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xxii | coscienza letteraria di renato serra |
e valutare». Quelle «grazie», quelle «infinite grazie», e «gusto», e «impressione ingenua», il Serra n’ebbe a dovizia. Vuol dire che era nato critico, e quel dono nativo credette meglio rafforzarlo con le letture, con la serietà del lavoro, con la devozione al senso della tradizione, intesa come un freschissimo lavacro, e non con affermazioni superbe, con dottrinarismi e con imprestiti.
Oh vediamo dunque queste letture del Serra, come leggeva il Serra. In verità, scrivendo egli del Pascoli, del Beltramelli, e poi del Panzini e di Severino Ferrari e di D’Annunzio, sempre affrontò il problema critico alla radice, con quelle sue strenue analisi. E le divagazioni, come altri disse, le sottili descrizioni, le più vaste composizioni partono da quelle analisi, a quelle analisi fanno centro. Ma il suo analizzare, con quell’aria apparentemente svagata, e pur con quella sua lama infallibile, da che cosa prendeva certezza, da che forza si alimentava? È di quel tempo, anzi d’un poco lo precede, almeno nella prima parte, che è la parte sostanziale, una delle più fini, più nuove, più allettanti esplorazioni del Serra, in un campo apparentemente lontano, e toccante il tema che non parrebbe avere intimo rapporto con la sua professione di critico di lettere, e di lettere italiane. Sono le pagine Intorno al modo di leggere i Greci, dove è fissato, senza parere, un punto essenziale, da cui s’irradia la inquieta e pur potente forza analitica del Serra. Vi si parla dell’intraducibilità della poesia greca, e come la lingua greca non suoni più a noi come doveva suonare ai Greci di mille e mille anni fa, e nulla dia più a noi di quel segreto senso che ai Greci d’allora era sì aperto, e che parlava