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scritti posteriori pubblicati mentre era in Francia fece palese che non potevano esser sue. Il paragrafo della sua lettera diceva così:

«In quanto al Papa, è vero che fuvvi un tempo in cui io sostenni, come mezzo di sciogliere la quistione, la repubblica colla presidenza del Papa pro tempore. Questa opinione io l’avea comune con moltissimi dei membri dell’Assemblea, e con qualche persona del Governo. Questa opinione era fondata sull’antico diritto pubblico dello Stato romano, dove il Papa, prima dell’infausto 1815, non era mai stato di diritto sovrano assoluto, ma era stato il presidente, il protettore d’un aggregato di municipi indipendenti che formavano tante piccole repubbliche: essendosi detto sempre sino agli ultimi tempi: Sancta Dei Ecclesia & Respublica Romanorum. Ma siccome l’uomo di Stato prudente e sincero deve saper fare il sagrificio della sua opinione quando la vede in opposizione col voto pubblico del popolo; siccome in politica, ciò che è facile ad eseguirsi in un tempo, diventa impossibile in un altro; siccome solenni fatti hanno dimostrato ai più ciechi, che oggi, al punto cui sono ridotte le cose, l’accennata combinazione sarebbe impossibile; così io, e tutti coloro che dividevano la stessa mia opinione, prima ancora della mia partenza da Roma, l’avevano solennemente ritrattata; e non si è mai più nulla da noi pensato, molto meno tentato, per farla prevalere. Dietro le dottrine che io ho professato a voce ed in iscritto, il voto libero del popolo è la vera base di ogni politico ordinamento. E siccome questo voto negli Stati romani si è decisamente pronunziato per una assoluta separazione dello spirituale dal temporale, così non sarei io colui che avrei la follia di pur pensare a far trionfare una opinione contraria a questo voto. Ripeto che la cosa era possibile mesi addietro. Ora più non lo è, e non bisogna più pensarvi. Non si è voluto da quelli stessi da cui si dovea volere: peggio per loro. Oggi il Clero