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xxxviii coscienza letteraria di renato serra

s’impegnano a una sorta di battaglia. Per capire anche le ingiustizie, bisognerà rifarsi da capo, guardare Serra tutt’insieme, più da vicino, ascoltarlo, come farebbe un medico. E vediamo se le osservazioni fatte sparsamente sino ad ora aiuteranno la conclusione o la contraddiranno.

Di Serra fu detto che era un pigro, e la qualità del suo ingegno, di dilettante, sottile ma un poco ozioso. Egli stesso si compiacque di questo ritratto immaginario, e lo accreditò con parole sue. Si aggiunga una vita che molte volte potè parere sperperata, tra gioco e malinconie e amori. La sua fortissima esperienza di lettore di classici si colorò d’un color romantico; quella serenità sua di giudizio acquistò un più d’attrattiva da certi modi umbratili a traverso i quali formandosi mandava luce e ombra; l’intelligenza tuttavia, ch’egli stesso sapeva essere grandissima, mancò allo scopo, per difetto d’ingegno, come diceva, e voleva dire difetto d’ingegno pratico, o era piuttosto una virgiliana titubanza, che lo tratteneva sempre dall’osare più, e perfino comparire tra la gente.

Giovanissimo, in una lettera ad Ambrosini, confessava tristamente di sapersi brutto e spiacente; e se più tardi, di quella sua creduta inferiorità, rideva, senza che però questo riderne gli rendesse men difficile vincere certa sua ripugnanza a aprirsi, a darsi, sul punto però di partire per il fronte, mandando ad amici e lontani una sua fotografia, non potè a meno di notare, di sfuggita, quello che pareva il segno più suo, la bocca sigillata. E diremo allora che questa, forse, fu la ragione che impedendogli di conversare con i molti, lo spinse invece a scrivere lungamente a