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xxxvi Coscienza letteraria di Renato Serra


volume dei suoi versi più belli, o la storia della sua vita più vera?

O nulla forse. L’unica cosa certa, che ci rimane di lui in tanto che lo fissiamo prima di allontanarci, è questo freddo viso alcibiadeo.

Non si pensa all’adolescente, che appare sulla soglia del convito, incoronato di violette e brillante di ebbrezza, agli occhi che lo guardano stanchi nel rossore crudo dell’alba; si pensa all’altro che parla in Tucidide, con una voce chiara, indurita dall’esperienza e dall’intelligenza; dice che è giusto che la sua felicità pesi a quelli che vivono con lui.

Mi diceva Serra d’avere un giorno sorpreso Panzini, e n’era sorpreso, a leggere commentando a un suo figlio questo libretto delle Lettere, e che vi faceva sopra analisi di stile. Penso, e a me non sorprende, che su queste quindici righe si sarà fermato più lungamente; e mi parrebbe questa la testimonianza più valida della eccellenza di esse. È il punto stilisticamente più alto di tutto il libro, il segno di ciò che più poterono la penna e l’ingegno del Serra.

Tra quel minimo d’impegno, pur con tanto peso d’autorità, a proposito di Gnoli, e questo massimo di potenza e decisione e classica bellezza, parlando di D’Annunzio, che qualcosa ha rapito all’aura del periodo carducciano, con un ripensamento più fino, il lettore può cercare quanto ha voglia tutte le possibili gradazioni e sfumature, gradazioni e sfumature di giudizio per segni e immagini, quando non sono dispettosi stridori di penna. Ecco la poesia di Di Giacomo, l’aria di quella poesia, e la povertà e la ricchezza intensa dei suoi versi e delle sue brevi strofette, da ricordare a confronto i frammenti della melica greca, i frammenti di Salici; ecco l’arte di virtuoso del Gozzano, il suo gusto per la parola e il sapore e