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xxviii coscienza letteraria di renato serra

di D’Annunzio, di quella ode «curvata in ghirlanda con l’arte sua più leggera»:

....l’ultimo figlio di Virgilio
prole divina,

quei che intende i linguaggi degli alati,
strida di falchi, pianti di colombe,
ch’eguale offre il cor candido ai rinati
fiori e alle tombe.

E vi sono aggiunte queste due righe sole di commento: «Credo che sia qualche vero in queste parole di un altro poeta; o almeno a me piace che sia». «Qualche vero», dice. E quell’immagine dannunziana, «l’ultimo figlio di Virgilio», nella quale il Serra in certo modo mostra d’acquetarsi, per quante altre vie la verrà rinforzando! «Il figlio di Virgilio», dice prima annotando, e nella stessa pagina: «facies rustica, lingua tarda, timidus poёsis», in fretta scrivendo a matita. Poi, più tardi: «il romagnolo: facies, sermo, forma: oculorum acies vaga», più per lasciare un ricordo sulla carta che per il gusto di scriver nulla di netto. Assai meglio dopo, con qua e là qualche vibrazione: «Pascoli facies. uomini di cui l’aspetto è ingenuo: non una maschera, ma un viso; limpido viso. tutto quello che la vita vi ha scritto, caratteri di dolore e di tempo sulla pagina che ingiallisce non cambiano la linea e la specie — l’uomo rustico. il fattore di Romagna. il pianto. i moti del bimbo. del poeta — e mi veniva a mente Virgilio. facies rustica. timidus. vox tarda». Ma non è ancora contento o, per dir meglio, sente che, sì, ha allargato il campo, ma non è andato oltre l’apparenza di quell’ingannevole immagine. E scava dentro. Un Virgilio sì, ma «un Virgilio smarrito fra noi; un Virgilio rimasto, fuor che nell’arte