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coscienza letteraria di renato serra | xxv |
bra e splendore, il Serra ritrova con la prosa e la poesia di tradizione. Non è un procedimento questo, come pur potrebbe sembrare, così scoperto e semplice da toccare l’ingenuità. Tanto è sottile, invece, che pochi l’avvertono; ed è continuamente rifranto in una inquieta analisi sinuosa che mantiene a tutto il lavoro l’impressione viva d’una cosa nel suo farsi, col gusto e la bellezza dell’improvviso. Poi s’aggiungono quelle intrusioni personali, quegli intercalari, a togliere ogni apparenza di rigore alla pagina e al capitolo, e a dare, nel tempo stesso, nelle mani dei lettori grossi un’infinità di prove che, sì, Serra non sa ragionare d’arte e di poesia senza quegli scadimenti, quelle inflessioni tenere, quelle svogliatezze crepuscolari. E non s’accorgono, quei tali lettori, che questi son vezzi, civetterie, d’uno che la sa lunga; che questi vezzi, queste civetterie per nulla rompono la linea del saggio, le comunicano se mai una vibrazione e un che d’incognito.
Ma non è qui tutto Serra. Qui è la fonte prima delle sue qualità di critico, e di qui nascono le sue descrizioni prospettiche, i suoi ritratti, le sue ricapitolazioni. È la virtù di quelle analisi condotte sino in fondo che dà a queste ultime espressioni un accento di novità e di verità singolarissimo, e allontana ogni sospetto di bravura o, quando mai, d’un pennelleggiare dovizioso soltanto. Dirò anzi che quelle descrizioni, quei ritratti, quelle ricapitolazioni sono altrettante risoluzioni felici di quelle analisi protratte, e che il loro piglio è tanto più rude quanto più la lettura era stata lenta. Sazio ormai di tante degustazioni, alla fine egli affretta i tempi, e un che di caldo e inaspettato, un che di vittorioso, passa