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coscienza letteraria di renato serra |
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resiste ad accostarglisi, e si turba con lui, e alla fine non c'è una sola poesia che finisca di piacergli. Che cosa dimostra tutto questo? Che bisogna, leggendo Serra, tener conto appunto di quel suo complesso di voci minori, o, vogliam dire, di reazioni infinitesime: di quella sua natura, insomma, sensitiva e ombrosa che, troppo spesso, più che determinare giudizi, scoppiava in aperte avversioni e simpatie. Ma il principio, lontano quanto volete, da cui quelle deviazioni nascevano, era ben saldo, era vero, come di nessuno. Egli aveva ascoltato l’ultima gran voce del secolo, la voce del Carducci; ma prima, nei giovanili anni, l'aveva ritrovata, riscoperta, dai venti volumi delle sue opere, dagli scritti di critica e di erudizione, e dalla poesia stessa. Aveva capito che senso ha la verginità delle parole sbocciata da tanta fatica di storia e di studi. Carducci era per lui disciplina di lavoro, devozione dei classici e, sopra tutto, conquista di bellezza a duro prezzo. Le influenze, diciamo così, pascoliane, ma, per dire più giusto, della sua natura più profonda, per avere, com’egli stesso riconosceva, la volontà debole in confronto dell’intelligenza grande e, nel sangue, avvisi di turbamenti e funeree scontentezze, assottigliarono sì quel gusto, non però lo guastarono. E ci fu, come s’è visto, subito, chi gl’insegnò a indirizzare nella stessa corrente le sue tante curiosità di riflessione, attenzione psicologica, studio d'ambiente, desiderio di raccontare, rifacendo in forma quasi fantastica il processo critico dell'arte d’uno scrittore, vi fu il Sainte-Beuve, caro al suo Carducci. Specie nell’accostarsi alle figure minori, che meno lo impegnavano nell’esame della poesia sola, e più gli davano il destro di oziare, girare direi intorno al-