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xxvi coscienza letteraria di renato serra

nella sua prosa. I suoi ritratti, sopra tutto, paiono trasfigurazioni di giudizi lungamente lavorati. Non conta che, talvolta, essi muovano e si determinino da ragioni personalissime. Di quelle ragioni anzi si scalderanno, senza nulla perdere di nettezza e di rigore. «Lasciate dunque che vi parli di me. Per studiare gli effetti di quella spirituale imitazione che occupa oggi la nostra criosità, non trovo nessun altro esemplare di umanità meglio alla mano. Con un poco di buon volere, anche la mia storia ordinaria può servire di specchio a molte altre». Così, a un certo punto, egli ama segnare il passaggio da un discorso apparentemente fortuito incominciato per un catalogo di scrittori italiani, al ritratto e alla esaltazione del Carducci e della sua perennis humanitas. E quel ritratto voi sapete quanto gli riuscisse vero. O se cercate qualcosa di men caldo, ma fermo lo stesso, anzi, vorrei dire, ruvidamente condotto, inesorabilmente circostanziato, aprite all'ultime pagine il saggio su Beltramelli. V’accorgerete come da quella fittissima analisi di stile è potuta nascere una conclusione sì esatta, una conclusione fulminea, dove solo un lettore avvertito saprà scoprire il riflesso d’una lettura e d'un'attenzione strenua. V'aveva sì suggerito innanzi, e lì era il punto di trapasso, che « dal modo com’è scritta sola una pagina si può comprendere quale sia in lui il novellatore; l’osservatore di uomini e il descrittore di paesi; il celebratore della Romagna». Pure quelle due pagine paiono nuove affatto, e la educazione letteraria dello scrittore, la nascita dell’uomo, i gusti, il destino ingrato («nulla dalla natura par che gli manchi; se non la felicità») paiono come tante prove, l’una all’altra strette, d’un giudizio