Storia della rivoluzione di Roma (vol. III)/Capitolo XIV
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[Anno 1849]
Respinti i Galli dai difensori di Roma (nè vi fu al certo scarsezza di coraggio e di valore nel farlo) la temperie degli spiriti ascese al più alto grado di esaltazione. Vantavansi i Romani di aver respinto l’orgoglioso assalitore, e di avere mostrato al mondo che la razza dei Camilli non era ancor spenta.
Tale avvenimento provocò il richiamo alla memoria delle glorie avite, e degli esempi memorandi di quelle magnanime gesta che fecer di Roma e dei Romani la prima nazione del mondo: e vuoi o non vuoi anche le donne plebee sentivansi fatte eroine; sicchè per improvviso sbalzo le gelide divenner tiepide, le tiepide calde, e le già riscaldate ardenti. In molti giovani poi l’insperato successo portò lo spirito in sul limitare del delirio, e la dea ragione scompigliata e confusa abbandonò di repente la rediviva Roma repubblicana.
Che anzi si disse e si sostenne da molti, non avere i republicani saputo trarre tutto il partito che avrebber potuto da un sì favorevole evento, imperocchè ridotti i Francesi nella inesorabile necessità di volger le spalle al nemico che disse loro non si entra, sarebbe 9tato opportuno gl’inseguirli, c profittare dello sbigottimento e dello scompiglio per tagliar loro la ritirata. Vuolsi perfino che il ministro Avezzana proponesse questo partito al Mazzini, ma che egli vi si opponesse, sia che temesse la seconda edizione non avesse a riuscir nitida come la prima, sia che risparmiar volesse alla Francia l’onta di una completa disfatta, speranzato sempre dalle promesse di Ledru-Rollin e de’ suoi partigiani.
L’indomani del 30 non ostante l’eroe di Monte Video avventurar volea la sorte delle battaglie, attaccando con una mano di prodi l’oste nemica ne’ suoi alloggiamenti, ma trovolla partita, e raggiunsela verso Malagrotta. Colà soffermatosi preparavasi a battaglia, quando un ufficiale a cavallo si avanzò per la strada maestra, desideroso di parlamentare col Garibaldi. Era un messo del generale Oudinot. Protestò sulle leali intenzioni del suo superiore, e per somministrarne una prova, restituiva il padre Ugo Bassi, fatto prigioniero il giorno antecedente. Giungevano in pari tempo ordini da Roma per retrocedere, e il Garibaldi obbedendo vi si avviò.1 Di cotal guisa il fatto del 30 di aprile niun altro vantaggio, da una soddisfazione morale in fuori, portò ai repubblieaui.
Il Cernuschi poi, che capitanava la commissione delle barricate, dirigeva al popolo il primo di que’ proclami faceti e scherzevoli che tanto esilaravano Roma per la loro originalità. Esso così diceva:
«Ieri cominciò l’ingresso dei Francesi in Roma. Entrarono per Porta San Pancrazio in qualità di prigionieri. A noi, popolo di Roma, questo non fa gran meraviglia. Deve fare però un senso curioso a Parigi. Anche questo è buono.»2
Trattando noi nel capitolo presente delle cose accadute in Roma nella prima quindicina di maggio, non avremo a narrare altri combattimenti contro i Francesi perchè non ebber luogo in detto periodo di tempo; e la ragione è semplicissima. I Francesi dopo lo scacco del 30 aprile cambiarono consiglio, e chiaritisi che Roma voleva difendersi, pensaron subito ad un assedio regolare, per effettuare il quale necessariamente occorrevano altri uomini ed altre artiglierie. Fu dunque tempo di tregua, e tregua forzata. Intanto il generale Oudinot con suo dispaccio del 4 maggio da Palo informava il suo governo dell’accaduto.
Questo dispaccio però non ci presenta carattere veruno nè di esattezza storica, nè di eloquenza oratoria. Noi abbiamo raccontato se non elegantemente, veridicamente al certo, per quanto ci fu dato di raccogliere, le particolarità principali dei fatti occorsi, dalle quali apparisce che il generale Oudinot (indotto forse in equivoco da inesatti rapporti) commise per lo meno una imprudenza, e imprudenza tale, che potea riuscirgli in sommo grado funesta. Quindi il dire al suo governo che la giornata del 30 aprile fu una delle più brillanti alle quali le truppe francesi abbian preso parte dopo le loro grandi guerre, e che se avevano avuto delle perdite sensibili, avevano però cagionato al nemico un danno numericamente più considerevole,3 ci sembra un modello di amplificazione, per non dire una caricatura nei termini. Sta bene che nei bullettini non si soglia scrupoleggiare in fatto di verità, ma nè’ rapporti al proprio governo la verità deve guidar la penna dello scrittore.
I Francesi intanto, attendendo nuove istruzioni dal loro governo e più efficaci rinforzi, acquartieravansi parte a Palo, e parte a Palidoro. Noi colà li lasceremo per tornare a parlar di Roma.
Era la città eterna in uno stato che non potea dirsi nè vita nè morte. Vita sì e forse troppa, perchè esagerata, convulsa, e dominata dalla frenesia e dal delirio. Nè poteva essere altrimenti: imperocchè ignari i cittadini di cose guerresche, e della situazione vicendevole delle parti contendenti, attendevansi ad ogni momento di essere assaliti. Questo stato di trepidazione e di esaltazione febbrile durò per quindici giorni, ed in questi quindici giorni tutto ciò che divulgavasi per le pubbliche stampe, tendeva non solo a mantenerveli, ma ad aumentarne la intensità. I sospetti di reazioni interne, di tradimenti, di sorprese fecer sì che il governo rallentasse le redini, e che i circoli, i comitati, i fanatici, ed i disperati di tutti i paesi formassero altrettante succursali governative, o centri direttori, per mantenere in rispetto i clericali affinchè non solo non potessero far nulla, ma non fosse lor permesso neppure di fiatare. Per tale modo venivasi benanco a rinvigorire il partito della resistenza, ch’era quella che si voleva. La prima quindicina di maggio pertanto fu il tempo più fatale e pericoloso per Roma. Fu in quel periodo appunto che occorsero i più gravi sconcerti, de’ quali accenneremo soltanto quelli di cui ci sono restate le traccie. Altri moltiplici rimasti aconosciuti o taciuti, non figurando in queste carte, ricopriranno l’onta di chi perpetrolli, e risparmieranno a noi il dolore di raccontarli.
Procedendo pertanto, e sempre per ordine di data, diremo che parte in sugli ultimi di aprile e parte in sui primi di maggio, vennero uccisi dalle orde sanguinarie ch’eran sotto gli ordini del capitano dei finanzieri, Zambianchi, quegli ecclesiastici noti sotto il nome di ecclesiastici di san Calisto. Noi ci limiteremo per brevità ad indicare i nomi ed i giorni nei quali vennero arrestati ed uccisi, desumendo il tutto dal processo regolare che ne fu compilato, ed al quale rimandiamo per il di più i nostri lettori.4
Don Massimo Colautti di Tredicesimo (Udine) venne arrestato il 28 ed ucciso il 29 di aprile.
Il padre Vincenzo Sghirla Domenicano, e curato di santa Maria del Rosario sul monte Mario, venne ucciso il giorno 30 aprile su quel monte e precisamente nel vicolo detto della Cammilluccia.
Il padre Egidio Pellicciaia Domenicano e curato della Minerva; don Giuseppe Criseddi di Rocca di mezzo, parroco di Terra nera nel regno di Napoli; don Vincenzo Artigiani di Arcevia; don Giuseppe Galea di paese ignoto furono arrestati il 1° di maggio e uccisi il 2.
Don Antonio Savona diacono palermitano, ed il padre Agostino Serra spagnuolo, dell’ordine de’ Girolamini, vennero arrestati il 3 ed uccisi il 4 maggio.
Oltre altri quattro dei quali non si conoscono i nomi, come non si conoscono i nomi degli uccisori.
Il delitto pel quale vennero questi disgraziati ecclesiastici arrestati ed uccisi barbaramente, fu quello soltanto di essere stati riconosciuti per ecclesiastici.5
Accadevano pure disordini gravissimi il giorno 1 maggio alla casa dell’avvocato Mercorelli in via Mazzarini n. 22 sul Quirinale. Il medesimo venne arrestato, e arrestati con lui due Gesuiti padre Viscardini e padre Betti. Il padre Betti corse rischio di essere fucilato da quegli eroi che lo conducevano, e dovette la sua salvezza al conte Alessandro Zeloni che in uniforme civico passando casualmente di là, s’interpose in suo favore. Il delitto del Mercorelli era gravissimo, terribile, atroce: teneva in casa due Gesuiti.6
Il 3 di maggio poi accadde che alcune guardie civiche mobilizzate lavorando alle barricate a porta Maggiore, invasero, non sappiamo per quali vani sospetti di esservi alcuni Gesuiti cospiratori, la vigna Arcangeli, ne incendiarono il casino, il tinello e la rimessa, e vi uccisero Giovanni Renzaglia della Pergola il quale coltivava quella vigna. Inoltre tolsero non pure, ma strapparono dalla vigna anzidetta due nipoti del Renzaglia, uno dei quali di ventuno, l’altro di diciannove anni, egualmente della Pergola, ed un povero garzone lavorante di vigna, sopracchiamato Cardinaletto.
Giunti gli arrestati alla porta san Giovanni, furon presi a urli e fischi accompagnati da maledizioni e grida di morte. Quindi furono trascinati per ben tre miglia per le vie di Roma, passando per il Corso, la via di Ripetta, il Clementino, l’Orso, e Torre di Nona, finchè uccisi e fatti in brani da un’orda feroce e sitibonda di sangue, vennero dal ponte sant’Angelo gittati nel Tevere. Riuscì alla vedova del Renzaglia con due bambolini di fuggir dalla vigna e sottrarsi alla furia di que’ cannibali, e visse per alcun tempo in Roma alloggiata al n. 41 in via dei Quattro Cantoni ai Monti.7
Proseguendo la narrazione delle meraviglie di quei tempi, rammenteremo che il 3 di maggio promulgavasi un ordine per la requisizione degli argenti.8
Nello stesso giorno in Campo di Fiore, sulla piazza dei santi Apostoli, ed in altri luoghi vennero incendiate molte carrozze di cardinali.
Nè qui si arrestarono i disordini del 3 di maggio, perchè tanto in detto giorno, quanto nei successivi, gravissimi ne occorsero nel convento di santa Croce in Gerusalemme, fatto ludibrio di una birbaglia scapestrata e ribalda che fra le imprecazioni, le bestemmie e le libazioni al dio Bacco, fece di quel locale venerando infame bordello. Tutto vi posero a ruba e scompiglio, e que’ poveri monaci ritrovarono nella fuga la loro salvezza.9
Occupavasi il 4 il palazzo dell’accademia di Francia, sul Pincio. Quel direttore e gli alunni ritiraronsi parte in case private, parte al palazzo Colonna. La villa era stata occupata fin da qualche giorno prima, perchè considerata siccome punto strategico.
Le requisizioni arbitrarie eran già incominciate, e siccome i reclami pervenivano da tutte le parti all’autorità, emetteva essa un proclama, per mezzo del ministro della guerra Avezzana, col quale diffidavansi i Romani a non consegnare nè cavalli nè altri oggetti qualunque senza un ordine scritto dalla commissione militare.10
E così moltiplici o gravi dovettero essere i casi nefandi che in quello sfrenamento di passioni perpetravansi, che lo stesso triumvirato in un atto solenne ne conservò la memoria, e ne bandì la riprovazione. Fu questo un proclama ove fra le altre rinveniamo le parole seguenti:
«Disordini rari ma gravi, cominciamenti di devastazione, atti offensivi alla proprietà, minacciano la calma maestosa, colla quale Roma ha santificato la sua vittoria.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» Le persone sono inviolabili. . . . . . .
» Le proprietà sono inviolabili. . . . . .
» A nessuno è concesso procedere ad arresti o perquisizioni domiciliari. . . . . . . . .
Trista confessione fu questa, perchè se tanto si diceva da chi aveva interesse di occultare queste nequizie per decoro della incipiente repubblica romana, quanto di più doveva esservi, che non si diceva?11
Concedevansi frattanto a profitto degli asili infantili gli oggetti inservibili dei monasteri superstiti.12
Il giorno 5 veniva posta a sacco ed a ruba la casa parrocchiale di san Giovanni in Laterano, ad onta degli ordini, dei rigori, e delle minacce del governo.13
Vedendo allora che non ostante gli avvisi e le minacce dell’autorità, veniva ogni giorno di più in più manomessa e dispregiata la legge tutrice degli altrui diritti, il commissariato di guerra annunziava il giorno 7 che infiniti ed inconcepibili abusi e bassezze furono commessi nella requisizione degli oggetti, in un atto che riportò il Monitore,14 e che in parte trascriviamo come appresso:
«Ministero di Guerra e Marina.
«Infiniti ed inconcepibili abusi e bassezze, commessi da taluni nella requisizione degli oggetti pel servizio della Repubblica, ci obbligano a provvedere energicamente per scoprire il triste che vestito di arbitraria missione, che dovrebb’esser santa come il suo scopo, approfitta dell’urgente bisogno di questi solenni momenti, per adempire a delle particolari mire di cupidigià, e manomettere, così rendendo grave e dannoso il savio provvedimento del vigilante, dell’operoso, del giusto.
» E perciò protestando prima contro siffatti scandali, invitiamo tutti i proprietari colpiti di requisizione di cavalli, carri, e bestiami d’ogni genere, ad iniziare (sic) alla Commissione di ciò formalmente incaricata, tutte le respettive ricevute degli oggetti versati, od in mancanza di queste, il nome degli autori, relative forme di esecuzione, e tutti in fine reclami e danni sofferti che credessero opportuno, ed in diritto, produrre.
» Verificata così l’autorità degl’incaricati, si procederà con tutto il rigore ad estirpare e prevenire questo cattivo germe di più cattivi principi, colla punizione del reo, col compenso, e colla protezione sicura e valida al cittadino offeso...!
» Cessa, colla pubblicazione del presente, ogni qualsiasi mandato di requisizione di cavalli.
» Roma 6 maggio 1849.
» Per la Commissione |
Il Monitore del 9 poi informava il pubblico che una mano ignota, appartenente (dice l’articolo) al partito antirepubblicano, penetrò nel museo Vaticano e ne aperse tutte le porte onde renderne l’entrata facile a quante persone avesser voluto introducisi. Il civico Casanova però avendo scoperto il tutto al ministro Sterbini, si riuscì a preservare quegli oggetti inapprezzabili dalla minacciata rapina.15
E non ostante tutto ciò convien credere che si proseguisse nei disordini, contro i quali un grido di riprovazione generale erasi già fatto sentire, perchè lo stesso ministro della guerra Avezzana, in un ordine del giorno, sforzavasi di reprimere gli attentati che commettevansi contro le proprietà e le persone, e chiamavane responsabili i capi dei Corpi.16
Ma altro e più significativo documento ci somministra la storia nel proclama che lo Sterbini come presidente del comitato dei circoli di pubblica sorveglianza emise, c col quale inveivasi contro i ladri che avevano usurpato le proprietà private e nazionali. Esso terminava con un morte ai ladri.17
La stessa commissione delle barricate pubblicò un indirizzo ai Romani il giorno 12, contro gli abusi commessi a loro danno.18
Erano poi stati tali e tanti i guasti, le ruberie, e le manomissioni commesse vergognosamente in quell’emporio della principesca grandezza romana ch’è la villa Pamphily, ove conservavansi perfino molti oggetti appartenuti alla celebre donna Olimpia, che denunziati all’autorità, provocarono la condanna (per parte di un Consiglio di guerra il giorno 12) del sotto tenente Gaetano Franchini alla pena di morte, commutata poi ai lavori forzati. Ed il comune Paraccini per insubordinazione veniva condannato a tre anni di lavori forzati.19
Il giorno 15 finalmente il ministro di guerra Avezzana diramava una circolare contro gli abusi della forza, i soprusi, e le manomissioni che alcuni soldati permettevansi, le intemperanze e le smodate pretese delle amministrazioni di parecchi corpi militari, e lo sciupo di paglia, legna, torcie ec.20
Arresterem qui la rattristante narrazione di questi fatti, di cui a mal in cuore dovemmo cercar le tracce. Sono essi constatati dai documenti pubblici, e la loro semplice enunciazione è sufficiente a ritrarci il vero stato di Roma in quei giorni nefasti. Tutto ciò accadde nella prima quindicina di maggio e noi ne parlammo perchè i documenti ce ne sopperivano l’occasione; ma il buon senso dirà se in quel cataclismo morale è presumibile che non ne occorressero degli altri moltiplici, le cui tracce siano completamente svanite. Chi può aver registrato questo o quel fatto parziale che o nelle officine o nelle case private o nei conventi accadeva, e che rimaneva occulto? Chi potrebbe enumerar le minacce, le violenze, le improntitudini e gli abusi della forza brutale? Chi le infinite vessazioni, le requisizioni violente, gli attentati alle proprietà, le infrazioni dei diritti, le offese alla inviolabilità del domicilio, alla santità de’ giuramenti, al rispetto del virginal pudore? Si rifletta che in quel tempo la stampa era imbavagliata, e che a parte la legge che imponeva silenzio, il terrore bastava perchè ognuno si astenesse dal segnalare atti nefandi, il cui discoprimento poteva tornare a proprio danno.
Noi enumerammo requisizioni, perquisizioni, arresti, fucilazioni minacciate, fucilazioni eseguite, massacri di carne umana, invasioni di conventi, distruzione di fabbriche, incendi di carrozze, e tutto constatato con documenti pubblicati da chi avrebbe dovuto tacere, e nel tempo in cui interessava di sopprimerne la cognizione. Se tanto fu dunque il palese, quanto di più non sarà rimasto nascosto? Quelle sole espressioni del commissariato di guerra «infiniti ed inconcepibili abusi e bassezze» che riportammo di sopra, non dicono più che non faccia d’uopo per immaginare il resto?
Parleremo a suo tempo della commissione creata dai Francesi per il ricupero e la restituzione degli oggetti requisiti o derubati vergognosamente. Ne conserviamo nella nostra raccolta le sedici liste in foglio atlantico che furono stampate, le quali presentano nientemeno che la cifra di 2815 articoli, tutti oggetti derubati.21
E pur non ostante un primo ministro inglese non ebbe rossore d’insozzare la sua bocca in tempi a noi più vicini, facendo l’apologia dell’epoca repubblicana in Roma, e anteponendola a quella ch’esso chiamava tirannia clericale?
Ma ora veniamo a parlare di alcune scene comiche occorse sullo stradale di Albano, ove parve ai repubblicani di riconoscere (e ne segnalarono l’annunzio) alcuni scontri o particolari combattimenti coi Napoletani. Narreremo minutamente ciò che il governo rese di pubblica ragione.
Prima di tutto però diremo che fin dal giorno 2 il triumvirato dette un cenno della mossa dei Napoletani, mediante un proclama. Il giorno 3 poi ne emanava un altro del tenore seguente:
- «Popoli della Repubblica,
» Le truppe napoletane hanno invaso il vostro terreno, e marciano su Roma.
» Cominci la guerra del popolo.
» Roma farà il suo dovere. Le provincie facciano il loro.
» Il momento è giunto per uno sforzo supremo. Per quanti credono nella dignità dell’anima loro immortale, nella inviolabilità dei loro diritti, nella santità dei giuramenti, nella giustizia della Repubblica, nella indipendenza dei popoli, nell’onore italiano, è debito in oggi l’agire. Per quanti hanno a core la propria libertà, le proprie case, la famiglia, la donna dell’amor suo, la » terra nativa, la vita, l’agire è necessità. Vita, libertà, averi, diritti, ogni cosa, cittadini, v’è minacciata; ogni cosa vi sarà tolta. Il re di Napoli innalza per noi la bandiera del dispotismo, della tirannide illimitata. I primi suoi passi son segnati di sangue. A caratteri di sangue sono scritte le liste di proscrizione. Voi avete per troppo lungo tempo parlato, mentre gli altri spiavano e registravano. Non v’illudete. Oggi, la scelta sia per voi tra il patibolo, la miseria, l’esiglio o il combattere e vincere. Popoli della Repubblica, ogni incertezza, ogni esitazione sarebbe viltà, e viltà senza frutto.
» Sorgete dunque e operate; l’ora che decide è sonata. Schiavitù, quale non l’aveste giammai, o libertà degna delle antiche glorie, lunga securità, ammirazione da tutta l’Europa.
» Sorgete ed armatevi. Sia guerra universale, inesorabile, rabbiosa, poich’essi la vogliono. E sarà breve.
» Mentre Roma assalirà il nemico di fronte, ricingetelo, molestatelo ai fianchi, alle spalle. Roma sia il nucleo dell’esercito nazionale del quale voi formerete le squadre.
» Resistete dovunque potete. Dovunque la difesa locale non è concessa, i buoni escano in armi; ogni cinquanta uomini formino una banda, ogni dieci una squadra nazionale, ogni uomo di non dubbia fede, che raccoglie i dieci, i cinquanta, sia capo. La repubblica darà premio e riconoscenza.
» Ogni preside diriga i centri d’insurrezione; inciti, ordini, rilasci brevetti di capi-banda o di capi-squadra. La Repubblica terrà conto dei nomi, e retribuirà in danari, terreni ed onore. Il brevetto serva come foglio di via, che i Comuni, soccorrendo, vidimeranno.
» E tutte le bande, tutte le squadre, tormentino, fuggendone l’urto, il nemico: gli rapiscano i sonni, i viveri, gli sbandati, la fiducia; gli stendano intorno una rete di ferro che si restringa, lo comprima ne’ suoi moti e lo spenga.
» L’insurrezione diventi per poco la vita normale, il palpito, il respiro d’ogni patriota. I tiepidi sieno puniti d’infamia; i traditori, di morte.
» Come fu grande in pace, sorga la Repubblica terribile in guerra.
» Impari l’Europa che vogliamo e possiamo vivere. Dio e il popolo benedicano all’armi nostre.
» Dato dalla Residenza del Triumvirato li 3 maggio 1849.
» I Triumviri.»22
L’originale di questo feroce proclama, tutto di carattere del Mazzini, è nella nostra raccolta.23
Preoccupato sempre il governo romano dall’avvicinarsi de’ Napoletani, pubblicava il giorno 4 un dispaccio telegrafico annunziante che i Napoletani si vedevano alle Frattocchie. 24 Ed il 5 altro dispaccio telegrafico dava avviso di uno scontro dei nostri co’ Napoletani a Torre di mezza via e della fuga di questi ultimi.25
Il giorno 6 altri scontri fra i medesimi, fondati egualmente sopra dispacci telegrafici, venivan pubblicati, ed annunciavasi pure l’ingresso di parecchi prigionieri napolitani i quali si attesero e non giunsero.26
Il 7 poi, lo stesso triumvirato avvisava i Romani, con atto del giorno antecedente, che i combattimenti coi Napolitani accennati il giorno 5 e 6 furono uno sbaglio, ed aggiungeva che si sarebbe provveduto affinchè venisser regolarizzate ognora più le comunicazioni telegrafiche, e che gli apportatori di false notizie sarebbersi severamente puniti.27
Agli inconvenienti, ai timori, alle irregolarità di ogni genere, di cui poco sopra pretessemmo la storia, sono pur da aggiungere le false notizie che venivano, non dai trivi e dai caffè, sibbene dalla stessa autorità, e ne abbiamo qui sopra un irrefragabile documento.
Ora abbiamo altro aneddoto semi-comico da narrare, ma di una incontestabile importanza per le conseguenze che poteva produrre; vogliam dire la restituzione dei prigionieri francesi fatti il 30 di aprile, de’ quali abbiamo parlato nel capitolo precedente.
Prima però di narrare il fatto della restituzione ed il decreto che la ordinò, crediamo necessario raccontare l’accesso formale del famoso Paradisi presso i detti prigionieri, la sua interpellazione, e l’atto legale che ne fu compilato.
Estragghiamo tutto ciò da quel foglio stampato che in allora si pubblicò, e che diceva come appresso:
«Nel nome di Dio e del Popolo.
» L’anno primo della Repubblica Romana, dell’era volgare 1849.
» Il giorno di sabato 5 del mese di maggio.
» Si certifica da me Giacomo Frattocchi notaio pubblico di Collegio residente in Roma con officio in via delle Muratte numero 20, qualmente a richiesta del cittadino Filippo Paradisi quondam Tiberio romano, ed in forza di ordine del Triumvirato che autorizza il suddetto Paradisi a parlare con tutti i prigionieri francesi, sotto questo istesso giorno mi sono recato presso l’interprete di lingua francese in questi nostri tribunali, cittadino avvocato Felice Compagnoni munito di diploma a me esibito in data 8 aprile 1848, firmato C. E. Muzzarelli S. R. R. Decanus, e tutti uniti ci siamo portati nel Forte S. Angelo, ed ivi abbiamo parlato con i due prigionieri Alessandro Picard capo di battaglione del ventesimo di linea del dipartimento Jura, Franche-Comté, e con Louis Jermelet sottotenente del decimo di linea nato a Morlaix dipartimento di Finistere, figlio di capo battaglione in ritiro. Quali due ufficiali interpellati dal Paradisi a dirgli quale fosse l’opinione degli armati francesi nel venire a Roma, ed esternare le cause di tale spedizione, hanno concordemente detto le seguenti espressioni in lingua gallica, che dal suddetto interpetre mi sono state dettate in idioma italiano:
«L’opinione di tutti i Francesi spediti in Roma e la nostra propria formata da relazioni avute dal Governo o emanazioni di esso, era che la Repubblica Romana fosse stata proclamata da una banda di uomini che ha agito con violenza, non dal voto generale, e perciò essere una minorità faziosa imponente la sua volontà con violenza alla maggiorità desiderosa di altro sistema; che quei pochi uomini avevano arrestato il commercio e spogliato i magazzini, essere la città intera la vittima degli orrori di una anarchia; per le discorse cose ben convenire alla Francia il ristabilimento dell’ordine in una città rispettabile, e ciò tanto più sollecitamente in quanto che il Governo era prevenuto essere i Napolitani e Tedeschi già in marcia, e già nel territorio romano per riportarvi lo statu quo, e per conseguenza sul riflesso che un intervento napolitano ed austriaco avrebbe privato i Romani di tutte le libertà alle quali hanno diritto i popoli civili, ed avrebbe ricondotto il pieno dispotismo dell’antico governo, erano i Francesi ben contenti di combattere contro una fazione, e contro i nemici della libertà. Per soprappiù si diceva nel campo che in Roma tutti avrebbero voluto il governo del Papa, se una forza si fosse contrapposta alla fazione di cui sopra.»
» E qui, avendo il Paradisi interrogato gli ufficiali quali siano stati i risultati delle loro osservazioni sia in Civitavecchia, sia nel campo, sia in Roma, hanno concordemente risposto — che giunti a Civitavecchia dovettero ammirare l’ordine di quella città in cui neppure il menomo atto di anarchia udirono o videro, nè ascoltarono da veruno sussurrare nè in Civitavecchia nè in Roma, traversandole, una parola di affetto, di plauso, di desiderio verso Pio IX; che anzi conoscendo un poco il Picard la lingua italiana con altri molti ufficiali dell’armata udirono universalmente: «Il governo dei preti non lo vogliamo più. Il Papa torni pur quando voglia per le cose di religione, a noi poco importa .» —
Udite tali dichiarazioni il Paradisi si è licenziato dai detti ufficiali dicendosi scambievolmente le parole — Noi siamo amici, noi siamo fratelli perchè siamo veri repubblicani , ed abbiamo combattuto solo perchè traditi. — Dopo ci siamo diretti alla Chiesa Nuova, luogo nel quale sono tenuti i prigionieri, ed ivi reso ostensibile il permesso del Triumvirato, è stato il Paradisi, con l’interprete e me notaro, condotto in un salone nel quale sono trattenuti i prigionieri francesi, ai quali il Paradisi ha dirette le parole:
«Repubblicani Francesi, soldati di onore! Un repubblicano romano, un vostro fratello, uno che abborre la tirannia, desidera parlarvi.» Tutti i prigionieri in una massa di più centinaia hanno circondato il Paradisi con somma attenzione gridando — Viva la Repubblica, viva la Repubblica Romana, viva la Francia, e qualche voce, non il Governo attuale di Francia. — Dopo queste parole tacquero tutti, e Paradisi ha detto:
«Francesi, il vostro onore può esser compromesso da un Governo che si lega con l’Austria, colla Russia e coll’abominevole Gaeta. Quelle volpi, anzi quelle tigri, non possono togliere però alla Francia quel sublime posto che occupa fra le nazioni generose: l’articolo quinto della Costituzione è imbrattato, reclama il vostro sostegno. Perchè, o fratelli, è stato a voi detto, marciate sopra Roma? Perchè i Napolitani e gli Austriaci vogliono atterrare la libertà di un popolo, e perchè una mano di uomini esercita violenza, e porta l’anarchia in una città che siede tuttora regina del mondo. In quanto a respingere i Napolitani e gli Austriaci, santa era la vostra missione, e gloriosi potevate calcare il territorio della Repubblica Romana, ciascuna zolla del quale ricorda un eroe. Ma se in Roma, meglio, in Civitavecchia, ordine e vera unanimità di pensiero repubblicano voi avete osservato, se in noi avete veduto i non degeneri figli dei Grandi, come, e perchè, o fratelli, avete potuto contro noi scaricare i vostri moschetti, far tonare i vostri cannoni? Noi conosciamo come e quanto foste ingannati. Io più degli altri ora il conosco perchè ho parlato in questo momento col vostro capo di battaglione Picard, col vostro sottotenente Jermelet, li conoscete voi? (tutti, sì) li stimate voi? (tutti, sì). Or bene ascoltate quanto quei male avventurati hanno dichiarato, e se è vero, giureremo insieme di combattere uniti i nemici della libertà dei popoli: e chi contro Francia, unita sui campi della gloria d’Italia? Scendete dai troni, o tiranni!» (Tutti gridarono: leggete le parole di Picard, del bravo Picard).
» Qui il Paradisi ha letto a chiarissima ed intelligibile voce la deposizione di Picard e Jermelet, interrotta più volte da grida unanimi — è vero, è vero, tradimento vi è stato. I Romani sono bravi, amano, meritano la Repubblica, — e si è chiusa questa scena commovente coll’abbracciarsi, e col giuramento vivamente espresso stringendo tutti le mani del Paradisi: noi combatteremo i tiranni, i nemici dalla libertà; al che il Paradisi ha chiuso il suo dire: «Scrivete in Francia, il Triumvirato, tutto che prigionieri, vel permette, tutte le cose che avete viste ed udite, e la vostra Assemblea, e la Nazione tutta dovrà dire con gioia — Al di là delle Alpi vi è un popolo, di cui ogni uomo è un leone, ogni moschetto una morte. —
» Addio, fratelli miei, l’avvenire è nostro: Dio è con» noi, vincere o morire.»
» Viva la Repubblica è stato il grido universale di tutti i soldati francesi che hanno chiesto subito facoltà di scrivere alle loro famiglie, ed ai loro amici in Francia.
» Filippo Paradisi quondam Tiberio.
» Avvocato Felice Compagnoni, interprete traduttore.
» Così è — Giacomo Frattocchi, notaro pubblico di collegio. In fede, ec.»28
Questa fu la prima parte della commedia; ora passiamo a parlare della seconda.
Il dì 7 maggio venne pubblicato un decreto per la liberazione dei prigionieri francesi. Esso era espresso così:
«Considerando che tra il Popolo Francese e Roma non è nè può essere stato di guerra;
» Che Roma difende per diritto e dovere la propria inviolabilità, ma deprecando, siccome colpa contro la comune credenza, ogni offesa fra le due Repubbliche;
» Che il Popolo Romano non rende mallevadori dei fatti d’un Governo ingannato i soldati che, combattendo, ubbidirono;
Il Triumvirato
» Decreta:
» Art. 1. I Francesi, fatti prigionieri nella giornata del 30 aprile, sono liberi, e verranno inviati al campo francese.
» Art. 2. Il Popolo Romano saluterà di plauso e dimostrazione fraterna, a mezzo giorno, i bravi soldati della Repubblica sorella.
- » Roma 7 maggio 1849.
» I Triumviri |
L’originale del presente decreto tutto di carattere del Mazzini è da noi posseduto.30
Due ore dopo, i prigionieri erano sulla piazza di san Pietro, e vi eran pure tutti i repubblicani romani per festeggiarli e dar loro l’osculum pacis & amicitiæ, che francescamentc chiamasi l’accolade. E accolades, e baci, e abbracci fraterni s’intrecciarono numerosissimi. Può immaginare ognuno se tanto pei Francesi liberati, quanto pei Romani liberatori, dovesse esser quello davvero un momento di gioia festevole, e direm pure commovente. La generosità romana che abbiamo redato trova sempre la sua applicazione in quel famoso parcere subjectis & dedebellare superbos. A parte l’astuzia che in questo caso potrebbe tradursi gallicamente col vocabolo arrière-pensée, l’atto summenzionato portava l’impronta di generosità, e d’amore nel tempo stesso. Era cosa che sentiva dell’antica Roma e portava per soprassello lo spirito del Vangelo di Cristo, ch’è tutto fondato sulla pace e su la carità fra gli uomini.
Vennero i Francesi dalla parte di piazza di Venezia accompagnati da immenso popolo, guardia nazionale, e truppe, intanto che i quattordici ufficiali di quel corpo di truppa, dopo fatta la visita al Mazzini, discesero accompagnati dagli ufficiali romani alla trattoria di Bertini, ove furono trattati di lauto banchetto. Difilaron quindi ufficiali, soldati, popolo e truppa, pel Corso, via dell’Orso, e castel sant’Angelo, per recarsi tutti a san Pietro.
Colà giunti, entrarono tutti in chiesa; e mentre i Francesi ammiravano l’augusta mole costruita da Michelangelo, il cittadino Filopanti, deputato per Bologna, prese a dire:
«Français et Italiens, dans ce lieu saint et sublime, prions ensemble le Tout-Puissant pour la délivrance de tous les peuples des chaînes de la tyrannie, pour la fratenitè universelle. | «Francesi e Italiani, in questo luogo santo e sublime preghiamo insieme l’Onnipotente per la liberazione di tutti i popoli dalle catene della tirannia, per la fraternità universale .» 31 |
Dopo pronunziate queste parole, tutti con subito e simultaneo moto si posero in ginocchio. Cosi racconta il Monitore.
Siamo ancor noi nemici giurati della tirannia, dall’alto o dal basso che venga, e saremmo pur lieti se tutti i popoli dell’universo potessero amarsi fra loro come fratelli. Pur tuttavia quella fraternità universale, augurata dal Filopanti, disvela chiaramente quale fosse l’ultimo fine della rivoluzione romana, vogliam dire la repubblica universale.
Ebber quindi luogo evviva e saluti e abbracciamenti fino all’ultima barricata alla porta Cavalleggieri; e così accomiataronsi i liberati Francesi dai liberatori Romani.
Volgendo ora gli sguardi ai mezzi di difesa che escogitavansi dal governo romano per affrontar l’attacco delle quattro potenze, racconteremo che il 20 marzo, come dicemmo a suo luogo, fu data un commissione di armi. Giunsero queste in Civitavecchia, ma giunsero mentre i Francesi vi erano sbarcati. Le armi quindi furon sequestrate dal generale Oudinot.
Venne con esse il negoziante inglese Anthony, e si recò subito a me che scrivo, per sapere come andavano le cose di Roma; mi raccontò dell’arrivo delle armi, del loro sequestro e del suo essere tuttavia creditore di 500 lire sterline per il prezzo delle medesime. Lo diressi subito al triumvirato, il quale trovato giusto il suo reclamo, saldò l’Anthony procurandosi dal banco Torlonia una cambiale di lire 500 sterline pagabile a Londra. Non ho bisogno di produrre documenti: son cose di fatto, e i registri camerali sono là per attestare la verità. La mia qualifica nel banco anzidetto è troppo nota; ond’è che non occorrono altre spiegazioni.
Convenendo però rimpiazzare e subito le armi sequestrate, il giorno 9 si richiesero allo stesso banco cambiali per lire 3,500 sterline, le quali furono rilasciate sopra la casa Baring colla condizione di non pagarle se non dietro la esibita della poliza di caricamento delle armi. Esse però non giunser mai in Roma perchè occupata dai Francesi.
Posteriormente il governo pontificio mosse querela alla famiglia Armellini, e richiese spiegazione sull’impiego della somma sovraccitata; e in pendenza della risposta mise sequestro sui beni della famiglia.
La quale però giustificatasi pel fatto constatato che il danaro aveva servito per il prezzo delle armi, e che non fu pagato se non quando le armi erano state spedite, furono gli Armellini assoluti dalla querela, liberati dalle molestie, e ritirato il sequestro a loro carico.32
In Roma intanto in cui, come dicemmo, non era nè morte nè vita, temevasi sempre da un momento all’altro per sorpresa l’attacco dei Francesi. I Francesi per verità non pensavano a questo, perchè veduta la resistenza di Roma, e riconosciuto che maggiore avrebber potuto incontrarla stante i sussidi che a Roma da tutte le parti d’Italia giungevano, attendevano invece rinforzi d’uomini e artiglierie d’assedio.
Ma la commissione delle barricate non si ristava per questo dal rafforzare i mezzi e gli espedienti di difesa in guisa, che accadendo un assalto improvviso, ritrovato avesser gli assalitori in ogni punto la resistenza e la morte.
Citeremo a tale effetto gli atti che emise nella prima quindicina di maggio.
Ordinava con atto pubblico del 1° che tutte le vetture e gli omnibus stesser pronti sulle piazze.33
Ed il 2 emetteva un proclama sui danni presuntivamente fatti dal generale Oudinot il 30. Eccone il principio:
«Il generale Oudinot aveva promesso di pagare tutti, e tutto in contante. Bene; paghi se può gli arazzi di Raffaello traforati dal piombo francese, paghi i danni, no i danni, l’insulto lanciato a Michelangelo.»34
Ordinava il 2 che al momento dell’allarme tutti gli armati recassersi ai centri che designava, e commetteva pure le barricate mobili, per opporre qualunque improvvisata ed eventuale resistenza,35 ed i triboli di ferro.36
Ed il giorno 4 ingiungeva ai possidenti di aste di legno di portarle alla commissione ordinatrice, per farne delle picche uncinate.37
Ordinava pure che tutti gl’inquilini di ogni piano tener dovessero pronti tre sacchetti di terra onde erigere alla occasione monti di terra per arrestare il nemico.38
E con atto del 5 si proibiva di mettere bandiere rosse dove non fosser poste dalla commissione.39
Con altro atto del 6 si faceva noto a’ cittadini che le strade libere alla artiglieria e cavalleria si sarebbero indicate con bandierette rosse40. L’atto diceva cosi:
- «Popolo!
» Le bandiere rosse indicano le strade che devono essere libere all’artiglieria e cavalleria. Nelle altre fate pur barricate a genio vostro, sempre in modo però che possa passare un uomo a cavallo.
» Dovete altresl osservare se in prossimità alle strade libere vi sono stabilimenti a cui sia necessario l’accesso delle vetture. In questo caso combinate coi capi del Rione.
» L’uso di queste bandiere è importante per noi, e per nulla giovevole al nemico; perchè le strade carrozzabili per noi, in un attimo cessano di esserlo per l’invasore, e perchè i nostri levano speditamente ogni segnale.
» Nelle strade in cui non sono le bandiere rosse, strappate il selciato, portate i sassi sulle fenestre e teneteli pronti.
» Quel sasso che avrà atterrato qualcuno degli sgherri della tirannide, diventerà una pietra preziosa.
» Donne romane! Siate avide di queste ricchezze. Raccogliete sassi micidiali, pietre inesorabili. Voi siete il premio promesso agli abbietti contaminatori. In queste cose la parola reale è sacra.
» Lucrezia si trafisse per l’onor suo. Voi, belle Romane, pel vostro, vincete.
- » Roma 6 maggio 1849.
» I Rappresentanti del popolo |
Questi consigli ferocemente ridicoli davansi ai Romani dalla commissione delle barricate.
È però da congratularsi che in questa feroce commissione non figurasse alcun nome romano.
Il giorno 9 fu pubblicato l’ordine della detta commissione diretto ai fabbri-ferrai nel quale si diceva: Cessate dal far triboli. «Quelli a quest’ora consegnati bastano.»41
Il detto giorno invitava coloro che avean somministrato materiali per le barricate ad esibire i conti entro tre giorni, per liquidarli.42
Un avviso venne pubblicato il giorno 10 da un Tito Savelli per la commissione delle barricate del 2° rione, affinchè al primo segnale di allarme, i cittadini del medesimo concorressero sulla piazza dei santi Apostoli per avere delle picche.43
Il giorno 10 venne pubblicato un proclama così concepito:
«Abbiamo taciuto questi giorni. Quando non si combatte, qnal voce può parlare dall’alto delle barricate?
» Oggi parliamo perchè si pugnò e si vinse.
» Garibaldi ha battuto i Napoletani. Prese tre cannoni. Morti, feriti e prigionieri in proporzione. Il nemico è confuso e si sbanda. Quel re che dal 15 maggio non era uscito di casa per paura de’ suoi fedelissimi sudditi, penserà ora a riattaccarsi nella sua reggia insanguinata.
» Un altro nemico, Oudinot, ritorna oggi a scrostare le nostre mura. Spiritoso ripiego per sciogliere il debito di riconoscenza contratto dalla Francia col dono e col bacio de’ prigionieri. Sì, ingrati! La vostra ingratitudine raddoppierà oggi il nostro valore e la nostra gloria.
- » Roma 10 maggio 1849.
» I Rappresentanti del popolo |
Questo proclama ci chiama a parlare dello scontro di Garibaldi con le truppe napolitane.
Il Garibaldi vincitore dei Francesi, volle fare una scorreria contro i Napolitani. Partì da Roma la notte del 4 alla testa di una brigata di duemilacinquecento uomini per la porta del Popolo. La mattina del 5 era a Tivoli, il 6 passò a Palestrina e l’occupò.
I Napolitani vedendo minacciato il loro fianco destro, mossero il 9 con sei mila uomini per attaccare Palestrina.
Erano col Garibaldi anche i legionari lombardi del Manara e due compagnie degli esuli: si attaccarono accanitamente i contendenti, ma dopo breve zuffa i Napolitani diedersi alla fuga, e vuolsi che perdessero tre pezzi di cannone. Così almeno si stampò.45
Il Garibaldi però conoscendo i rinforzi sopraggiunti all’oste borbonica, e temendo che gli venisse tagliata la ritirata, divisò di rientrare in Roma, tanto più che avea saputo che il generale Oudinot lanciato aveva alcune cannonate contro le mura di Roma, gittato un ponte sul Tevere, e occupato la basilica di san Paolo; le quali cose davano indizio non dubbio, che ad onta della restituzione dei prigionieri francesi, nudriva sensi d’inalterata ostilità contro i Romani repubblicani. Rientrava quindi in città alle 9 antimeridiane del giorno 11.46 Poco prima eran giunti alcuni che si disser prigionieri napolitani con fucili e altri oggetti.47 Dei cannoni peraltro non si parlò più.
Quanto al fatto di Palestrina questo solo sappiamo, che in Napoli si dette per una vittoria; che Palestrina venne illumipata; e che quantunque il Monitore48 assicurasse che nello scontro l’armata romana avesse avuto pochissimi feriti e meno morti, appena però fu conosciuto in Roma, una quantità di vetture fu inviata in Palestrina per caricare i feriti.
Lo stesso giorno in cui il Garibaldi rientrava, onusto come dicevasi di nuove glorie, si pubblicava un canto rivoluzionario del genere di quelli dell’epoca del terrore in Francia. N’era autore lo stesso Mastrella che figurò fra i membri della Costituente italiana,49 e che dette alle stampe quell’opuscolo di genere socialistico, di cui abbiamo parlato nel capitolo X. Ne trascriveremo alcuni brani affinchè se ne conosca lo stile, e si abbia un saggio degli intendimenti dei partigiani della repubblica rossa. Come poesia ci sembra non valer nulla, ma valere molto d’altra parte perchè ci dà una professione di fede politica degli uomini di quella risma. Ed è a tale effetto che crediamo di riportarlo per intero in Sommario. Ecco i brani prescelti:
«Libertade! delizia suprema |
Sembra che questo canto sia uno di quelli che possano applicarsi a tutti, ed in tutti i tempi. Esso fu composto (secondo l’intestazione) in Roma l’anno 1845, per eccitare gli Italiani alla libertà, e poi non ebbe corso. Apparirebbe in tal caso, che fosse stato fatto originalmente quando accadeva il moto di Rimini. Sedato quel moto, il componimento fatto inutile fu riposto in aspettativa di tempi migliori.50
Altra poesia pure fu divulgata e posta in musica dal maestro Magazzari. Essa incominciava cosi:
«Dell’Italia sulla terra |
E il «non più papa, non più re» era il verso che servir doveva d’intercalare.51
Detto inno guerriero o canto di guerra venivasi cantando per Roma la sera del 13 maggio, quando s’intesero due scoppi tremendi di mina, i quali essendo stati presi per cannonate, si credette giunto il tante volte predetto e temuto attacco dei Francesi. Ne seguiron subito un allarme ed uno scompiglio immenso. I timorosi rientravano nelle case, gli animosi ne uscivano. Chi correva di qua, chi di là, e chi dava subito di piglio all’armi; nè mancaron di quelli che fedelmente stando ai precetti, ponevansi a riconoscere la esistenza, o a rinforzar la sostanza de’ sacchetti di terra: cosa per verità che allora prendevasi in sul serio, e che ora eccita le risa a memorarla. La città venne in un istante illuminata. E tale fu l’effetto sorprendente della paura (la quale traducevasi per ispirito d’unione), che la città, senza esagerazione, venne illuminata in minor tempo di quello che impiegano i sampietrini per illuminare la mole vaticana. Si rinvenne però subito dall’errore, e ristabilissi la calma, perchè si seppe ch’erano scoppi di mina per far saltare in aria gli archi del ponte Milvio.52
Ai componimenti in versi è da aggiungerne uno in prosa che il giorno 15 fu pubblicato per le stampe. È una lettera del deputato Cesare Agostini a suo padre a Foligno sulle cose di Roma, e precipuamente sull’arrivo del signor Lesseps, del quale arrivo, come di cosa essenzialissima, parleremo diffusamente dopo.
Detta lettera è un capo d’opera di arcadica semplicità, e crediamo quindi, stante la sua singolarità e rarità, di riportarla interamente. — Eccola:
- «Carissimo padre,
»Grande notizia. La Francia ha mandato un commissario straordinario, monsieur Lesseps per verificare le condizioni morali della nostra Repubblica, e la condotta tenuta dal generale Oudinot, il quale oggi stesso voleva attaccare Roma. Meglio per noi ma anche per lui, che avrebbe ricevuto una disfatta terribile. Intanto le ostilità sono sospese, e la bandiera bianca sventola sull’accampamento de’ Francesi.
» Questo gran fatto è derivato dalla nostra condotta piena di lealtà, di coraggio, di generosità. L’Assemblea francese nella seduta del 7 disapprovò l’attacco di Oudinot, il quale non doveva entrare in Roma fuorchè nel caso che vi fosse stata decisa anarchia, o che vi fosse stato invitato. Ora poi il commissario francese vedrà coi propri occhi quanta calma, quanta dignità, concordia, ordine, coraggio e risolutezza vi alberghi; e la conseguenza sarà non solo il ritiro dell’armi francesi, ma forse anche un pronto riconoscimento. Questo fatto produce di già sì buoni effetti, che i boni del tesoro i quali si cambiavano al 35 e 40 per cento, oggi si cambiano al 16.
» Tolto il fastidio dei Francesi, batteremo fino all’esterminio i Napoletani. Coi Tedeschi poi faremo altri conti.
» Io ve l’ho scritto sempre; ero tranquillo sul destino della nostra Repubblica, e godo nel vedere che non m’illudeva. Coraggio e avanti.
- » Roma 15 maggio 1849.
» Affezionatissimo figlio |
Ma lasciamo in pace l’Agostini e le sue immaginarie beatitudini; sit tibi terra levis. Poniam da parte i canti selvaggi del Mastrella, le pasquinate del Cernuschi (spinte fino al punto di volerci provare che le bombe erano giocarelli trattabilissimi e quasi innocui), i bandi mistico-profetici del gran sacerdote Mazzini, e vediamo quante altre disposizioni governative ci resta ancora ad enumerare. E saran tante e così svariate, che ci sembrerà, secondo la mente di quei reggitori politici che il cielo c’impose sul collo, non esser già nati gli uomini per occuparsi de’ propri affari, per gustare le dolcezze domestiche, ed infine per viver la vita, ma si bene per leggere da mane a sera tutto ciò che dal triumvirato, dall’assemblea, dai ministri, dal Cernuschi, dal municipio, dai circoli, e da tutti i cervelli immaginosi del giorno, venivasi elaborando.
È dunque a sapere che il giorno 1 di maggio invitavansi i Romani a dare in nota que’ militi feriti che fosser ricoverati nelle loro case per essere curati.54 E il preside Livio Mariani invitava i proprietari della Comarca ad accorrere in Roma per difenderla.55 Ponevansi a disposizione del popolo i due conventi di santa Maria in Campo Marzo, e di santa Marta.56 Diramavasi poi il 2 una circolare del ministro dell’interno Saffi ai vari presidi dello stato per raccontare il fatto del 30 aprile.57 Abolivasi il 3 l’esercizio della Mano regia.58 Abolivasi la percezione di qualunque diritto per il conseguimento dei gradi accademici.59 E decretava il triumvirato il giorno 5 che le proprietà nazionali venisser poste sotto la salvaguardia del popolo romano.60 Prendevansi inoltre talune disposizioni per le farmacie.61 E decretavasi pure dal triumvirato la emissione di boni da 16 e da 32 baiocchi.62
La commissione intanto ch’erasi formats per porgere soccorsi ai feriti, ed alla testa della quale erano
- La Principessa Trivulzio di Belgiojoso,
- Enrichetta Pisacane,
- Giulia Bovio Paolucci, e
- Padre Gavazzi, avvertiva i Romani che due cittadini per ogni rione avrebbero fatto la questua pei feriti.63
Con circolare poi del 6 del sostituto del ministro dell’interno G. De Angelis, si ammonivano i commissari dei rioni a formare i centri per raccogliere le questue e i sussidi.64
Questi ultimi atti a sollievo dei feriti non possono non lodarsi, imperocchè tendevano ad alleggerire i mali di quegli sventurati, e quindi come atti umani e caritativi meritano un’attenzione speciale. Come pure è da lodarsi il provvedimento del municipio, il quale a prevenire abusi, soprusi, e angherie dandose alla popolazione in que’ momenti tristissimi, ordinava a tutti coloro che avean depositi d’olio, di darne l’assegna.65 Abolivansi inoltre tutti i rescritti o nomine di soprannumerati o successioni a impieghi e cariche. 66 Diminuivansi pure per ordine del ministro delle finanze i dazî sopra talune merci e generi di cui davasi la nuova tariffs.67 E con ordine sempre del 6, del ministro della guerra, disponevasi che sul forte sant’Angelo sventolasse la bandiera rossa in tempo di combattimento, e quella tricolore in tempo di tregua.68
Altri provvedimenti adottavansi dal municipio relativamente agli spacciatori di olio.69
Con decreto dell’8 il triumvirato ordinava la cessazione dei frutti sui boni del tesoro dal giorno 30 aprile.70 E dava talune disposizioni sui tribunali di appello di prima istanza.71
Nell’intendimento poi di prevenire o riparare le requisizioni illegali, che pur troppo eransi commesse e commettevansi, veniva formata una commissione più ristretta, di cui eran membri:
Ed all’oggetto di concentrare talune amministrazioni di cose di finanza, decretavasi che una stessa Direzione generale avrebbe compreso le seguenti:
Dazio consumo
Sali e tabacchi
Diritti riuniti
Stabilimenti delle saline.73
Pubblicavasi poi nello stesso Monitore del 9 la lista dei cittadini del 3° rione Colonna i quali aveano offerto spontaneamente i loro argenti al governo.74
La parola spontaneamente però richiede una spiegazione. Non può dirsi che fosser presi i cittadini e costretti, come suol dirsi, col coltello alla gola. Furono invitati bensi e di bonissima grazia da Ballanti, preside del rione 3°; ma in quei tempi, e stante ciò ch’erasi veduto accadere in Roma in sui primi di maggio, ricevere un invito da una autorità governativa, e non ottemperare al medesimo, non sarebbe stata cosa prudente. Si converrà pertanto che alla paura si dovette in gran parte ciò che in fatto di argenti venne consegnato alla repubblica la quale però ad omaggio del vero, pagò a ciascuno l’equivalente.75
È inoltre a sapersi che fin dal 29 di aprile era stato arrestato in Firenze il dottor Pietro Maestri) inviato della repubblica romana. Venuto di ciò in cognizione chi in Roma imperava, pose agli arresti, per rappresaglia, il console toscano cavalier Pandolfini.76 Il Monitore del 9 poi mentre annunciava che il Maestri era stato rilasciato e consegnato ai confini, annunciava ancora che il governo romano, quantunque potesse fare altrettanto, pure avea rilasciato il Pandolfini liberamente.77|È inoltre a sapersi che fin dal 29 di aprile era stato arrestato in Firenze il dottor Pietro Maestri) inviato della repubblica romana. Venuto di ciò in cognizione chi in Roma imperava, pose agli arresti, per rappresaglia, il console toscano cavalier Pandolfini.78 Il Monitore del 9 poi mentre annunciava che il Maestri era stato rilasciato e consegnato ai confini, annunciava ancora che il governo romano, quantunque potesse fare altrettanto, pure avea rilasciato il Pandolfini liberamente.79
Accordavasi il 10 dall’autorità una nuova proroga al termine perentorio pel pagamento delle cambiali in iscadenza fra’ commercianti, protraendolo fino al 20 di maggio.80
Decretavasi che si formassero delle abitazioni per uso de’ cittadini nel convento di san Silvestro in capite. Ciò per altro non ebbe effetto, perchè quel locale rimase sempre occupato dalla legione del Garibaldi.81
Decretavasi pure che tutti gli ospedali eran dichiarati proprietà della repubblica.82
Ordinavasi il giorno 11 che pel 21, il tribunale supremo della repubblica incominciasse a tenere le sue sedute.83
Pubblicavansi inoltre nel detto giorno 2 alcuni proclami risentitissimi del triumvirato, uno in italiano a’ Romani, l’altro ai Francesi nella lor lingua.84
Quello ai Romani diceva fra le altre cose:
«Il generale Oudinot trascina di bel nuovo i suoi soldati contro Roma. Ben venga: Roma lo aspetta senza paura, senza millanteria, fidente nella giustizia della sua causa, e nell’aiuto dei Dio di giustizia.
» . . . . . . . .
» Romani! i vostri padri ridotti a ben altre estremità che noi non siamo, si ritrassero nel Campidoglio, respinsero i ripetuti assalti dei Galli, e li costrinsero a fuggire. Il generale Oudinot, grazie al Cielo, non è più terribile di Brenno, e Roma non è pur anche ridotta a difendersi nel breve giro del Campidoglio.»
E quello ai Francesi che traduciamo era in principio così concepito:
«Per la seconda volta voi siete spinti quali nemici sotto le mura di Roma, della Città Repubblicana, che fu un tempo la cuna della libertà e della grandezza militare.»
Terminava con queste parole:
«Soldati francesi! Soldati della libertà! Non marciate contro i vostri fratelli. Le nostre battaglie son le vostre.
» Che i due Vessilli tricolori si congiungano e marcino insieme all’affrancamento de’ popoli, alla distruzione dei tiranni! Dio, la Francia e l’Italia benediranno le vostre armi.
- » Viva la Repubblica Francese!
- » Viva la Repubblica Romana!
» Roma, li 10 maggio 1849.
» I Triumviri.»
Desiderosa la repubblica di ammassare danaro contante, nè sappiamo comprenderne il motivo, perchè i suoi biglietti erano ricevuti senza difficoltà veruna, e con essi a tutto poteva sopperirsi, aggiunse alla richiesta dei presidi de’ rioni per gli argenti lavorati, quella per l’oro e l’argento monetato; ed a tal effetto il triumvirato in data del 10 avvertiva i Romani che il rappresentante del popolo Minucci ed il notaro Gaggiotti erano incaricati di requisire denaro, contro biglietti della repubblica alla pari.85 Recavansi di fatti nei banchi, negli stabilimenti commerciali, e nelle case dei privati per eseguire il loro mandato. Non ci consta che commettessero violenze. Recaronsi al banco Torlonia e parlarono con me che scrivo. Ma siccome non avevamo che carta, non ottennero neppure un soldo, e se ne ritornaron via di buona grazia, e come suol dirsi, colle pive nel sacco; ma a lode dei vero, neppure una parola men che misurata pronunziarono.
Creavasi pure il giorno 12 una commissione per liquidare i danni sofferti da coloro cui eransi distrutte le proprietà, e non furon pochi, perchè nel raggio di circa mezzo miglio intorno alla città quasi tutte le case di campagna vennero quali prima, quali dopo interamente atterrate. Nè alle case soltanto limitaronsi le devastazioni. Ed affinchè i nostri lettori possan farsene una idea più chiara, sottoponiamo loro un riepilogo delle più notevoli fra le medesime. Eccole:
Nell’esterno della città
1° Il ponte Milvio (ponte Molle) fuori la porta del Popolo.
2° La villa Borghese ed i casini, compreso quello di Raffaello, fuori quella porta.
3° La villa ed il palazzo Patrizi fuori la porta Pia.
4° Il palazzo della villa già Lucernari, oggi Torlonia, fuori la porta Pia.
5° La villa Vagnuzzi, già Poniatowsky, fuori la porta del Popolo.
6° Il casinetto di villa Albani fuori la porta Salaria.
7° La villa ed il palazzo della baronessa Salvage de Faverolles, già appartenente agli Altoviti, nei prati di Castello, incontro al porto di Pipetta. La baronessa suddetta era una delle più intime amiche della famiglia di Napoleone Bonaparte.
8° La vigna ed il casino Farina ai prati di Castello appartenuta agli Altoviti, ove erano affreschi dello Zuccari e sculture.
9° La vigna e l’elegante casino dei Monachesi sulla strada di porta Angelica.
10° La nota osteria di Baldinotti fuori la porta san Giovanni.
11° Il ponte sul fiumetto detto la Marrana o Acqua Crabra, traversante la strada che mette a porta san Sebastiano.
12° Tutti o quasi tutti i casini delle ville all’intorno di Roma, fino al raggio di un mezzo miglio circa.
Nell’interno della città
1° Le case dopo il castel sant’Angelo, all’ingresso dei Borghi.
2° Parte del viadotto che mette in comunicazione il Vaticano col castel sant’Angelo.
3° Le case a destra del teatro di Apollo, del quale più tardi si minacciò la distruzione, e a grave stento riesci d’impedirla.
Più, parte dei conventi
Di santa Marta
Di santa Maria in Campo Marzo
Della Nunziatina all’arco de’ Pantani
Di santa Maria dell’Umiltà
Di san Silvestro in capite.
Inoltre gli alberi
Al foro romano
A Termini
Per lo stradone che da san Giovanni in Luterano conduce
a santa Maria Maggiore
Fuori di porta Angelica,
Molti di quelli della villa Borghese.
Tutti questi atterramenti o devastazioni che rimaser per vari mesi alla vista del pubblico, le barricate che ingombravano gran parte delle vie di Roma, la terra che per comodo della cavalleria vedevasi nelle strade principali, la quiete sepolcrale di tutte le famiglie pacifiche ch’eransi rintanate nelle proprie case, il non veder più nè equipaggi, nè livree, nè uniformi gentilizie, nè decorazioni, nè le varie assise del clero regolare e secolare, davano a Roma lo spettacolo più rattristante. Aggiungi il pericolo impellente per parte degli esteri che presto o tardi si sapeva che dovessero prender Roma. Aggiungi anche il pericolo d’interni commovimenti, il timore di lotte per le vie della città, di stragi, d’incendi e di rovine, e poi dica ognuno cui sia dato di leggere le presenti carte, in qual misero stato questa povera città fosse piombata.
Riassumendo la narrazione degli atti governativi diremo che con decreto del 14 dichiaravasi traditore della patria qualunque funzionario militare o civile che abbandonasse il suo posto.86
Nominavasi pure, con decreto del triumvirato, generale di divisione il colonnello Roselli.87 Ed il ministro della guerra Avezzana, mentre con un ordine del giorno confermava la detta nomina, promoveva al grado di generale di divisione il generale di brigata Garibaldi.88
In questo affastellamento di atti pubblici che abbiamo citato, noi rinvenimmo e decreti, e ordini del giorno, e avvisi, e proclami, e bullettini in tal numero, da stancare chi deve riportarli e chi deve leggerli, quantunque non trattisi che della semplice enunciazione; ma reputammo pur non ostante utile e doveroso il richiamarli tutti alla memoria, affinchè i nostri lettori farsi potessero una giusta idea della vita attiva ed energicamente operosa che rivelavasi nei reggitori della repubblica, e che ci porta a ripetere ciò che abbiam detto altra volta, cioè che se per una migliore e più stabile causa avessero esercitato questa loro innegabile attività, avrebber potuto produrre beni immensi, laddove stante la incompatibilità de’ loro principi, il bene noi vedemmo sorgere, e del male assaporammo gli amari frutti.
Ciò poi che è da stupire si è, che tutte queste disposizioni governative denotavano una tale fidanza da far giudicare ch’essi credessero dover durare eterna la loro vagheggiata repubblica, mentre per converso egli era appunto in quel momento che veniva da tutte le parti attaccata.
Difatti era ella assalita dai Napoletani in Palestrina e dagli Spagnuoli che possessori già di Terracina, Nettuno e Porto d’Anzio, sbarcavano pomposamente a Fiumicino; minacciata dai Francesi sotto le mura di Roma; attaccata dagli Austriaci in Bologna: e perfino in Ascoli doveva combattere le orde del prete Taliani, che eran tornate a nuovi assalti.
L’arrivo degli Spagnuoli era annunziato dal triumvirato ai Romani con un proclama che così diceva:
- «Romani!
» Anche la Spagna vi manda, in superbe parole, com’è il suo vezzo, una insolente disfida.
» Così il coro è completo.
» Austria, Francia e Spagna, ritentano la vecchia storia, rispondendo alla chiamata di un Papa.
» Se non che la storia non copia mai sè medesima, e contro l’antico costume sta la nuova coscienza de’ Popoli.
» Dietro le baionette del Generale Oudinot è la generosa Nazione Francese; dietro l’imperiale spada di Radetzky sono i prodi Ungaresi e la democrazia di Vienna; dietro l’altiero idalgo che minaccia Fiumicino è una gente che non ha più la forza che vinse i Mori, nè l’oro del nuovo mondo.
» Pertanto, sian due, sian tre, la differenza è poca, e Roma non si rimuove dal suo alto proposito.
» Questi nostri visitatori trovarono, tre secoli e mezzo or sono, un’Italia morente; ora trovano una Italia che sorge, l’Italia del popolo.
» Il popolo romano, che sente il debito di smentire le loro calunnie, di combattere le loro ingiustizie, di compiere la sua missione col salvar Roma e l’Italia, li attende impavido e fermo alla prova.
» Un popolo che ha una missione da compiere nel cospetto della umanità e dell’eterna giustizia non può morire.
» Roma 7 maggio 1849.
» I Triumviri. |
Il proclama difatti del comandante spagnuolo dalle spiaggie di Fiumicino del 6 maggio eccitò molta ilarità in Roma pel suo stile gonfio, e per la ignoranza geografica del luogo. Sentire un duce d’armata che parlando di Fiumicino crede di aver fatto una grande conquista, e s’indirizza alle autorità civili, militari ed ecclesiastiche, del luogo, sperando che non faranno resistenza, e si sottometteranno come fecer quelle di Terracina, Nettuno, Porto d’Anzio, ed altre della costa Tirrena, non poteva non far si, che chi conosce Fiumicino non isganasciasse dalle risa.90 La conquista difatti della città di Fiumicino, e la sottomissione di quelle autorità civili, militari ed ecclesiastiche, e di quelle popolazioni ritraeva qualche cosa dei fatti del Don Quichotte. Il Don Pirlone ne dette subito una caricatura.91
Entrati gli Austriaci in pari tempo nel territorio delle legazioni ed appressatisi a Bologna minacciavanla di assalto. Il 6 maggio quattromila Austriaci invaser Ferrara, ed il generale Wimpffen dal quartiere generale di Castelfranco, dirigeva agli abitanti degli stati romani un proclama col quale annunziava che riconduceva il commissario pontificio (ed era monsignor Bedini) per ristabilire il legittimo governo di Sua Santità.92
Commossi il municipio e le autorità principali di Bologna, non risolvevansi alla resistenza, temevano il prepotente nemico, temevan pure il popolo in armi. Il giorno 7 però straripato il torrente popolare, le armi furono consegnate al popolo bolognese. E in detto giorno il preside Biancoli emise un proclama accennante a resistenza.93
Giunsero la notte del 7 gli Austriaci in numero di seimila sotto la città con venti cannoni e trecento cavalli. Il giorno 8 vi fu combattimento. Il preside si ritira e lascia il potere al municipio, il quale fece alzare la bandiera bianca; ma la bandiera bianca non si voleva dal popolo bolognese, e quindi venne la sera dell' 8 da quella plebe inferocita schernita e fulminata. Dal 9 al 12 avvicendaronsi tregue e combattimenti, e il giorno 12 dal borgo di Panigale il generale Wimpffen diresse ai Bolognesi altro proclama, per invitarli a cedere affine di preservare la loro città e le loro famiglie dalla distruzione e dalla rovina.
A questo proclama rispose il popolo:
- «Cittadini magistrati del Municipio di Bologna.
» Il proclama manoscritto segnato dal Maresciallo Wimpffen, da voi cittadini magistrati ricevuto or ora senza accompagno, non può essere da noi accettato.
» Ciò vi serva di regola, e pubblicate la notizia.
» Salute e fratellanza.
- » Bologna 12 maggio 1849.
» Firmati | Antonio Alessandrini |
Domenico Tonini | |
Lodovico Trasi.»94 |
Intanto l’assemblea romana all’annunzio della resistenza dei Bolognesi (come abbiamo già detto) decretava il 12 maggio che l’eroico popolo di Bologna era dichiarato benemerito della repubblica e dell’Italia, e degno emulo del popolo fratello di Roma.95
Ed il generale Avezzana che rappresentava la esaltazione repubblicana, rinforzata e condita dal misticismo biblico orientale, emetteva un proclama il giorno stesso ove fra le altre cose diceva:
«Fu alzata una bandiera bianca.
» Il Popolo la fulminò — invocando la rossa — quella che anela al sangue del Croato assassino.
» E questa sventola — e non una posizione fu ancora abbandonata dai prodi Bolognesi.
» Risoluti a schiacciarsi sotto le proprie rovine, anzichè cedere, essi non cederanno — non cadranno. Perchè Dio soccorre agli uomini dai grandi propositi, dalla volontà pertinace — agli uomini del sacrifizio.
» Chi guarda alle pareti, e le vuol salve, anzichè salvare la dignità d’uomo, ed adempiere al sacro debito di morir per la patria, non merita il premio della vittoria ec.»
Abbiamo con ciò che precede dato un cenno dell’attacco degli Austriaci nel Bolognese. Parliamo ora della riaccesa insurrezione ascolana.
Nel nostro capitolo precedente noi la demmo per estinta perchè come estinta venne rappresentata dall’autorità; tanto è ciò vero, che le truppe le quali si eran battute contro gl’insorti erano già rientrate in Roma.
Bastò per altro un falso rapporto dello essere entrati i Napolitani nella città di Ascoli, perchè quella provincia si commovesse e si levasse a rumore. Offida insorse il 10 maggio, lo stemma repubblicano fu preso a sassate, abbassato, calpestato, incendiato, e quello papale venne rialzato all’istante.
Fu però di breve durata questo moto incomposto, perchè seppesi subito che i Napolitani non avevano ordine di entrare, che Roma resisteva tuttora, e che forte truppa repubblicana era già in marcia verso Ascoli. 96
Capitanavano gl’insorti nell’ascolana provincia, oltre il sacerdote don Domenico Taliani, un fra Giovanni da san Giorgio ed un Giovanni Piccione, e minacciavano le città di quella provincia, chiedendo razioni e danaro. Ciò accadeva l’11 di maggio. La ufficialità civica però si mosse all’istante e postasi a capo di cinquecento militi mise in rotta gl’insorti completamente. 97
Intanto la mattina del 13 il reggimento Roselli che nell’aprile gli aveva battuti e dispersi, rientrava in Roma, somministrando così una prova addizionale che quel movimento non teneva in pensiero alcuno la repubblica. Di unita al reggimento Roselli giunse anche in Roma una compagnia di Perugini volontari.98
Prendiamo argomento da quest’altro soccorso di volontari per formare un nuovo recensimento delle truppe sulle quali alla metà di maggio, stante le nuove addizioni, poteva contare la repubblica.
Dicemmo che al 30 di aprile aveva
N. | 9,630 | uomini senza i volontari. Il 7 maggio si annunziò essere giunti in Roma altri |
» | 450 | Lombardi per la via di Valentano e Monte Fiascone.99 Il capitano Laviron francese, uno dei socialisti insorti e schiacciati in Parigi nel giugno 1848, si mise alla testa di una legione straniera; poniamo che avesse accozzato un |
» | 200 | uomini.100 Il generale Oudinot secondo il suo rapporto dell'8 avea messo in libertà il battaglione dei cacciatori Melara che avea fatto prigionieri; poniamo che fossero |
» | 450 | uomini circa.101 Rieti secondo il Monitore del 9 maggio mandò uomini e cannoni. Vedi la lettera di quel preside Feoli;102 riteniamo che fossero almeno |
» | 100 | uomini. Aggiungasi il reggimento Roselli entrato il 13 che calcoliamo per |
» | 1,500 | uomini. Aggiungasi pure la compagnia de' Perugini entrata col suddetto reggimento, ossiano |
» | 100 | uomini circa.103 Poniamo ancora un |
» | 1,000 | volontari; si avrà un totale di |
N. | 13,430 | uomini. |
Roma dunque alla metà di maggio poteva contare fra i tredici ai quindici mila uomini per difendere la repubblica, la quale mentre era assalita da ogni lato, veniva informata che gli Austriaci erano entrati l’11 in Livorno col generale d’Aspre.104 E Palermo era sul punto di arrendersi alle truppe regie, che effettivamente vi entrarono il 15.105 L’atto di sottomissione di Palermo porta la data del 27 di aprile e può leggersi nella Speranza dell’epoca.106
Il momento era solenne, perchè i Romani, assaliti da tutte le parti, andavano a trovarsi rinchiusi in un cerchio di ferro. Mazzini conosceva bene il pericolo; ma poco a lui caleva che si sacrificasse qualche centinaio o migliaio di giovani animosi, ch’ei poscia chiamava martiri per consolare i parenti della lor perdita. Interessavagli soltanto che quei poveri giovani illusi e fanatizzati dalle sue profezie reggessero agli urti, sostenessero il principio, e come suol dirsi, dessero tempo al tempo. Sapeva bene di che si trattava: e maestro di politici intrighi, manteneva segrete pratiche col capo della rivoluzione in Parigi, Ledru-Rollin, il quale vi organizzava un rivolgimento per liberarsi dal presidente dell’assemblea, e venire in soccorso di Roma. Questa rivoluzione tramata da vario tempo, ed alla quale, come già accennammo, si deve tutta la resistenza dei repubblicani romani, scoppiò finalmente il 13 giugno, ma abortì, come si dirà in appresso. Il Mazzini però vi contava sopra, e contava più su quella, che su la protezione degl’Inglesi e di lord Palmerston, e ne abbiamo un documento nelle parole del Rusconi che era ministro degli affari esteri, e scrisse dipoi una storia della repubblica romana.107
Il Mazzini inoltre, a parte la rivoluzione francese che aspettava dall’occidente, contava in oriente sui prodi Ungaresi, e ragion vuole che fosse in intelligenze seguite coi capi di quella insurrezione. Ed agli Ungaresi difatti rivolgendosi l’assemblea romana da lui guidata, indirizzava le seguenti parole il giorno 8 maggio:
- «Ungheresi!
» Perseverate! combattete! vincete sterminate codesti tiranni dei popoli! La bandiera della libertà non si vede sventolare in Europa fuorchè tra le file della vostra formidabile armata, e sulla vetta del Campidoglio.»
Quindi aggiungeva:
«Fratelli d’Ungheria! forse in questo momento la feroce famiglia d’Asburgo fugge dinanzi alle vostre baionette. Che se pur foste vinti, e seppur anche la nostra repubblica dovesse cader combattendo sotto la forza brutale di tanti oppressori, e che per ciò? Cesseremo forse d’esser fratelli? No. Le ruine delle vostre città e le ruine di Roma accumulate sulle antiche sarebbero l’altare del nostro patto, e lascerebbero tale un ricordo ai popoli di Europa che non andrebbe perduto.»108
E mentre agli Ungheresi dirigevansi parole di simpatia, di conforti, e di speranze, alle potenze cattoliche inviavasi invece una nota dal ministro degli affari esteri Rusconi, la quale portava l’impronta dei risentimento e delle minacce.
Essa chiudevasi così:
«L’Europa vi badi prima di perseverare in questa feroce lotta. La religione vi rovina ed è del manto della religione ch’essa si addobba. Libero è questo popolo, santa è questa Repubblica che esso ha inaugurata; Dio la benedisse d’una prima vittoria, e distrutta esser non potrebbe che coll’esizio d’intere popolazioni. Tre milioni d’italiani han giurato di seppellirsi sotto monti di macerie, di avvolgersi nei ruderi delle loro città prima che disertare il glorioso principio che tanto sollevolli nella dignità d’uomo; e il popolo di Roma, questo popolo unico ornai nei fasti d’Italia per altezza di propositi, per tenacità di volere, per valore e potenza, li guida nell’agone glorioso. L’Europa vi pensi; la lotta non è più d’esercito a esercito, d’uomini ad uomini; è lotta che abbraccia tutto un mondo morale d’idee, di speranze, di fede; che un eco aver potrebbe tino alle più tarde generazioni. S’ella perdura nella lotta, noi pure, il giuriamo, vi perdureremo; e quel Dio che fu sempre il Dio dei liberi e dei forti, farà rifulgere anche una volta la sua luce fra noi per porre il suggello alla liberazione del nostro popolo.
» Roma 7 maggio 1849.
» Il ministro degli affari esteri |
Non ricordiamo di aver letto giammai un complesso simile di esagerazioni, di amplificazioni, di caricature! Tre milioni di uomini che hanno giurato di seppellirsi sotto le macerie! Che è quanto dire tutti gli abitanti dello stato pontificio, dal primo fino all’ultimo, dal fanciullo lattante al vecchio decrepito. Tutti dunque, i bambini, i ragazzi,! giovani, gli uomini, i vecchi d’ambo i sessi, di tutte le opinioni, di tutte le condizioni, i caldi, i freddi, i temperati, gli assennati, gl’imbecilli, i nobili, i plebei, i preti, i frati, le monache, tutti tutti, secondo il Rusconi, avevano giurato di morire sotto le rovine della patria; e ciò si asseriva in un atto solenne che inviavasi ai rappresentanti delle grandi e piccole potenze il 7 di maggio dell’anno di grazia 1849!....
Noi facciamo un appello al semplice buon senso di chi ci leggerà. Basta avere una minima conoscenza del cuore umano e delle teste degli uomini, basta esser leggermente in qualche rapporto colla umana società in tutte le sue gradazioni svariate, per convincersi che quei paroloni di sopra riportati, e che posson produrre una qualche impressione negli alunni di collegio, lungi dal conciliarsi la simpatia ed il rispetto delle persone assennate, devono muoverle per lo meno al riso.
Fornivano eccitamento a queste parole insensate le adesioni alla repubblica e le proteste contro la spedizione francese, che giungevano dalle varie città e da’ comuni dello stato, ove appunto per mostrare al mondo deluso c ingannato i sentimenti delle popolazioni, si escogitò dal governo di Roma di far sottoscrivere tutti i municipi cd i circoli, e fare apporre a quanti più riusciva i lor nomi a queste adesioni elaborate dai caporioni del partito, per poi formarne una compilazione riunita e mandarla a Parigi.
A questa compilazione che venne raffazzonandosi nelle provincie, si dette nome di Protocollo della Repubblica Romana: e quando fu completato, venne difatti inviato a Parigi per mezzo dello Accursi (di quello stesso Accursi che giunse in Roma col signor Lesseps) per fare insorgere Parigi sotto la direzione di Ledru-Rollin. Ma ciò verrà raccontato da noi nel capitolo XVI.
Intanto potremo dire che molto delle dette adesioni già si conoscevano in Roma alla metà di maggio, nè debbon sorprendere: perchè i comitati rivoluzionarî essendo organizzati in tutti anche i più ristretti comuni, le rappresentanze municipali essendo state tutte cambiate nel senso repubblicano, ed essendosi a’ medesimi fatto appello, era ben naturale che dovessero venir fuori le adesioni che si volevano, ma che pur non ostante formano sempre un numero impercettibile avuto riguardo alle romane popolazioni, anche senza escludere i croce segnati per non sapere scrivere, che non eran pochi e che non detter la più favorevole idea della nobiltà degli aderenti. Di ciò potrà convincersi ognuno consultando il volume sovraccennato. 110
Ritornando ora a parlare dei Francesi diremo che l’amor nazionale, quel sentimento onorevole di cui più o meno tutti i popoli sono compenetrati, ma che ne’ Francesi è sviluppato in grado eminente, fece sentire profondamente 10 scacco che le loro armi subirono il 30 di aprile dal così detto pugno di faziosi. Eran molti? E allora il governo francese e i giornali furono o ingannati o ingannatori, facendo credere che fosser pochi. Eran pochi realmente? Ed in tale caso non era una umiliazione immensa dover confessare di esserne stati battuti?
Memorabili furono le discussioni che suscitò questo avvenimento nelle sedute dell’assemblea francese dei 7, 9 ed 11 maggio, memorabili gli attacchi personali contro il ministero e contro lo stesso presidente della repubblica, fino al punto di proporne lo stato di accusa. Non è qui il luogo a riportare, perchè troppo ci devierebbe dal nostro proposito, i discorsi in quella occasione pronunziati. Ciascuno potrà leggerli ne’ diari di quell’epoca memoranda. Riporteremo soltanto il testo della lettera dell’8 maggio dello stesso presidente al generale Oudinot in risposta al suo rapporto del 4. Essa diceva così:
- «Mio caro generale,
» Sono vivamente afflitto dalla notizia telegrafica che annunzia l’inaspettata resistenza fattavi sotto le mura di Roma. Io sperava, come sapete, che gli abitanti di Roma aprendo gli occhi all’evidenza, accogliessero amichevolmente un’armata che veniva a compiere presso di loro un atto di benevolenza e senza interesse; la cosa andò ben diversamente: i nostri soldati sono stati ricevuti come nemici, vi va dell’onor militare, ed io non soffrirò che gli venga fatto oltraggio. Non vi mancheranno rinforzi; dite ai vostri soldati che io ammiro la loro bravura, io divido le loro fatiche, e potranno essi sempre contare sul mio appoggio e sulla mia riconoscenza.
» Abbiatevi, o mio caro generale, la certezza che io altamente vi stimo.
E i rinforzi non mancaron difatti, e la protezione francese non venne meno. Questa protezione fu un mezzo di cui servissi la Provvidenza per restaurare il pontificio governo. La sconfitta quindi del 30 di aprile, appunto perchè offensiva all’onor nazionale di quel popolo prode e generoso, servì mirabilmente allo scopo; ma se vogliamo esser giusti, dovrem dire che i Romani pacifici furono salvati miracolosamente.
Diciamo miracolosamente, perchè il procedere del governo francese non fu nè chiaro, nè netto, nè coerente sia verso la corte di Gaeta, sia verso i cattolici di Francia, e assai meno verso i repubblicani di Roma.
I Francesi rialzarono è vero il papato, ma non ebber mai il coraggio e la sincerità di dichiararlo nettamente. I Francesi venivano per distruggere la repubblica e neppur questo nettamente dicevano. Fecero giocare come motivo impellente il volere e il dovere contrabilanciare la influenza austriaca in Italia, ed impedire una restaurazione in senso assolutistico. Ciò dava una tinta liberale alla spedizione. Dopo il fatto del 30 di aprile però non gravitò nella bilancia se non che la necessità di rivendicare l’onore delle armi francesi. E così, quantunque per fini indiretti e fra loro contradicenti, ottennero i clericali il loro intento dalla Francia. Ripetiamo però che un concorso di circostanze impreviste rispose mirabilmente allo scopo, ma, politicamente parlando, presentò un cumulo tale di sbagli, di contradizioni, d’incoerenze, da non costituire una delle più belle pagine della storia di Francia. Tutti vi stanno male. Infatti sbagli, esagerazioni, falsità, contradizioni, incocrenze in tutti. La sola che vi sta bene (nè può essere altrimenti) è la Provvidenza celeste la quale pe’ suoi fini dette tal piega agli avvenimenti, da far nascere ciò che voleva, e da chi, quando, e come meno poteva attendersi.
Scriveva in pari tempo il Drouyn de Lhuys ministro degli affari esteri in Francia due dispacci, uno al rappresentante francese in Gaeta duca d’Harcourt, l’altro ai conte de Rayneval, i quali potranno leggersi nella storia del Torre. 112 In pari tempo il governo francese, sia che volesse chiarirsi meglio sul vero stato delle cose in Roma, sia che volesse guadagnare tempo onde dar luogo così alla spedizione di rinforzi per intraprendere un assedio regolare, divisò di mandare in Roma un suo inviato straordinario e ministro plenipotenziario, e la scelta cadde sopra quel signor de Lesseps che segnalossi in Barcellona (ov’era console di Francia) per tratti di energia e di abilità tendenti a ricomporre l’ordine in un momento di perturbazione, qualche anno indietro.
Approdava il 14 maggio Ferdinando de Lesseps alle ore 6 pomeridiane in Civitavecchia. All’una della mattina seguente abboccavasi in Castel di Guido col generale Oudinot, e più tardi giungeva in Roma in compagnia di quel Michele Accursi di cui abbiamo parlato più sopra, e che figurò nell’autunno del 1848 come sostituto al ministero di polizia, d’onde venne allontanato dal ministro Rossi. Era assai cognito l’Accursi fin dal 1831 ai liberali italiani, ed avea pagato coll’esilio la sua pretesa compartecipazione ai moti del 1831.
Coll’arrivo del Lesseps noi chiudiamo il presente capitolo: ma siccome la sua venuta, l’oggetto della sua missione, le sue pratiche, i suoi abboccamenti col Mazzini, le sue progettate e sventate negoziazioni, costituiscono uno degli episodi più intrigati e nel tempo stesso più essenziali a conoscersi da chi si voglia addentrare nella storia di Roma di que’ tempi, noi consacreremo a ciò un capitolo speciale, che sarà il seguente.
Risulterà dal medesimo che salvo il principio pel quale i repubblicani romani si battevano, e che secondo il nostro convincimento lungi dal favorire la umanità, la civiltà e la libertà, favoriva ed intronizzava la barbarie e la tirannia; salvo il principio, ripetiamo, falso nel suo concetto e ripudiabile nelle sue conseguenze, ci sembra, e non abbiamo difficoltà di dichiararlo ad omaggio di verità, che essi furono gli unici i quali in tanta congerie di slealtà e di mistificazioni furono almeno logici e coerenti a loro stessi, e che in fatto di abilità e di astuzia nelle negoziazioni, e di valore nelle difese, aggiunsero un che di glorioso al nome italiano.
- ↑ Vedi il Miraglia, Storia della rivoluzione romana, pag. 183.
- ↑ Vedi il Monitore, pag. 403.
- ↑ Vedi Torre, vol. II, pag. 47.
- ↑ Vedi il Ristretto del processo dei finanzieri pei fatti di S. Calisto, pag. 3 alla 22.
- ↑ Vedi i Documenti del 2° semestre 1849, n. 9.
- ↑ Vedi l’Osservatore romano del 26 decembre 1849, pag. 195 e 196.
- ↑ Vedi la sentenza pubblicata dal tribunale della Consulta fra i Documenti del vol. IX, n. 53 A. — Vedi l’opuscolo Saggio di stile epistolare ec., nelle Miscellanee, vol. XIV, n. 13, pag. 44.
- ↑ Vedi il Monitore, pag. 409.
- ↑ Vedi la relazione del sergente di guardia della civica mobilizzata nei Documenti, vol. IX, n. 55.
- ↑ Vedi il Monitore del 5, pag. 420.
- ↑ Vedi il proclama nel Monitore del 5, pag. 419. — Vedi Atti officiali n. 146 A.
- ↑ Vedi il Monitore del 4, pag. 413.
- ↑ Vedi la Riunione del circolo popolare, pag. 295.
- ↑ Vedi il Monitore del 7, pag. 427.
- ↑ Vedi Monitore del 9, pag. 439.
- ↑ Vedi detto del 9, pag. 435. — Vedi la Speranza dell’epoca, del giorno 10.
- ↑ Vedi la Pallade, n. 536.
- ↑ Vedi il Monitore, pag. 449.
- ↑ Vedi il Monitore del 13 maggio, n. 100.
- ↑ Vedi detto del 16, pag. 465.
- ↑ Vedi il volume in foglio atlantico intitolato: Atti officiali della Restaurazione pontificia e delle autorità francesi ec., ove rinvengonsi tutte e 16 le liste descriventi i duemila ottocento quindici articoli di oggetti requisiti.
- ↑ Vedi il Monitore del 4, pag. 413.
- ↑ Vedi Autografi, ec. n. 24.
- ↑ Vedi il Monitore, pag. 419.
- ↑ Vedi detto, pag. 422.
- ↑ Vedi detto, pag. 423.
- ↑ Vedi detto, pag. 427.
- ↑ Vedi la Speranza dell’epoca, n. 94. — Vedi Documenti del vol. IX, num. 57.
- ↑ Vedi il Monitore del 7 maggio, pag. 427.
- ↑ Vedi nel vol. Autografi ec. n. 25.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 430 e 434. — Vedi Speranza dell’epoca, n. 92, pag. 2. — Vedi la Pallade, n. 535.
- ↑ Vedi Documenti, n. 58, vol. IX.
- ↑ Vedi il Monitore, pag. 403.
- ↑ Vedi detto, pag. 405.
- ↑ Vedi detto, pag. 409 e 412.
- ↑ Vedi detto, pag. 412.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 420.
- ↑ Vedi detto, pag. 420.
- ↑ Vedi detto, pag. 423.
- ↑ Vedi detto, pag. 423.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 435.
- ↑ Vedi detto del 10 maggio 1849, pag. 441.
- ↑ Vedi detto, pag. 441.
- ↑ Vedi Monitore dell’11 maggio, pag. 446.
- ↑ Vedi il bollettino sottoscritto dal Daverio nel Monitore del 10, pag. 441. — Vedi lo stesso Monitore, pag. 443.
- ↑ Vedi la Pallade, n. 538.
- ↑ Vedi detta R. 538. Vedi Miraglia, pag. 187, 188.
- ↑ Vedi il Monitore, pag. 413.
- ↑ Vedi il Tribuno, n. 1.
- ↑ Vedi Documenti, vol. IX, n. 61. — Vedilo in Sommario sotto il n. 89.
- ↑ Vedi il Sommario, n. 90.
- ↑ Vedi il Monitore del 14 ore parlasi della mina e del coro.
- ↑ Vedi Documenti, n. 64, vol. IX.
- ↑ Vedi il Monitore, pag. 403.
- ↑ Vedi detto, pag. 405 e 406.
- ↑ Vedi detto, pag, 406.
- ↑ Vedi detto, pag. 405.
- ↑ Vedi detto, pag. 409.
- ↑ Vedi detto, pag. 409.
- ↑ Vedi detto, pag. 420.
- ↑ Vedi detto, pag. 420.
- ↑ Vedi detto, pag. 420.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 420.
- ↑ Vedi detto, pag. 423.
- ↑ Vedi detto, pag. 421.
- ↑ Vedi detto, pag. 423.
- ↑ Vedi detto, pag. 423.
- ↑ Vedi detto, pag. 427.
- ↑ Vedi detto, pag. 432.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 435.
- ↑ Vedi detto, pag. 435.
- ↑ Vedi detto, pag. 435.
- ↑ Vedi detto, pag. 435.
- ↑ Vedi detto, pag. 436.
- ↑ Vedi Documenti, n. 57 A, vol. IX.
- ↑ Vedi il Monitore del 4 maggio, pag. 416.
- ↑ Vedi detto, pag. 441.
- ↑ Vedi il Monitore del 4 maggio, pag. 416.
- ↑ Vedi detto, pag. 441.
- ↑ Vedi detto, pag. 441.
- ↑ Vedi detto dell’11 maggio, pag. 445.
- ↑ Vedi detto, pag. 445.
- ↑ Vedi detto, pag. 445.
- ↑ Vedi detto, pag. 445 e 446.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 449
- ↑ Vedi Monitore, pag. 457.
- ↑ Vedi detto, pag. 457.
- ↑ Vedi detto, pag. 460.
- ↑ Vedi Monitore dell’8 maggio 1849, pag. 431.
- ↑ Vedi il Rusconi, vol. II, pag. 37. — Vedi la Pallade, n. 53G.
- ↑ Vedi il Don Pirlone, n. 198, del 10 maggio 1849.
- ↑ Vedi Miraglia, pag. 189.
- ↑ Vedi Miraglia, pag. 191.
- ↑ Vedi i Documenti, n. 62, vol. IX.
- ↑ Vedi il Miraglia, pag. 197.
- ↑ Vedi la Speranza dell’epoca del 19 maggio n. 104.
- ↑ Vedi l’Italia del Popolo, n. 30, pag. 4.
- ↑ Vedi il Monitore, pag. 455.
- ↑ Vedi Monitore, pag. 427.
- ↑ Vedi detto del 7 maggio, pag. 427. Vedi Documenti, n. 54, A
- ↑ Vedi detto del 14 maggio, pag. 458.
- ↑ Vedi detto del 9 maggio, pag. 437.
- ↑ Vedi detto del 13 maggio, pag. 455.
- ↑ Vedi la Storia delle guerre d’Italia dal 18 marzo 1848 al 28 agosto 1849, pag. 942.
- ↑ Vedi la Speranza dell’epoca del 12 maggio, n. 97.
- ↑ Vedi detta del 12 maggio, n. 97.
- ↑ Vedi il Rusconi, La repubblica romana (del 1849), vol. II pag. 34.
- ↑ Vedi la Speranza dsll’epoca, n. 101, del 16 maggio.
- ↑ Vedi il Monitore dell’8 maggio 1849, pag. 431.
- ↑ Vedi il Protocollo della Repubblica Romana, in-4.
- ↑ Vedi Torre, vol. II, pag. 63. — Vedi il Miraglia, pag. 207.
- ↑ Vedi i dispacci del Drouyn de Lhuys del 9 maggio 1849 in Torre, voi. II, pag. 71.