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coscienza letteraria di renato serra xliii

sorride la mente. Qui c’è un altro Serra, un Serra abbandonato, un Serra che scrive e canta, e rompe il confine del periodo prosastico, per uscire in musicalissime cadenze. Riconosceva egli stesso questo bisogno d’abbandonarsi, di espandersi. «Io non so staccarmi dal tavolino, massime quando scrivo lettere, senza dare un’occhiata, e notare qualche segno dell’ora, del tempo, la luce, le cose che sono la mia vita. Se non lego le mie chiacchiere a qualche cosa nel cielo o nella terra vera, mi par che mi sfuggano nel vuoto». E con una punta d’orgoglio: «Bisognerebbe leggere qualcuna delle lettere che ho scritto alle mie amorose: una storia sera per sera e mattina per mattina, delle mie primavere e delle mie estati. Ne ho qualche fascio che mi hanno restituito; e mi capita di rileggerle ancora: c’è proprio qualche pagina di poesia, che mi consola come se non l’avessi scritta io». Si pensa a Panzini, a Soffici. E trattasi di Panzini, certo; e si sente anche Soffici. Ma c’è, in più, come un’aria virgiliana, per un certo incantamento appena smorzato nelle parole. Chè qualcosa resta al di fuori delle parole, e crea un’aria intorno a quelle, un suono, un’armonia. Splendide zone, lucenti bellezze, ben nette immagini, finissimi intarsii, in un’atmosfera inquieta, in una tessitura sintattica fluttuante. E poi, sempre un tono suo, quell’incrinatura di malinconia, quella smarrita dolcezza, quella pena di sentirsi debole e solo nel flusso del tempo, nell’indifferente attrito del tempo. Lontano è Panzini ormai, e il suo gioco stilistico, e non soltanto stilistico, tra antico e moderno. E lontano è Soffici, con la sua povertà e felicità, e non soltanto povertà e felicità di parole. Serra ha come un respiro che sa di aria, aria ventilata, e ogni sillaba n’è in-