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xxiv coscienza letteraria di renato serra

originali ma traduzioni. Cattive letture, Serra sentenziava. Lui che si crucciava con queste parole: «Io non ho il senso schietto, immediato, diretto del greco: quello che possedeva il più umile artigiano, spettatore del teatro di Dioniso, sì che quando si sentiva ripetere il verso stiracchiato di Euripide, alla comica interrogazione dell’attore che col dito gli segnava nello spazio la stonatura quasi fatta visibile, gli poteva ridendo consentire ὁρῶ». «Senso schietto, immediato, diretto» della propria lingua, e sapersene valere, vorrei dire saperci credere come alla fonte prima del leggere e giudicare. Serra così lesse i poeti. E rafforzò il suo infallibile senso con l’altro più vasto senso della tradizione, con la presenza viva in lui di tutto il nostro linguaggio poetico. Soltanto così egli potè avvertire e la novità d’un Pascoli, e la frattura da lui operata. Quelle sue acute analisi, che più acute non potrebbero essere, quelle penetrazioni in profondità sul classicismo pascoliano, sulla tecnica del verso pascoliano, sull’antistoricità pascoliana, pigliano rilievo da quel senso della tradizione, vorrei dire, da quell’immanente senso (e piglia di lì, anche, forza e unità il discorso critico). La immaturità stilistica d’un Beltramelli è giudicata da quello sguardo, si decompone e sfascia sotto il peso di quello sguardo. E perfino l’esilità costruttiva, il lusso ornamentale d’una novella di D’Annunzio son denunciati alla stessa luce, acquistando al giudizio critico il valore pacifico d’una dimostrazione in quel vivente contrasto con una classica novella del Boccaccio. Per converso, la prosa panziniana, il sentore di poesia che è nei versi di Severino, risaltano, e se ne giovano, per quella concordanza, per quella vicinanza, che più e meno, con più e meno d’om-