il poeta.
A parte certe ripetizioni nate dalla fretta dell’annotare (due volte la fronte tormentata), questa è certo una serie di appunti vivi in sè, febbrilmente trascritti; ma s’aggiungono l’uno all’altro in una successione di scoperta, senza ordine nè prospettiva. E nient’altro che il primo getto seguente a quel cercare di poc’anzi dove collocare il ritratto e come motivarlo. Nella pagina definitiva, invece...:
Se vi cammina davanti, tarchiato nella sua statura mezzana, con quella impostatura così spiccata del petto, che si dondola un poco assecondando con le spalle e le braccia corte il moto risoluto del passo, col collo taurino e la testa forte sotto il cappello largo e molle, egli è uno dei nostri agenti di campagna, un fattore del più buon ceppo romagnolo. Ma si volta; vi guarda, vi parla. E quando udite frasi rotte, una voce che pare senza accento; movimenti rapidi e profondi a cui la parola a ogni tratto vien meno; quando vedete su quella fronte tormentata, che mostra nei solchi fondi il travaglio e l’ansia dello spirito, quando vedete su quegli occhi grigi l’ombra del pensiero e del sogno trascorrere come l’ombra della nuvola nel cielo, allora sentite che è lui, Pascoli, il poeta.
Come tutto qui è ben proporzionato e diviso! Due parti grandi, e in mezzo, a modo di legatura, una riga sola: Ma si volta; vi guarda, vi parla. La composizione di esse parti è delle più naturali e parlanti: nella prima assecondando l’occhio a figurarsi la persona intera, nella seconda facendo dei quattro motivi quasi un concerto, e movendoli insieme. Non ha fretta di dire, nella prima parte, è un romagnolo schietto, per poi ancora dire dei nostri agenti di campagna. Questa sarà, se mai, la necessaria conclusione, e tutt’in una volta determinata, come vedremo. Gl’importa di dare invece subito un’immagine dell’uomo, della sua persona mortale (se vi cammina davanti, tarchiato nella sua statura mezzana), e lavorarla per gradi. Ecco l’impostatura così spiccata del petto, e le spalle, e le braccia corte, e quel dondolio impresso dal moto del passo. Poi il collo taurino, la testa forte, e il cappello largo e molle. È un fattore del più buon ceppo romagnolo. Tutto in ordine, tutto in una progressione impeccabile. Ma si volta; vi guarda, vi parla. E quel voltarsi, guardare, parlare riempiono la seconda parte. Si volta, ed ecco l’imprevisto, l’inaspettato. Già nella parola tradisce un’inquietudine, un turbamento, pure con quel suo timbro che pare senz’accento; e ciò che la parola non dice lo dicono i movimenti rapidi e profondi a cui la parola a ogni tratto vien meno. E guardate la fronte, che segni porta, e che significano quei segni (il travaglio e l’ansia dello spirito), guardate quegli occhi, occhi grigi, ma con un’ombra che dice più che non dica quel colore (l’ombra del pensiero e del sogno). Il punto d'arrivo, anche negli appunti, è quasi senza pentimento, come senza pentimento era il principio, lo stacco del periodo (appena un se vi cammina dinanzi, invece di se vi cammina davanti). In mezzo ha lavorato l'espertissima arte di Serra giovine di ventiquattro e venticinque anni; ha lavorato a disporre secondo un ordine rigoroso, con linea ben marcata nella prima parte, con impressioni momentanee e concorrenti nella seconda. E ne è nata una pagina senza nei.
Ritratti, descrizioni prospettiche, ricapitolazioni. Di ritratti, di descrizioni prospettiche, di ricapitolazioni è pieno il suo ultimo e unico libro delle Lettere, il capolavoro di Serra, capolavoro non solo d’intelligenza critica, ma di scrittura e d’eleganza. Le analisi da cui esse si generano, per necessità qui sottintese, han servito da fermento al giudizio, e restano questi giudizi, queste forme specchiate, queste più ardue prove del suo ingegno. Tutto il libro è la storia della letteratura contemporanea, tra la fine dell'Ottocento e il principio del Novecento. Centocinquanta pagine sole, ma scritte con una padronanza, una rapidità schiva, un arioso intreccio di allusioni e insinuazioni, un parlare or ruvido or leggiadro, che non c'è esempio nella pur ricca fioritura della critica nuova. Solo il Croce delle Noterelle e delle Conversazioni critiche gli può stare a fianco; con altro accento, s’intende, ma con pari leggiadria e autorità d’ingegno. Temi vecchi e temi nuovi, Carducci, Pascoli, D'Annunzio, Oriani, Panzini, Croce, e Di Giacomo, Gozzano, Soffici, Papini, Checci, Palazzeschi: le loro persone, e il tempo, e le correnti. Tutto pare scritto fidandosi di nient’altro che del ricordo e di impressioni lontane, e non è che la somma agevolezza dello stile e dei pensieri in che è risolta la lunga lettura, la gioia e, spesso, il fastidio di quella lettura. Il suo discorso è netto, serrato, armato; e pare che non faccia se non parlare, così, per caso, per pura incidenza, staccando degli appunti dal libro della memoria, come si fa dei foglietti d’un taccuino. Mostra di badare soltanto a certe rifiniture della pagina, di stare attento solo a certe pause, allo spicco di certe parole che lui sa, a certe sapientissime cadenze; e in realtà la sua mente è sveglia e pronta come non mai, alle cose che dice, non solo a come dice. Padrone assoluto di sè, dei suoi mezzi e delle verità conquistate, porta un'aria di scherzo in ciò che scrive, che è un segno di quella somma sua eleganza posta a vincere senza voler stravincere; chè gli basta vincere senza parere, così, con inesorabile levità, o inesorabilità lieve di mano. Quella vittoriosa levità di mano che porta a perfezione certe pitture prospettiche a contrasto, su due toni nettamente opposti, e il lettore non se n’avvede, in bianco e in nero; come in quei due capitoli di proemio, Il momento letterario: apparenze, Il momento letterario: particolari, con le abbaglianti e illusive «apparenze», e la modestia appena decente dei «particolari». Anche le vetrine dei librai, presentate coi colori più lieti, quasi un glorioso emblema, a un voltar di pagina non sono più quelle, si spogliano, si disadornano. Perchè, anche un nulla, come la vetrina d'un libraio, sa offrire al Serra il tema per una variazione apparentemente sbadata, in realtà tutta volta a un fine critico. E ricordate in quel suo discorso antico su Carducci e Croce, da quanto lontano era partito. Appunto da un catalogo, il catalogo laterziano degli Scrittori d'Italia.
Così le analisi sono portate qui su altro campo, su questi studi d'insieme, su queste pitture vaste. Ma, senza l'impegno della fedeltà alla parola scritta, senza obblighi letterari puntuali, esse riescono tutte libere e sciolte, quasi una cosa di fantasia, mezzo curiosità storica, mezzo schermaglia, mezzo divagazione, condotte con ricchezza di notazioni, dove la varia cultura del Serra ha sorretto il gusto e il giudizio a variare il quadro di colori e di umori. E come i panorami, le ricapitolazioni, chè tutto il libro è pieno di ricapitolazioni; e i ritratti, chè tutto il libro è pieno di ritratti. Partito sembra alla ventura per queste escursioni fortunate della sua vigile penna, come per cercarvi nient'altro che diletto. E poi, la disposizione sua a scrivere sempre più leggero, con quanta più avvenenza possibile, con estrema eleganza, e una dolce inclinazione del periodo e della frase. Ha fatto com’egli dice di D'Annunzio agli ultimi anni, nelle sue cose «scritte un po’ a caso», «mandate una dopo l’altra a un giornale», e la sua «qualità vera» allora si dimostrò «con una purità repentina», «senza schemi, senza programmi». Andando per suo cammino, tra i ricordi del passato, tra le memorie della sua vita, la pagina restava dietro lui «lieve e sciolta come una foglia, non legata a nulla», «piena e perfetta in se stessa», «limpida come una goccia d'acqua pura». E ha fatto anche com'egli dice di Soffici, venuto per lui il momento di uscire dalla sua brigata e liberarsi dagl'impacci del pensiero, dagli errori polemici, che se n'andò per il mondo e scrisse le sue impressioni ed erano «una festa». Le cose più belle, in questo libretto delle Lettere, sono da vedere con lo stesso occhio e con la stessa intenzione. Un cenno, un seguo, un disegno, una figura risolvono per un dono di grazia tutto ciò che su un qualunque tema egli avesse mai pensato e annotato. Come un sì o un no di cui rimandasse ad altro tempo l’occasione di discuterne. E in realtà la discussione, la notazione è tutta nell’opera sua, nel gusto che da quell’opera risulta, nel particolare tono di quel gusto. Il giudizio parrà sommario, naturalmente. Solo però al lettore grosso, a cui piace la moneta spicciolata in centesimi, che ora non usan più. Direte che talvolta egli gira troppo all’esterno, è poco penetrante, come in questo rapporto su Gnoli:
Così son chiusi i volumi di Gnoli. Il quale si chiama anche col nome di Giulio Orsini, e con altri nomi: è tanto tempo che scrive, cominciò prima del ’70, che i nostri padri, a Roma, non c’erano ancora arrivati. È un eccellente letterato, e aveva anche disposizioni singolari alla poesia, che tentò in molti modi. Ci sarà, nei manuali, un paragrafo per lui, staccato dai su ricordati, a cui noi dobbiamo unirlo nel rapido saluto.
Ma questa è velocità di finissimo giudizio, d’ironia sottile, questa è arguzia di mente eletta. Vi paion cose troppo tenui? E allora cercate il capitolo su D'Annunzio. Poco più di dieci pagine sono. Ma son pagine superbe, tutte d’alto stile, tutte sollevate da un’aria vivida; le sole che lo storico venturo porrà come prefazione, e nessuno ne scriverà di più belle, all’antologia dell’ultimo D’Annunzio. Ricordate lo stacco filiale, quell’improvviso balzo in alto. E accompagnate la mano che verga queste ultime righe scandite:
....ci siamo chiesti di che cosa ancora possa esser capace quest’uomo. Chi può tracciare i confini al suo lavoro, chi può dire se egli non sia sul punto di darci il volume dei suoi versi più belli, o la storia della sua vita più vera?
O nulla forse. L’unica cosa certa, che ci rimane di lui in tanto che lo fissiamo prima di allontanarci, è questo freddo viso alcibiadeo.
Non si pensa all’adolescente, che appare sulla soglia del convito, incoronato di violette e brillante di ebbrezza, agli occhi che lo guardano stanchi nel rossore crudo dell’alba; si pensa all’altro che parla in Tucidide, con una voce chiara, indurita dall’esperienza e dall’intelligenza; dice che è giusto che la sua felicità pesi a quelli che vivono con lui.
Mi diceva Serra d’avere un giorno sorpreso Panzini, e n’era sorpreso, a leggere commentando a un suo figlio questo libretto delle Lettere, e che vi faceva sopra analisi di stile. Penso, e a me non sorprende, che su queste quindici righe si sarà fermato più lungamente; e mi parrebbe questa la testimonianza più valida della eccellenza di esse. È il punto stilisticamente più alto di tutto il libro, il segno di ciò che più poterono la penna e l’ingegno del Serra.
Tra quel minimo d’impegno, pur con tanto peso d’autorità, a proposito di Gnoli, e questo massimo di potenza e decisione e classica bellezza, parlando di D’Annunzio, che qualcosa ha rapito all’aura del periodo carducciano, con un ripensamento più fino, il lettore può cercare quanto ha voglia tutte le possibili gradazioni e sfumature, gradazioni e sfumature di giudizio per segni e immagini, quando non sono dispettosi stridori di penna. Ecco la poesia di Di Giacomo, l’aria di quella poesia, e la povertà e la ricchezza intensa dei suoi versi e delle sue brevi strofette, da ricordare a confronto i frammenti della melica greca, i frammenti di Salici; ecco l’arte di virtuoso del Gozzano, il suo gusto per la parola e il sapore e la qualità del sapore delle sue parole; e la fatica seria e nobile di Francesco Chiesa, il «poeta ‘grande artiere’ del Carducci preso alla lettera»; e quel primo cenno e tintinnio di rime «come campanelli di Titania», ch’era nella Guglielminetti d’una volta, decaduta poi a povertà squallida, la «povertà di una brutta provinciale in tunica egizia»; e il clima in fine di tutta quella poesia di principio del secolo, fatta, di «Juvenilia a cui non segue mai il volume delle Rime nuove». Ed ecco la prosa e i prosatori, con un primo saluto al Verga:
Qualcuno è lontano, in luogo glorioso da cui non lo vorremmo disturbare. Verga: passano gli anni e la sua figura non diminuisce; il maestro del verismo si perde, ma lo scrittore grandeggia.
E un saluto anche a Fucini, sebben diverso, con quel lavorarci intorno a rifinire il ritratto, un poco, a dir vero, confidenzialmente. Ma sento che può farlo impunemente:
Una figura più mezzana, cara alla nostra fanciullezza, in cacciatora di fustagno, e colla pipa in bocca, un viso un po’ invecchiato, una brunitura di sole e di campagna, e un riflesso deliziosamente toscano, bonario e arguto nel riso e negli occhi sempre vivi; ha scritto delle cosette sentimentali e comuni con una vivacità di macchiaiolo e una limpidezza di artista.
Più tardi accennerà al Martini, tra gli scrittori di critica. Ma prima il riesame, affettuoso sempre, di Panzini, una smorfia sulla Serao, la decantazione di Soffici. D’ombre e di luci crude è traversato il capitolo sulla critica, con tagli in profondità. Lì è un procedere per ignes, lì il terreno brucia sotto, lì sono le reazioni più forti; i gusti di Serra, unitamente, in una sol volta, lì s’impegnano a una sorta di battaglia. Per capire anche le ingiustizie, bisognerà rifarsi da capo, guardare Serra tutt’insieme, più da vicino, ascoltarlo, come farebbe un medico. E vediamo se le osservazioni fatte sparsamente sino ad ora aiuteranno la conclusione o la contraddiranno.
Di Serra fu detto che era un pigro, e la qualità del suo ingegno, di dilettante, sottile ma un poco ozioso. Egli stesso si compiacque di questo ritratto immaginario, e lo accreditò con parole sue. Si aggiunga una vita che molte volte potè parere sperperata, tra gioco e malinconie e amori. La sua fortissima esperienza di lettore di classici si colorò d’un color romantico; quella serenità sua di giudizio acquistò un più d’attrattiva da certi modi umbratili a traverso i quali formandosi mandava luce e ombra; l’intelligenza tuttavia, ch’egli stesso sapeva essere grandissima, mancò allo scopo, per difetto d’ingegno, come diceva, e voleva dire difetto d’ingegno pratico, o era piuttosto una virgiliana titubanza, che lo tratteneva sempre dall’osare più, e perfino comparire tra la gente.
Giovanissimo, in una lettera ad Ambrosini, confessava tristamente di sapersi brutto e spiacente; e se più tardi, di quella sua creduta inferiorità, rideva, senza che però questo riderne gli rendesse men difficile vincere certa sua ripugnanza a aprirsi, a darsi, sul punto però di partire per il fronte, mandando ad amici e lontani una sua fotografia, non potè a meno di notare, di sfuggita, quello che pareva il segno più suo, la bocca sigillata. E diremo allora che questa, forse, fu la ragione che impedendogli di conversare con i molti, lo spinse invece a scrivere lungamente a pochi fraterni spiriti, come dicono le sue lettere. Curiose lettere, piene di complicate analisi, di femminili abbandoni, e reticenze superbe; piene di propositi di vita e di studi. Parlava ad altri, è vero, ma per sè quasi sempre, da sè, per isfogo; e continuò con apparenti distrazioni un suo lungo soliloquio. Inquiete lettere, di un’anima soavissima, d’un’intelligenza solitaria, di gusti così strani dai gusti correnti, ma che erano ben fermi, tra quegli apparenti tentennamenti, fermi fino a parere caparbi.
Orgoglioso era di sè. Tra l’arte, l’arte specialmente del suo tempo, e lui, un accordo non ci fu, o ci furono solo coincidenze. E la vita di provincia accrebbe il distacco. Se ne possono trovare le prove in tanti suoi giudizi, non so se dettati più da irritazione o da dispetto. Nato per respirare altra aria, saggiare la sua inquieta pazienza a scrutare qualcuno di quei versi grandi che, quanto si voglia spiato, non arriva a scoprire una sillaba sola corruttibile, portò quel suo difficile gusto, e quel fastidio, nell’esame dei moderni. Ne derivarono effetti curiosi. Gli scrittori a lui più vicini, più, direi, consanguinei, furono proprio quelli che maggiormente lo infastidirono; e i turbamenti il male e il malessere di quelli, ch’erano pur suoi, lo allontanarono da essi. Lo attraeva di più il lavoro dell’arte, pulito, schietto; e attraverso questo riconosceva la poesia e il suo valore. Di Gozzano scoperse lui primo il costruttore finissimo di versi, ch’era il segno della sua salute vera; di Soffici, quella elementare scrittura e quella luce che sono la festa della sua pagina; e di D’Annunzio il mestiere stragrande, dove non pesa, e dove più si fa essenziale e si fa arte, e che arte! Ma guardatelo davanti a Pascoli, quanto resiste ad accostarglisi, e si turba con lui, e alla fine non c'è una sola poesia che finisca di piacergli. Che cosa dimostra tutto questo? Che bisogna, leggendo Serra, tener conto appunto di quel suo complesso di voci minori, o, vogliam dire, di reazioni infinitesime: di quella sua natura, insomma, sensitiva e ombrosa che, troppo spesso, più che determinare giudizi, scoppiava in aperte avversioni e simpatie. Ma il principio, lontano quanto volete, da cui quelle deviazioni nascevano, era ben saldo, era vero, come di nessuno. Egli aveva ascoltato l’ultima gran voce del secolo, la voce del Carducci; ma prima, nei giovanili anni, l'aveva ritrovata, riscoperta, dai venti volumi delle sue opere, dagli scritti di critica e di erudizione, e dalla poesia stessa. Aveva capito che senso ha la verginità delle parole sbocciata da tanta fatica di storia e di studi. Carducci era per lui disciplina di lavoro, devozione dei classici e, sopra tutto, conquista di bellezza a duro prezzo. Le influenze, diciamo così, pascoliane, ma, per dire più giusto, della sua natura più profonda, per avere, com’egli stesso riconosceva, la volontà debole in confronto dell’intelligenza grande e, nel sangue, avvisi di turbamenti e funeree scontentezze, assottigliarono sì quel gusto, non però lo guastarono. E ci fu, come s’è visto, subito, chi gl’insegnò a indirizzare nella stessa corrente le sue tante curiosità di riflessione, attenzione psicologica, studio d'ambiente, desiderio di raccontare, rifacendo in forma quasi fantastica il processo critico dell'arte d’uno scrittore, vi fu il Sainte-Beuve, caro al suo Carducci. Specie nell’accostarsi alle figure minori, che meno lo impegnavano nell’esame della poesia sola, e più gli davano il destro di oziare, girare direi intorno all'argomento, cercava i segni lasciati dalle intenzioni immature sulla faccia dell'uomo, entrava nel suo segreto, studiava le inclinazioni dell'animo, molte volte prestando le sue, e inframmettendo al discorso le personali confessioni. Quando aveva così narrato, e s’era narrato, arrivava più quietamente al giudizio o, se non vi arrivava, per non turbare l’equilibrio di quel discorrere vago, lo faceva sottintendere con quelle sue allusive reticenze piene di finissima malizia.
Tutto il gran lavoro, nuovo o di risistemazione del Croce, gli rimase, e s’è visto, presso che estraneo. Nel Croce egli ammirava l’esempio d'una fatica e d'una lena di tempi grandi, ma quanto alla sua critica, sovente e a chiari segni, espresse la sua perplessità, osservando che le qualità del ritrattista morale erano in lui assai più forti. Da una lezione di Acri, anzi da un cenno di lui su Platone, diceva d’avere appreso assai per tempo quello che fu poi il fondamento della estetica crociana. E si vantava positivista, con ciò non volendo forse altro significare se non che la educazione letteraria, il mestiero tramandatogli dai suoi maestri, le quistioni tecniche e strumentali dell’arte, erano cose che non si distruggono; e guardava con sospetto a quella equazione di intuizione-espressione dal Croce stesso poi via via approfondita e fatta più elastica. Sì che, essendogli stato una volta proposto di scrivere un libro di Istituzioni letterarie, per immettere nelle scuole la novità della dottrina crociana, con una scrollatina, com’era suo uso, disse: — Io resto a Quintiliano. — E non daremo noi già a quella scrollatina valore di giudizio, ma dovremo pur riconoscere al giovine ingegno di Renato Serra una grande e fermissima indipendenza, in quella difesa a oltranza d’un punto che gli pareva vitale, fondamentale: che cioè a leggere i poeti basta una cosa sola, l'intelligenza, meglio, un particolare dono, che si affina, non si acquista. Serra ebbe un’acutissima e quasi divinatrice intelligenza del fatto artistico, ebbe questo dono, che affinò con la quotidiana lettura, con la lima dell'esperienza: e se ne avvantaggiò, anche, l’arte sua di scrittore, la sua finissima penna. Così noi, arrivati a questo punto, non avremmo ancora detto tutto, se non volgessimo in ultimo la mente a quella che fu la segreta passione della sua vita, la passione delle passioni, dico d’imparar sempre meglio qualche particolare dell'arte dello scrivere, non solo per illeggiadrire la pagina, ma come prova e segno d'una pura conquista dello spirito.
A quell’arte già noi siamo andati assai vicino, quando abbiamo ritagliato dal gran quadro quei ritratti varii e diversi di Gnoli, di Fucini, di D’Annunzio, come una sorta di potenziamento e trasfigurazione di giudizi espressi o sottintesi, fiori dell'ingegno. Quelli sono altrettanti punti d'arrivo, nobili vittorie. E si potrebbero aggiungere certe finezze, certe fuggitive immagini, certe righe annotate rapidamente in margine, con febbrile mano; improvvisi lampi, ammicchi, sorrisi, moti d’assenso o sprezzanti dinieghi. Ma dove metteremo noi tutte le pitture di paese? Quella della Romagna, ad esempio, scandita e saliente, secondo un'idea di sentimento; e quelle altre di cui son tutte fiorite le lettere? Allora apriamo le lettere, e leggiamo e ricordiamo. Nulla di quella pacatezza ferma, quel fermo linguaggio, quell’umore, quel rigore estremo, che era nei ritratti, magri un poco e un poco schivi, con soavissime venature di riso, un riso, direbbe D’Annunzio, come sorride la mente. Qui c’è un altro Serra, un Serra abbandonato, un Serra che scrive e canta, e rompe il confine del periodo prosastico, per uscire in musicalissime cadenze. Riconosceva egli stesso questo bisogno d’abbandonarsi, di espandersi. «Io non so staccarmi dal tavolino, massime quando scrivo lettere, senza dare un’occhiata, e notare qualche segno dell’ora, del tempo, la luce, le cose che sono la mia vita. Se non lego le mie chiacchiere a qualche cosa nel cielo o nella terra vera, mi par che mi sfuggano nel vuoto». E con una punta d’orgoglio: «Bisognerebbe leggere qualcuna delle lettere che ho scritto alle mie amorose: una storia sera per sera e mattina per mattina, delle mie primavere e delle mie estati. Ne ho qualche fascio che mi hanno restituito; e mi capita di rileggerle ancora: c’è proprio qualche pagina di poesia, che mi consola come se non l’avessi scritta io». Si pensa a Panzini, a Soffici. E trattasi di Panzini, certo; e si sente anche Soffici. Ma c’è, in più, come un’aria virgiliana, per un certo incantamento appena smorzato nelle parole. Chè qualcosa resta al di fuori delle parole, e crea un’aria intorno a quelle, un suono, un’armonia. Splendide zone, lucenti bellezze, ben nette immagini, finissimi intarsii, in un’atmosfera inquieta, in una tessitura sintattica fluttuante. E poi, sempre un tono suo, quell’incrinatura di malinconia, quella smarrita dolcezza, quella pena di sentirsi debole e solo nel flusso del tempo, nell’indifferente attrito del tempo. Lontano è Panzini ormai, e il suo gioco stilistico, e non soltanto stilistico, tra antico e moderno. E lontano è Soffici, con la sua povertà e felicità, e non soltanto povertà e felicità di parole. Serra ha come un respiro che sa di aria, aria ventilata, e ogni sillaba n’è investita. Nel suo scrivere vago, montante, c’è lo studio; e tutte le volte la fuga da quello studio. I segni certi, e il disegno indeterminato e incerto. Nessun moto polemico. E dico questo pensando al Carducci, e alle sue indimenticabili pagine, calde ancora di sdegni, rissose, e d’una inventiva tra eccitata e lieta. Qui invece è il bisogno di fermare un poco delle sue inquietudini sullo specchio calmo della terra, spogliarle del troppo umano e di certa debole ansia; vederle, nel loro segreto, fraterne a quelle che sulla terra s’esprimono per colori e odori, quasi per simboli. Tutto quello che è stato non sarà più, e un’occasione fuggita non si riguadagna. Questo è ben segnato nel ritmo delle stagioni. E guardiamo, par che dica, le stagioni! L’animo vero del Serra è consegnato in queste pagine e in queste pitture. Apparentemente somiglianti tra loro, di tante che ne scrisse, sono una variazione continua e, poichè anche canta a volte, una modulazione d’uno stesso tema. Questa è la sua ricchezza e questa è la perennità della sua vena. Nulla v’è di ozioso. Qualche volta c’è compiacenza della bella forma, che dà a divedere un respiro più grande, che non c’è; ma un respiro suo c’è, e si caratterizza per una specie di continua aura di sogno. Pochi segni sulla terra, e la musica si sviluppa di lì.
Anche nell’Esame di coscienza il poetico si sviluppa di lì, da quell’accordo, da quell’avvicinamento tra la terra e gli uomini; sebbene prenda forza e slancio da più lontano, da quell’ansia dubitativa, da quell’analisi; come un arco teso più e più a determinare quell’ultima risoluzione che, anche questa, è una ricapitolazione, come nei saggi, come negli scritti letterari. Nascono dunque da lontano, e portano il senso di tutta una vita, quelle due ultime melodiose pagine, che furono il canto di Serra morto in battaglia. E bisognerà dire allora che quelle analisi, quelle dubitazioni, quell’ansia non avevano nulla di dispersivo se riuscivano poi ad armare il giudizio, a colorire d’ombre liete un paese, a dar forza alla volontà, a crescere autorità all’ultima parola della sua vita mortale.
Giuseppe De Robertis.
Tutta l’Opera di Renato Serra è adunata in questi due volumi. I quattro quaderni della «Voce» erano da tempo esauriti, e chi anche li possiede non potrà fare a meno di questa nuova edizione che s’accresce di ben quindici saggi e di 360 pagine. Oltre ai due scritti giovanili, che aiuteranno a conoscere la formazione dell’ingegno del Serra (Su la pena dei dissipatori e Dei «Trionfi» di F. Petrarca), il lettore troverà, per la prima volta raccolti, l’Esame di coscienza di un letterato, La «Fattura», Ringraziamento a una ballata di Paul Fort, Un nuovo vocabolario latino, Intorno al modo di leggere i Greci, La vita di Giovanna D’Arco, Grammatiche e vocabolari, Il Croce di Prezzolini, Romanzi di Oriani, Le «Storie Fiorentine» del Machiavelli, Francesco Acri, Fra’ Michelino, Partenza di un gruppo di soldati per la Libia.
La divisione e distribuzione nei due volumi risponde a un criterio di scelta. Nel primo sono gli scritti diremo così fondamentali e più finiti e più noti, che aprono e chiudono il ciclo vero della vita del Serra, dal saggio sul Pascoli all’Esame di coscienza. Nel secondo, tutti gli altri, a rinforzo di quei primi, e che aggiungono parecchi tratti alla sua figura, l’arricchiscono e meglio definiscono, e mostrano le forti possibilità del suo splendido ingegno. In ciascun volume gli scritti sono ordinati cronologicamente.
Note
- ↑ Appunti inediti del Saggio sul Pascoli. È un bel fascio di cartelle grandi e piccole, un centoventi in tutto, quasi tutte a penna, ma anche a matita, e qualcuna a matita colorata, di vario tempo e scrittura. Appunti inquieti, annotazioni, e anche pagine quasi finite. Nulla che non sia passato nel Saggio, ma che può servir tutto a illuminare il Saggio, e il minutissimo lavoro con cui Serra preparava quella sua prosa d’apparenza quieta, ma intimamente mossa e vibrante, e lentamente lavorava e approfondiva i suoi giudizi.