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coscienza letteraria di renato serra xxxvii

la qualità del sapore delle sue parole; e la fatica seria e nobile di Francesco Chiesa, il «poeta ‘grande artiere’ del Carducci preso alla lettera»; e quel primo cenno e tintinnio di rime «come campanelli di Titania», ch’era nella Guglielminetti d’una volta, decaduta poi a povertà squallida, la «povertà di una brutta provinciale in tunica egizia»; e il clima in fine di tutta quella poesia di principio del secolo, fatta, di «Juvenilia a cui non segue mai il volume delle Rime nuove». Ed ecco la prosa e i prosatori, con un primo saluto al Verga:


Qualcuno è lontano, in luogo glorioso da cui non lo vorremmo disturbare. Verga: passano gli anni e la sua figura non diminuisce; il maestro del verismo si perde, ma lo scrittore grandeggia.


E un saluto anche a Fucini, sebben diverso, con quel lavorarci intorno a rifinire il ritratto, un poco, a dir vero, confidenzialmente. Ma sento che può farlo impunemente:


Una figura più mezzana, cara alla nostra fanciullezza, in cacciatora di fustagno, e colla pipa in bocca, un viso un po’ invecchiato, una brunitura di sole e di campagna, e un riflesso deliziosamente toscano, bonario e arguto nel riso e negli occhi sempre vivi; ha scritto delle cosette sentimentali e comuni con una vivacità di macchiaiolo e una limpidezza di artista.


Più tardi accennerà al Martini, tra gli scrittori di critica. Ma prima il riesame, affettuoso sempre, di Panzini, una smorfia sulla Serao, la decantazione di Soffici. D’ombre e di luci crude è traversato il capitolo sulla critica, con tagli in profondità. Lì è un procedere per ignes, lì il terreno brucia sotto, lì sono le reazioni più forti; i gusti di Serra, unitamente, in una sol volta, lì