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xx coscienza letteraria di renato serra

vità delle sue scoperte, la modernità dell’accento, la limpidità della sua lunga vista. Se mai, al Carducci fu vicino per una virtù creativa. E nell’attribuirla al Carducci ci fu forse, senza saperlo, una spinta a confessarsi. «Certo», egli dice, «con questo schema non si esaurisce la sua critica; e bisognerebbe guardare anche al bozzetto della persona, che ha quella felicità e quella vivezza che è solo sua — non aveva egli dalla natura tutti i doni per riuscire il più bello dei nostri novellatori? — e alle osservazioni che a tratti rivelano stupendamente l’uomo dell’arte e l’intendente squisito ecc.». Già, quella specie di idea fissa che il Carducci avesse tutti i doni per riuscire «il più bello dei nostri novellatori», che vide poi avverarsi, in parte almeno, in certe splendenti pagine del Panzini, non è, a parer nostro, che una stramberia, un trascorso della felice penna del Serra. Il Carducci novellatore non fu, neppure potenzialmente. La sua prosa, quella creativa e inventiva, è sempre troppo bella e uguale troppo di tono, pur nella sua ricchezza di linfa, troppo tesa e vibrata, perchè potesse variamente accompagnare una vicenda narrativa. Mutevole è tanto più la prosa del Serra, più flessuosa, più smorzata; e non so se neppur lui sarebbe riuscito un novellatore. Ma il tono del novellatore pur lo sento, tante volte, in quei vivi ritratti, in quelle indiscrezioni e insinuazioni, e nel modo, nel piglio, nella forza del raccontare (non dico già descrivere ma raccontare) le altrui novelle, gli altrui romanzi, nel suo moraleggiare e dar l’idea, con lentissimi indugi e freschezza e piacevolezza, di quel che si dice il mondo d’uno scrittore, dell’indole sua, riflessa, com’egli asseriva del Carducci, «nel mezzo storico». Per concludere, egli