Storia della rivoluzione di Roma (vol. III)/Capitolo XVI
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[Anno 1849]
La missione ineomprensibile del Lesseps, quantunque abortita, occupò 17 giorni, dal 15 al 31 di maggio nei quali le armi cessero alla diplomazia. La inutilità dei negoziati ricondusse pertanto le cose al punto in cui erano prima del suo approdare a Civitavecchia e del conseguente suo arrivo in Roma. A quel punto quindi dovrem noi risalire per compiere il racconto di tutto ciò che accadde durante la sua presenza nella capitale del mondo cattolico divenuta malaugurato ritrovo di genti calpestatrici di libertà, e restauratrici della barbarie.
La narrazione pertanto di tutto quello che di notevole occorse nella seconda quindicina di maggio formerà il soggetto del presente capitolo. Ed allorquando per ordine delle date rispettive ne avverrà di accennare ciò che al Lesseps si riferisce, lo faremo con la semplice indicazione del fatto, rinviando i nostri lettori al capitolo antecedente ove ne abbiam parlato ragguagliatamente.
Egli è a sapersi inoltre che quantunque il 16 maggio l’armistizio fra Roma e Francia non fosse pubblicato, era però convenuto; e quindi nella certezza in cui era il governo romano di non venir molestato dai Francesi, divisò di effettuare una quanto celere, altrettanto segreta spedizione contro i Napolitani.
A tal effetto si vide nella sera partire la più gran parte dell’armata romana per la porta san Giovanni.
Questa spedizione non potè non effettuarsi se non col consenso del Lesseps, e questo consentimento ci sembra che possa qualificarsi come una specie di tradimento, o per lo meno come un tratto di non giustificabile indelicatezza, in quanto che Francia non solo non era in guerra col regno di Napoli, ma l’una e l’altro facevan parte della lega cattolica, la quale aveva assunto di ricondurre il papa a Roma colle forze unite delle quattro potenze segnatane della lega stessa.
Intendimento dei Romani era quello di cogliere all’improvviso e sbaragliare l’armata napolitana ch’era in quel momento nelle vicinanze di Albano, e portandosi di slancio sopra Velletri, toglierle o attraversarle la ritirata.
L’armata romana componevasi come appresso:
Avanguardia comandata dal colonnello Marocchetti
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uomini | 2310 | |||
Grosso dell’armata comandato dal generale di divisione Garibaldi
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» | 6652 | |||
Cioè: | |||||
Seconda brigata comandata dal colonnello Masi
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uomini | 3510 | |||
Terza brigata comandata dal colonnello Bartolommeo Galletti
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» | 3142 | |||
uomini | 6652 | ||||
Retroguardia comandata dal generale di brigata Giuseppe Galletti
|
» | 1912 | |||
In tutto uomini | 10874 | 1 |
Ciò che narreremo sul movimento delle truppe romane e sullo scontro ch’ebbero coi Napolitani lo abbiamo attinto da tre opere che forman testo per l’autorità da cui emanano, e sono:
1.ª L’opera del generale Roselli, Memorie relative alla spedizione e combattimento di Velletri avvenuto il 19 maggio 1849, pubblicata in Torino nel 1853;
2.ª Quella di Gaetano d'Ambrosio, Relazione della campagna militare fatta dal Corpo napolitano negli Stati della Chiesa l’anno 1849, pubblicata in Napoli nel 1852;
3.ª L’altra del maresciallo Vaillant, Siege de Rome en 1849, par l’armee française ec. Paris, 1851.
Uscita, come dicemmo, l’armata romana per la porta Lateranense la sera del 16, la mattina del giorno seguente alle dieci circa giungeva a Zagarolo, terra dei Rospigliosi, ventidue miglia circa distante da Roma. Si levò colà qualche rumore fra le truppe irregolari le quali schiamazzavano per la mancanza del pane. Giunto però il convoglio che recavalo, si calmarono.2
I Napolitani intanto erano in piena ritirata; ed ecco il motivo e la narrazione particolareggiata delle circostanze che l’accompagnarono.
Fin dal giorno 17 il re di Napoli stando in Albano aveva ordinato la ritirata delle truppe, e questa incominciò subito. L’esercito moveva da Albano e giungeva all’Ariccia. Porzione della truppa con il parco di artiglieria, gli equipaggi, e le ambulanze, occupò Velletri il giorno 18.3 Il quartier generale dell’armata napolitana ch’era all’Ariccia, passò dunque a Velletri il detto giorno.
Vorrassi ora conoscere perchè quest’ordine di partenza subitaneo per indietreggiare, mentre secondo le precorse intelligenze anche i Napolitani avrebbero dovuto far parte dell’armata occupatrice di Roma e degli stati romani.
Un colloquio fra il generale Oudinot ed il colonnello napolitano d’Agostino, inviato dal re di Napoli a conferire col general francese, spiegherà tutto.
Stabilivasi dall’Oudinot, che in seguito del fatto del 30 di aprile, e della discussione e susseguente risoluzione della francese assemblea ch’ebbe luogo a Parigi, l’esercito di Francia non poteva più agire congiuntamente a quello di Napoli per la presa di Roma. L’onor militare francese trovandosi compromesso, i Francesi dovevano esser soli a conquistarla. Il colonnello d’Agostino rientrava in Albano la mattina del 17 e riferiva il tutto al re.
Il re di Napoli allora, informato di questa determinazione importante del general francese, e fatto certo, per una lettera intercettata, che i Romani meditavano una spedizione contro la sua armata, credette prudente di ritirarsi, e dette gli ordini a tal effetto.4
La condotta del governo francese sembrava equivoca, la missione del Lesseps misteriosa, e le apparenze rivestivano un tal carattere di ambiguità, che fino a che non si vedesse più chiaro, parve savio partito il ritirarsi.
I Napolitani avevano pure sgomberato Valmontone e Monte Fortino, e questi due paesi furono occupati dai Romani. Era l’armata romana vettovagliata con previdenza fino al giorno 20. La mancanza di disciplina per altro, di cui querelossi altamente il Roselli che capitanava la spedizione, mise non solo nelle più serie difficoltà gli amministratori delle forniture, ma pose nel rischio di mandar fallita un’impresa con fino accorgimento meditata e condotta.5
Il Garibaldi intanto, in ispreto degli ordini ricevuti dal generale in capo Roselli, erasi spinto imprudentemente più avanti di quel che doveva.6
La mattina del 19 tutto l’esercito napolitano era nel suo movimento di ritirata, e trovavasi riunito presso Velletri, per porsi quindi in cammino per Torre tre ponti e Terracina. Era intendimento del Roselli d’impegnare i Napolitani tutti in Velletri, sia per trattenerli, come per premerli. In questi frangenti giunge un aiutante di campo del general Garibaldi coll’avviso del medesimo di aver posta in cammino l’avanguardia alla volta di Velletri. Fu immensa la meraviglia del Roselli per cosiffatta trasgressione de’ suoi ordini, ai quali, essendo lui il capo della spedizione, era in dovere lo stesso general Garibaldi di uniformarsi. 7 Diede ordine al Garibaldi di arrestare la truppa quattro o cinque miglia distante da Velletri. Avvisavalo poi che ove diversamente avesse agito, non avrebbe potuto aiutarlo e soccorrerlo.8
Mentre tutto disponevasi negli accampamenti per la partenza dei Romani, giunsero ufficiali di stato maggiore chiedenti aiuto, perchè il Garibaldi era stato attaccato sotto Velletri ed il combattimento presentavasi con dubbio successo non solo, ma volgentesi piuttosto al peggio pei Romani. Fu indescrivibile lo sdegno del Roselli pel procedere irriflessivo ed imprudente del Garibaldi, e per la disobbedienza agli ordini del suo capo.9 Fu quindi forza, cambiato il piano delle operazioni, di volare in soccorso del Garibaldi.
Non eran più i Romani che fattisi trovare schierati in ordine di battaglia, avevano obbligato i Napolitani ad accettarla in campo e risponder loro combattendo, imperocchè l’inizio essendoselo preso i Napolitani, erano essi invece che costringevano i Romani a regolarsi secondo i loro movimenti.
Nè eran conseguentemente i Romani che potevano profittare degli errori che avesser commesso i Napolitani, ma questi invece avevano profittato di un errore commesso dai Romani.
Furon dirette dunque tutte le forze verso Velletri in aiuto del Garibaldi che si era avvicinato sino ad un miglio circa da quella città e che era stato attaccato, come si è detto, da’ Napolitani.
Opposero i Romani all’attacco
La legione italiana,
Varie compagnie del 3° di linea in fronte, il resto in riserva,
I lancieri irregolari a cavallo,
Due pezzi di artiglieria carichi a mitraglia.
Ecco come racconta l’attacco il Roselli:
«In questa disposizione incominciò il fatto d’armi col fuoco dei bersaglieri da ambe le parti, e avanzando i nostri animosamente, i nemici, dopo aver resistito qualche tempo, andavano a poco a poco cedendo. Ma, fatta entrare in linea nuova gente, ben presto riguadagnarono il terreno perduto, e la loro cavalleria intanto a tutta corsa si spinse bravamente ad urtare i lancieri, i quali a quella vista si volsero in fuga. Il general Garibaldi, osservato ciò, si fece loro incontro ed ordinò che rivoltassero la faccia al nemico; ma eglino invece fuggendo, lo fecero cader da cavallo, e peggio forse gli avveniva se il valore di alcuni e la robustezza specialmente di un moro suo domestico, sottratto non lo avessero dal pericolo. I cavalieri napolitani che continuavano a venire innanzi colla più gran velocità, l’avrebbero probabilmente raggiunto, se i fanti romani ch’erano fra i vigneti e dietro le siepi, a destra e a sinistra della strada, non li avessero fucilati proprio a cima di canna, dimodochè quasi non falli palla. E molto contribuì pure ad arrestarli una scarica, che fece sopra di loro con molta opportunità la prima compagnia dei picconieri, diretta dal capitano Ricciardelli, la quale era stata situata indietro su quel punto prossimo alla strada stessa. Cosi la testa di quello squadrone di cavalleria nemica, essendo stata tutta consumata, e il resto che la seguiva, vedendo che si andava a perdere inutilmente nel folto delle nostre schiere e contro le artiglierie, voltò briglia. Sgombra che fu la strada dalla cavalleria nemica, e comunicatane a’ combattitori la notizia, piucchè mai le fanterie romane pigliarono animo, e si fecero innanzi allora con una intrepidezza ed una determinazione ammirabili; dimodoché i nemici stessi dovettero in fine cedere e ritirarsi nuovamente dentro Velletri.»
Fecero i Romani una trentina di prigionieri oltre sette feriti.
«La fazione fortunatamente non ci recò, prosegue il Roselli, quel danno che se ne potea temere; perchè, a cagione della scarsezza delle forze che ivi avevamo, s’eglino (i Napolitani) avessero rinforzata a sufficienza la loro linea di fuoco, indubitatamente sarebbero restati vincitori.» 10
Quindi soggiunge:
«Pel modo che avvenne questo combattimento non ci fece alcun vantaggio, e fu perciò una carneficina inutile; e d’altronde una fazione nella quale mancò accordo, cautela ed opportunità, non poteva dare un risultato migliore.»
Le schiere di Garibaldi proruppero perfino in lamenti e rampogne contro il Roselli, che accusavano come se fosse un traditore e non fosse venuto in loro soccorso, per farli battere dai Napolitani. 11
Si abboccarono insieme il Garibaldi e il Roselli. Non dissimulò il Roselli il proprio malcontento al Garibaldi per il suo operato arbitrario e imprudente. Alle ragioni che il Garibaldi addusse tagliò corto, e per non dar luogo ad altri disordini, finse di esserne soddisfatto. 12
Aggiunge il Roselli che «durante tutta la notte pattuglie e scorritori audacissimi furono spediti a tentare ed esplorar la linea dei nostri nemici, ma niuno potè penetrare o scorger segno o udir romore che desse indizio di partenza; finalmente alcune pattuglie fatte andar fuori del nostro accampamento circa le ore due dopo mezza notte si accorsero della ritirata, entrarono in città, esplorarono, presero notizie dagli abitanti, e quindi ci recarono l’avviso avere l’esercito di Napoli abbandonata Velletri.»
Dopo di ciò il Roselli fece occupare Velletri dalle sue truppe. Confessa il medesimo che non inseguì farinata napolitana, perchè le son cose che si fanno quando una truppa è stata sbaragliata e si trova in disordine e confusa in conseguenza di una battaglia perduta; ma l’armata napolitana si ritirò intatta, con ordine ed in pianura, nè il fatto del 19 aveva suscitato nei Napolitani il minimo disordine.13
Si scusa inoltre il Roselli alla pag. 94 e dice il perchè non assoggettò Garibaldi al rigore della militare giustizia.
Sottoponiamo ora il racconto che ne fa lo storico Farini:
«Il Roselli che giunto a Roma in quei giorni, era stato costituito in grado di generale supremo, stimò doversi profittare della tregua coi Francesi per uscir incontro a’ Napolitani e costringere il re ad una battaglia. Il governo gliene diede l’ordine di buon animo, e la sera de’16 al 17 maggio, l’esercito romano, forte di dieci in dodici mila uomini, escì di porta San Giovanni in Laterano, festante il popolo. Il giorno stesso era giunta ad Albano la notizia delle pratiche del Lesseps, della tregua, e dei nuovi intendimenti del governo francese, onde fu grande inquietudine nel campo regio, dove i prelati presero a gridare contro i tradimenti della Francia, ed a consigliare il re a porsi in salvo, dandone essi il frettoloso esempio. Anche il Papa gli scriveva da Gaeta, esortandolo a ritornare nel regno; per la qual cosa, abbandonata Albano, condusse l’esercito ad Ariccia la sera dei 17 ed il giorno appresso a Velletri. In quel giorno stesso i Romani furono a Valmontone col grosso delle truppe, e coll’avanguardo sette miglia più innanzi a Monte Fortino, lungi da Velletri nove miglia. Divisava Roselli i modi della battaglia, quando Garibaldi, il quale aveva il comando del centro dell’esercito, lasciò il suo posto, e recatosi in mano il governo dell’avanguardo, lo mosse contro Velletri procedendo con soli due mila uomini sino ad un miglio dalla città, quantunque Roselli gli avesse ordinato di sostare. I Napolitani lo assalirono con forze tanto superiori, che Garibaldi della vita, le sue genti corsero pericolo di estrema rovina; ma l’audacia ed il valore supplirono al numero, ed i Romani, spuntata la cavalleria nemica, ricacciarono la fanteria in città. Roselli accorso col nerbo delle truppe, ne ordinò l’assalto pel mattino seguente, ma il re nella notte l’ebbe abbandonata, ritirando le sue milizie con tanta fretta, che nacque grande confusione negli ordini ed alterazione nelle menti. La scaramuccia era costata cento uomini appena alle due parti, ma perchè Velletri restò ai Romani, e perchè il re, prendendo consiglio più dai chierici e dal sospetto che dall’onor militare, se ne tornò indietro con vergogna, i repubblicani diedero voce di segnalata vittoria, e levarono alle stelle il nome di Garibaldi, sebbene ei fosse degno di riprensione per l’arbitrio che s’era tolto, e perchè del pericolo corso e dell’incolume ritirata dei nemici rendeva in colpa il generale supremo, turbando la disciplina già fiacca dell’esercito.»14
Sentiamo adesso la narrazione dei capo dello stato maggiore del Corpo napolitano, capitano d’Ambrosio.
«Il mattino del 19 tutto era tranquillo in Velletri, ed il Re che da Albano aveva disposto eseguirsi la ritirata con calma ed attitudine imponente, si occupava a dare gli ordini per continuare durante il giorno il movimento sopra Torre tre ponti.
» A circa le 8 si vide dal palazzo del Legato, ove il Re dimorava, un picciol drappello di cavalieri nemici, che per la strada di Valmontone si dirigeva a Velletri. Era questo l’avanguardo del corpo repubblicano, forte di circa due mila uomini, comandato dal colonnello Marocchetti: in fatti poco dopo si vedevano attraverso gli alberi di quelle fertili campagne delle truppe in posizione.
» Il Re osservò attentamente l’approssimarsi del nemico, e con la stessa calma, che ha dimostrato sempre nelle gravi circostanze in cui si è trovato durante gli ultimi avvenimenti, diede al maresciallo Casella tutte le disposizioni per arrestarne la marcia.
» Il maresciallo Casella sollecito si portò agli avamposti fuori Porta Romana, e dispose che lo squadrone del reggimento dragoni, colà di servizio, avesse marciato in avanti per riconoscerlo; e poco appresso v’inviò il secondo battaglione cacciatori ed un plotone di cacciatori a cavallo comandato dal tenente Oscar Mazzitelli. I cacciatori del secondo battaglione si disposero in ordine aperto sul terreno adiacente alla strada che mena a Valmontone, ed in mezzo a numerose vigne impegnarono il combattimento con le truppe appostate quivi da Garibaldi, che tiravano al sicuro sui Napolitani. S’inviò quindi in rinforzo il rimanente dello squadrone de’ cacciatori a cavallo guidato dal proprio comandante maggiore Colonna, il quale spintosi alla carica con impetuoso coraggio, in breve d’ora pose in fuga la poca cavalleria comandata dallo stesso Garibaldi, che si avanzava lungo la consolare che da Velletri mena a Valmontone e Palestrina. In questo scontro i due condottieri si trovarono per qualche istante l’uno a fronte dell’altro, ed il bravo maggiore Colonna era già sul punto di far prigione il suo avversario, quando un colpo di lancia gli feri mortalmente il cavallo, e diede tempo all’altro di proseguire la sua fuga. Rimase poi sul campo per ferite gravissime il seguace del Garibaldi, cui egli doveva la propria salvezza.
» Nel tempo stesso giungeva un obice di montagna appar tenente alla batteria de Cornò, che il capitano Ambrosio seco traeva in avanti, e che sotto il comando del bravo tenente de Nora con la giustezza de’ suoi tiri arrestò il movimento delle bande romane, talché il battaglione cacciatori già rinforzato dalla metà del battaglione cacciatori della guardia, ebbe l’agio di prender posizione indietro su di un terreno più acconcio a sviluppar le sue forze.
» Giungeva altresì il tenente Gorgoni per accelerare il movimento di quell’obice, e nell’attacco tanto esso quanto il tenente Mazzitelli caddero estinti.
» Il Re dal palazzo del Legato osservava i movimenti del nemico: e dalla marcia lenta dell’antiguardo, dall’ingrossarsi delle sue colonne, non che dalla topografia del terreno, vide che l’idea del nemico era di sprolungare la sua sinistra per guadagnare la strada di Cisterna, e tagliar così la linea di ritirata del corpo napolitano.
» Disceso immantinenti con tutto il suo Stato maggiore, tra’ quali si trovavano i principi conte di Aquila e conte di Trapani, e l’Infante di Spagna Don Sebastiano, si portò al luogo dell’attacco verso Porta Romana.
» Intanto la grossa artiglieria, i bagagli e la cavalleria seguitavano a sfilare lungo la strada di Cisterna, per sostare in un campo a circa due miglia da Velletri insieme al battaglione svizzero: così facendo riusciva impossibile ogni movimento del nemico sulla linea di ritirata de’ Napolitani.
» Il Re dispose sulla dritta di Porta Romana due obici di montagna, tre cannoni da sei, ed un obice da campo sullo spianato della stessa Porta, affin di scacciare il nemico dalle vigne e dalle casine circostanti gremite di militi romani: due altri obici erano diretti sulla strada di Valmontone, e due su quella di Genzano, affin di osservare i movimenti del nemico; due altri eran situati sulla rampa che mena ai Cappuccini, e finalmente due altri con due pezzi di montagna eran situati sullo spianato della collina medesima de’ Cappuccini.
» Le artiglierie eran sostenute sulla piazza innanzi Porta Romana da un battaglione del 3° reggimento cacciatori della guardia, uno squadrone di cacciatori a cavallo, ed un drappello di ussari: nella rampa e sulla spianata de’ Cappuccini vi era un battaglione del 3° di linea, due compagnie di granatieri della guardia, ed una compagnia de’ pionieri. La difesa di quella forte posizione restò affidata al brigadiere Lanza.
» Al palazzo Lancellotti furon situate due compagnie di cacciatori della guardia, e due obici di montagna.
» Il 1° reggimento granatieri della guardia, il battaglione di marina, quello de’ carabinieri a piedi, e l’8° battaglione cacciatori furon situati sulla spianata tra Porta di Napoli e la casa Lancellotti, sotto il comando del brigadiere Winspeare. S’ingiungeva al medesimo di spingersi all’ attacco, quando le colonne nemiche si vedessero in movimento, senza dare ad esse il tempo di stabilirsi in linea di battaglia.
» Il principe d’Ischitella aveva il comando in papo della porzione delle truppe impegnate nel combattimento, e sotto i suoi ordini erano il maresciallo Casella ed il brigadiere Lanza.
» Il Re si portò a disporre in ordine di battaglia la cavalleria, la grossa artiglieria e quel tanto di fanteria, che già si trovava come scorta di quest’arma, sui piani verso la strada consolare che mena a Cisterna; ed appena giuntovi, inviò al ministro della guerra i due principi di lui fratelli, ritenendo presso di sè l’Infante di Spagna Don Sebastiano.
» All’una pomeridiana era questa la posizione del Corpo napolitano.
» La forte posizione de’ Cappuccini considerata come la chiave di tutte le operazioni della difesa era occupata dalla brigata Lanza con quattro pezzi di artiglieria, tenendo distaccamenti sul lato che guarda la strada di Genzano al nord di Velletri, ove erano altri obici di montagna.
» Gli angoli della cinta della città eran guarniti di artiglierie di vario calibro.
» Sulla dritta innanzi la Porta di Napoli era in posizione la brigata Winspeare.
» Finalmente presso la strada che conduce a Cisterna a due miglia da Velletri, erano la riserva di cavalleria, la grossa artiglieria, ed il battaglione svizzero.
» Era così stabilito il Corpo napolitano e durava da alcune ore il combattimento vicino a Porta Romana e di contro alla collina dei Cappuccini, quando l’attitudine del Corpo del generale Roselli cangiava affatto.
» L’antiguardo comandato dal colonnello Marocchetti, col quale marciava lo stesso Garibaldi, aveva nel mattino preso posizione a circa un miglio da Velletri allontanandosi dal corpo di battaglia, il quale eseguiva il suo movimento senza piano e senza la guida del proprio generale. La piccola colonna napolitana che si spinse per riconoscerlo militarmente, avea rovesciata la cavalleria sulla strada consolare, obbligandola a voltar briglia rapidamente e mettersi in fuga, trascinando lo stesso Garibaldi, locchè gli produsse allarme e scoramento.
» L’ingrossarsi delle colonne repubblicane che si osservavano marciare avanti ed attaccare con vigore, ad un tratto si arrestò, ed invece si vedevano irresolute ed ondeggianti lungo lo stradale al di là della casina Inviolata verso Valmontone; ed anziché avvicinarsi per combattere i Napolitani, e mozzare loro la linea di ritirata, si allontanavano dalla sfera di azione, mantenendosi in una direzione opposta alla strada di Cisterna, ove il grosso del Corpo napolitano aveva preso posizione.
» La resistenza incontrata nella posizione de’ Cappuccini ed innanzi Porta Romana, il campo del Re e le truppe del generale Winspeare già riconosciute da un drappello di cavalieri repubblicani rallentarono l’ardore di quelle masse, le quali scorate e stanche e prive oramai della speranza di vedersi soccorrere dalla brigata Galletti tuttora in movimento da Zagarolo, si disponevano da loro stesse alla ritirata.
» Il male inteso negli ordini, il ritardo nelle marcie, la mancanza de’ viveri e delle tattiche disposizioni per raccordo de’ movimenti delle varie colonne, facevano a quelle masse raccogliticcie, per quanto più numerose, risentire tutti gli effetti dell’imperizia del comando. Ed infatti durava ancor l’attacco quando al declinar del giorno giungeva per la via di Genzano la brigata del generale Galletti; ma l’artiglieria già messa in quella posizione, e le truppe del general Lanza l’obbligarono a divergere il cammino abbandonando la direzione di Velletri. Questa brigata non prese parte all’azione combattuta in quella giornata, nonostante che il fuoco durato avesse tutto il giorno!
» Al contrario il Corpo napolitano dopo di aver riconosciuto l’approssimarsi e la forza del nemico, si compose nell’attitudine difensiva offendente, che gli conveniva dopo la presa risoluzione di ritirarsi sulla sua base di operazione, e che conservò fino a che il nemico, abbandonato il campo, si ritrasse. La cavalleria, la grossa artiglieria, e le bagaglie uscivano da Velletri per la strada di Cisterna con ordine e lentezza, non ostante che dal lato opposto le regie truppe fossero alle prese col nemico. Infine tutto il Corpo napolitano mentre all’una pomeridiana era pronto a marciare per Torre tre ponti, ed avea sostenuto un parziale attacco che durava da quattro ore, si teneva nel tempo stesso pronto a battere tutte le forze di Roselli, se mai si fosse presentato a dargli battaglia.
» L’attacco durò quasi otto ore. Il fuoco cessava a sera inoltrata, perchè le masse romane ritiravansi dalla parte di Mezza-Selva, Lugnano, e Valmontone, non con ordine tattico, o per occupare posizioni militari, conseguenza di un piano prestabilito; ma soltanto, e confusamente, per sottrarsi dalla sfera dell’azione nemica, e col proponimento di non più affrontarlo, se per avventura non dovea lasciar Velletri.
» Gli ultimi colpi di fucile furon tirati avanti questa città, e col giorno 19 finiva per i Napolitani la speranza di combattere decisivamente le forze riunite del general Roselli, la di cui attitudine innanzi Velletri fu tutt’altro che offensiva!
» I Napolitani adunque, che per una novella combinazione politica eran chiamati alla frontiera del loro Stato, non lasciarono di continuare la marcia in ritirata; e la picciola parte delle truppe, che combattè durante la giornata del 19, sfilò tranquillamente per Torre tre ponti, ove il Re l’accampò per farla riposare, e seguir quindi il cammino per Terracina.
» In questo fatto d’armi perdè il Corpo napolitano due ufficiali, circa quaranta soldati fra morti e feriti, e qualche prigioniero del 2° battaglione cacciatori: al contrario si ha dagli stessi rapporti trovati al Ministero della guerra a Roma, che la perdita de’ Romani fu gravissima, ascendendo a cinque in seicento,15 oltre la fuga di una quantità di questi avventurieri armati, i quali nelle prime ore del giorno combattevano con vigore, ma debolmente nel resto, e verso sera scorati confusamente abbandonarono il campo.
» Il generale Roselli assicurato del movimento verso Terracina del Corpo napolitano, occupò Velletri ad ora tarda del dì seguente 20 maggio; ma non spinse un solo distaccamento di cavalieri sulla strada di Cisterna, per esplorarne almeno da lungi il movimento, e la direzione della sua marcia verso Torre tre ponti, ove giunse nel mattino dello stesso giorno 20.
» Il generale Roselli coll’occupare una città non più difesa intese di aver pienamente corrisposto al carico affidatogli dalla Repubblica, di battere il Corpo napolitano, e mozzargli la linea di ritirata, onde non avesse a raggiungere la sua frontiera: ed infatti la dimane della sua entrata a Velletri trasmise al Triumvirato il bollettino della giornata del 19, annunziando alla sua volta, come aveva già fatto Garibaldi a Palestrina il giorno 9: una novella vittoria riportata in quella breve spedizione dalla giovine armata della Repubblica e dell’importante servizio reso alla patria allontanando dal suolo repubblicano le truppe di Napoli.
» Era questo senza alcun dubbio uu servizio importantissimo, ma esso fu l’effetto della presa risoluzione dal Re il giorno 17 maggio, in seguito dall’infranto accordo fra le due potenze d’intervenire innanzi alla capitale degli Stati della Chiesa, per risolvere la questione romana, e non la conseguenza de’ militari concepimenti de’ Triumviri, o degli sforzi dell’abile condottiero delle masse repubblicane: poiché se piaciuto fosse al governo di Roma di occupare altramente le sue legioni sino al 21 maggio, il Corpo napolitano, che il 17 incominciato aveva il suo movimento retrogrado da Albano, sarebbe giunto il 20 a Fondi, e le milizie romane non avrebbero deplorato le perdite della giornata di Velletri.
» La spedizione del generale Roselli mancò così al suo scopo, perchè non contribuì ad accelerare la ritirata de’ Napolitani, non diede luogo ad alcuna battaglia o combattimento che avesse procurato al generale romano de’ successi, e molto meno raggiunse la meta di mozzare al nemico la linea di ritirata.»16
Parla pure il Torre del fatto di Velletri, e noi rimandiamo alla sua opera i nostri lettori, perchè troppo ci dilungheremmo riportando ancora le sue parole.17
Ascoltiamo però ciò che ne dice il maresciallo Vaillant nella sua opera sull’assedio di Roma, non già che ci dica cose che non conosciamo, o ce le racconti meglio degli altri, ma perchè il suo linguaggio, pel posto eminente che ricopriva, ci sembra soprammodo autorevole, e quindi tale da non doverlo pretermettere.
Diceva così:18
«Il 19 maggio, il generale di divisione Vaillant, del genio, e il generale di brigata Thiry, dell’artiglieria, giunsero al quartier generale; erano inviati ambidue in previsione dell’assedio che si era risoluto di fare se le negoziazioni abortivano.
» Quanto a queste negoziazioni, esse non avevano ancora prodotto che l’armistizio di cui si è parlato di sopra, e delle quali i Romani seppero profittare per iscongiurare il pericolo che li minacciava da un altro lato.
» Infatti, l’armata napolitana forte di 9000 uomini di infanteria, 2000 di cavalleria e 54 cannoni, sotto gli ordini del re di Napoli in persona, aveva occupato, nei primi giorni di maggio, le posizioni contigue ad Albano. In seguito del rifiuto di cooperazione del generale Oudinot, che aveva a questo proposito istruzioni formali, questa armata aveva cominciato il suo movimento di ritirata sin dal 17 di maggio, ed era arrivata il 18 a Velletri. Essa si disponeva a continuare la sua marcia retrograda su Terracina, allorché nel mattino del 19 fu attaccata da Garibaldi. Questo capo di partigiani, rassicurato dalla parte dei Francesi pel fatto dell’armistizio, era sortito da Roma alla testa di 12 o 13 mila uomini, e, girando la montagna di Albano per la strada detta di Frosinone, si era avanzato su Velletri per Palestrina e Valmontone. Dopo un combattimento nel quale le truppe romane conservarono il vantaggio dell’attacco, il re di Napoli abbandonò le sue posizioni e riprese, il 20 maggio, il suo movimento di ritirata, ch’effettuò fino a Terracina senz’essere altrimenti inquietato.
» Garibaldi rientrò in Roma.» (Così dice Vaillant. Ciò peraltro non è esattamente vero perchè prima di rientrare in Roma fece una scorreria, ed entrò nel regno di Napoli).
«I risultati del combattimento del 19 maggio, prosegue il Vaillant, furono esagerati, come lo erano stati quelli della ricognizione fatta dai Francesi il 30 di aprile. Gli spiriti si esaltarono maggiormente nella città, e vi si prepararono ad una difesa vigorosa.»
Sembrerà, e con ragione, che ci siamo troppo diffusi nel parlare di questa fazione militare, ma lo facemmo per i seguenti motivi:
1.° Per mettere in sodo il fatto essenziale che la ritirata dei Napoletani era già ordinata e predisposta fin dal 17 maggio, e che quindi non fu la spedizione romana che la provocò.
2.° Per provare che lo scopo al quale fu diretta la spedizione stessa mancò completamente; e che perciò dal combattimento ch’ebbe luogo, se ben si considera, tutto sommato, questo solo risultonne, che perderono le parti belligeranti cento o duecento uomini per ciascuna, e che mentre l’una non raggiunse l’intento, l’altra non fu nè arrestata nè molestata nella esecuzione del fine propostosi.
Ci siamo inoltre diffusi perchè ove ben si rifletta fu questa la sola fazione militare di qualche importanza, essendo che in questo sol fatto i Romani presero deliberatamente l’offensiva spingendo tutta la loro armata a combattere quella dei Napoletani, laddove nel fatto del 30 di aprile ed in quei successivi dell’assedio di Roma essi si difesero necessariamente perchè attaccati dai Francesi, e lo fecero senza dubbio con abilità e valore, di siffatta guisa che gli stessi avversari ne tributaron loro le debite lodi.
Ma in Roma ben diversamente si giudicaron le cose al rientrare dell’armata di Garibaldi. Era secondo la opinione generalmente diffusa, l’armata romana che presentatasi a Velletri, attaccati e sbaragliati i Napolitani, gli aveva posti completamente in fuga: e con questo si pretendeva di aver ottenuto lo scopo prefissosi.
Siccome poi la fama e la volgare opinione non era favorevole affatto al valore napolitano, e siccome una delle loro qualifiche in voga era la tendenza a fuggire, qual meraviglia se ritornate in Roma le schiere dei combattenti romani in attitudine di trionfatrici (perchè allo apparir loro quelle dei Napolitani erano sparite in un subito), vi fosser di molti sarcasmi e caricature e risate a carico loro? Il saporito Don Pirlone pubblicò nel suo numero 213 una spiritosa vignetta esprimente il terrore che il solo nome di Garibaldi ispirava al Borbone di Napoli, rappresentato sotto la figura di un Pulcinella.19
La verità non si venne a conoscere che dopo; e noi col raffrontare che abbiam fatto i rapporti del Roselli pei Romani, del d’Ambrosio pei Napolitani, del Vaillant per la opinione che prevalse su questo fatto al campo francese, e la narrazione del Farini, avremo sparso, non possiamo dubitarne, abbastanza di luce su tale avvenimento storico, affine di poterne concludere che questo ardito divisamento dei repubblicani romani non riuscì felicemente, quantunque venisse come una segnalata prodezza creduto e festeggiato. 20
Esaurito così ciò che credemmo di riportare a schiarimento della spedizione dei Romani contro l’esercito napolitano, proseguiremo per ordine cronologico il nostro racconto.
Mentre il giorno 16 di maggio, siccome narrammo al principio del presente capitolo, usciva da un lato l’armata romana per la porta san Giovanni, giungeva la sera stessa ed entrava per la porta del Popolo il colonnello Mezzacapo napolitano colla sua divisione proveniente da Bologna.
Era un buon nerbo di truppe che rese inutili dopo la caduta di Bologna, venivano a rafforzare l’armata di Roma.
Componevasi la divisione del Mezzacapo di circa 4,000 uomini fra i quali erano:
Gli svizzeri di Bologna
La legione polacca
I civici bolognesi con Bignami alla testa
Due squadroni di cavalleria, e
Dodici cannoni. 21
Il Mezzacapo era venuto in Roma chiamatovi dai repubblicani dopo aver difeso Bologna contro gli Austriaci per otto giorni; e lo stesso dì 16 in cui giungeva in Roma, Bologna capitolava per mezzo del suo municipio.22
Nello stesso giorno 16 il general Roselli il quale godeva fama di onesto, e passava per uno dei repubblicani di buona fede, emetteva un ordine del giorno contro la licenza militare così concepito:
«Ordine del giorno 16 maggio 1849.
» Continui e scandalosi reclami arrivano tutto giorno a questo Comando Generale sopra gli abusi di una licenza militare che disonora il nobile uffizio di difensore della Repubblica.
» Questo Comando Generale è fermamente risoluto di porre affine un termine a tanta sfrenatezza, proteggendo per tutte le vie legali la proprietà, e la sicurezza dei cittadini.
» In conseguenza di che mentre si prevengono tutt’i militari di qualunque grado od arma del dovere di rispettare le leggi, la proprietà, e la sicurezza dei cittadini, si dichiara che qualunque nuovo fallo in questo genere, sia anche minimo, verrà punito colla catena corta da quindici giorni a due mesi secondo la gravità dei fotti, e salve sempre le pene maggiori per più enormi reati.
» I Comandanti de’ Corpi faranno nota questa disposizione, e ne saranno personalmente responsabili della esecuzione.
Creavasi pure con ordinanza del ministro Montecchi, a tutela dei monumenti, una commissione composta dei cittadini
Sostituivansi il 18 ad alcuni membri della commissione per la liquidazione dei danni i seguenti
Regnoli Oreste
Pettini Alessandro
Baldini Germano. 25
E dichiaravasi lo stesso giorno sciolta la permanenza delle sedute dell’assemblea costituente. 26
Rammenteranno i nostri lettori aver noi detto che la missione imbrogliatissima del Lesseps ebbe le apparenze di un ripiego per guadagnare tempo e porre l’armata francese (stante i rinforzi di truppa continuamente sbarcati a Civitavecchia) in misura d’intraprendere un assedio regolare. I Romani non si fidavano delle assicurazioni benevole dei Francesi, e lo provarono il 30 di aprile. Lo stesso e più avrebber provato in seguito, perchè sussidiati di forze, rinvigoriti di coraggio. L’assedio pertanto era decretato ed all’assedio dedicavansi i necessari provvedimenti. In prova di che fin dal giorno 19 giungeva al campo francese il generale Vaillant, del genio, in compagnia del generale di artiglieria Thiry.
Quel generale pubblicò in seguito l’opera importantissima intitolata Siége de Rome en 1849, par l’arméc française. Journal des opérations de l’artillerie et du gènie, ec. Paris, 1851, in-4. fig., 27 che noi abbiamo già varie volte citata nel racconto della missione del Lesseps e del combattimento di Velletri.
Avendo noi parlato dell’armistizio in che Roma versava, ci parrebbe che star dovesse in istato di pace e di sicurtà perfetta. Pur non ostante le misure che trae seco lo stato lacrimevole di guerra moltiplicavansi, e Roma intanto era in istato di assedio. Per lo che il capo d’officio Galvagni inibiva il 19 a tutti i cittadini la uscita dalla città, meno che ai campagnuoli, agl’incaricati per l’approvigionamento, ed a chi erasi munito di un regolare e speciale permesso.28
Del progetto di convenzione che fra il Lesseps e le autorità romane infruttuosamente venne proposto il 19, avendo parlato distesamente nel capitolo precedente, rimandiamo al medesimo i nostri lettori.
Procuravasi intanto con turpe consiglio di demoralizzare sempre più le masse popolari col produrre al pubblico riprovevoli sceniche rappresentazioni. E difatti al mausoleo di Augusto davasi un dramma intitolato Il bastardo di Clemente VII ossia frate Lionardo Domenicano alla corte di Toscana.
Figuravano nella | 1.° parte le monache di san Domenico. |
» | 2.° la maschera e il bargello. |
» | 3.° Michele del Tavolaccino. |
» | 4.° il frate alla forca. |
» | 5.° la morte del bastardo.29 |
Qualche giorno dopo davasi nello stesso anfiteatro una produzione che aveva per titolo Le monache alla festa di ballo.30
Fra gli aneddoti storici crediamo dover memorare una certa lettera che il famoso padre Ventura scrisse nel maggio 1849 da Civitavecchia, ov’era rifugiato, e che il Monitore del 19 pubblicò in parte nelle sue colonne. La celebrità del dotto scrittore ci obbliga a farne menzione stante l’effetto che cagionò sulle masse avide in quel momento soprattutto di leggere gli scritti del frate liberale. Del resto che la lettera fosse pubblicata è storia; che il padre Ventura poi la scrivesse realmente così, nol crediamo. Crediamo anzi che vi si fossero interpolate delle espressioni che facevan comodo, e che il Ventura ne’ suoi scritti posteriori pubblicati mentre era in Francia fece palese che non potevano esser sue. Il paragrafo della sua lettera diceva così:
«In quanto al Papa, è vero che fuvvi un tempo in cui io sostenni, come mezzo di sciogliere la quistione, la repubblica colla presidenza del Papa pro tempore. Questa opinione io l’avea comune con moltissimi dei membri dell’Assemblea, e con qualche persona del Governo. Questa opinione era fondata sull’antico diritto pubblico dello Stato romano, dove il Papa, prima dell’infausto 1815, non era mai stato di diritto sovrano assoluto, ma era stato il presidente, il protettore d’un aggregato di municipi indipendenti che formavano tante piccole repubbliche: essendosi detto sempre sino agli ultimi tempi: Sancta Dei Ecclesia & Respublica Romanorum. Ma siccome l’uomo di Stato prudente e sincero deve saper fare il sagrificio della sua opinione quando la vede in opposizione col voto pubblico del popolo; siccome in politica, ciò che è facile ad eseguirsi in un tempo, diventa impossibile in un altro; siccome solenni fatti hanno dimostrato ai più ciechi, che oggi, al punto cui sono ridotte le cose, l’accennata combinazione sarebbe impossibile; così io, e tutti coloro che dividevano la stessa mia opinione, prima ancora della mia partenza da Roma, l’avevano solennemente ritrattata; e non si è mai più nulla da noi pensato, molto meno tentato, per farla prevalere. Dietro le dottrine che io ho professato a voce ed in iscritto, il voto libero del popolo è la vera base di ogni politico ordinamento. E siccome questo voto negli Stati romani si è decisamente pronunziato per una assoluta separazione dello spirituale dal temporale, così non sarei io colui che avrei la follia di pur pensare a far trionfare una opinione contraria a questo voto. Ripeto che la cosa era possibile mesi addietro. Ora più non lo è, e non bisogna più pensarvi. Non si è voluto da quelli stessi da cui si dovea volere: peggio per loro. Oggi il Clero deve dimenticare assolutamente ogni partecipazione anche indiretta nel governo temporale dello Stato. Oggi si deve solo occupare di predicare colle parole e coiresempio la vera dottrina del Vangelo al popolo libero per prevenire ogni traviamento; e perchè il gran movimento che tutto agita e tutto sconvolge, e che nessuna forza umana può arrestare, di cristiano che è stato ed è tuttavia, nou diventi protestante o Volterriano. A questo scopo prezioso intendo di lavorare da quindi innanzi io stesso, senza badare al temporale del Clero. Il perdere le croci d’oro pel Clero cattolico non è una sventura: una croce di legno ha conquistato l’universo.
Se noi abbiamo riportato questa lettera la quale quantunque scritta da un uomo eminente per dottrina come era il padre Ventura, non lascia di contenere principi eccentrici e diametralmente opposti all’universale delle idee cattoliche, lo facemmo prima di tutto perchè trattandosi di storia, nulla volemmo sopprimere di ciò che sia buono, sia cattivo, ci dettero i tempi che correvano, in secondo luogo perchè conoscano i nostri lettori sotto quali impulsi, e da qual parte provenienti, eran travagliati i Romani, ed abbiano per tal modo una spiegazione maggiormente plausibile di quello stato di eccitamento in cui molti di essi versavano.
Ma avesse pure il padre Ventura scritto quello che si contiene nella lettera riportata di sopra (quando cioè a lui come a tanti altri bolliva il cervello) non ci maraviglierebbe nè punto nè poco. Questo sì diciamo che in epoca posteriore, e quando quest’uomo insigne crasi estricato dalle influenze della rivoluzione, insegnò e pubblicò teorie assai diverse le quali distruggevano interamente le aberrazioni passate della sua mente. Ecco dunque che cosa ha egli lasciato scritto nella sua celebre opera sul potere pubblico divulgata nell’anno 1859:32
«Un papa non re, nell’ordine temporale, sarebbe necessariamente un papa suddito di un altro re; ed un papa suddito di un re sarebbe un oggetto per lo meno di diffidenza per gli altri re; ed allora l’indipendenza e l’imparzialità della sua autorità spirituale sarebbero fortemente compromesse agli occhi del mondo cattolico. Potrebbe la Francia, per esempio, diceva Napoleone I, di cui abbiamo riportato altrove la rimarchevole testimonianza nella sua integrità, potrebbe la Francia contentarsi di un papa suddito dell’Austria, o l’Austria di un papa suddito della Francia? Osservate piuttosto con quale facilità tutte le potenze e tutti i popoli veramente cattolici si contentano di un papa romano, cioè di un papa indipendente anche temporalmente da qualunque altra potenza temporale: di un papa-re. Ed anche nell’interesse della loro dignità, di cui si deve tener conto nelle questioni di questo genere, i principi temporali, come ancora i loro popoli, non vogliono e non posson volere un papa-suddito.» Quindi soggiunge:
«Ciò che è necessario esiste, noi lo ripetiamo ancora una volta con san Tommaso; così dunque la Provvidenza, che regge il mondo nell’interesse della Chiesa, incaricata d’illuminare e di reggere il mondo spiritualmente; la Provvidenza, che armonizza in un modo tanto ammirabile le vicissitudini degl’imperi e le vicissitudini della Chiesa, si servì della fede di certi popoli e della pietà di certi principi, come ancora degli errori e dei delitti di altri popoli e di altri principi, per costituire un regno temporale al Capo visibile della Chiesa. Dimodochè questo regno uscito come un fatto necessario, logico e provvidenziale dalla nuova condizione religiosa e politica del mondo «è il solo che nulla deve alla sorte delle battaglie, che non abbia costato nè una goccia di sangue nè una lacrima ai popoli, èd il solo che possa rammentar la sua origine senza arrossire.
» Così il più grande e il più prezioso degl’interessi religiosi, l’interesse della libertà e della indipendenza della Chiesa, va unito a questo che il suo augusto Capo non sia il suddito di alcun re, ma che abbia un dominio temporale ove comandi sotto tutti i rapporti, ed ove niuno comandi a lui sotto qualsiasi rapporto: cioè che, pontefice e re nel tempo stesso, possieda una sovranità politica.»
Questa dotta dichiarazione del padre Ventura sopra la questione più vitale della umana società, emessa nel 1859, quando chi la scrisse aveva dieci anni di più di dottrina o di esperienza, vale ben altro che la sua pretesa lettera da Civitavecchia dell’anno 1849 scritta sotto l’influenza della rivoluzione in mezzo alla quale trovavasi.
Mentre il 19 maggio Romani, Romagnoli, Lombardi ed ogni sorta di gente raccogliticcia contro i Napoletani battes l’ansi, come abbiam raccontato in principio di questo capitolo, si discutevano fra il triumvirato, l’assemblea ed il Lesseps le condizioni di una composizione. Riuscite a mal fine le pratiche, si ruppero momentaneamente. Ciò dicemmo per disteso nel capitolo precedente, tutto consecrato al Lesseps, e se ora lo memoriamo, è soltanto per non interrompere il filo dei fatti storici più notevoli, rimandando i lettori desiderosi di meglio conoscerli, là ove ne abbiamo diffusamente trattato.
Ma altro e più grave episodio delle nostre storie ci si presenta, e questo viene a convalidare ciò che in altra parte de’ nostri scritti asserimmo circa il tentarsi dal Mazzini riforme anche in senso religioso. Premetteremo al racconto di ciò che avvenne in Roma quello che lo stesso Lesseps dice relativamente a tali tentativi del Mazzini:33
«Io sospetto che il Mazzini, uomo ragguardevole e influentissimo, voglia favorire uno scisma religioso; i suoi scritti lo devono far temere. Egli ha spesso conferenze con personaggi inglesi viaggiatori; vede missionari protestanti di tutte le nazioni. — Cercare di liberarlo da queste influenze e persuaderlo che la Francia, di cui diffida, deve esser la sola speranza delle libertà italiane; distorlo dalle sue idee di scisma ed, occorrendo, denunziare queste tendenze a qualche patriota dell’Assemblea facendole considerare come un tradimento alla causa della libertà italiana che non deve separarsi dal cattolicismo.»
Egli è dunque a sapersi che il 20 di maggio furono tolti parecchi confessionali dalle chiese di san Carlo al Corso e di san Lorenzo in Lucina. Vennero trasportati sulla piazza del Popolo e messi in ordine di parata, quasi che volessero bruciarsi. Non mancaron parole ed atti di scherno per parte di taluni contro il culto cattolico.
Queste improntitudini però provocarono tale una disapprovazione nel popolo, e si disse perfino in molti di quei giovani onorati i quali formavano la legione lombarda, che convertissi, o era sul punto di convertirsi, in una popolare sommossa; sicché vennero ordini per soprassedere al mal riuscito esperimento. Lo stesso Farini accennando il fatto dice che i sollevatori, i settari, i ciurmadori, i tristi che il Mazzini indiava, «facevano ludibrio della confessione, togliendo i confessionali dalle chiese per farne un falò sulla piazza del Popolo, e non compivano il disegno perchè i Triumviri coi manifesti pubblici, col danaro e colle persuasioni furono in tempo di frenare l’empia frenesia.»34
L’atto officiale che rese alle chiese i mal tolti confessionali diceva così:
- «Romani!
» Parecchi fra voi, in un moto di zelo irriflessivo, promosso da sentori di nuovi pericoli, hanno ieri posto mano, disegnando farne arnesi di barricate, sopra alcuoi confessionali appartenenti alle chiese.
» L’atto sarebbe grave e punibile se noi non conoscessimo le vostre intenzioni.
» Voi avete creduto, con quella dimostrazione, far nuova testimonianza che ogni cosa è oggimai possibile in Roma fuorché il ripristinamento del governo sacerdotale caduto. Avete voluto esprimere il pensiero che non è nè può essere vera religione dove non è patria libera; e che oggi la causa della religione vera, la causa delle anime nostre libere ed immortali, sì concentra tutta sulle barricate cittadine.
» Ma i nemici della nostra santa Repubblica vegliano in ogni parte d’Europa a iuterpretare male i vostri atti; e ad accusare il popolo d’irriverenza e d’irreligione. Tradirebbe la patria chi fornisse motivo a siffatte accuse.
» Romani! La Città vostra è grande e inviolabile fra tutte le Città d’Europa, perchè fu culla e conservatrice di religione. Dio protegge e proteggerà la Repubblica, perchè il santo suo nome non è mai scompagnato dalla parola Popolo, e perchè da noi si combatte per la sua Legge di amore e di libertà, mentre altrove si combatte per interessi e ambizioni, che profanano e rovinano ogni credenza. In quelle chiese, santuario della religione dei nostri padri, s’innalzeranno, mentre combatteremo, preghiere al Dio dei redenti. Da quei confessionali, d’onde pur troppo uscirono talvolta, violazione del mandato di Cristo, insinuazioni di corruttela e di servitù, esce pure, non lo dimenticate, la parola consolatrice alle vecchie madri dei combattenti per la Repubblica.
» Fratelli nostri nella Causa benedetta da Dio e dal Popolo! I vostri Triumviri esigono da voi una prova di fiducia che risponda alle accuse, conseguenza d’un atto imprudente.
» Riconsegnate voi stessi alle chiese i confessionali che ieri toglieste. Le barricate cittadine avranno difesa dai nostri petti.
» Dalla residenza del Triumvirato li 20 maggio 1849.
» I Triumviri.»35
Tale atto in sostanza ci sembra rivestire i caratteri di derisione e d’ipocrisia, imperocchè niuno potrà persuadersi che il rapimento dei confessionali venisse fatto alla insaputa del triumvirato. Questo vide bensì che il pero non era maturo, che la religione non era estinta, che sintomi mal celati di sdegno popolare rivelavansi; e allora cangiando, scena, assunse il linguaggio di disapprovazione e di scusa ad un tempo, perchè poverini, quei che tolsero i confessionali, lo fecero per uno zelo irriflessivo temendo un attacco. Eglino dando di piglio a ciò che si parava loro d’innanzi, videro i confessionali, parvero loro adattati per far barricate, e li presero. Poveri figli, eran compatibili.... Il fine era santissimo, non buono il mezzo per conseguirlo! — Questa fu la farsa indegna che si recitò.
I Romani assennati ed accorti non videro in ciò che una esplorazione, uno scandaglio: riuscendo, lodi; non riuscendo, un biasimuccio foderato di scusa quale la mamma farebbe al figlio discolo ma prediletto, ove gli fosse venuto il vezzo di percuotere la fantesca. La mamma lo riprende si, ma sorridendo, e quasi attribuendo l’infantile improntitudine a soverchia vivacità di carattere
A completare poi la farsa si chiamò in iscena il frenator delle tempeste, Ciceruacchio, al quale secondo il Monitore si diresse il governo, invitandolo ad impedire un atto irriverente e indecoroso alla maestà della religione e del popolo. E questo bastò perchè il popolo smettesse, e se ne andasse a casa sua. Quindi aggiunse che si sarebber fatte accurate indagini per iscoprire l’autore del disordine.36
Era intanto argomento di lutto per la Roma repubblicana la resa di Bologna, la quale non può niegarsi che diede prova di spiriti marziali resistendo per otto giorni agli assalti austriaci. Ne venne annunciata la caduta ai Romani con quel celebre proclama che incomincia cosi:
«L’Austriaco inoltra. Bologna è caduta: caduta dopo otto giorni sublimi di battaglie e di sacrifici.» Poi vi si parla dei soliti tre milioni che vogliono seppellirsi tutti sotto le rovine, e quindi si chiude il proclama con queste parole:
«Chi non combatte in un modo o nell’altro l’invasore straniero s’abbia l’infamia: chi, non fosse che per un istante, parteggia per esso perda la patria per serapre o la vita. Sia punito chi abbandona all’invasore materiali da guerra: punito chi non s’adoperi a togliergli viveri, alloggio, quiete: punito chi, potendo, non s’allontana dal terreno ch’esso calpesta. Si stenda intorno all’esercito che innalza bandiera non nostra, un cerchio di fuoco o il deserto. La Repubblica, mite e generosa sinora, sorge terribile nella minaccia.
» Roma starà.
» Dato dalla residenza del Triumvirato li 21 maggio 1849.
» I Triumviri.»37
La caduta di Bologna, dopo una accanita resistenza di oltre una settimana, ebbe luogo in seguito di capitolazione col municipio ed a tutela della città e degli averi. Secondo però le teorie mazziniane nè proprietà nè terre nè vite umane eran da aversi in considerazione. Perdere tutto, tutto distruggere, tutto sacrificare: col nemico cedere, patteggiare giammai!
Queste teorie venner diffuse nel pubblico mediante un articolo inserito il 23 maggio nell’Italia del popolo ch’era il giornale del Mazzini, cui a noi fa nausea di trascrivere qui intieramente. Nel Sommario lo darem per intiero;38 eccone intanto qualche brano:
«L’Italia tenta oggi uscire dal suo carcere doloroso; vuol sferrarsi dai ceppi papali ed imperiali — Italia vuol essere Italia; e purchè si adempia il suo destino corrano pure fiumi di sangue; siano pur distrutte città sopra città; le battaglie succedano agli incendi, e gl’incendi alle battaglie; e la grandezza della nostra guerra tremenda sia pari alla grandezza di Roma futura.»
E più sotto:
«Noi esortiamo dunque milizia e popolo, noi esortiamo con questo grido di guerra e i valorosi che combattono e gli animosi che a combattere si accingono; noi esortiamo sopra tutto chi conduce la guerra perchè la guerra si faccia tale che al vincitore non rimangano le nostre città intere; ma trovi ad ogni passo la morte.
» Perchè vinta è Bologna? Perchè si capitolava — Nella guerra nostra non si cede ma si distrugge; e si distrugge per edificare.
» Così combatterono i Greci moderni, i quali, anzi che cedere alle armi ottomane le loro città, le incendiavano; e ai vincitori rimanevano mucchi di pietre e cadaveri arsicciati.
» Se queste nostre parole saranno sentite, intese, effettuate, avremo vinto — La guerra si farà tremenda; tutta la vita del popolo sarà in opera di rivoluzione; e coll’esempio nostro accenderemo alla guerra repubblicana le altre nazioni; e vedranno le genti che gl’italiani che in nome di Dio e del Popolo combattevano, non mentivano alle loro credenze —
» Combattiamo adunque come si combatte per le cose eterne; non si tema lo sterminio.»39
Noi non pretendiamo di sostenere che l’articolo surriferito sia stato scritto dal Mazzini stesso. Può darsi di sì, può darsi pur di no. Questo diciamo, che si formulavano in esso le dottrine mazziniane, perchè l’Italia del popolo pubblicavasi sotto la ispirazione del grande agitatore, e noi conserviamo ancora nella nostra raccolta l’Annunzio al pubblico di quel giornale, in gran formato, ove il nome di Giuseppe Mazzini figura a lettere cubitali.40
Lo stesso giorno 23 maggio il Monitore trascriveva nelle sue colonne la protesta del governatore di Sarsina contro i Francesi la quale per la uniformità di linguaggio colle dottrine mazziniane, abbiam creduto meritevolissima di riferire in Sommario.41
Questa protesta, l’articolo dell’Italia del popolo riportato sotto il n° 93, ed il canto rivoluzionario del Mastrella riferito sotto il n° 89, sono preziosissimi documenti perchè accolgono i principi e le dottrine tutte del partito mazziniano, e possono far conoscere agli illusi per mancanza di cognizioni che cosa da quello sperar potesse di ottenere la civiltà umana.
Questo articolo che abbiamo in parte qui trascritto, e la protesta di Sarsina, e il canto del Mastrella ci sforzano ad esclamare: Italiani! superbi di poter mostrare al mondo intero i monumenti della vostra grandezza, i miracoli del genio artistico de’ padri vostri, creatori e cultori sommi in ogni genere di arte e di civiltà; e voi, stranieri di tutto il mondo, ch’eravate pur lieti di venire come ammiratori in Italia a contemplare queste sue grandezze, e ad istudiarvi il genio del grande e del bello, tornatevene: queste grandezze più non vi sono, sparirono. N’esistono bensì gli avanzi, e saran soggetto di escavazioni come lo sono quelli di Tebe, di Ninive, di Babilonia. I quadri del Canaletto vi diranno come era Venezia, i volumi del Gori quale il Museo Fiorentino, il Vaticano illustrato del Pistoiesi quali le meraviglie del nostro museo e le ricchezze della prima basilica del inondo; ma nulla più. L’ambizione dei demagoghi, le ire fraterne, la esagerazione dell’amore di libertà le distrussero.
Così disgraziatamente dovremmo esclamare ove il programma dei mazziniani e le loro dottrine avessero avuto il lor compimento: poichè se attuate venissero cosiffatte teorie, tutto piombar dovrebbe in balia del ferro e del fuoco pur c/iè si combatta e si vinca. E così assiderebbonsi un giorno sventurati Italiani sui mucchi di pietre (come Mario sulle rovine di Cartagine) a contemplare lacrimosi le rovine d’Italia e di Roma.
Ora vogliam narrare come ed in qual modo adoperavansi i repubblicani di Roma per procacciarsi amici e protettori all’estero, fino al punto di voler suscitare commovimenti e rivolture che tornar potessero a loro vantaggio; con quali artifìci agir facessero all’estero i loro incaricati; e come nell’interno col terrore non solo, ma colle blandizie, colle lusinghe, e colle promesse di un migliore avvenire, sapesser tenere in rispetto ed in freno ie ingannate popolazioni. Nè a questo limitavansi le lor pratiche, imperocchè non una, ma più e più volte studiarono e trovarono il modo di far pervenire all’armata francese foglietti stampati in carattere minutissimo, per tentarne la fedeltà. Tutte queste cose verranno da noi paratamente indicate e documentate, e non riuscirà al certo una delle parti meno piccanti e profittevoli della nostra storia.
Egli è prima di tutto a sapersi che, come abbiamo già accennato nel capitolo XIV, uno dei primi pensieri del Mazzini era sempre quello di tenersi amica la Montagna francese, della quale il Ledru-Rollin figurava siccome l’arbitro supremo. Tramavasi alacremente dalla medesima per la caduta di Napoleone e pel trionfo della repubblica rossa. L’elezioni in senso socialista, i discorsi all’assemblea favorevoli a Roma repubblicana, e la proposta di porre in istato di accusa il Bonaparte presidente della repubblica, confortavano il Mazzini in queste speranze.42
A porgere intanto nelle mani de’ suoi amici parigini un’arma a due tagli per iniziare le loro accuse e rovesciare, se fosse possibile, l’attuale governo di Francia, meditato aveva il Mazzini di far compilare una raccolta contenente non solo le adesioni dei popoli dello stato romano al governo della repubblica, ma la espressione del loro abbominio del governo francese che ordinato aveva una spedizione per abbatterla.
Vennero affidate agli agenti del governo nelle provincie le pratiche per ottenere le sottoscrizioni; la riunione poi, la compilazione e la stampa venne affidata all’ex sacerdote friulano Francesco Dall’Ongaro, una delle lance spezzate del Mazzini. Il compimento e la pubblicazione dì questo repertorio, cui diessi il nome di Protocollo della Repubblica Romana, ebbe luogo il giorno 24 maggio e subito venne consegnato, per recarlo a Parigi, a quel Michele Accursi ch’era giunto in Roma col Lesseps dieci giorni prima.
Quest’uomo era in voce di aver recitato nei tempi passati due parti nella commedia stessa, la qual cosa se noi con ripugnanza accenniamo senza garantirla minimamente, egli è perchè uno dei passati direttori di polizia del governo pontificio ce l’assicurò sul suo onore, autorizzandoci ben anco a narrarla siccome cosa incontestabile e documentata. Del resto, anche senza l’autorizzazione in discorso, lo asserire che era questa la voce, mentre non garantisce la cosa in se stessa, enuncia una opinione in voga, e ciò entra sempre nel dominio della storia.
Partì dunque l’Accursi per Parigi lo stesso giorno 24 di maggio seco recando la macchina di guerra, il cui scoppio s’intese il 13 di giugno. Sarem quindi obbligati di parlarne sotto quella data. Lasciamo intanto viaggiare in pace l’Accursi col suo Protocollo, e veniamo a designare un altro genere di pratiche cui si ebbe ricorso, per guadagnare amici alla repubblica proclamata sul Tebro.
Rammenteranno forse i nostri lettori che dopo la catastrofe del 16 novembre il Canuti non vedendo procedere a suo modo le cose di governo, chiese licenza da Roma, e colorì il suo allontanamento col pretesto di una missione che gli venne affidata pei governi di Francia e d’Inghilterra.
Recossi difatti il Canuti in Londra a lord Palmerston e ne ottenne cortese accoglienza: ma l’astuto diplomatico cui già parea di veder sparire, per le intemperanze rivoluzionarie, le franchigie ottenute, lungi dal fare buon viso alle utopie repubblicane, consigliava modi conciliativi coll’esule pontefice, altrimenti (diceva) avrete il Papa certamente, le pubbliche libertà no.
Altri incaricati dei repubblicani romani il Manzoni, cioè, il Carpi ed il Marioni non altro che belle parole ottenevano dall’inglese ministro. Il Marioni però veniva ammesso a più lunga confabulazione, ed al medesimo fra le altre cose diceva: «Accettate il Papa con una costituzione larga e vera, colla stampa senza ceppi e con tutte le garanzie per la libertà e pel progresso avvenire, colla condizione espressa della separazione intera e perpetua dei due principî, delle due potestà ecclesiastica e secolare.»
Il Marioni poi, secondo il Farini,43 scriveva al governo di Roma avergli soggiunto Lord Palmerston che: «Accada quello che in Francia può accadere, non saremo mai riconosciuti permanentemente come Repubblica: che il Papa ci sarebbe imposto di nuovo sotto qualunque titolo, con qualunque nome e colore, anche se in Francia s’instaurasse la Repubblica rossa, lo che è assai difficile.»
Questi conciliaboli e questi consigli che il lord inglese al rappresentante romano largiva, si tennero occulti dal Mazzini. L’inglese lord Napier, ci racconta lo stesso Farini, si recò in Roma sotto mentito pretesto nel maggio 1849 e dette presso a poco gli stessi consigli che non vennero ascoltati.44
Noi non neghiamo che lord Napier venisse in Roma in quel tempo; ci sovveniamo però che venne anche lord Mount-Edgecombe, che si abboccò ancor esso coi caporioni della rivoluzione, e che dette una relazione officiosa al suo governo. Gran disgrazia è stata sempre per l’Italia lo essersi trovata in condizioni di ricorrere alle protezioni ed ai consigli degli stranieri.
Ma il pezzo più grosso che si mise in movimento per battere la campagna fu lo stesso Rusconi che reggeva in Roma il ministero degli affari esterni. Partì da Roma dopo la metà di maggio e giunto in Londra, diresse subito una lettera a lord Palmerston, ove incominciò a mettere in campo al solito i tre milioni di abitanti che non vogliono il papa, ed a scongiurarlo di voler prendere le difese della repubblica romana per tutte quelle ragioni che come ardente repubblicano seppe svolgere al corifeo delle moderne perturbazioni.
Mail lord incoraggiatore delle rivoluzioni sul Continente e patrocinatore costante dei governi costituzionali, limitossi a vaghe promesse di voler prendere in considerazione le romane proposte, e intanto con linguaggio sibillino accomiatava il romano ambasciatore. Il quale però non si ristette, e ci racconta esso stesso di aver veduto a Londra e a Parigi gli uomini più influenti, di averne ottenuto assicurazioni di simpatia, ma nulla più: ci dà anche i nomi di taluni e sono lord Beaumont, lord Minto, sir Riocardo Cobden, Milnes, in Inghilterra, Ledru-Rollin, in Francia. Di altri si limita ad indicare le iniziali. 45
Se queste pratiche furono le palesi e quelle di cui la storia potè prendere ricordo, lasciamo che i nostri lettori s’immaginino le altre d’indole tenebrosa che rimarranno occulte eternamente, e che pure ebber luogo fra tutti i democratici della gran famiglia europea, ai quali Roma dava ad un tempo impulso ed incoraggiamento.
In addizione a quanto abbiamo detto giova rammentare che verso la fine di maggio venne trasmessa alla municipalità di Parigi la nota dei danni cagionati dai Francesi alla basilica di san Pietro.46
È vero che un mese dopo monsignor Lucidi economo di quella fabbrica smentì solennemente la esistenza dei danni presunti: ma l’odiosa accusa restò, e la difesa pochissimi la lessero.47
Ma non basta. Altre pratiche e di genere clandestino adottaronsi verso i soldati francesi.
Stampavansi in sesto piccolissimo proclami, indirizzi, e bullettini diretti all’armata francese ch’era al campo nel mese di maggio, ed in carattere per conseguenza appena intelligibile. Taluni non avevano che tre pollici di largo contro cinque di lungo, e trovavasi la maniera d’inviarli al campo. Diffamavasi in quelli il governo attuale di Francia, e vi si parlava della vittoria dei socialisti nelle elezioni che incominciarono in Parigi alla metà di maggio,48 e del futuro trionfo per conseguenza di Ledru-Rollin. 8i disse perfino che allorquando i repubblicani romani inviarono il 26 di maggio cinquantamila sigari e duecento libbre di tabacco da fumo al campo francese, vi fossero incastrati proclami microscopici in tal quantità, che tutti i soldati potessero averli.49
Per darne una idea, trascriveremo il seguente:
- «Soldats de l’armée française!
» Les nouvelles de Franca qui nous arrivent à l’instant, sont excellentes. Les élections sont toutes dans le sens radical pur. Ledru-Rollin a été nommé à Paris le 2e par 130 mille voix, sans compter quatre autres départements qui sont élu.
» L’armée sera représentée à la Legislative par trois sous officiers
» Le sergent Boichot
» Le sous officier Rattier
» Le maréchal de logis commissaire.
» Monsieur Bugeaud a été repoussé par les électeurs de Paris, ainsi que presque tous les Ministres, et les chefs principaux de la réaction. La République française triomphe, et la République romaine est sauvée.
» Le peuple n’a plus besoin de fusils désormais, puisque les fusils sont entre les mains de ses frères. Il est temps que la République retourne les armes contre les rois étrangers.»
Un altro proclametto diceva cosi:
- «Soldats de la République française!
» Un gouvernement de traîtres et de lâches renégats de tous les régimes, déshonore la France, et trahit la liberté.
» Louis Bonaparte trahit la République par sa honteuse alliance avec les despotes du Nord: il a pour jamais déshonoró son nom. Mais ses bassesses ne salissent que lui, et la Nation française est trop grande pour que son déshonneur l’atteigne.
» Soldats! avant de tourner contre nous les armes de la France, rappelez vous que vous ètes Citoyens français, et dans la lutte à mort que nous allons soutenir, soyez les dignes enfans des soldats de Marengo.
» Vive l’armée. Vive la France. Vive la République romaine.
» L’armée francaise a voté pour les candidata les plus radicaux.»
Uno poi di questi foglietti è un bollettino del fatto contro i Napolitani a Velletri: nello stamparlo si ebbe evidentissimamente per iscopo di trascinare tanto le truppe francesi, quanto le napolitane a defezionare ed unirsi ai repubblicani romani. Esso terminava così:
«Noi abbiamo vinto i soldati francesi, mandati per inganno a comprimere le nostre libertà; noi abbiamo vinto l’armata di Napoli, ligia al Papa ed al Re. È tempo che i popoli aprano gli occhi, che i soldati s’accorgano che sono uomini anch’essi. Francesi! alziamo un solo grido: - Viva la Repubblica. Napolitani! gridate con noi: Viva l’Italia e morte ai tiranni. Noi divideremo con voi la nostra vittoria, e l’ora dei Re sarà sonata per sempre.
- » Viva la Repubblica. Viva l’Italia.»50
Esaurito così ciò che avevamo a dire sulle pratiche palesi e nascoste, in voce e in iscritto, a Parigi, a Londra, e al campo francese, diffuse pel mezzo tenebroso delle consorterie politiche, e tutte tendenti a guadagnare amici e protettori alla romana repubblica, rammemorar dobbiamo altro fatto di quel tempo non abbastanza schiarito, e del quale diremo quel poco che sappiamo, e che possiamo documentare.
Il fatto in discorso è un tentativo di Garibaldi per penetrare nel regno di Napoli, sia che volesse esplorarne le condizioni o le disposizioni degli abitanti, sia che intendesse introdurvi il fuoco della rivoluzione.
Terminato il fatto di Velletri, nel quale, come si vide, il Garibaldi volle agire di proprio moto sottraendosi alle regole e agli ordini della militar disciplina, rientrarono in Roma le soldatesche parte il giorno 25, e parte il giorno 27 di maggio.51
Il Garibaldi però in compagnia di Masi recossi (è incerto se colla intesa o no del triumvirato) nel regno di Napoli, per la piccola città di Arce. Gli abitanti fuggirono, e gli avamposti napoletani voltaron le spalle; così racconta il Torre.52 Considerando però che quel paese era difeso da due fortezze di prim’ordine Gaeta e Capua, e che il general Nunziante con buon nerbo di truppa era per correrne alle difese, il triumvirato saviamente vista l’inutilità di tale spedizione, richiamò il Garibaldi.53
Il tristamente famoso Sterbini, che siedeva in quel tempo preside in Frosinone, volle darne l’annunzio con un atto che stante la sua brevità riportiamo:
«Repubblica Romana
» Notificazione.
» Si sapeva che alcune truppe napoletane stavano vicine al nostro confine: una falsa voce ne aveva ingrandito il numero. Il Generale Garibaldi ha voluto riconoscerle, e col suo solito ardire si è spinto entro il regno di Napoli: le poche truppe napoletane al primo attacco sono fuggite, e il Generale è entrato in Arce e nella rocca di Arce: ma conoscendo che tutto all’intorno non vi erano nemici, e che il confine era libero, è rientrato nel nostro Stato.
» La patria chiama la nostra invitta armata a nuovi combattimenti, e a nuove vittorie.
» Un forte presidio resterà nella provincia di Campagna, malgrado che una nuova invasione napoletana sia divenuta impossibile; così grande è lo spavento che le giornate gloriose per noi di Palestina e di Velletri hanno gettato nell’esercito del Borbone.
- » Frosinone 28 maggio 1849.
» Il Commissionario straordinario ff. di Preside |
Quello poi del Garibaldi diceva così:
«Figli d’Italia! popoli traditi! noi siamo con voi, noi che vincemmo il vostro tiranno a Palestina e a Velletri: il vostro tiranno che primo a fuggire vi trascinò col suo esempio, e spense in voi ogni scintilla di coraggio.
» Se oggi non somigliate a quei Napolitani, che un giorno vinsero con tanto valore lo straniero a Velletri, non è vostra la colpa, ma di quella tirannide che vi conduceva a combattere contro i fratelli; e voi pure sarete degni del nome italiano quando pugnerete animati dal santo amore di libertà, e d’indipendenza.
» Noi non veniamo ad imporvi alcuna legge; noi veniamo per aiutarvi a rompere la ignominiosa catena, noi veniamo per dirvi una parola libera, motrice di magnanimi affetti, noi veniamo per innalzare in mezzo a voi il vessillo della patria comune.
» La fortuna vi si presenta propizia per lavare la macchia dello schiavo; se lasciate sfuggire l’occasione il vostro servaggio sarà eterno.
» L’ultimo dell’abborrita razza borbonica, ad onta di tanto sangue sparso dai martiri italiani, ad onta di tante maledizioni, vi calpesta ancora, ma tremante, ma con la coscienza del condannato che fu segnato in fronte dalla vendetta di Dio.
» L’Austria vinta le cento volte dalla valorosa Ungheria, combattuta dai popoli di Germania che risorgono a libertà, è un colosso di creta che si spezza e cade. Un feroce Generale Tedesco coi suoi Croati corre oggi impunemente alcune provincie d’Italia, ma ricordiamoci che pochi mesi sono i Croati entrarono nella capitale dell’Ungheria, e che oggi gli Ungheresi entrano a Vienna.
» In ogni paese di Europa s’innalza possente la voce del popolo e caccia i Re, e trionfa delle frodi diplomatiche, e trascina nel fango i ministri che si vendono ai Re e ai traditori. Quei Francesi, ch’erano venuti per abbattere la libertà in Roma, sono divenuti oggi ammiratori del valore romano, e si chiamano nostri amici.
» Fratelli! imitate l’esempio di Roma e di Venezia.
» Fratelli! sorgete, e al solo grido di libertà uscito dai vostri petti, fuggiranno i tiranni e gl’infami servi dei tiranni.»55
Ci nausea per verità il dover riportare ad ogni momento proclami ai Romani, proclami ai Francesi, ai Napolitani, agli Ungheresi, ai popoli della Germania, e tutti tendenti a distoglierli dai sentimenti del dovere e della fedeltà, tutti eccitanti al disordine e all’esterminio. Ci grava di averne riferiti già tanti nel contesto della nostra storia; e pure se vogliono conoscersi bene i tempi che correvano, le passioni ch’erano in giuoco, e gl’inganni che ordivansi alle disgraziate popolazioni, ci è forza di metterli sotto gli occhi dei nostri lettori, perchè sugli nomini, sulle cose, e sui tempi di allora, possan portare adequati giudizi.
Un altro proclama pertanto ci viene somministrato fra quelli che in quel tempo pubblicaronsi. In esso dicevasi fra le altre cose: «Che aspettiamo più? quale altra vergogna dobbiamo soffrire da questo scellerato Governo?.... Ferdinando... ha condotti i suoi soldati nello stato romano: ma Dio l’ha punito.... Roma ha vinto: Bologna ha fatto un macello di Tedeschi: gli Ungheresi hanno distrutto l’impero d’Austria e stanno per venire in Italia. E noi che aspettiamo più?
» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» Il tempo è giunto, prendiamo le armi. All’armi, o Abruzzesi, unitevi al valoroso Garibaldi che vi chiama: all’armi, o Pugliesi, o Sanniti, o popoli ec.»
Siccome il Garibaldi portossi precipitosamente nel regno di Napoli per la via degli Abruzzi, è chiaro che questo proclama fu da lui scritto e divulgato in quella occasione.56
La escursione garibaldiana però non sortì un buon effetto, perchè l’eroe di Montevidco alle 11 antimeridiane del giorno 31 maggio si restituì in Roma, e poco o nulla ai parlò della sua spedizione ne’ giornali.57
Agli offici diretti, per noi rammemorati più sopra, dei repubblicani a fine di propiziarsi vie maggiormente la benevolenza e l’appoggio di lord Paimerston e consorti in Londra, e dei Montagnardi in Parigi, voglionsi aggiungere taluni sotterfugi diplomatici, o falsità manifeste, cui per ingannare la opinione pubblica in quelle potentissime regioni che nomansi Francia e Inghilterra, si ebbe ricorso. Era ciò di grave momento pei repubblicani romani, in quanto che ritenevasi le lor sorti essere in balia di quelle regioni che, maestre di rivolture, godon fama di promotrici di libertà e di alimentatrici dell’incivilimento europeo.
Ed appunto per questo si escogitò il già mentovato Protocollo, d’onde risultar dovessero le adesioni dell’universale alla repubblica, poco importa se con firme vere o mendaci, se d’illetterati, di dipendenti, di forzati; poco importa se esprimenti una frazione più che dubbia e, ciò che più monta, infinitamente impercettibile delle popolazioni romane. L’essenziale si era che si vedesse una filatessa di firme. Ma queste firme contate da noi non raggiungono che la cifra di 8,912, e quindi sopra tre milioni di abitanti non equivalgono che ad 1/337 della popolazione, ossia appena ad un terzo per cento tra maschi e femmine, fra’ quali moltissimi croce segnati, perchè non sapevan leggere nè scrivere: basti solo il conoscere che nel comune di Graffignano, governo di Bagnorea, in 370 sottoscritti non furono che 58 quelli che sapevano scrivere.58
Nello intendimento poi di commovere le viscere sensibilissime degli esteri per la Roma monumentale, inviavasi pure a documento di barbarie la lista, siccome già dicemmo, dei danni inferiti dai Francesi ai monumenti venerandi delle belle arti, danni non solo esagerati, ma quasi diremmo immaginar!, bastando il percorrere Roma, le sue chiese, i suoi palagi, i suoi monumenti, i suoi musei, le sue gallerie per convincersene.
Si affidava ai Canuti, ai Carpi, ai Manzoni,.ai Marioni, ai Rusconi, ed ai Frappolli il carico di patrocinare presso i sommi politici d’Inghilterra e di Francia la causa delle popolazioni romane languenti (così dicevasi) sotto la sferza crudele dei preti e de’ sanfedisti. Gli avevano finalmente scacciati, è vero, ma temevano di riaverli sul collo. S’indirizzavano in fine quegli esagerati ed eccitatori proclami ai soldati francesi per tentare il loro onore, rattiepidire la lor fede, indurli ad infrangere la militare disciplina.
Tutte adunque, tutte le arti furon messe a profitto per ingannare Camere, parlamenti, ministri, sovrani, popoli; diciam meglio per ingannare il mondo intero: e su di ciò ci siam diffusi abbastanza.
Eppure un’altra ne resta, e fu quella di riuscire ad ingannare e prevalere sull’animo di quel semplicione dell’agente consolare inglese Giovanni Freeborn, il quale più pratico, convien credere, di cose di banco e di commercio che di geografia e di statistica (e questo ci sembra il meglio che per noi possa dirsi ad esonerazione di lui), si lasciò persuadere dai repubblicani che fosser tanti e poi tanti i Romani armati, che senza avvertire se il numero affermatogli fosse o no in proporzione co’ loro mezzi, con la capacità degli alloggi, e con la stessa popolazione di Roma, ti spiattellò la sua informazione officiale a lord Palmerston. Egli sicuramente non contò le soldatesche, non passò in rivista i volontari cd i corpi franchi, e stette a quello che gli si disse, e così cadde nell’errore madornale che siam per narrare. Noi estragghiamo tutto ciò da quel libro che la regina d’Inghilterra fece pubblicare per norma del parlamento britannico, allorché si dovette parlare nel 1851 degli affari di Roma, e che porta per titolo: Correspondence respecting the affairs of Rome, 1849, ossia Corrispondenza relativa agli affari di Roma, 1849.59
Ebbene nella sua lettera a lord Palmerston, in allora ministro degli affari esteri della Gran Brettagna, del 19 maggio 1849 asserisce il signor Freeborn che l’armata romana ed i difensori di Roma erano i seguenti:
«Nota dei mezzi di difesa nella città di roma.
» 1ª Divisione, comandata dal General Garibaldi, composta di truppe bene armate | 3,400 |
«2ª Divisione, comandata dal General Galletti, come sopra | 4,100 |
» 3° Divisione, comandata dal General Roselli, come sopra | 5,500 |
» 4° Divisione, comandata dal Colonnello Mezzacapo | 3,600 |
» Riserva, tutte le truppe | 6,500 |
23,100 | |
» Popolazione, armata con fucili a doppia canna | 4,000 |
» Detta, con cortelli e picche | 40,000 |
» Guardia nazionale, bene armata | 10,000 |
» Totale | 77,100 |
» N. B. — Quaranta cannoni da campagna.
» Dei suddetti, 14, 000 con 20 pezzi di artiglieria han lasciato Roma per attaccare l’armata napolitana, dello stesso numero circa.»
- » Roma, 19 maggio, 1849.»
Il Roselli in vece afferma che non furono in tutto che 10,874 i Romani che recaronsi contro a’ Napoletani; ed il Roselli, come generale in capo, ne sapeva in ciò assai più dell’inglese banchiere e diplomatico.
La verità però fu ed è che tutta l' armata regolare ed irregolare non ammontava che a un 15 o 16,000 uomini; | ||
diciamo; | uomini | 16,000 |
La popolazione armata con fucili a doppia canna, se pur dovrà ammettersi, non potrebbe essere che per una quarta parte, ossia per | » | 1,000 |
I 40,000 di popolazione armata non furono che nella fervida immaginazione del Freeborn, e quindi si deducono interamente come una falsità delle più sfacciate | » | • |
Quanto poi alla guardia civica, essa in luogo di 10,000 non componevasi che di 8,000 uomini, fra i quali vogliamo contare una quarta parte mobilizzata, dunque | » | 2,000 |
E se diciamo 8,000 in luogo di 10,000 egli è perchè tanto il Freeborn che ciò asseriva, quanto il Vaillant che nei suoi specchi parlava di 12,000, sbagliarono entrambi. Lo stesso comando della guardia nazionale fece questa rettificazione officialmente.60 E se prendemmo la quarta parte soltanto egli è perchè la immensa maggiorità giammai non ebbe parte nella difesa della città, e limitossi a tutelarne l'ordine interno. | ||
Aggiungeremo per volontari diversi, circa un | » | 1,000 |
Avremo in tutto | uomini | 20,000 |
dei quali per lo meno due quinti consistevano in corpi franchi. Il resto era composto, per la massima parte, di truppa di linea già esistente in Roma, e deH’armata venuta recentemente da Bologna, la quale, come dicemmo più sopra, componevasi di un 4,000 uomini.
I 77,100 uomini pertanto del signor Freeborn ridurrebbonsi a un 20,000, ossia a poco più della quarta parte. Che se pur noi volessimo aggiungervi, per sovrabbondare, gli altri 6,000 uomini di guardia nazionale, non sarebbero più di 26,000 uomini, ossia il terzo di ciò che così leggermente venne asserito dal Freeborn.
E se di tal guisa dava la sua relazione un semi-diplomatico subalterno al suo diplomatico superiore, se falsità di questa natura furon dette, udite e stampate in via officiale, si rifletta su quali elementi inesatti venne scritta la storia e sulla necessità di rettificarla, a disinganno dei presenti e dei posteri.
Mentre le cose che abbiam narrato accadevano in Roma, sbarcavano il 27 maggio 4,500 Spagnoli a Gaeta, sotto il comando del generale Cordova. La Speranza dell’epoca ne annunciava 4,000 soltanto.61
Ora non ci resta che a parlare e a richiamare alla memoria la solita filatessa dei proclami, degli editti, degli ordini, delle notificazioni, de’ rapporti e decreti che nella seconda quindicina di maggio emanaronsi e che per amore di regolarità è d’uopo indicare: essi furono i seguenti.
Il 16 maggio leggevasi nel Monitore la sentenza che il Consiglio di guerra aveva pronunziato il 13 contro tre militi rei di rapine commesse nella villa Pamphily, uno dei quali condannavasi a morte e due ai lavori forzati.62 La pena di morte venne però commutata qualche giorno dopo co’ lavori forzati.
In detto giorno si pubblicavano alcune disposizioni del capo d’ufficio Galvagni sulla organizzazione delle squadre armate,63 e del municipio pei beccaî e possessori di granaglie.64
Il 22 maggio escludevansi dalle requisizioni di cavalli quelli delle stazioni per servizio dei corrieri e delle diligenze.65
Giungevano lo stesso giorno in Roma 200 Toscani per combattere in favore della repubblica romana. Il Positivo che dava questa notizia aggiungeva pure che venivano anche guerrieri francesi.66
L’Italia del popolo annunciava il 23 che in Roma erasi formata una società d’operai intitolata dei Fratelli uniti e che si adunava in un teatrino alla salita di Marforio.67
La istituzione di questa società provocò gli elogi del detto giornale che vide nella sua formazione un ripetuto esempio di moralità e di progresso civile. Tutti gli uomini sensati però non videro in ciò che un saggio di spirito socialistico far capolino per poi irrompere un giorno irrefrenabile a danno degli stessi poveri operai ingannati ed illusi, i quali non sanno che i loro veri protettori e mecenati non sono che l’ordine, la quiete, e la perfetta sicurtà dei cittadini. Disposizioni governative, decreti, prescrizioni, intervento dell’autorità, provvedimenti tutelari, esortazioni, minacce, tutto riesce di danno ai lavoranti. Date ai cittadini ordine e quiete, avrete prosperità, e senza eccitamenti o coazioni i lavori vengon da se naturalmente.
Surrogavansi il 23 ai membri assenti del Consiglio di guerra i seguenti:
Colonnello Savini
Tenente colonnello Rossi
Maggiore Maffei
Capitano Ravioli
Capitano Pasini
Capitano Amoretti
Capitano Monosilio.68
Alle disposizioni annunciate sotto il giorno 19 in favore dei campagnuoli, si aggiunse il 23 un decreto per escluderli dai lavori delle barricate,69 ed il 28 un ordine del giorno del ministro della guerra e marina che permetteva ai medesimi la libera entrata e uscita dalla città.70
Il ministro della guerra poi lo stesso giorno 23 dava ordine che coloro i quali senza far parte di un corpo militare ne vestivano la divisa, dovessero o smetterla o farsi inscrivere in uno dei corpi militari.71
Un decreto emanavasi il giorno 24 il quale ci sembra stravagante ed ineseguibile, imperocché interdicevasi con esso agl’impiegati e funzionari governativi o municipali ogni cooperazione agli ordini di coloro che si erano imposti con la forza alla direzione delle provincie.72 Ciò alludeva chiarissimamente a Bologna caduta e ritornata sotto il regime clericale, ed ove monsignor Bedini in qualità di commissario straordinario per le quattro legazioni, avea ristabilito il governo del pontefice col sussidio degli Austriaci. Era egli possibile che gl’impiegati ad onta della interdizione del triumvirato sottrarsi potessero alla obbedienza? No certamente; ed in tal caso non fu questo un decreto pazzo e sconnesso?
Il generale Avezzana nello stesso dì 24 istituiva con un ordine del giorno un corpo militare denominato Deposito degli ufficiali.73 E con decreto del triumvirato autorizzavansi i contribuenti delle tasse a pagarle in boni.74
Ponevansi il 25 sotto sequestro i beni del re di Napoli per esser venduti, e indennizzare col prodotto que’ cittadini che avevan sofferto danni per la invasione napoletana. 75 Ed ai proprietari di cavalli ingiungevasi di condurli nel palazzo Colonna.76
Con ordine del giorno 26 il ministro della guerra Avezzana minacciava di cancellare dai ruoli gli ufficiali assentatisi dai corpi senza permesso.77 E con ordinanza dello stesso giorno esentava dalla requisizione i cavalli de’ macellai, degli ortolani e de’ vignaroli.78
Il Direttore del debito pubblico Nocchi invitava i pos sessori dei titoli o certificati dei prestiti Rothschild di Parigi e Parodi di Genova di esibire i cuponi al debito pubblico, ove desiderassero di esser pagati in Roma.79
Associavansi poi, lo stesso giorno, alla commissione degli ospedali i seguenti:
Cristofari Francesco
Cioja Antonio
Bernabei dottor Mattia
Ercolani dottor Giovanni
Lunati avvocato Giuseppe
Lucani dottor Giovanni Battista
Massimi Andrea
Pianesi avvocato Luigi
Palmieri Sante
Pascoli Vittorio
Pasquali dottore Andrea
Vinciguerra Sisto.80
Venivano invitati i cittadini il giorno 28 dalla commissione di aggiudicamento degli oggetti requisiti a presentare i loro documenti intorno alle requisizioni a cui fossero stati assoggettati.81
Giungevano in quel dì in Roma 130 Fulignati volontari armati per ingrossare quella che chiamavasi armata romana e che avrebbe dovuto chiamarsi piuttosto armata cosmopolitica.82
Raccontammo in principio del presente capitolo i fatti di Velletri e l’allontanamento dei Napolitani non solo da quella città e da’luoghi circonvicini, ma da tutta la provincia di Marittima e Campagna. Egli era per conseguenza ben naturale che il governo romano vi riassumesse l’impero, e lo fece collo spedire in Frosinone il famoso poeta e demagogo Pietro Sterbini in qualità di commissario straordinario facente funzione di preside, quello stesso di cui più sopra riportammo una notificazione.
Entrato lo Sterbini in officio, emise due proclami l’uno il 23, l’altro il 25 con i quali annullava tutte le nomine fatte in tempo della invasione napolitana, e questi proclami vennero inseriti il 28 nel Monitore.83
In Roma con un decreto del detto giorno prescrivevasi che sull’aia soltanto dovesser percepirsi dagli ex baroni le corrisposte dei cereali.84 E con un alto simile autorizzavasi il ministro del commercio e delle belle arti a ricevere un fondo addizionale di scudi dieci mila.85
Abbiamo veduto più sopra che lo Sterbini era stato inviato a Frosinone quale commissario straordinario facente funzione di preside. Ora è da avvertire che ciò non fu mica una eccezione che volle farsi in suo favore, ma eì bene un cambiamento di organizzazione governativa, perchè anche nelle provincie di Perugia, Macerata ed Urbino, venivano con un decreto del 29 sospesi i presidi e sostituiti i commissari straordinari.86
E con decreto parimenti del 29 ammettevasi la formazione sul territorio della repubblica romana di una legione polacca per combattere sotto i segni di Roma a favore dell’indipendenza italiana. La legione, prescrivevasi, innalzerà il vessillo nazionale polacco, colla sciarpa tricolore italiana. Il comando avrebbe dovuto farsi in lingua polacca. Volevasi fare ascendere detta legione a 2,000 uomini: il soldo eguale a quello dell’esercito romano.87
Obbligavansi con decreto le autorità municipali a prestare man forte agli esattori della dativa.88
Il giorno 30 veniva pubblicato un decreto del 27 col quale si assoggettava la santa Casa di Loreto a somministrare immediatamente la somma di scudi trenta mila.89 Nel primitivo progetto era scritto scudi quaranta mila. Poi il Mazzini stesso corresse il decreto, e lo restrinse a trenta. Cid diciamo perchè l’originale dell’atto è nelle nostre mani.90
Esentavansi dalla requisizione, con decreto del 29, i carri per uso della nettezza pubblica.91
Un ordine poi del triumvirato del 30 scioglieva la legione romana (ossia il 10° di linca) e decretava la formazione d’un nuovo reggimento.92 Aprivasi un credito al ministro dei lavori pubblici di scudi 1,584 51 per indennizzare i danneggiati dall’Aniene.93 E promulgavasi dal municipio una notificazione sul trasporto del letame.94
Notificava poi il triumvirato il giorno 31 che le ordinanze restrittive del libero transito per le porte di Roma, non erano applicabili ai rappresentanti del popolo i quali facessero constare della lor qualifica, mostrando la medaglia.95 Accordavasi inoltre il giorno 31 una proroga di dieci giorni per le cambiali o effetti commerciali scadenti dal 1° al 15 di giugno.96
Fra le cose meritevoli di esser notate citeremo la partenza per Ancona del ministro della guerra Avezzana, accaduta il 31 maggio, per una missione straordinaria.97
Si chiuse il 31 maggio, precisamente allo spirare del giorno naturale (24 ore), col rifiuto formale di aderire alle nuove e definitive proposizioni del Lesseps approvate e sottoscritte dal triumvirato; e questo rifiuto venne fatto dal generale Oudinot comandante supremo della spedizione francese, come abbiamo già detto.
Con questo atto solenne e significantissimo per le conseguenze, venne a rompersi la tregua fra Roma e Francia, e a subentrar lo stato di guerra al V armistizio.
Le negoziazioni noiosissime ch’ebber luogo, e la semi-ridicola missione del Lesseps furono il soggetto di un capitolo intero delle nostre storie, ch’è l’antecedente a questo. Nel capitolo che segue ci occuperemo dello stato di assedio, e non avrem da parlare che di battaglie e di guerra.
Note
- ↑ Roselli, Memorie relative alla spedizione e combattimento di Velletri avvenuto il 19 maggio 1949. Torino, 1853, pag. 50 e 51.
- ↑ Vedi Roselli, op. cit., pag. 57.
- ↑ Vedi Vaillant, pag. 15.
- ↑ Vedi d'Ambrosio, Relazione della campagna militare ec., nel vol. XXI delle Miscellanee, n. 6, pag. 36 e 37. — Vedi due stampati interessanti, contro le troppe napolitane, in Sommario, n. 91 e 92.
- ↑ Vedi Roselli, op. cit., pag 61.
- ↑ Vedi detto.
- ↑ Vedi Roselli, pag. 66.
- ↑ Vedi detto, pag. 6S.
- ↑ Vedi detto, pag. 70.
- ↑ Vedi Roselli, pag. 74 e 75.
- ↑ Vedi detto, pag. 76.
- ↑ Vedi detto, pag. 78.
- ↑ Vedi Roselli, pag. 80, 90.
- ↑ Vedi Farini, vol. IV, pag. 94 e 95.
- ↑ Il Torre nega questa cifra, e pare anche a noi esagerata. — Vedi Torre, vol. II, pag. 134 e seguenti.
- ↑ Vedi d’Ambrosio, op. cit., dalla pag. 39 alla pag. 47.
Raffrontato il testo della relazione dei d’Ambrosio stampata in Napoli nel 1851 col lungo brano riportato dall’autore di questa storia, abbiam trovato che in alcuni punti sembra ch’egli fosse contento di darcene un sunto.L' Editore.
- ↑ Vedi Torre, vol. II, pag. 131.
- ↑ Vedi Vaillant, Siége de Rome ec., pag. 14.
- ↑ Vedi il Don Pirlone del 29 maggio 1849, n. 213.
- ↑ Sul combattimento di Velletri potranno consultarsi il Monitore, pag. 485, 494, 503, 504. — L’Araldo, di Napoli, giornale militare, n. 48 e 49. — Il Tempo, di Napoli, del 26 e 28 maggio. — I Documenti del IX volume della nostra raccolta, n. 71, 72 e 74. — La lista dei feriti nel Monitore, pag. 500. — L’opera del Roselli già indicata. — L’opera del Torre, vol. II, pag. 127. — L’opera del Farini, vol. IV, pag. 94 e 95. — L’opera del Miraglia, pag. 198. — L’opera del Rusconi, vol. II, pag. 38. — La Relazione ec. del d’Ambrosio nel vol. XXI delle Miscellanee, n. 6.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 472. — Vedi la Speranza dell’epoca, n. 102, ove si parla di 5,000 uomini. — Il Roselli, op. eit., pag. 43, dice invece essere 4,000 nomini.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 484 e 485.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 469.
- ↑ Vedi detto, pag. 469.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 473.
- ↑ Vedi detto, pag. 470.
- ↑ Sull’arrivo del Vaillant, vedi la sua opera alla pag. 14.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 477.
- ↑ Vedi Documenti, vol. IX, n. 69.
- ↑ Vedi detti, n. 81 A.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 477.
- ↑ Vedi padre Ventura, Essai sur le pouvoir public ec. Paris, 1859, in-8, pag. 594.
- ↑ Vedi Lesseps, Ma mission ec., pag. 37.
- ↑ Vedi Farini, vol. IV, pagina 149.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 485.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 482. — Vedi Positivo del 22 maggio, pag. 315.
- ↑ Vedi detto, pag. 486. — Vedi la Pallade del 22 maggio, n. 546. — Vedi l’originale tutto di carattere del Mazzini, nella nostra raccolta, volume Autografi ec., n. 27.
- ↑ Vedi Sommario, n. 93.
- ↑ Vedi Italia del popolo, n. 32. — Vedi Balleydier, nella prefazione alla sua Histoire de la revolution de Rome ec.
- ↑ Vedilo annesso all’Italia del popolo.
- ↑ Vedi il Sommario, n. 94.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 470, 479, 480, 502 e 514.
- ↑ Vedi Farini, vol. IV, pag. 142.
- ↑ Vedi detto.
- ↑ Vedi Rasconi, vol. II, pag. 70, 87, 89 e 93. — Vedi Farini, vol. IV, pag. 142. — Vedi Monitore, pag. 505.
- ↑ Vedi Monitore del 30 maggio 1849, pag. 522.
- ↑ Vedi Giornale di Roma del 4 luglio 1849.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 502.
- ↑ Vedi Torre, vol. II, pag. 173. — Vedi Monitore, n. 114.
- ↑ Vedi i detti stampatini clandestini nei Documenti, vol. IX, n. 74, 80 A, e 80 B.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 506. - Vedi Pallade, 2. 549. Vedi Torre, vol. II, pag. 138.
- ↑ Vedi Torre, vol. II, pag. 138.
- ↑ Vedi Torre, vol. II, pag. 138, 139 140.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 517.
- ↑ Vedi Documenti, n. SO . — Vedi Pallade, n. 531.
- ↑ Vedi Documenti, vol. IX, n. 86.
- ↑ Vedi Speranza dell’epoca del 31 maggio.
- ↑ Vedi Protocollo della Repubblica Romana, pag. 599.
- ↑ Vedi la detta opera stampata a Londra da Harrlson © figlio, in fog. pag. 35.
- ↑ Vedi Monitore del 4 gingno, pag..541.
- ↑ Vedi Speranza dell’epoca del 30 maggio.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 465.
- ↑ Vedi detto, pag. 466. — Vedi Documenti, vol. IX, n. 66.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 466.
- ↑ Vedi detto, pag. 495.
- ↑ Vedi il Positivo, pag. 322. — Vedi l’Indicatore, pag. 94.
- ↑ Vedi l’Italia del popolo, n. 32.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 495,
- ↑ Vedi detto del 24 maggio, pag. 499.
- ↑ Vedi detto del 30 maggio, pag. 521.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 499.
- ↑ Vedi detto.
- ↑ Vedi detto, pag. 503.
- ↑ Vedi detto.
- ↑ Vedi detto, pag. 506.
- ↑ Vedi detto, pag. 507.
- ↑ Vedi detto.
- ↑ Vedi detto.
- ↑ Vedi Monitore del 26, pag. 507.
- ↑ Vedi detto, pag. 507.
- ↑ Vedi detto, pag. 511.
- ↑ Vedi l’Indicatore del 29. Vedi Speranza dell’epoca, n. 113.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 512 e 513.
- ↑ Vedi detto, pag. 516
- ↑ Vedi detto, pag. 516.
- ↑ Vedi detto del 29 maggio, pag. 520.
- ↑ Vedi Monitore del 30 maggio, pag. 521. — Vedi Italia del popolo, n. 38. — Vedi l’originale di carattere del Mazzini nel nostro volume Autografi ec., n. 28.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 521.
- ↑ Vedi detto.
- ↑ Vedi Autografi ec., n. 72.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 521.
- ↑ Vedi detto, pag. 521. — Vedi Speranza dell’epoca del 31.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 525.
- ↑ Vedi detto.
- ↑ 8 Vedi detto, pag. 528.
- ↑ Vedi detto del 1° giugno, pag. 529.
- ↑ Vedi Speranza dell’epoca del 31 maggio.