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coscienza letteraria di renato serra | xxiii |
in loro e respirava come una cosa viva, una cosa del sangue. «Mi si presenta l’antica pagina, così chiara e svelta nei suoi caratteri un poco inclinati correnti; e i miei occhi si fissano in quella, ma non vedono nulla. Nulla di ciò che importa. Poichè se anche m’accorgo che il verso precedente ha un piede men regolare, questo accorgere mio si confonde con un tritume di lineette e di mezze lune sopra le sillabe, con una trama sottile quasi di segni algebrici che mi dà più noia che aiuto. Essa trema sopra le belle sillabe come tela operosa di ragno e a me affatica la vista: tutto quello che scorgo attraverso i fili minuti non è più puro, ha un’ombra addosso di polvere e di stento». E già in certi suoi appunti inediti per il saggio pascoliano, da dove si vede che l’un argomento gli richiamava l’altro, l’un problema, per lui, risaliva all’altro, con un sottil legame, in quegli appunti aveva detto: «la poesia greca nessuno la recupera; perchè chi mi rende il suono e gli accenti che un verso di Saffo o di Alcmano prendevano sulle labbra di un coro di vergini, e il senso che essi prendevano della loro voce quando li modulava».
Preso ha le mosse da tanto lontano per affermare una verità più vasta, di portata generale, da cui poi nascerà la forza e il limite del suo analizzare. (Ed è dei forti accettare il limite; degli sciocchi neppure proporselo). Quale verità dunque? Che nel fare opera di critica è necessario guardare all’imponderabile, acquistare il senso dell’imponderabile; e nel leggere, rapire quanto si può più di segreto alla pagina, in quei primi sondaggi che precedono il giudizio. Vero è che i nove decimi dei critici d’oggi leggono con tutt’altro animo, e come si farebbe leggendo non opere