Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro III
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LIBRO TERZO.
REGNO DI FERDINANDO IV.
(anno 1791 sino al 1799.)
CAPO PRIMO.
Provvedimenti di guerra e interni, a seconda de’ casi della rivoluzione francese.
I. I due sovrani di Napoli partendosi da Vienna l’anno 1791 speravano strignere in Italia confederazione di guerra contro la Francia: ma trovato negli altri principi ugual timore, non eguale sdegno serbarono a più maturi tempi l’utile intendimento; e tanto più ch’ei sapevano quanto l’Austria riprovasse la congiunzione dell’armi italiane. Proseguirono il cammino verso Roma, dove il pontefice l’attendeva; Pio VI, bello della persona piacevole di maniere, amante e vanitoso di ornamenti come femmina. Que’ sovrani, nel primo viaggio l’anno 1785, fervendo allora gli sdegni contro di Roma scansarono quel territorio, schivi per fino delle apparenti cortesie, debite fra principi. Ma dalla rivoluzione di Francia e dal comune pericolo ammollito il cruccio, avevano composto, per ministri, patti di amicizia che furono: abolire per sempre il dono della chinea e la cerimonia; cessare ne’ re delle due Sicilie il nome di vassallo della santa sede; concedere nella incoronazione del re largo dono a’ santi apostoli per pietosa offerta; il papa nominare a’ benefizii ecclesiastici, tra i soggetti del re, eleggere i vescovi, nella terna proposta dal re; dispensare negl’impedimenti di matrimonii: confermare le dispense già concesse dai vescovi.
E dopo ciò, i monarchi si avvicinavano amici e riventi al pontefice, preparato ad accoglierli con fasto e grazie. Giunti il dì 20 di aprile, nel giorno istesso andarono al tempio di San Pietro; e di là per secreto accesso agli appartamenti di Pio. Non attesi, ed imposto silenzio dal re alle guardie ed a’ servi pontificii penetrarono sino alle stanze dove Pio con vesti magnifiche sacerdotali giaceva sopra seggia in riposo. Piacque a lui quel confidente procedere di re superbi, e scordate appieno le passate ingiurie, fu d’allora innanzi sincero amico. Le feste durarono molti dì; i doni ricchi e scambievoli. Stavano in Roma le due principesse di Francia, Adelaide e Vittoria, zie del re Luigi, fuggitive da’ rivolgimenti della patria; le quali narrando i travagli della casa, più concitavano l’ira de’ principi.
Così sdegnosi vennero in Napoli, tra feste popolari e sontuose quanto non comportava la povertà dell’erario. Il re e la regina mostravano piglio severo, nunzio degli imminenti rigori: e gli spettatori, avversi o inclinevoli alle nuove dottrine della Francia, non vedevano in quelle feste ragionevole argomento di piacere; fu dunque gioja per la sola plebe la quale non disturba per antiveder di sventura le presenti allegrezze. Dopo alquanti dì, nella reggia si consultarono materie di stato; benchè i consiglieri fossero parecchi, una fu la sentenza, quella medesima che stava in animo alla regina: guerra alla Francia ed austera disciplina de’ sudditi. I ministri partirono le cure. Subito negli arsenali si congegnarono altre navi da guerra; provveduti nell’interno e dall’estero legnami, canapi, metalli infiniti; e fonder cannoni, fabbricar carretti, cassoni, altri difizii di campo; le armerie accresciute formar dì e notti armi e nuove; i fochisti ordinati a compagnie militari fabbricar polveri ed artifizii; venivano di ogni parte del regno, vesti, arnesi, calzari, e molti fanti coscritti dalle comunità, molti cavalieri dai feudi, molti volontarii per grosso ingaggio; andavano i vagabondi alle milizie, passavano i prigioni dalle carceri e dalle galere alle armi; accorsero agli stipendii altri Svizzeri e dalmati nuovi; e forestieri di grado, come i principi d’Hassia Philipstad, di Wittemberg, di Sassonia, tutti e tre di sangue regio; i preti, i frati, i missionari predicavano gli odii contro la Francia da’ pergami, li persuadevano da’ confessionali. E perciò tutte le arti, tutte le menti, le braccia, le persone, servivano al proponimento di guerra, studii inusitati e molesti.
II. E ciò fatto, provvide il governo alla sicurezza dell’imperio per modi palesi e celati. La polizia ebbe commissario vigilatore e giudice, con seguaci e guardie, in ogni rione della città, e sopra tutti, col nome antico di reggente della vicaria, il cavaliere Luigi de’ Medici, giovine scaltro, ardito, ambizioso di autorità e di favore. Altri ministri spiavano in secreto le opere o i pensieri dei soggetti, chi ne pubblici luoghi, e chi nel secreto delle case. La regina guidava que’ maneggi, conferendo con le spie a notte piena, nella sala chiamata Oscura della reggia; ed onestando l’arte infame col nome di fedeltà, non la disdegnavano i magistrati, i sacerdoti, i nobili, tra quali fu sospettato la prima volta Fabrizio Ruffo principe di Castelcicala, non bisognoso di opere malvage perchè ricco del proprio, ed agevolato alle ambizioni dal grado di principe; ma vi era spinto (dicevano) da rea natura. Il clero, viste le sventure della chiesa di Francia, sperando il riacquisto della perduta potenza, si fece sostegno e compagno al dispotismo. Il re, a sessantadue vescovadi vacanti nominò uomini caldi e zelosi; restituì la pubblica istruzione a’ cherici; fece mostre di sincera amicizia a’ preti, a’ frati. Esposti più d’ogni altro all’ira del governo ed alle trame delle spie erano i dotti e i sapienti, per la fallace opinione che il rivolgimento francese fosse opera della filosofia e de’ libri, più che de’ bisogni e del secolo. Esiziale credenza, che durata e durante, ha recato gravi sventure ai migliori, ed ha spogliato l’impero e ’l sacerdozio de’ potenti ajuti dell’ingegno. I libri del Filangieri furono sbanditi, e in Sicilia bruciati; il Pagano, il Cirillo, il Delfico, il Conforti erano mal visti e spiati; cessarono ad un tratto le riforme di stato, avuto pentimento delle già fatte; i libri stranieri, le gazzette, impedite; i circoli della regina, disciolti; le adunanze di sapienti vietate; negavasi ricovero a’ fuggitivi francesi, che sebbene contrarii alla rivoluzione apportavano per il racconto de’ fatti scandalo e fastidio. Mutata la faccia della città, l’universale mestizia successe alla serenità della quiete.
III. Per tal modo ordinate le cose pubbliche, aspettava il governo gli avvenimenti di Europa. Inghilterra, Olanda, Prussia chiedevano fine della guerra di Oriente all’Austria che prometteva di accordarsi; e la Russia e la Porta, egualmente pregate, dechinavano dagli sdegni. Venne allora in Italia l’imperatore Leopoldo, il più adirato contro la Francia; e conferendo con secreti ambasciatori, scrisse a Luigi, il 20 di maggio, essere preparata la invasione della Francia, per le Fiandre con trentacinque mila Tedeschi; per l’Alsazia con quindicimila; altrettanti Svizzeri per Lione; più che tanti Piemontesi per il Delfinato; ventimila Spagnuoli da’ Pirenei. La Prussia sarebbe collegata all’Austria, la Inghilterra neutrale. Un manifesto delle case borboniche regnanti a Napoli, in Ispagna ed a Parma, sottoscritto per la Francia da’ regali della famiglia fuggitivi, dimostrerebbe la giustizia di quella guerra. Stesse il re Luigi aspettando le mosse, per ajutarle delle proprie forze manifeste o secrete. Ma Luigi temendo che a quegli assalti le fazioni di libertà infuriassero, prese partito più cauto; fuggir di Parigi per ricoverare in Montmedy dove il generale Bouillè aveva radunate le schiere più fedeli; e di colà, sicuro il re, assaltar la Francia con gli eserciti stranieri, secondati dalle proprie squadre, e da fuorusciti e partigiani che egli credeva più del vero numerosi ed arditi. Stabilite alla fuga le strade, il tempo, i segnali, uscirono travestiti da porta secreta il re, la regina, la principessa Elisabetta e i principi infanti, menati per mano da madama de Tourzel, che, sotto finto nome della signora di Korff, figurava che viaggiasse co’ suoi figliuoli, e fossero sue cameriere la regina e la principessa, servo il re, corrieri o pur servi tre guardie del corpo travestiti. Nel tempo stesso per altra strada fugge il fratello del re con la moglie; e celeri messi avvisano quelle fughe a’ re stranieri. Saputa in Parigi nel mattino seguente la partita del re, l’assemblea, fingendo ch’ei fosse stato rapito da nemici della Francia, decretò trattenerlo: ma godendo vedersi libera del maggiore intoppo, desiderò che fuggisse. Meglio provvidero i cieli, avvegnachè forze straniere ed interne, natural debolezza degli stati nuovi, varietà di parti e dispotismo, forse avrieno distrutte in breve le opere maravigliose di due anni, le speranze di un secolo, e sottomesso il popolo della Francia alla tirannide. La rivoluzioni danno apparenza ingannevole, perchè immense a vederle, minori in fatto, sono audaci e caduche.
Rallegrava la regina ed il re di Napoli la fuga della famiglia di Francia, quando seppero per altre lettere che scoperta a Varennes, ricondotta prigioniera a Parigi. era tenuta in custodia dalle milizie. Nè però cadendo la speranza de’ re collegati d’invadere la Francia, convenuti a Pilnitz l’imperatore Leopoldo, il re di Prussia, l’ elettore di Sassonia e ’l conte d’Artois, pubblicarono, a nome de’ due primi, editto che diceva: «sconvolti affatto gli ordini della Francia, invilita la monarchia, imprigionato il re; necessaria l’opera de’ re stranieri a rendere la pace a quel regno, la libertà a quel principe; squadre poderose prussiane ed austriache adunarsi ad esercito: invitare alla impresa gli altri re della terra, per tener sicuri i proprii regni, e vendicare la dignità della corona.» Gustavo III, re di Svezia, ardente di sdegno, bramoso di gloria, dicendosi pronto e sollecito all’invito, s’impazientava de’ ritardi. Avvegnachè, fornito in Francia, nel settembre del 1791, il novello statuto, il re fatto libero, venuto in assemblea, udito il grido de’ popoli come ne’ tempi di sua prosperità, e per li poteri che aveva dallo statuto ritornato re dopo le abiezioni della prigionia, sperando meglio dal tempo, dalla incostanza de’ popoli, e da una novella assemblea, tratteneva le mosse degli eserciti stranieri. Ma crescevano le parti per la repubblica, tanto da impaurire que’ medesimi caldissimi, nella constituente di libertà. Morì nel fiore degli anni e del consiglio il conte di Mirabean, che libero quanto comportava la ragione de’ tempi, Viste le sfrenatezze de’ giacobini, erasi unito al re, per opporsi alle imprese di repubblica, sconvenevole a popolo invecchiato nella obbedienza, cui manchino così le virtù della giovinezza, come il senno di matura civiltà. Quel Mirabeau, che, dotto degli uomini e del secolo, bramava libertà possibili alla Francia, era morto. E le ambizioni destate nel popolo in due anni di rivolgimento, non capendo nell’assemblea legislativa, sfozavano ne’ clubs, e principalmente in quello de’ giacobini, dove si vedevano tutte le parti di congrega nazionale; elezione di membri, divisioni per province, presidenza, altri offizii, esame di materie civili, tribuna, decisioni per voti, pubblicità. A lui non mancava per aver forza di rappresentanza che la legalità, ma la compensavano il numero, la veemenza degli associati, l’assentimento del pubblico. Volevano i giacobini popolare governo; poco manco altre adunanze: e incontro a tanti stavano debole assemblea legislativa, re tante volte soperchiato, staluto nuovo e non difeso.
IV. Alle circolari del re Luigi, portanti l’assenso al nuovo statuto della Francia, il re di Napoli rispose che a credergli attenderebbe di sentirlo libero; e gli altri monarchi variamente, come voleva diversità di politica e di affetti. Solo il re del Piemonte, spaventato del vicino incendio, già volta in paura la stolta speranza di conquistar su la Francia, propose a’ principi d’Italia lega italiana, che impedisse la entrata delle armi francesi e delle dottrine rivoluzionarie. Tutti aderivano, fuorchè Venezia e gli stati imperiali di Lombardia; essendo casa d’Austria più sospettosa della Italia unita che della Francia sconvolta. Così svanita la proposta, ogni stato italiano si affidò al proprio senno, è, direi meglio, alla ventura. Frattanto l’imperatore Leopoldo, per natura schivo di guerra, armigero insino allora per primo sdegno, inchinevole più di altro re, o solo tra i re al bene dei popoli, rinviò alle antiche stanze il radunato esercito; la imperatrice di Russia, pacificata con la Porta Ottomana, non mirava ad altre guerre; la Prussia si acchetò; la Spagna impigriva col suo re; durava in pace la Inghilterra: l’ira della regina di Napoli, e gl’impeti guerrieri del re Gustavo nulla potevano contro la Francia. La quale avrebbe forse invalidate le opinioni di repubblica e provveduto al suo governo, se due fazioni civili, più fiere del giacobinismo, non l’agitavano: fuorusciti e clero. I primi (che dirò emigrati, pigliando il nome come i fatti dalle istorie di Francia). in gran numero adunati ed ordinati a guerra su le due frontiere del Reno e del Piemonte, minacciavano la sicurtà della patria. Nobili la più parte, non veri cittadini della Francia, nè servi fidi al re, punto guerrieri, punto animosi, assetati di privilegi e di favore, fuggivano la nuova eguaglianza civile, e col mal tolto nome di fedeltà sospiravano il ritorno di monarchia prodiga e sfrenata. Furono inavvertite o tollerate le prime fughe; ma quando crebbero da comporre due eserciti, con armi, danaro, uffiziali esperti e principi della casa, l’assemblica legislativa sentì sdegno e sospetto: gl’invitò a tornare in patria: gravò di taglie i beni de’ contumaci; minacciò di pena le persone; ma nulla potendo gl’inviti o le minacce, essi stavano a’ confini, segnale e principio d’incendio, onde si affidavano che tutta la Francia bruciasse. Accusavano le intenzioni meglio cittadine, incitavano i potentati stranieri alla guerra; arrischiavano la vita del re, il cui nome serviva di onorato pretesto a brighe infami. Il clero stava diviso tra i ripugnanti a giurare per lo statuto e i giuranti. i primi di maggior numero e più intatta fama; sequestrate le terre della chiesa, poi confiscate; due brevi di Roma e l’immagine del pontefice bruciati a scherno; ingiuriate ed offese le persone de’ preti. I quali, per la opposta parte andavano suscitando le coscienze e le armi dei credenti. Il re teneva dagli emigrati perchè re, e da’ preti perchè divoto.
V. Così stavano le cose di Europa l’anno 1791. Nel principio dell’anno seguente morto l’imperatore Leopoldo, successe Francesco suo figlio. Nel mese istesso fu morto Gustavo III re della Svezia da’ nobili che opprimeva; ma, finchè ignote le trame, si disse dalle parti giacobine. La morte di Leopoldo apportò dolore; quella di Gustavo sospetti; e si andavano ricordando îl club francese, la propaganda, la legione de’ tirannicidi, il motto dell’assemblea «a’ re che ci mandano la guerra, noi rimanderemo la libertà»; ed altri o fatti o dicerie che atterrivano i principi. Fu quindi in Napoli più vigilante la polizia, che per meglio spiare fece scrivere le strade, numerare le case in cartelli di marmo; diligenza e fornimento di città grande. Facendo sospetto diecimila condannati e dodicimila prigioni nelle carceri e galere di Napoli o Castellamare, ne andò gran parte alle isole di pena, Lampedusa e Tremiti. Il giovine reggente di Vicaria tornò in uso la frusta e il deposito dei creduti colpevoli nelle galere; alle quali condanne erano pruova le delazioni delle spie, gli atti inquisitorii degli scrivani, il proprio giudizio del reggente. Tollerarono, primi, quel supplicio uomini della plebe infami e tristi; e frattanto l’aspetto e l’esercizio del dispotismo avendo ingenerato nel popolo servitù e pazienza, la polizia non temè di punire con eguale licenza uomini di buona fama. Dal sospetto di colpe false, le vere nacquero. I Napoletani amanti delle dottrine francesi, consultati poco innanzi come sapienti su le riforme dello stato, al presente spiati e mal visti; si adunavano in secreto per conferire delle cose di Francia; nè già con isperanza di bene vicino e preparato, ma per esercizio d’ingegno e felicità ideale dell’avvenire; le quali onestà praticavano con le arti e mistero del delitto. E poscia invaghiti dello statuto francese dell’anno 1791, e della dichiarazione dei diritti dell’uomo, e di tutti gli ornamenti filosofici di quella carta, tanto da credere che leggendoli verrebbe universal desiderio di egual governo, ne fecero improntare con grande spesa e caratteri nuovi, da stampatore fidatissimo, due migliaja o più. Ma non li divolgarono perchè, all’ardimento succeduto il timore, solamente sparsero alcune copie nella notte per le vie della città, due altre copie per giovanile contumacia negli appartamenti della regina; e le molte, spartite in sacchi ila farina, gettarono în mare tra gli scogli del Chiatamone. Due nobili giovani con vesti plebee, al primo tramonto per iscansare la luce del giorno o le guardie della notte, indossarono i sacchi, e per le vie più popolose della città, simulando l’uffizio di facchino, li trasportarono e deposero nel disegnato luogo. N’ebbero plauso dai compagni come di salvata repubblica; e intanto quella stampa e quello ardire accrebbero l’ombra e il dispetto de’ dominatori. Queste furono le prime faville di un incendio civile non mai più spento.
VI. Peggiorando per le male opere degli emigrati, del clero e de’ giacobini le cose di Francia, imperversarono le parti, i maneggi del re, i sospetti del popolo. Fra tanti moti civili erano surti uomini da grandi imprese; ma, discordi tra loro, dividevano a brani le forze dello stato: Dumouriez, contraddetto ed affaticato, aveva deposto il carico di ministro con virtù facile e volgare; La Fayette, soldato di libertà e cavaliero francese, dopo i tumulti del 20 di giugno venuto a Parigi con proponimento di salvare la monarchia erasi fermato a mezzo corso; Bailly, Condorcet, altri uomini egregi, seguivano le norme, deboli allora, delle dottrine; Pethion ed altri moltissimi, atti a suscitare, impotenti a dirigere i tumulti, il re, sofferente più che intrepido, con virtù passiva, ammirata ma inerte; la regina, querula e leggiera, agitata de bramosia di vendetta; le parole, già venerate come sacre, di leggi, trono, popolo, religione, non avevano perduto appieno l’antico prestigio; e mancava tanto uomo che sapesse avvincerle alla condizione de’ tempi, da che Mirabeau era morto, e non ancora su la scena del mondo Bonaparte appariva. Di là i malî e gli errori, II re, sospettoso di veleni, mangiava in secreto con la famiglia poveri cibi ma sicuri; tollerando per molti mesi la più stretta penuria. Mandò privati ambasciatori a’ campi degli emigrati ed a’ monarchi d’Austria e di Prussia per sollecitare gli eserciti a liberarlo. Fu allora intimata la guerra alla Francia. Oste prussiano-austriaca procedeva; e la regina, misurando il cammino, presagiva il giorno dell’arrivo a Parigi con mal celata allegrezza.
Nella città e nella casa del re moti e pericoli continui ed opposti; quindi stanchezza e jattura di tempo e di consiglio. La Fayette ripete l’offerta di salvare il re con la fuga; e ’l maresciallo Luckner, forestiero agli stipendii francesi, veniva ostilmente a Parigi per far sicura la partenza del re. Questi aderiva: la regina alla vergogna di vivere obbligati al costituzionale La Fayette, preferiva la morte; e allora il re, prono a desiderii di lei, scortesemente ributtò il benefizio. Quella superbia serbò forse la vita, certamente la fama, al generale; imperciocchè tali erano le condizioni del tempo, che la monarchia o la Francia precipitasse. Tra i quali ardori comparve editto del prussiano Brunswick, il quale protestando la già vieta modestia de’ suoi principi, chiamando fazione la Francia intera e solamente il re saggio a conoscere, legittimo a concedere le riforme di stato, annientava le cose fatte in tre anni; poscia imponeva, come se fosse certo vincitore, sciorre gli eserciti rivoluzionarii, le assemblee, le congreghe; accogliere gli Austro-Prussi amichevolmente, unirsi a loro gli amici del re, fuggire o dimandar perdono i nemici. E intanto numerose truppe di emigrati seguivano le colonne alemanne, ultimi al campo, primi allo sdegno, instigatori a guerra domestica e sanguinosa. L’editto, nemmen grato al re che vide i pericoli della casa e trapassati i termini della sua dimanda, spinse il popolo a fatti estremi: de’cittadini, altri timorosi della regia vendetta, altri disperati di perdono, altri dolenti per carità di patria, trepidavano ed agitavansi; ma pure alcuni d’ingegno acuto ed altiero, sperando salute dal ridurre ad una le passioni, ad uno gli impeti del popolo, indicarono a segno di comune odio il re.
Non risguarda le napoletane istorie tutto il racconto de’ fatti di Francia; qui bastando che io rammenti essere stato a’ 10 di agosto di quell’anno 1792 il re assalito nella reggia, e la reggia presa e bruciata da battaglioni di popolo; andati a scampo, il re, la moglie, i figli, la sorella, nell’assemblea legislativa, dove in abbietto penetrate restar nascosti, e sentir comporre e legger il decreto che dichiarava il re Luigi decaduto dal trono. Quale spettaeolo al mondo! veder la reggia de’ re di Francia assediata e presa non da genti nemiche in buona guerra, ma da sudditi sollevati per foga di libertà, ed arse le immagini e le insegne di re potenti e rispettati. E fuggir tra le fiamme il re, poi la regina portante in braccio il piccolo Delfino, e la principessa Elisabetta traendo tenera infanta figliuola del re; senza corteggio, a fronte china per il dolore e per celare le lacrime a riguardanti. Affretto la fine de’ racconti. Andò la regal famiglia prigioniera al Luxembourg, quindi al Tempio; lo stato, senza ordini certi, si governava per fazioni; il generale La Fayette, dopo di aver resistito agl’impeti nuovi di sfrenata libertà, dichiarato nemico della patria, disobbedito dalle schiere, fuggì nel Belgio, e dagli Austriaci fu chiuso in carcere. Altri sostenitori della prima libertà, venuti a sospetto de’ nuovi, fuggirono minacciati di morte, avvegnachè ad essi erano succeduti Danton, Marat, Robespierre ed altre furie che ne’ civili sconvolgimenti scaturisce lezzo plebeo. Dumouriez, tornato in favore perchè nemico al nemico del popolo La Fayette, reggeva incontro a centotrentaduemila Alemanni, oste francese che numerava centoventi migliaja di soldati, spartiti sopra lunghe frontiere, e per le infermate religioni ritrosi e contumaci all’obbedienza. La fortuna secondava l’armi alemanne; cadde la fortezza di Longwy, poco appresso Verdun; esercito austriaco stava incontro alle fortezze del Nord; mila Prussiani e torme di emigrati camminavano sopra Parigi. Tra le quali agitazioni, e timori e sospetti di popolo, si eseguirono tali e tante atrocità nella Francia che di non esserne il narratore io ringrazio la sorte. La misera famiglia de’ Borboni stando al Tempio vedeva parte delle stragi, udiva gli ultimi lamenti degli uccisi nelle prigioni vicine; raggio di speranza le rimaneva ne’ soccorsi stranieri. Ma Brunswick ponderato e lento, il suo re focoso, gli emigrati menzogneri nelle promesse, le due collegate monarchie varie di politica e di speranze, producevano sconcordia e languore nel campo alemanno; mentre nel campo francese l’ingegno di Dumouriez, la gioventù delle sue schiere, l’allegrezza di libertà, compensavano i difetti di numero e di fortuna. Pure i Prussiani giunsero a Chàlons; ma poi travagliati da’ morbi, dalla battaglia di Walmy, e da stagione inclemente, sgomberarono la Francia; gli altri eserciti austriaci o prussiani che battevano diversi punti della frontiera, affrettarono il ritorno; Francesco e Federico Guglielmo, con disegni mutati, ritornarono a Vienna e Berlino. Si sciolse la prima lega contro la Francia; la rivoluzione fu certa e confermata.
Cadute le ultime speranze della casa infelice, il giacobinismo già potentissimo ordiva gli atti del processo contro Luigi. Difendevano il re l’antico rispetto, la presente pietà e ’l contegno di lui sereno che pareva serenità di coscienza; lo accusavano i fatti ed il nome. Confuse le ragioni, sparita la giustizia delle leggi, scordata la qualità dell’accusato, a tal si giunse che la vita o la morte del re stava nello esame «Che più giovasse, che più nuocesse alla Francia.» Decisero per maggioranza di un solo voto, che più giovasse la morte; e Luigi sopra palco infame perdè la vita. Fu poi morta la regina, indi la principessa Elisabetta per condanne inique di tribunale feroce; finì di stento nel carcere il Delfino; la sorella di lui servì di riscatto ad alcuni Francesi prigionieri in Alemagna. Per le quali miserevoli nuove la corte di Napoli, vietando nel carnevale ogni festa pubblica o privata, dopo molti giorni di duolo, uscì a bruno per andare nel duomo a pregare e piangere pe’ defunti; le stesse cacce del re furono rare e secrete. Era intanto la Francia ordinata a repubblica, ed il sovrano di Napoli negava di riconoscerla nel cittadino Makau, venuto ambasciatore; ed aveva operato che il cittadino Semonville non fosse ricevuto ambasciatore dalla corte ottomana.
VII. È più fece. Comunicò a’ due governi di Sardegna e Venezia nota in questi sensi: «Comunque essere le fortune degli Alemanni sul Reno, importare alla Italia far barriera d’armi su le Alpi, e impedire che i Francesi per disperato conforto, se vinti, o per vendetta e conquiste, se vincitori, venissero a turbare la quiete dei governi italiani. Se perciò si collegassero le Sicilie, la Sardegna e Venezia, concorrerebbe il sommo pontefice alla santa impresa; i più piccoli potentati che stanno tra mezzo seguiterebbero, vogliosi o no, il moto comune; e si farebbe cumulo di forze capace a difendere l’Italia, e a darle peso ed autorità nelle guerre e ne congressi di Europa. Essere obbietto di quella nota, proporre e strignere confederazione, nella quale il re delle Sicilie, ultimo al pericolo, offrivasi primo a’ cimenti; ricordando ad ogni principe italiano che la speranza di campar solo era stata mai sempre la rovina d’Italia,» Saggio ed animoso partito, accettato dal re di Sardegna, rifiutato dal senato di Venezia, e subito negletto dallo stesso re delle Sicilie; perchè, in quel mezzo grosso navilio francese a vele e bandiere spiegate giunse al golfo di Napoli. Sapeva il governo che molti vascelli della repubblica navigavano il Tirreno, ed aveva perciò riparato le antiche batterie delle marine, altre nuove inalzate, e meglio munito d’armi e d’uomini il porto. E frattanto l’ammiraglio La Touche condusse la flotta, quattordici vascelli da guerra, come in porto amico o disarmato; gettò le ancore del maggior vascello a mezzo tiro dal castello dell’Ovo; gli altri vascelli, in linea di battaglia ed ancorati, spiegaronsi nel porto. Popolo immenso guardava; e le milizie e i legni armati di Napoli erano in punto di guerra, quando il re mandò per dimandare all’ammiraglio il motivo di quello arrivo e di quelle mostre; e rammentare l’antico patto, onde a sei vascelli solamente era libero entrare in porto. La Touche dicendo, risponderebbe, inviò legato (di alto grado, però che onorato nel tragitto dagli spari continui della flotta), il quale con lo scritto che recava e col discorso chiedendo ragione della rifiutata accoglienza dell’ambasciatore, e delle pratiche ostili presso la Porta, proponeva la emenda di que’ falli, o la guerra.
Il re unì consiglio; e sebbene gli apparati di resistenza fossero maggiori delle minacce, si che La Touche sarebbe stato perdente o fuggitivo, pure la regina, dicendo pieno di giacobini e nemici il regno, pregava pace; la secondavano i timidi consiglieri; aderiva il re. E subito fu manifestato per detti e lettere accettar ministro Makau, riprovare le pratiche con la Porta, richiamare a castigo il legato di Napoli presso quella corte, spedire ambasciatore a Parigi, promettere neutralità nelle guerre di Europa, essere amici alla Francia. La prima codardia, suggerita da mal nati sospetti, fu stipulata in quel giorno. E nel giorno istesso La Touche salpò; ma poco appresso colpito da tempesta, si riparò nello stesso golfo di Napoli, dove chiese ristaurare le sdrucite navi, rinnovar l’acqua, mutare i viveri, praticare nel porto; prieghi onesti a re amico, spiacenti al governo di Napoli ma innegabili. Molti giovani napoletani, ardenti nelle nuove dottrine, comunicarono con gli ufficiali del navilio, con Makau, con La Touche; e però che in quel tempo era scaltrezza del governo francese incitare i popoli a libertà per averli compagni ai pericoli ed alla guerra, La Touche più infiammò quelle giovani menti, consigliò secrete adunanze; e in una cena, tra le allegrezze de’ desiderii e delle speranze, i convitati appesero al petto piccolo berretto rosso, simbolo allora de’ giacobini di Francia. Sapeva il governo di Napoli quelle colpe, ma ritardava il castigo per aspettar la partenza dell’ospite importuno; accelerò il raddobbo delle navi, diede viveri, condusse l’acqua purissima di Carmignano a’ bisogni della flotta sino alla punta del molo.
VIII. La flotta salpò; il trattenuto sdegno sfogò in vendette o te preparava. Presi nella notte e menati in carcere molti di coloro che praticarono co’ Francesi, ed altri per sospetto di maestà; tenute secrete le sorti loro, così che i parenti, gli amici, le voci popolari li dicevano uccisi nelle cave delle fortezze, o mandati ne’ castelli delle isole più lontane della Sicilia: tardi si udì che stavano chiusi ne sotterranci di Santermo, mangiando il pane del fisco, dormendo a terra ed isolati, ognuno in una fossa. Erano dotti o nobili, usati agli agi del proprio stato ed alla tranquillità degli studii. Custodi spietati, che dovrò nominare quando i tempi si faranno peggiori, eseguivano que’ feroci comandamenti con zelo ferocissimo. E la regina sospettando che presso all’ambasciatore di Francia fossero le fila e i nomi della creduta congiura, fece involargli le carte da Luigi Custode, che usava nella casa di Makau; accusato del furto, tradotto in giudizio, fu assoluto dai giudici, premiato dalla corte. Non furono trovati fra quelle carte o nomi o documenti della congiura; bensì le note de’ mancamenti del governo napoletano alla fermata neutralità. Ma, non ostante, il re creò tribunale per i colpevoli di maestà, detto giunta di stato, di sette giudici ed un procurator fiscale, Basilio Palmieri, noto per pratiche rigorose; e tra’ giudici, il cavaliere de Medici, il marchese Vanni, e ’l caporuota Giaquinto, poi chiari per patite o esercitate iniquità. Crebbe il numero de’ prigioni; la giunta e la polizia formavano in secreto i processi; stava la città spaventata. E vendette più vaste meditava la regina su la Francia co’ modi generosi di buona guerra. Per i provvedimenti poco innanzi descritti le milizie assoldate montavano a trentaseimigliaja, ed il navilio a centodue legni di varia grandezza, portanti seicentodiciotto cannoni e ottomilaseicento marinari di ciurma. Non riposavano le armerie e gli arsenali, e continuavano le nuove leve, agevolate dalla fame, poco men dura in quell’anno 1793 dell’altra che nel precedente libro ho descritta, correndo l’anno 1764; nè furono migliori le provvidenze, non essendo bastato il lungo tempo e le infelici pruove ad assennare i reggitori che non il comando e non la forza, ma il privato guadagna e la libertà, sciogliendo i monopolii, apportano a’ mercati pienezza, ed alle fantasie del popolo tranquillità; la quale se manca, steriliscono le terre, sì vuotano i granai, e riducesi a povertà l’abbondanza. Tra quegli stenti del vivere, i più miseri prendevano ingaggio alla milizia; e in maggior numero nella città dove la vita più costa per vizii e lusso. Fu perciò in Napoli coscrirta nuova legione che si disse degli spuntonieri, dall’arme (lo spuntone) che portavano i soldati, destinati a combattere in luoghi impediti e coperti come nei boschi o dietro agli argini, o disposti a quadrato contro i cavalli, o facendo impeto come con la bajonetta: la scarsezza degli archibugi e la ignoranza de’ capi militari suggerirono quell’armatura sconveniente al combattere moderno. Gli spuntonieri furono coscritti volontarii o per legge, tra i lazzari; da che tolgo argomento per dire di cotesta genia, malamente nota dalle istorie, le cose importanti. Surse il nome di Lazzaro nel viceregno spagnuolo, quando era il governo avarissimo, la feudalità inerme, i vassalli suoi non guerrieri, la città piena di domestica servitù; con pochi soldati e lontani, con meno di artisti o d’industriosi, con nessuni agricoli; e però con innumerabili che vivevano di male arti. Fra tanto numero di abbiette genti molti campavano come belve, mal coperti, senza casa, dormendo nel verno in certe cave, nella estate, per benignità di quel cielo, allo scoperto; e soddisfacendo agli usi della persona senza i ritegni della vergogna. Cotesti si dissero lazzari, voce tolta dalla lingua de’ superbi dominatori; i quali, prodotta la nostra povertà e schernita, ne eternavono la memoria per il nome. Non si nasceva lazzaro, ma si diveniva; il lazzaro che addicevasi a qualunque arte o mestiero perdeva quel nome; e chiunque viveva brutalmente, come sopra ho detto, prendeva nome di lazzaro. Non se ne trovava che nella città; ed ivi molti ma non sommati, perchè ne impediva il censo la vita incivile e vagante; si credeva che fossero intorno a trentamila, poveri, audaci, bramosi e insaziabili di rapine, presti a’ tumulti. Il vicerè chiamava i lazzari negli editti con l’onorato nome di popolo; ascoltava i lamenti e le ragioni da lazzari deputati, oratori alla reggia; tollerava che ogni anno nella piazza del mercato, in dì festivo, scegliessero il capo, a grido, senza riconoscere i votanti o numerare i voti; e con questo capo il vicerè conferiva, ora fingendo di volersi accordare intorno a’ tributi su le grasce, ora impegnando i lazzari a sostenere l’autorità dell’imperio; il celebre Tommaso Aniello era capo-lazzaro quando nell’anno 1647 ribellò la città. Per le quali cose la legione degli spuntonieri, disciplinando parecchie migliaja di quei tristi, accresceva numero all’esercito, e faceva più sicura la quiete pubblica.
IX. Pieno di forze il regno, volle il re fermare alleanza con la Inghilterra, già nemica della Francia; e a dì 20 di luglio di quell’anno 1793 fu pattovito (secretamente, perciocchè durava la neutralità poco innanzi stabilita con La Touche) che il re di Napoli aggiugnerebbe nel Mediterraneo quattro vascelli, quattro fregate, quattro legni minori e seimila uomini di milizia, a tanti legni e soldati della Inghilterra, quanti insieme componessero armata superiore a quella del nemico; onde far sicuri i dominii e ’l commercio delle due Sicilie. AI qual trattato aderendo i potentati legati in guerra con la Gran Brettagna, si trovò Napoli unito alle vaste interminabili confederazioni europee contro la Francia. In mezzo a tante forze navali, legni sottili barbareschi, navigando arditamente i nostri mari, predavano barche, rubavano su le marine, impedivano e danneggiavano il commercio; per lo che i capi delle navi mercantili dimandarono di andare armati; ma il governo che in ogni congrega d’uomini già vedeva un club di ribelli, temè di armarli, e l’utile offerta fu ricusata. Vennero i Tunisini a far prede nel canale di Procida.
CAPO SECONDO.
Guerre aperte co’ Francesi; e paci; e mancamenti. Sospetti di regno; cause di maestà. Casi varii di stato e di fortuna.
X. La lega con la Inghilterra, non appena fermata, fu posta in atto. Tolone, città francese e fortezza, con arsenali, magazzini pieni, venti vascelli ancorati nel porto, e legnami e materie per costruirne altrettanti, artiglierie poderose e molte, armi infinite, ricchezze ed uomini, si diede per tradigione alle forze inglesi che bordeggiavano nella gran rada. Ciò fu a’ 24 di agosto di quell’anno 1793; e subito accorsero alla preda Spagnuoli, Sardi e Napoletani con gli uomini e le navi promesse nell’alleanza. Il cittadino Makau, intimato dal governo di Napoli a partire perchè ambasciatore di potentato nemico, visto salpar le flotte per Tolone, senza dichiarazione o cartello alla sua repubblica, mosse sdegnato verso Francia, conducendo seco le due donne Basville, orbate miseramente dal popolo di Roma di Ugo Basville, padre dell’una, marito all’altra, meste, abbrunate; incitamenti alla pietà e alla vendetta. Intanto navigavano per Tolone le milizie napoletane sotto l’impero del maresciallo Fortiguerri, e dei generali de Gambs e Pignatelli; e, la giunte, obbedivano al generale O-Hara spagnuolo, capitano supremo in quella guerra. Venivano a stormi dai paecsi della Francia le milizie della repubblica, e dall’opposta parte crescevano i munimenti e le opere della fortezza; il servizio d’armi facevasi dai collegati per ugual giro; e i Napoletani, non mai da meno delle altre genti, ebbero ventura di miglior fama sul monte Faraone, e nel difendere il forte Malbousquette. Stavano nella città da quattro mesi, e non pareva cominciato l’assedio, benchè il combattere fosse continuo; quando a’ 17 del dicembre, in giro in giro si smascherarono fuochi ed assalti; più vivi e pertinaci al posto detto il Caire, munito di argine e cannoni, tanto che dagl’Inglesi, creduto inespugnabile, ebbe nome di nuova Gibilterra. Ma Napoleone Bonaparte, che allora faceva le prime armi da tenente-colonnello e comandante delle artiglierie nello assedio, aveva disposti gli assalti così che in breve tempo ottomila bombe cadessero sopra piccolo spazio, e trenta pezzi da ventiquattro guastassero e spianassero i ripari. In meno di due giorni, e propriamente nella notte del 18 al 19 del dicembre, l’altiera Gibilterra fu espugnata, e volte a’ collegati le artiglierie che la guardavano da’ Francesi.
Sporgendo in mare quel posto così che batte la piccola rada di Tolone, molta parte della grande, ed il canale tra le due rade, fu necessario ai collegati fuggir que’ mari, e trarre dalla città le milizie per non lasciarle a certa prigionia. L’ammiraglio Hood inglese diede segno di partenza; le schiere di terra cominciarono la fuga; i forti esteriori Malbousquette, il Faraone, la Vallette, la Malgue, presi da’ repubblicani senza contrasto, tirando contro la città, vi accrescevano i pericoli e lo scompiglio. Gl’Inglesi atterrarono per mine il forte Ponè; mancò il tempo e gli apparecchi a distruggere gli altri forti o la città; il gran magazzino delle costruzioni ardeva, e bruciavano nel porto tredici vascelli della repubblica; era notte, e cadeva pioggia distemperata. Ne’ quali esterminii imbarcavano (annegandone alcuni per la fretta) soldati e Tolonesi, che, partigiani della Inghilterra o nemici di repubblica, avevano macchinato il tradimento. Cavalli, armi, tende, artiglierie di campo, e poche schiere lente o incapaci alla fuga, restarono prede a’ Francesi. E la fortuna non ancora sazia di sventure alzò tempesta impetuosa per vento libeccio, che sospingeva le navi alle due rade; dal quale pericolo camparono le flotte per forza d’arte, ma i legni disuniti, navigando a ventura per molti dì, ripararono in porti differenti gli uni agli altri lontani e sconosciuti. Passava perciò lungo tempo a raccorre le milizie delle quattro collegate nazioni, e gli arredi, le salmerie; e Napoli in quel mezzo stava dolente più di quanto i casi meritassero, come accade ne’ disastri confusamente narrati dalla fama. Comparvero finalmente il 2 di febbrajo del 1794 le aspettate vele; e seppesi che mancavano duecento Napoletani, morti o feriti, quattrocento prigioni e tutti i cavalli; molti viveri, le tende, gli arredi, le bandiere; sterminate somme avea speso l’erario. Venne in Napoli fra’ Tolonesi il generale conte Mandet, il quale comandando in Tolone avea consegnata, voglioso ed allegro, a’ nemici della sua patria l’affidatagli fortezza. I fatti che ho descritto diedero maggior grido alla repubblica, e dissero la prima volta, e a voce appena intesa, un nome che poco appresso empiè il mondo.
XI. Le genti venute da Tolone, raccontando ed esagerando fatti veri o falsi, generavano idea spaventosa de’ Francesi e della guerra. Il governo, impedite le feste giocose del carnevale, comandate pubbliche orazioni, ma costante agl’impegni ed alla vendetta, levati nuovi coscritti e guardie urbane nella città, pose nei piani di Sessa venti battaglioni di fanti, tredici squadroni di cavalieri, ed un reggimento di artiglieria (diciannove mila soldati), destinati a guerreggiare con gli eserciti tedeschi nella Lombardia; i sudditi ammiravano le opere sacre perchè dicevoli a principi devoti; e le militari, perchè animose. Il re, la regina e ’l ministro general Acton, stando spesso al campo, eccitavano con discorsi e promettevano larghe mercedì alle azioni di guerra; intanto che nel golfo di Napoli si vedevano movimenti e simulacri di battaglie e di mare. La Inghilterra volendo assaltare la Corsica, dimandati a noi vascelli, armi e soldati, tutto ebbe; e sebbene infelice la impresa, furono laudate le geste. Tre reggimenti di cavalleria, duemila cavalli mossero per Lombardia sotto il principe di Cutò, scelta laudata, perchè di regnicolo dopo le altre di stranieri e sfortunate. Le navi cannoniere e bombardiere montavano a centoquaranta, i legni maggiori a quaranta, le milizie assoldate a quarantadue migliaja, le civili a maggior numero; le provvisioni erano infinite, le imprese grandi e continue. Le quali prove superiori alla forza de’ porti e della marineria, al censo e alle condizioni politiche del regno, arrecavano stenti all’erario, nocumento alle arti ed alle industrie, povertà alle famiglie. Pareva miracolo sostener tanta spesa, e dicevasi che la soccorresse il privato tesoro del re, aperto da’ bisogni e dallo sdegno. La regina per accreditare quelle voci confidava scortamente a’ suoi partigiani, e questi al pubblico, aver ella venduti o dati a pegno i suoi giojelli, e per le viste del monde andare ornata de’ contraffatti nelle gale della reggia.
Quelle opinioni giravano, quando per nuovo decreto il governo dimandò soccorsi o doni che per essere a pro della patria chiamò patriottici: tutte le comunità, tutte le congreghe, molti cittadini ne diedero in copia; e i loro nomi vennero scritti per onore ad essi, stimolo agli altri, sopra tabelle pubbliche. Altro decreto impose taglia del dieci per cento (perciò appellata decima) su le entrate prediali; escludendo i possessi del demanio regio, del fisco e de’ feudi: le terre della chiesa vi andarono soggette; e poichè delle imposte antiche pagavano (per il concordato del 1741) sola metà, oggi, abolite le ultime immunità de’ cherici, furono agguagliate alle comuni; dicendo, ma per inganno, che le gravezze su gli ecclesiastici sarebbero scritte in preparato libro come pigliate a prestito. Con gli altri decreti furono venduti molti beni della chiesa in pro del fisco; e banditi, per vendere, altri beni che si dicevano allodiali. La città di Napoli andò gravata di centotrè mita ducati al mese; la baronia di centoventi mila. E dopo ciò, il re disse con editto: «Quanto altro bisogni alla difesa ed alla quiete del regno sarà fornito dagli assegnamenti e risparmii della mia casa.» Facevano peso le nuove taglie; ma poi che grande l’obietto, certe le spese, liberali le promesse del re, non si udivano lamenti, e rinforzavano gli odii contro i Francesi, cagioni a quelle strettezze. Nell’anno medesimo altro regio decreto prescrisse che le chiese, i monasteri, i luoghi pii dessero alla zecca dello stato gli argenti sacri, salvo i necessarii ai divini uffici: e i cittadini gli argenti proprii; fuorchè gli arredi, ma pochi, da mensa: polizza di banco, valevole dopo certi anni, ne pagava il prezzo; e si confiscavano gli argenti nascosti, concessane quarta parte a’ denunziatori. Il quale decreto fu chiamato suntuario; nome spesso dato alle leggi che apportano per la parsimonia de’ soggetti opulenza all’erario. Gran copia di argenti fu donata, obbedendo e tacendo i donatori.
XII. Ma il silenzio dell’universale volse a tumulto quando fu visto che il governo spogliava i banchi pubblici. Così chiamavano, come è noto per le nostre istorie, sette casse di credito, che per dote, legati ed industrie divennero possedittrici di tredici milioni di ducati. I pubblici offizii, i privati, la stessa casa del re, depositavano al banco il proprio danaro, là tenuto sicuro perchè guardato e guarentito. Una carta, detta fede di credito, accertava il deposito: la presentazione della fede produceva immediato pagamento: le fedi circolavano come danaro, nulla perdevano al cambio; guadagnavano a’ tempi delle maggiori fiere del regno per il comodo e la sicurezza di portare in un foglio somme grandissime. Il danaro contrastato per liti andava al banco; i pagamenti legati si facevano per carte di banco: molto danaro del regno; il tutto, quasi, della città; ventiquattro milioni almeno di private ragioni, stavano in quelle casse. Ma i bisogni dello stato, l’istinto del dispotismo, l’agevolezza d’involare e di coprire per nuove carte il danaro involato, ln speranza di rimediare al mancamento prima che manifesto, ed alla fin fine il sentimento ne’ re assoluti che la roba come la vita de’ soggetti sieno della corona, furono argomenti a stender mano rapace a que’ depositi. Durava tacitamente lo spoglio; le fedi già soperchiavano di molti milioni la moneta; il credito le sosteneva: era dunque introdotta nel commercio la carta monetata, ma buona perchè incognita. Svelata dall’abuso, i depositarii, traendo in folla ed a furia i loro crediti, fecero vote le casse; e, trattenuti gli ultimi pagamenti, fu distrutto il prestigio della fedeltà. Essendo grande il danno perchè infinite le relazioni coi banchi, divenne uguale il grido e lo spavento. «Ecco, dicevano, i tesori del re disotterrati per amor nostro! Ecco i giojelli della regina pegnorati o venduti! Questi sono. i risparmii e gli stenti della famiglia donati alla difesa e alla quiete del regno. Pianto fallace di povertà; mostre generose e ingannevoli, mercato infame delle nostre sostanze! Le nuove taglie sono assai maggiori delle nuove spese; il re, la regina, il ministro, provvedono al loro ricco vivere in qualunque fortuna.» Così per giudizii gli uni agli altri contrarii, saltando da cima a cima come la plebe.
Il governo sollecito a’ rimedii ridusse in uno i sette banchi della città, col nome di banco nazionale; stabilì botteghini di suo conto soccorsali dei banchi, e per contrapporli a’ guadagni strabocchevoli degli usurai; svergognò e punì molti uffiziali di banco per frodi vere o apposte. E non però migliorando le condizioni, e vedendo le polizze rifiutate nel commercio, comandò che valessero nelle private contrattazioni antiche o presenti: così offendendo e nuocendo alle ragioni dell’universale. Nacque allora ne’ fogli di cambio la indicazione di moneta fuori banco, la quale regge ancora, e forse, scordata la origine (perciò ne parlo), starà in eterno. Andando sempre in peggio la sorte de’ banchi, le fedi circolavano con perdita, che montò sino all’85 ne’ 100. Il danaro involato fu cinquanta milioni di ducati; e perciò, distrutte te doti de’ sette banchi, si rapirono trentasette milioni, senza giustizia, senza misura comune, a caso, a ventura, dalle sostanze de’ cittadini.
Quelle che ho descritte furono in otto anni, dal 91 al 99, le leggi di finanza. Se ne tessero due di amministrazione; utili e ineseguite: l’una prescrivente in ogni comunità la formazione di una carta o tabella indicativa de’ terreni e delle colture; l’altra ordinante il censimento del demanio comunale, a patti giovevoli a’ censuarii, preferendo i poveri. Nulla sì fece in legislazione, in commercio, in iscienze, in arti, in tutta la vasta mole della economia dello stato: però che non reggere nè guidare il regno, ma imperare e combattere erano le sole cure de’ governanti; così accresciuto l’imperio, scemavano le leggi.
XIII. Una contesa presto nata e spenta fra i re di Napoli e di Svezia io leggo in tutte le istorie del tempo come che non degna di ricordanza: e se pur io la registro ne’ miei libri è solamente per non torre fede agli scrittori che mi han preceduto nel faticoso cammino di comporre le istorie. Dopo la morte di Gustavo III, il re successore governava la Svezia negl’interessi di quella parte ch’ebbe ucciso il fratello: nuove congiure perciò si ordirono, e la vita del novello re fu in pericolo. Era tra’ congiurati l’ambasciatore in Napoli barone di Armfeldt, scoperto reo, e dimandato per lettere cortesi del re di Svezia al re delle Sicilie. La morte di Gustavo, principe guerriero e sdegnoso contro la Francia, era spiaciuta alla casa di Napoli, che tenendo giacobini coloro che lo spensero, e sostenitori della causa de’ re la parte contraria, diede al barone d’Armfeldt agio e mezzi da fuggire in Austria. Il re di Svezia se ne sdegnò, e con dichiarazione fatta pubblica, espose alle corti di Europa le sue ragioni e ’l proponimento di sostenerle: altra dichiarazione del re di Napoli, non timida, non umile, rispose. Disputa scandalosa durò fra’ ministri delle due corti; e ’l sovrano svedese intimò ammenda o guerra. Ma quella non fu data, questa non cominciò; tanti romori si sperderono.
XIV. Alle male venture, guerra, fame, povertà, discordie, che finora ho narrate, si aggiunse nell’anno 1794 altra più fiera perchè inevitabile. Nella notte del 12 giugno, forte tremoto scosse la città, e rombo cupo e grave pareva indizio d’imminente eruzione di foco dal Vesuvio. Gli abitanti delle città e terre sottoposte al monte fuggirono dalle case, aspettando allo scoperto il nuovo giorno; il quale spuntò sereno: ma in cima del volcano nugolo denso e scuro copriva l’azzurro e lo splendore del cielo; e come il giorno avanzava così crescevano il romore, l’oscurità e la paura. Passarono tre dì; la notte del quarto, 15 a 16 di giugno, scoppio che diresti di cento artiglierie chiamò a guardare il Vesuvio, e fu vista nella costa del monte colonna di foco alzarsi in alto, aprirsi e per proprio peso cadere e rotolare su la pendice: saette lucentissime e lunghe uscenti dal volcano si perdevano in cielo, globi ardenti andavano balestrati a gran distanze; il rombo sprigionato in tuono. Foco a foco soprapposto, perciocchè lo sbocco era perenne, formò due lave, le quali con moto prima rapido poi lento s’incamminavano verso la città di Resina e Torre del Greco. Stavano gli abitanti, trentadue mila uomini, mesti ed attoniti a riguardare. La città di Resina cuopre l’antica Ercolano: la Torre del Greco fu in origine fondata al piede del monte, dove le ultime pendici si confondono con la marina. Eruzione antica ne coprì metà, e tanta materia vi trasportò che fece promontorio su la città rimasta. In quell’altura fabbricarono nuove case: e però le due città, l’alta e la bassa comunicavano per erte strade a scaglioni, essendo di ottanta braccia almeno l’una sul’altra. La eruzione del 94 le adeguò, lasciando dell’alta, segnali della sventura, le punte di pochi edifizii, e coprendo della bassa e soperchiando le umili case, le sublimi, le stesse torri delle chiese. In Resina bruciarono molti campi e pochi edifizii più vicini al monte, fermandosi l’esterminio quasi al limitare della città. La prima lava, quella che sotterrò Torre del Greco, entrò nel mare, pinse indietro le acque, e vi lasciò massa di basalto sì grande che fece un molo ed una cala, dove le piccole navi riparano dalle tempeste. Spesso le due lave, docili alle pendenze o curvità del terreno, si univano; e spesso si spartivano in rivoli: ne’ quali rigiri fu circondato un convento dove tre persone, impedite dal fuggire, soffocate dal grande ardore, perirono. Il cammino della maggior lava, quattro miglia, fu corso in tre ore, le materie vomitate erano tante che parevano maggior volume del monte intero.
Ciò nella notte. Batteva l’ora ma non spuntava la luce del giorno, trattenuta dalla cenere, che densa e bruna dirottamente pioveva molte miglia in giro della città. Lo spettacolo di notte continua oppresse l’animo degli abitanti, che volgendosi, come è costume delle moltitudini, agli argomenti di religione, uomini e donne di ogni età o condizione, con piedi scalzi, chiome scielte e funi appese al collo per segno di penitenza, andavano processionando dalla città al ponte della Maddalena, dove si adora una statua di san Gennaro, per memoria di creduto miracolo in altra eruzione; così che sia scolpita in attitudine di comandare al volcano di arrestarsi. Colà giunte le processioni, quelle de’ gentiluomini pregavano le consuete orazioni a voce bassa, quelle del popolo gridavano canzone allora composta nello stile plebeo. Ed in quel mezzo si vedeva cerimonia più veneranda; il cardinale arcivescovo di Napoli, e tutto il clero in abito sacerdotale, portando del medesimo santo la statua d’oro e le ampolle del sangue, fermarsi al ponte, volgere incontro al monte la sacra immagine, ed invocar per salmi la clemenza di Dio. Nè cessarono i disastri della natura. Potendo la cenere adunata sopra i tetti e i terrazzi rovinar col peso gli edifizii, il magistrato della città bandì che si sgomberasse; e più del comando valendo il pericolo, subito dall’alto si gettarono quelle materie su le strade oscurando viepiù e bruttando il paese. Non si vide, si udì giunger la notte da’ consueti tocchi della campana; ma dopo alcune ore si addensarono tenebre così piene come in un luogo chiuso; nè la città in quel tempo era illuminata da lampadi; e i cittadini intimoriti da’ tremuoti, non osando ripararsi nelle case, stavano dolenti per le strade o piazze ad aspettare l’abisso estremo. Al dì vegnente, che fu il terzo, scemò la oscurità ma per luce sì scarsa che il sole appariva, come al tramonto, pallido e fosco: diradarono le piove delle ceneri, cessò il fuoco ed il tuono del volcano. Quello aspetto di sicurtà, le patite fatiche, la stanchezza, invitarono gli abitanti a tornare alle case; ma nella notte nuovo remoto li destò e impaurì; e mentre la terra tremava, udito uno scroscio come di mille rovine, temeva ogni città che la città vicina fosse caduta.
Il nuovo giorno palesò il vero, perchè fu visto il monte troncato dalla cima, e quella inghiottita nelle voragini del volcano; sì che il tremuoto e lo scroscio della sera, da’ precipizii. E se prima il monte Vesuvio torreggiava su la montagna di Somma che gli siede appresso, oggi, mutate le veci, questa si estolle. Essendo quelli gli ultimi fatti della eruzione, per non dire de’ soliti diluvii e delle frane, io raccoglierò delle cose che avvennero, le più notabili. La parte troncata del monte era di figura conica; l’asse tremila metri (circa palmi napoletani novemiladuecento); la base, ellittica, cinque miglia in giro; la grossezza maggiore della lava, undici metri (quaranta palmi); la terra coperta di fuoco, cinquemila moggia; il molto largo la quarta parte di un miglio, sporgente in mare ventiquattro metri, elevato su l’acqua sei metri; gli uomini morti trentatrè, gli animali quattromiladuecento. Furono le cure del governo solamente pietose, impedita la liberalità dalle strettezze dell’erario. In breve tempo, sopra il suolo ancora caldo, videsi alzare nuova città; soprapponendo le case alle case distrutte, e le strade alle strade, i tempii a’ tempii. Possente amor di patria che dopo tanti casi di esterminio si direbbe cieco ed ostinato, se in lui potesse capir difetto!
In que’ giorni di lutto universale, Îl re con la casa e col generale Acton, caro alla famiglia, andarono agli accampamenti di Sessa, lontani dal pericolo e dalla mestizia. I teatri, la curia, le magistrature si chiusero. Solamente in quel feriato di dolore, la giunta di stato non sospese i crudeli offizii; essendosi trovati negli archivii molti atti segnati di que’ giorni. Prima opera di lei fu la morte di Tommaso Amato, che in giorno festivo, nella chiesa del Carmine, spingendosi verso il santuario e lottando con un frate che lo impediva, proferì a voce alta bestemmie orrende contro Dio, contro il re. Arrestato dal popolo e dato alle guardie del vicino castello, accusato reo di lesa maestà divina ed umana, fu condannato a morire su le forche. Il re prescrisse pubbliche orazioni onde placare la collera di Dio, mossa dal veder profanato il tempio e i sacerdoti. Le spoglie di Tommaso Amato non ebbero cristiana sepoltura, e si citava il nome ad orrore. Ma per lettere che da Messina, patria dell’infelice, scrisse il generale Danero governatore della città, seppesi Tommaso Amato soffriva in ogni anno accessi di pazzia, e che da certo tempo era fuggito dalla casa de’ matti. Il pre sidente Cito, e ’l giudice Potenza, avendone avuto sospetto nel processo, votarono che fosse custodito come demente; ma piacque agli altri giudici punire uomo creduto malvagio dal popolo, e radicar la sentenza nella plebe: nemico del re, nemico a Dio. Dal primo sangue, gli animi inferociti, prepararono la gran causa de’ rei di stato; così portava nome. Il governo incitava i giudici alla severità, spaventato dalle nuove cose di Francia e d’Italia; era capo in Francia Robespierre, e trionfavano allo interno le dottrine più feroci; allo esterno, gli eserciti: nel Piemonte scoprivasi congiura contro il re, e tumulti la secondavano; spuntavano in Bologna germi di libertà ed in Napoli si passava dalle finte alle vere cospirazioni, per gli scarsi ricolti sempre pericolosi alla quiete, e la povertà del popolo, e lo sdegno degli oppressi, è l’usato cammino della scontentezza. La giunta di stato giudicava. Era inquisitorio il processo, scritta la pruova; le secrete accuse o denunzie potevano come indizii; i testimonii, benchè fossero spie a pagamento, valevano; nè a’ servi, figliuoli, a’ più stretti parenti era interdetto l’uffizio di testimonio. Il processo, compiuto in secreto, passava a’ difensori, magistrati eletti dal re; le difese producevansi scritte; nè all’accusato era concesso il parlare; il giudizio spedito a porte chiuse; la relazione dell’inquisitore valeva quanto il processo, non che fosse vietato a’ giudici leggere nei volumi, ma nol comportava la strettezza del tempo, perchè ad horas; era inquisitore nel processo lo scrivano; nel giudizio, un magistrato scelto tra i peggiori, quale il Vanni nel tempo di cui scrivo, poi Fiore, Guidobaldi, Speciale, Sommavano i giudici numero dispari per torre il benefizio della parità. Le pene, severissime: morte, ergastolo, esilio; le sentenze inappellabili; l’effetto, immediato; l’infamia sempre ingiunta, non mai patita.
XVI. Compiuto il processo de’ rei di stato, il procurator fiscale diceva chiare le pruove contro parecchi de’ prigioni, e preparato il proseguimento per gli altri carcerati, o fuggitivi, o nascosti, o fortunati che sebben rei godevano di libertà e d’impieghi; avvegnachè (ci soggiugneva) teneva pruove certe per ventimila colpevoli, e sospetti per cinquantamila. A’ quali avvisi ed istanze il re prescrisse la giunta di stato, ad modum belli e ad horas, giudicasse i rei che il procurator della legge indicava; e il tribunale adunato il 16 di settembre, sciolto il 3 di ottobre, senza intermissioni e senza riposo a’ giudici fuor che il necessario alla vita, giudicò. Di cinquanta accusati, con processo di centoventiquattro volumi, il procurator fiscale dimandò pena di morte per trenta, prima da cruciarsi con la tortura ad effetto di conoscere i complici; sospensione di giudizio per altri diciannove, ma da collocarsi co’ primi trenta; dell’ultimo non parlò. Questi non ostante, fu giudicato in primo luogo, e confinato a vita nell’isola di Tremiti; egli era chiamato Pietro de Falco, capo ed anima della congiura, fellone alla setta e svelatore de’ settarii. Poscia il tribunale condannò tre alla morte, tre alle galere, venti al confino, tredici a pene minori; mandò liberi gli ultimi dieci. Era tra’ confinati il duca di Accadia; e ’l re, mantenendo i privilegi de’ sedili, fece assistere al giudizio due nobili, col nome di pari; ultimo rispetto alle antiche leggi. La sentenza che puniva i congiurati taceva della congiura, vergognando castigare acerbamente adunanze secrete di giovanetti, ardenti di amore di patria, inesperti del mondo, senza ricchezze, o fama, o potenza, o audacia, condizioni necessarie a novità di stato; ed avversi alle malvagità ed a’ malvagi, che fanno il primo nerbo de’ rivolgimenti; perciò non altre colpe che voti, discorsi, speranze. Questa era la congiura per la quale tre morivano, molti andavano a dure pene, tutti pericolavano; e si spegneva la morale pubblica, si creavano parti e nemicizie, cominciava tirannide di governo. contumacia di soggetti, odii atroci ed inestinguibili per andar di tempo e per sazietà di vendette.
I condannati a morire, Vincenzo Vitaliano di ventidue anni, Emanuele de Deo di venti, e Vincenzo Galiani di soli diciannove, erano gentiluomini per nascita, notissimi nelle scuole per ingegno, ignoti al mondo. Dopo la condanna, la regina chiamò Giuseppe de Deo, padre di uno de’ tre miseri, e gli disse di promettere al giovane vita e impunità, solo che rivelasse la congiura e i congiurati. Andò il vecchio alla cappella dove il figlio ascoltava gli estremi conforti di religione e, rimasti soli (così avea comandato la regina), lo abbracciò tremando, espose l’ambasciata ed il premio, rappresentò il dolor suo, il dolor della madre, l’ onore del casato; proponeva, dopo la libertà, fuggire assieme in paese lontano, e tornare in patria quando fossero i tempi meno atroci. E però che l’altro ascoltava senza dir motto, egli credendolo vicino ad arrendersi, ruppe in pianto, s’inginocchiò a’ piedi del figliuolo, e tra gemiti confusi potè dire appena: «Ti muova la pietà del mio stato.» E allora il giovine sollecito inalzandolo, e baciatogli quando le mani e quando il viso, così disse: «Padre mio, la tiranna per cui nome venite, non sazia del nostro dolore, spera la nostra infamia, e per vita vergognosa che a me lascia, spegnerne mille onoratissime. Soffrite che io muoja; molto sangue addimanda la libertà, ma il primo sangue sarà il più chiaro. Qual vivere proponete al figlio e a voi? dove nasconderemmo la nostra ignominia? Io fuggirci quel che più amo, patria e parenti; voi vergognereste di ciò che più vi onora, il casato. Calmate il dolor vostro, calmate il dolore alla madre, confortatevi entrambo del pensiero che io moro innocente e per virtù. Sostenghiamo i presenti martorii fuggitivi; e verrà tempo che il mio nome avrà fama durevole nelle istorie, e voi trarrete vanto che io, nato di voi, fui morto per la patria.» L’alto ingegno, il dir sublime, e valor che trascende in giovine acceso di gloria, tolsero lena e voce al vecchio padre, che quasi vergognoso della maggior virtù del giovinetto, ammirando e piangendo, coperta dalle mani la fronte, ratto uscì dalla orrenda magione.
Al dì vegnente andarono i tre giovani al supplizio, senza pianti, o que’ discorsi che pajono intrepidezza e sono distrazioni e conforto alle infelicità del presente; serenità che mancava (debita sorte della tirannide) a’ tiranni; sì che di loro altri diceva, altri credevano che cinquanta migliaja di giacobini, adunati nella città, si leverebbero per sottrarre i compagni, ed uccidere del governo i capi e i seguaci.
Alzato perciò il palco nella piazza detta del Castello, sotto i cannoni del forte, circondato il luogo di guardie, muniti di artiglierie gli sbocchi delle strade, ed avvicinate alla città numerose milizie bandirono cha ad ogni moto di popolo i cannoni de’ castelli tirerebbero strage. Uffiziali di polizia travestiti, sgherri in abito, e spie a sciami si confusero nella folla. E fra tanti provvedimenti di sicurtà stavano i principi nel palagio di Caserta, più timidi ed ansanti de’ tre giovanetti che rassegnati morivano. Quelle mostre di timore produssero timor vero a’ cittadini; e sarebbe rimasta vota la piazza, se le atrocità non fossero come feste alla plebe; perciò fu piena. E poi che Galiani e de Deo furono morti, al salire del terzo sul patibolo, piccola mossa, della quale s’ignora il principio, allargata nel popolo, ingigantita da’ sospetti, pericolosa per le minacce e per gli apprestamenti che si vedevano ne’ soprastanti bastioni, tanta paura sparse in quelle genti, che nel fuggire alcuni restarono feriti, molti rubati, la piazza si vuotò, e i ministri della pena compierono nella solitudine l’uffizio scelerato.
XVII. Mesto anche per segni di natura l’anno 1794; parecchi uomini morirono di fulmine, un fulmine entrò in chiesa, un altro ruppe dentro al porto di Napoli gli alberi e l’armatura di un vascello nuovo (il Sannita), pronto a salpare per la guerra; un marinajo vi fu incenerito. Accaddero nelle nostre marine continui e miserevoli naufragi, molte morti in città d’ uomini grandi, morbi gravissimi. Così che finito quell’anno, auguroso per i creduli, si speravano tempi migliori; ma ne’ primi giorni dell’anno vegnente si udì la morte del principe di Caramanico, vicerè in Sicilia, con tali voci e opinioni che apportò ragionevole spavento ne’ due regni. Rammento in questo luogo che il principe di Caramanico propose alla regina la chiamata dell’Acton dalla Toscana; il quale, venuto in Napoli, piacque; poi geloso del benefattore (valendogli la prepotenza degli affetti nuovi), ottenne che il principe andasse lontano dalla reggia. Si tenne ch’ei morisse di veleno macchinatogli dal rivale, o preso per evitare a sè il dolore, al nemico il trionfo di essere menato nella fortezza di Gaeta come reco di maestà; di che avuto avviso per sicuri annunzii, volle schivare con la morte il pericolo e la vergogna. Alcuni fatti della casa del principe, molti provvedimenti, morte sollecita, segni (dicevano) di veleno, tempi tristi, grandezza di lui, maggior potenza di nemico malvagio, aggiungevano fede a’ racconti. Cresciuto l’odio pubblico per il ministro e per la regina, cominciato allora per il re (non bastando la infingardaggine a scusarlo de’ mali che si facevano col suo nome), circolavano contro tutti e tre dicerie plebee, spregianti la maestà de’ principi, ed incitatrici allo sdegno di quei potenti. Dopo la morte compianta del vicerè, l’universale sperando la caduta dell’odiato ministro per lo innalzamento del cavalier Medici, nobile di casato, sciolto come li vuole fortuna da’ ritegni della coscienza, e gia sul cammino della civile grandezza, rammentava il celere corso de’ sostenuti offizii, e lo diceva degno di offizii maggiori, tanto più ne’ presenti pericoli dello stato. Il quale grido che, quando è di popolo, raccomanda, rinforzando l’ambizione del giovine gli attirò sguardi significanti della regina, biechi del ministro; tanto più che questi nella corte e nello stato non vedendo altro uomo che sollevasse nè manco il desiderio a quella altezza, divisava che lo spegner quel solo gli era certezza e durata di fortuna.
Sapeva il modo: l’accusa di maestà; ma bisognavano tempo e ordimenti alla calunnia. Fra i condannati dalla giunta era un Annibale Giordano professore di matematica, egregio per ingegno, malvagio per natura, usato ed accetto in casa Medici. Egli (non è ben chiaro se richiesto o scaltro) accusò il cavalier Medici di complicità nella congiura; ma il ministro Acton, tenendo celato il foglio, premiato il delatore, impostogli secreto, adunò altre accuse, sottoscritte del nome degli accusatori, o senza nome con la promessa di palesarlo, quando al reo fosse tolta la smisurata autorità di reggente. Unite le carte in processo, andò il ministro a pregare i due sovrani di ascoltarlo in privato; e concessogli, disse:
«Corrono tempi tristi e difficili, spesso la fedeltà confusa con la fellonia, il vero col falso; se non credi alle accuse, pericola lo stato; e, se le credi, adombri la quiete de’ principi, e forse offendi l’onestà e la giustizia. Perciò ne’ casi leggieri, io, con l’autorità che le maestà loro mi hanno concessa, opero e taccio; se non che delle asprezze fo me autore, delle blandizie, il principe. Ma ne casi gravissimi dove non basta l’autorità di ministro, mi vien meno l’animo di operare o di tacere; gran tempo ho taciuto grave affare (mostrò le carte): oggi più lungo silenzio mi farebbe colpevole. Annibale Giordano, reo di maestà tra i primi, con foglio firmato del suo nome, animosamente accusò di complicità nella congiura il reggente della vicaria cavalier de Medici.» (Parve maraviglia in viso del re, indignazione alla regina; ed egli, come a que’ segni non avvertisse, proseguiva:) «La enormità del delitto scemava fede all’accusa; giovine alzato a’ primi gradi dello stato, avendo in prospetto gradi maggiori, nobile per famiglia, piacente a’ sovrani, venerato da’ ministri (e da uno di essi anche amato), come credere che arrischiasse tanti benefizii presenti per sognate speranze di avvenire? Tenni l’aceusa malvagia, e di nemico. Ma dalle regole di pubblica sicurezza sapientemente da vostra maestà ordinate, non isfuggendo verità che assicuri o che incolpi, si palesarono altri fatti ed altre pruove contro il reggente; egli assiste al club de’ giacobini radunati a Posilipo sotto specie di cena, per congiura; egli conferì con La Touche; per lui fallò l’arresto de’ giacobini che andavano al vascello francese; del quale mancamento io mi avvidi, ma lo credetti mala ventura o mal consiglio, non già proposito e delitto. Altre colpe di lui stanno registrate in quei fogli; e ve ne ha tali per fino malediche a suoi principi. Molti nobili (egli stesso n’ è cagione col consiglio e con l’esempio) sono tra congiurati; i Colonna, i Caracciolo, i Pignatelli e Serra e Caraffa, ed altri nomi chiari per natali, titoli e ricchezze; i giovani bensì, non i capi delle famiglie, ma i giovani si riempiono le congiure; e poscia i maggiori, per naturale affetto di sangue difendendo i figliuoli, ajutano l’impresa. Sono queste le cose che io doveva rassegnare alle loro maestà; elle decidendo ricordino che incontro a’ tristi e ingrati vi ha l’obbedienza dell’esercito, la fedeltà del popolo, la vita di molti.»
E tacque. La regina non osava parlare prima del re; ma questi disse al ministro, «E, dopo ciò, che proponete?» E quegli:
«So che è debito di ministro, esponendo i mali proporre i rimedii; ma lungo riflettere non mi è bastato a sciorre i dubbii che si affollano in mente, ed ho sperato dalle loro maestà comando e consiglio. Non vi ha che due modi, pericolosi entrambo: la clemenza o il rigore; pochi mesi addietro erano congiurati uomini mezzani, oggi lo sono i primi dello stato; dove giugnerà la foga, se spavento non l’arresti? ma quai nemici e quanto potenti affronterebbe il rigore? Egli è vero che i tempi sono mutati, ma vive ancora la memoria e la superbia delle guerre baronali, e si citano i danni e i cimenti de’ re aragonesi; egli è ancor vero che la baronia di oggidì non è guerriera, ma l’ajuta passione di libertà, che pur troppo è ne’ popoli. Fra le quali dubbiezze mi venne pensiero utile, non giusto; ed alle maestà vostre lo confido. Ambizione muove il cavalier de’ Medici, il giovine impaziente non può soffrire la incertezza ed il tedio dell’aspettare; se vostra maestà lo innalzasse a ministro, cesserebbero le voglie ree di mutar lo stato, ed egli spegnerebbe in un giorno le trame, note a lui, della congiura.» E non anco finiva il bugiardo discorso, se la regina, rompendolo, non diceva: «Ludibrio della corona! siamo a tale ridotti che dobbiamo dar premii a’ congiurati? E chi d’oggi innanzi non congiurerà contro il trono, se avrà mercede, quando fortunato, dalla impresa; e quando scoperto, da noi? Sire (volgendosi al re), è diverso il mio voto. II cavalier Medici, comunque abbia i natali e l’autorità, i nobili d’ogni nome, di qualunque ricchezza, corrano le sorti comuni, e un tribunale di stato li condanni. Un alto esempio val mille oscuri.» E allora il re sciolse la secreta conferenza, prescrivendo che al doman l’altro i ministri dello stato, il general Pignatelli capo dell’armi, il cardinale Fabrizio Ruffo, il duca di Gravina e il principe di Migliano si adunassero a suo consiglio nella reggia di Caserta.
XVIII. Al dì seguente disse la regina saper ancor ella le trame rivelate dal ministro, ed averle nascoste al re per non turbarne il riposo, ed aspettare la maturità delle pruove: vanto e menzogna. Furono quelle trame ordite dall’Acton a rovina de Medici, e tenute secretissime per impedire che se ne scolpasse. Ella millantava di saperle, perchè fin anco i re, quando s’intrighino tra’ maneggi di polizia, ne prendono il peggior difetto, la vanagloria. Ma lo scaltro Inglese, giovandosi della menzogna, disse in privato alla maggior parte de’ consiglieri eletti, che la regina avea scoperto nuove congiure; che un discorso di lui del giorno innanzi era stato da’ principi male accolto per la proposta clemenza; ch’era dunque il rigore necessità; tacque i nomi, e pregato il secreto, n’ebbe promessa; e della confidenza, rendimento di grazie. Raccolta in Caserta la congrega, il re dicendo voler consiglio sopra materia gravissima, chiuse il breve discorso. «Dimenticate i privati affetti, o di classe, o di parentado: un solo sentimento vi guidi, la sicurezza della mia corona. Il generale Acton esporrà i fatti.» Gli espose con discorso studiato ed ingannevole; e poscia il re permettendo il parlare, dimandò i voti. Non alcuno fra tanti dissentì, e solamente aggiunsero accuse alle accuse del ministro; malvagi o timidi per meritata sorte delle tirannidi, mancar di schietto consiglio nei bisogni maggiori. Fermarono, porre sotto giudizio il cavalier de Medici e quanti altri, nobili o no, fossero colpevoli. La giunta di stato, quella medesima tanto sollecita nel punire che non aspettò per Tommaso Amato le lettere di Messina, e tanto spietata che uccise tre giovanetti ai quali appena ombrava le gote il pelo dell’adolescenza, non fu creduta bastevole alla voluta speditezza del processo ed al rigore; e si temeva l’aderenza de’ giudici al cavalier dei Medici, sino allora giudice anch’esso della giunta, e severo contro que’ congiurati che ora dicevano suoi compagni. Lo giunta fu sciolta; e ricomposta di giudici peggiori, avvegnachè, mantenuti Vanni e Giaquinto, furono messi alle veci di Cito, Porcinari, Bisogni, Potenza, il magistrato Giuseppe Guidobaldi, Fabrizio Rufo principe di Castelcicala, ed altri famosi per tristizie. Castelcicala in quel tempo ambasciatore del re a Londra venne allegro del nuovo uffizio che davagli, diceva, opportunità di provar la fede a’ sovrani, e sfogare lo sdegno proprio contro ,i ribelli al trono ed a Dio. La regina festosamente lo accolse, però che un principe inquisitore di stato avvalorava la sentenza, «dover ella distruggere l’antico errore che riputava infami le spie, cittadini veramente migliori perchè fedeli a1 trono e custodi alle leggi.» Quindi nominava marchese il Vanni, fregiava dell’ordine Costantiniano i delatori più tristi e diffamati; e solo ad essi, disegnandoli col nome di meritevoli, dava gli offizii dello stato.
L’insita loquacità della regina, cui abbiamo debito di aver saputo i secreti parlari dell’ Acton, del re, di lei stessa, svelò il consiglio di Caserta alla marchesa di Sammarco, dama tra le prime, confidente e compagna negli amori, dicendole che il fratello cavalier de’ Medici (giacobino, che sarebbe se lo ajutasse fortuna il piccolo Robespierre) conspirava contro il trono. Egli, così avvisato del pericolo, andò alla reggia; e negatogli accesso alla regina, parlò al re, il quale a’ ragionamenti ed alle preghiere nulla rispose; ma nel vegnente giorno lo depose d’uffizio, e lo chiuse nella fortezza di Gaeta. Nel tempo stesso menavano alle prigioni un Colonna figlio del principe di Stigliano, il duca di Canzano, il conte di Ruvo, un Serra di Cassano, e i Caracciolo, i Riarii ed altri nomi chiari per le grandezze degli avi e per le presenti; primi baroni, imparentati alla più alta nobiltà del regno, e per immemorabile feudalità venerati e temuti da’ popoli. Del quale ardire del governo importa svolgere le cagioni. Le passioni de’ sovrani di Napoli, sdegno cioè della offesa monarchia e pietà degl’infelici parenti, si accesero prime e cieche contro i Francesi; ma poi che videro disperata la vendetta sopra popolo fortissimo e lontano, si volsero a sfogare nel proprio regno su le immagini della Francia; chiamarono giacobini gli amanti semplici ed innocenti di vaga libertà, i lodatori delle repubbliche, i leggitori delle gazzette straniere, coloro che imitavano nel vestimento le mode francesi; ed indi a poco, di giacobini gli dissero congiurati ad abbattere il trono, a rovesciare gli altari, a spegnere il re e i sacerdoti. Così che ad oneste brame, o a semplici apparenze di vita diedero colpa e peso di maggiori delitti. Veramente all’arrivo dell’ammiraglio La Touche parecchi Napoletani, come ho riferito, convennero in secrete combriccole per comunicare con quei Francesi, e per volgere in italiano e stampare le costituzioni del 91; ma sciolte dai rigori del governo le adunanze, i vaghi di libertà s’incontravano alla sfuggita, balbettavano l’un l’altro all’ orecchio le notizie correnti, si rallegravano de’ successi della Francia, speravano e separavansi; non avevano di congiura npè scopo, nè mezzi; la polizia, la giunta di stato, i ministri del re, la regina col numeroso corteggio delle spie, percuotevano i fantasmi. E più inferocivano per non trovare le pruove del delitto, e credere nel silenzio degli accusati forza di secreto e di fede; quindi moltiplicavano i martorii a’ prigionieri; imprigionavano Pagano, Ciaja, Monticelli, Bisceglia, il vescovo Forges ed altri venerati per dottrina e virtù; insidiavano l’onestà, promettendo uffizii e doni a chi rivelasse le colpe di maestà; guastavano i costumi delle famiglie, nemicando il fratello al fratello, il figlio al padre; pervertivano la morale del popolo, sciogliendo tutte le fedeltà, di servo, di custode, di cliente, di confessore. Scomponevano la società.
XIX. Venne ad aggravare i sospetti e le miserie un sucesso infelice di Palermo, dove le genti affamate per iscarso ricolto di quell’anno, impoverite per nuovi tributi, scontente dell’arcivescovo Lopez, che dopo la morte del Caramanico reggeva l’isola, tumultuarono pazzamente di moti confusi, facili a trattenere e ad opprimere. Un avvocato Blasi, ed altri pochî si unirono in secreto per consultare se quella popolare disperazione bastasse ad aperto sconvolgimento: ma subito traditi e imprigionati, il Blasi per sentenza morì, prima torturato co’ modi antichi nella pubblica piazza; altri andarono alle galere, altri all’esilio; il popolo s’intimorì, successe pazienza non calma; la tirannide imperversò. In Napoli durando le incertezze della creduta congiura, e i principi travedendo intorno a se il tradimento e la morte, congedarono le antiche guardie del corpo, ed altre ne scelsero, mutarono i custodi, variarono gli ordini della casa, facevano saggiare i cibi, nascondevano alla comune de’ servi le camere del sonno; e, più timorosi tuttodì, toglievano ad altri la quiete e la perdevano. Ne’ quali commovimenti di paura e di rigore fu pubblicato editto che perdonava le colpe di maestà, e prometteva segretezza e premii a quei rei che rivelassero la congiura, e i capi d’essa, o i compagni. Per effetto del quale editto riferirono cose leggere o mentite tre fuggitivi e nobili, de’ quali taccio i nomi, perchè lavarono col sangue la vergogna; uno morto in guerra, gli altri due (erano fratelli) sul patibolo. Nè quello editto altra cosa notabile produsse.
XX. In mezzo a riferiti dolori e vergogna qualche conforto apportavano le geste de’ reggimenti di cavalleria napoletana, che insieme agli Alemanni, con uguale, almeno, disciplina e valore guerreggiavano in Lombardia; e delle nostre navi che unite agli Inglesi combattevano nel mare di Savona il navilio di Francia uscito da Tolone a portar guerra e sbarcar soldati su le coste della Romagna. Erano pari le forze combattenti, maggiore l’arte e la fortuna de’ nostri; così che i Francesi, dopo aver perduto due vascelli, e un brigantino, tornarono al porto sdruciti e vinti. L’ammiraglio Hotham capo della flotta anglo-napoletana fece lodi bellissime a’ nostri, e più notò la intrepidezza e il sapere del capitano di fregata Francesco Caracciolo, cui preparavano i cieli, e non lontane, gloriosa celebrità e misera fine. Nel regno le comunità mandavano i richiesti soldati, e la baronia, cavalieri e cavalli; si pagavano le taglie pubbliche; si comportavano le perdite crescenti delle carte di banco. E fra tanti documenti di virtù civile la sventurata nazione, creduta ribelle dal suo re, ribalda dal mondo, tollerava i pesi e gli sforzi della fedeltà con le pene e le infamie dei felloni. Negli anni sino al 95, mentre in Napoli seguivano le narrate cose, la Francia governavasi a repubblica; ma vedevi alcuni come tiranni opprimere popolo come schiavo, e la schiavitù e la tirannide aver cagioni sincere nella libertà. Non è uffizio nostro stendere quella istoria, ma felice chi giugnerà a quell’altezza, dove rimarrà chiaro in fin che duri la memoria degli uomini; avvegnachè non ha il mondo argomento che pareggi la storia di Francia dell’anno 89 del passato secolo al 15° del corrente. Basterà a noi, narratore di poca parte di quegli avvenimenti, rammentare che nel governo della convenzione surse la tirannide di Robespierre, per la quale in breve tempo morirono di scure mille ottocento Francesi, e si fece salda la libertà; che, morto lui, e pure di scure, passò il potere a cinque appellati Direttorio; e che allora, cessate le atrocità, ebbe il governo della Francia sembianze meno ingrate alle genti straniere, ma più da’ principi abborrite, perchè più adatte alla intelligenza de’ popoli.
XXI. Il generale Bonaparte, appena conosciuto per i fatti di Tolone, acquistata fama nel parteggiare della città di Parigi, venne capitano dell’esercito guerreggiante in Italia. Giovine che di poco avea scorsi venticinque anni, moveva dileggio a’ vecchi capitani delle case d’Austria e di Savoja: ma in pochi di que’ sensi facili mutarono in altri più veri di maraviglia e di paura, Per le battaglie di Montenotte, Millesimo, Dego, Mondovì, spartiti gli eserciti collegati, il Piemontese forzato a scegliere tra la sommissione o la prigionia, l’Austriaco a ritirarsi negli stati lombardi, stupirono di timore tutti i prìincipi italiani; tra’ quali, i deboli, negoziarono pace; e i forti o prosuntuosi, accrebbero le difese e le milizie. Venezia ricordevole delle sue grandezze, inaccessibile, stando in mare, a’ battaglioni francesi, pregata di alleanza quando dalla Francia e quando da’ potentati contrari, aveva risposto, ch’ella armata in neutralità non assalirebbe gli altrui dominii, difenderebbe i proprii. Napoli, alla estremiti della penisola, con buona frontiera, molto popolo, e la Sicilia isola grande, cittadella del regno e della Italia, dominava per possanza propria e di confederazione i mari del Mediterraneo; il suo re passionato, arrischioso, e sino allora offeso e invendicato, disfidò le ostilità, inviando altri cavalieri nella Lombardia; e facendo per molti editti bando di guerra così composto: «Quei Francesi che uccisero i loro re; che desertarono i tempii, trucidando e disperdendo i sacerdoti; che spensero i migliori e i maggiori cittadini; che spogliarono de’ suoi beni la chiesa; che tutte le leggi, tutte le giustizie sovvertirono, que’ Francesi non sazii di misfatti, abbandonando a torme le loro sedi, apportano gli stessi flagelli alle nazioni vinte, o alle credule che li ricevono amici. Ma già popoli e principi armati stanno intesi a distruggerli. Noi, imitando l’esempio de’ giusti e degli animosi, confideremo negli ajuti divini e nelle armi proprie. Si facciano preci in tutte le chiese; e voi, devoti popoli napoletani, andate alle orazioni per invocare da Dio la quiete del regno; udite le voci de’ sacerdoti; seguitene i consigli, predicati dal pergamo e suggeriti da confessionali.»
«Ed essendosi aperta in ogni comunità l’ascrizione de’ soldati, voi adatti alle armi correte a scrivere il nome su quelle tavole; pensate che difenderemo la patria, il trono, la libertà, la sacrosanta religione cristiana, e le donne, i figli, i beni, le dolcezze della vita, i patrii costumi, le leggi. Io vi sarò compagno alle preghiere e a’ cimenti; che vorrei morire quando per vivere bisognasse non esser libero, o cessare di esser giusto.»
Poi volto a’ vescovi, a’ curati, a’ confessori, ai missionarii, disse:« È nostra volontà che nelle chiese de’ due regni si celebri triduo di orazioni e di penitenza; e ne sia scopo invocare da Dio la quiete de’ miei stati. Perciò dagli altari e da’ confessionali voi ricorderete a’ popolani i debiti di cristiano e di suddito, cioè cuor puro a Dio, e braccio armato a difesa della religione e del trono. Mostrate gli orrori della presente Francia, gl’inganni della tirannia che appellano libertà, le licenze o peggio delle truppe francesi, l’universale pericolo. Eccitate con processioni ed altre sacre cerimonie lo zelo del popolo. Avvertite che l’impeto rivoluzionario, comunque inteso a scuotere tutti gli ordini della società, segna a morte i due primi, la chiesa e il trono.»
E infine per altro editto a’ regii ministri diceva essere bisogno dello stato e sovrana volontà che tutti gli uomini atti alle armi si ascrivessero all’esercito; così per obbedienza de’ regali comandamenti, come allettati da’ consueti premii e privilegi della milizia, e da maggiore stipendio a’ volontarii; immunità di foro per sè e le famiglie; e franchigia, a’ valorosi di guerra, da’ pesi fiscali per un decennio. Promesse maggiori fossero fatte a’ baroni ed a’ nobili che venivano alle bandiere, o assoldavano buon numero di vassalli. Andavano gli editti nelle province con la fama dell’esempio; imperciocchè nel duomo della città, alla cappella di San Gennaro, cominciato il sacro triduo, il re con la famiglia, i grandi della corte, i magistrati e i ministri vi assisterono di continuo; seguiti dalle classi minori e dal popolo, sì che il vasto tempio non capiva la folla dei supplicanti. Così pure nelle province; nè mai forse tanti voti caldi e sinceri andarono al cielo quanti in que’ giorni; indizio di pericolo. I sermoni (tanto più de’ missionarii e de’ frati) furono ardenti; dipingendo i Francesi con immagini atroci, persuadendo contr’essi non che assolvendo gli atti più fieri; santificala la guerra di distruzione, richiamate ad uso ed a merito le immanità della barbarie. E peggio ne’ confessionali, dove senza i ritegni della civiltà aguzzavano gli odii nel cuor di plebe ignara e spietata. 1l seme, che poi fruttò strage infinita, fu sparso in quell’anno. Accorrevano d’ogni parte i soldati con voglia tanto pronta che la diresti da repubblica non da signoria. E quando l’esercito fu pieno, andarono trentamigliaja ne’ campi ed alloggiamenti della frontiera per guardia e minaccia. La difesa del regno divenne studio comune; ma essendo in quel tempo scarse e rare per noi le cognizioni di guerra, variavano le opinioni e i disegni. Divise le cure tra i capi della milizia, altri provvedendo ad una parte della frontiera, altri ad altra, si moltiplicavano le opere e le spese, vagavano infinite idee sopra infiniti punti; mancava il concetto universale di quella guerra. Ed oltracciò traendo regole dalla storia più che dall’arte, temevano il nemico dalle sponde del Liri, non da’ monti degli Abruzzi, e disponevano i campi e munimenti così che la parte meglio guardata fosse quella del fiume. Ma non mi arresto a questi errori però che il regno per altre sventure fu vinto. Molti soldati raccolti sopra piccoli spazii, poca scienza, nessun uso di milizie, amministratori nuovi, nuovi uffiziali, generali stranieri, componevano l’esercito; e la inespertezza universale ingenerò molti mali, de’ quali gravissimo un morbo radicato ne campi. A distanze grandi sul Garigliano e sul Tronto, i soldati infermavano di febbre ardente che al settimo e più spesso al quinto giorno apportava la morte; il vicino n’era preso come il lontano, purchè dimorassero ne’ campi o nelle stanze de’ soldati; non era conosciuta la natura del male, non la virtù de rimedii; rimedii opposti del pari nocevano; pareva febbre incurabile. Nè bastando allo impreveduto disastro gli ospedali antichi, nè fatti i nuovi, stando gli infermi confusi a’ sani, la malattia dilatando in ogni parte, uccise diecimila soldati; lo zelo dei popoli, iniquamente rimunerato dalla fortuna, intiepidì.
XXIII. Insieme al bando di guerra, altro regio editto decretava reo di morte chi all’appressar del nemico ne ricevesse lettere o imbasciate; e chi a lui ne mandasse, chi gli giovasse, o eccitasse tumulti; le adunanze sol di dieci uomini punite come delitti di maestà; ed altre asprezze o sollecitudini, quasi il nemico stesse alle porte. Il procedimento in que’ giudizii, ad Horas: le pruove facili, però che bastanti le affermazioni di tre, anche denunziatori o correi che rivelassero per benefizio d’impunità; il convincimento nella coscienza del magistrato; magistrato la giunta; le sentenze inappellabili e nel giorno istesso eseguite. Furono cagione all’editto le battaglie vinte in Italia dal general Bonaparte, la confederazione spezzata tra l’Austria e ’l Piemonte, l’armistizio indi la pace col re di Sardegna, la espugnata Milano, le debellate città; tutte le maraviglie del giovine guerriero; sventure del generale Beaulieu, cui obbedivano con gli Alemanni quattro reggimenti di cavalleria napoletana. Il quale Beaulieu, inattesamente assalito e rotto sul Mincio, stentò a ritirar l’esercito nelle strette del Tirolo; e quella istessa infelice ventura de’ fuggitivi gli negavano i vincitori, se i cavalieri napoletani, allora nelle prime armi, non avessero combattuto con valor degno di agguerriti squadroni; soldati ed uffiziali onoratamente morirono; il generale Cutò cadde ferito nel campo, e fu prigione; il principe di Moliterno capitano di centuria, colpito di scimitarra nel viso, rimase orbato di un occhio. Al grido delle nostre armi i Francesi sospesero la preparata guerra contro il regno, certi di trovarlo difeso da prodi soldati; e Bonaparte, per iscemare di quello ajuto il maggior nemico, offerì armistizio al re di Napoli; il quale, volte le speranze a timori, accettò l’offerta, e per patti stipolati in Brescia rivocò di Lombardia i suoi reggimenti, e dall’armata anglo-sicula i suoi vascelli; facendo le mostre della pattuita neutralità, comechè in petto crescessero il sospetto e la nemicizia per sentire le occupate città d’Italia ordinarsi a repubblica, avanzare il pericolo rapidamente come le conquiste, e ’l general Bonaparte correre la bassa Italia sino a Livorno, con una legione debole, sola, sicura nei nome e nel fatto del condottiero.
Cosicchè all’avviso che il maresciallo Wurmser con esercito nuovo scendeva in Italia, e che il generale francese affaticavasi a radunare le separate schiere per ripararle (diceva fama) in campo lontano, il re di Napoli, rianimate le speranze dello sdegno, scordando il fresco armistizio, spedì altri soldati alla frontiera, occupò una città (Pontecorvo) degli stati del papa, e si dispose alle ostilità. Il pontefice ancor egli, amico della Francia per fede recentemente giurata, preparò mezzi di guerra, e concertò i modi con le case d’Austria e di Napoli. Non farà quindi a’ dì nostri maraviglia che il maggior legame delle società, la fede pubblica, veggasi sciolto e spregiato da’ popoli; l’esempio cominciò da coloro che sopra gli uomini possono per isterminata forza d’imperio e di opinioni. Ferdinando di Napoli e Pio VI maturavano il momento di prorompere, massimamente che udirono tolto a Mantova l’assedio con tanta celerità da’ Francesi che mancò tempo, non che a trasportare, a distruggere le immense artiglierie che munivano le trinciere. Cacault, visti gli apparati guerrieri, dimandò al pontefice, al quale era ministro, i motivi dell’armamento, e n’ebbe risposte lente, ingannevoli. ma nuove protestazioni di amicizia e di pace. Venne in Napoli, e qui, per troppo sdegno meno finto il discorso, udì che la occupazione di Pontecorvo era stata accordata col sovrano del luogo; che se i nemici del papa entrassero ne’ suoi stati, vi entrerebbero per altra frontiera i Napoletani: ma che frattanto rimarrebbe fede all’ armistizio, Cacault, delle risposte dissimulate del pontefice, altiere del re. menzognere di entrambo, avvisò il governo di Francia e ’l generale d’Italia. E si stava in punto delle mosse quando giunse nuova che Bonaparte, visti gli errori di Wurmser, assaltate or l’una or l’altra le divise squadre imperiali, per tre battaglie le ruppe, e ritornò all’assedio di Mantova, trovando nelle trinciere gran parte de’ munimenti colà rimasti; però che tanto celere fu la vittoria che mancò tempo al presidio, come poco innanzi era mancato agli assediatori, di trasportare o distruggere macchine ed opere. Tremarono i governi contrarii alla Francia, quanto più mentitori e superbi tanto divenuti più timidi e vili. La corte di Roma riprotestò l’amicizia, ma i Francesi occuparono le Legazioni, e non concederono sospension d’armi che a patti gravi per la santa sede. Il re delle Sicilie pregando che l’armistizio di Brescia divenisse pace durevole, spedì ambasciatore a Bonaparte e al Direttorio il principe di Belmonte, il quale in Parigi li 11 di ottobre ottenne pace a’ seguenti patti:
«Napoli, sciogliendosi dalle sue alleanze, resterà neutrale; impedirà l’entrata ne’ suoi porti a’ vascelli, oltre il numero di quattro, de’ potentati che sono in guerra; darà libertà a’ Francesi carcerati ne’ suoi dominii per sospetto di stato; intenderà a scuoprire e punire coloro che involarono le carte al ministro di Francia Makau; lascerà libero a’ Francesi il culto delle religioni; concorderà patti di commercio che diano alla Francia ne’ porti delle due a Sicilie que’ medesimi benefizii che le bandiere più favorite vi godono; riconoscerà la repubblica Batava, e la riguarderà compresa nel presente trattato di pace.»
E per patti secreti:
«Il re pagherà alla repubblica francese otto milioni di franchi (due milioni di ducati); i Francesi prima che si accordino col pontefice, non procederanno oltre la fortezza di Ancona, ne seconderanno i moti rivoluzionarii nelle regioni meridionali dell’Italia.»
Questo ultimo patto, e il silenzio su i Napoletani prigionieri per cause di maestà, costarono al nostro erario un milione di franchi in doni e seduzioni; e perciò l’ingegno della tirannide e l’avarizia de’ liberi governi fecero pagare a noi stessi l’infame prezzo delle nostre miserie. Quella pace non si stringeva (tanto il Direttorio era sdegnato contro Napoli) se Bonaparte non consigliava dissimular le ingiurie sino a che l’Austria fosse vinta ed oppressa. «Oggi, ci diceva, mancherebbero le forze al risentimento, e verrà certo il giorno punitore delle colpe presenti e delle future, perciccehè gli odii de’ barbari per la Francia non cesseranno prima che tutto il nuovo diventi antico.» In quel tempo le sorti della repubblica erano prospere; l’esercito piemontese vinto, tre eserciti d’Austria disfatti, Mantova cadente, fermata pace con la Sardegna e con la Prussia e la Spagna, chetate le Russie perla morte della imperatrice Caterina e l’indole pacifica del successore, ordinati a repubblica e collegati alla Francia alcuni stati d’Italia, tributarii o neutri gli altri principi italiani. Così stavano le cose al finire dell’anno 1796.
XXIV. La pace, come già l’armistizio, essendo scaltrezze del governo di Napoli per aspettare miglior tempo alla guerra, vedevasi crescere di battaglioni l’esercito, di munimenti la frontiera, di tributi l’erario. Nè cessando le provvidenze chiamate di sicurezza pubblica, ci gravavano due guerre, la esteriore, la interna; e i danni e i pericoli di entrambe. Una speranza rallegrò gli animi al sentire che dopo la caduta di Mantova e le altre sventure degli eserciti d’Austria, fermato armistizio, si apriva in Leoben conferenza di pace; e che negoziatore per lo Impero fosso il marchese del Gallo ambasciatore a Vienna della corte di Napoli. Egli, sul confine della giovinezza, di sottile ingegno, e tale in viso che appariva ingenuo più del vero, piacque allo imperatore che lo mandò, avuta permissione dal re di Napoli, a trattare in Leoben con Bonaparte. Tenemmo ad onore che un Napoletano maneggiasse l’occorrenza più grande di Europa. e confidavamo che i nostri interessi non sarieno traditi o negletti. Sospesa la guerra, riaperte le strade d’Italia con Alemagna, posate le ansietà de’ sovrani di Vienna e di Napoli, fu loro cura il viaggio dell’arciduchessa Clementina per venire sposa del principe Francesco; nozze, come ho detto altrove, fermate sette anni avanti, e non celebrate per la età infantile d’ambo gli sposi. L’arciduchessa andava a Trieste, dove navilio napoletano l’attendeva; lo sposo la incontrava a Manfredonia; le religioni del matrimonio si fecero a Foggia. Accompagnarono il principe i regali genitori, con seguito infinito di baroni e di grandi; e celebrate in giugno le nozze, tornarono in Napoli nel seguente luglio, tra feste convenevoli ad erede della corona. Il re dispensando largamente premii e doni, nominò il general Acton capitan-generale, nulla più restando, per entrambo, a donare, a ricevere; inaridito il favore e l’ambizione. Quindi coprì quarantaquattro sedi vescovili, rimaste lungo tempo vacanti per goder delle entrate; diede gradi, titoli e fregi di onore per azioni di guerra o di pace. Solamente la sposa, vaga giovinetta che di poco soperchiava i quindici anni, mostrava in volto certa mestizia, più notata nella universale allegrezza e più compianta. Il re diede a parecchi Foggiani titolo di marchese, in ricompensa del maraviglioso lusso nelle feste delle regali nozze; e subito mutarono i costumi di quelle genti che, agricoli o pastori, si volsero alle soperchianze del gran commercio ed agli ozii de’ nobili; ozii crassi perchè nuovi e insperati. Così le dignità mal concesse accelerarono il decadimento della città, compiendo in breve ciò che lentamente i vizii della ricchezza producevano.
XXV. In quell’anno fu menato schiavo da pirata tunisino il principe di Paternò, come racconterò brevemente perchè il fatto racchiude parti pubbliche, e perchè di quel principe dovrò dir lungamente in altro libro. Egli nobile, ricchissimo, e di ricchezze millantatore orgoglioso, veniva di Palermo, sua patria, in Napoli presso il re agli officii di corte, sopra nave greca-ottomana, perciò franca da’ pirati; e seco viaggiavano altri signori e un mercante di gioje e d’oro. Per tante ricchezze accesa la cupidigia del Greco, accordatosi co’ pirati che scorrevano i mari della Sicilia, fu predato il legno poco lontano dal porto; e i ladroni carichi e lieti del bottino portarono in schiavitù i viandanti. Il principe della barbara prigionia scrisse lettere miserevoli al re, il quale impose al suo ambasciatore presso la Porta di cercar vendetta de’ pirati, e maggiore e più giusta del perfido Greco. Quindi rispose al Paternò sensi amorosi, promettendo regia protezione presso il governo turco, assumendo paterna cura della famiglia, ed esortandolo a cristiana filosofia nella schiavitù. I richiami presso la Porta nulla valsero, fuorchè protestazioni di amicizia e di zelo; ma i rei non furono puniti, le involate ricchezze (duecentomila ducati) non rendute, nè fatto libero il principe prima del riscatto di un milione di piastre, Per lo che scemò non cadde la sua ricchezza.
XXVI. Non era guerra in Italia se non de’ Francesi col papa, il quale manteneva in arme molte milizie sotto l’impero del Colli generale tedesco, e faceva erger campi ed altre opere militari su la frontiera; quindi scrisse all’imperatore gli ostili proponimenti, e rassegnando le sue forze, conchiudeva: «Se non bastassero, aggiungerei le forze di Dio, dichiarando guerra di religione.» Bonaparte pubblicò il foglio venutogli in mano per intercetto corriere; ed avvisando di que’ fatti il direttorio, mosse le schiere con editto che diceva: «Il papa ricusa di eseguire il fermato armistizio; mostrasi lento e schivo alla pace, leva nuove milizie, arma i popoli a crociata, cerca alleanza con la casa d’Austria; rompe, viola, calpesta le giurate fedi. L’esercito della repubblica entrerà nel territorio romano, difenderà la religione, il popolo, la giustizia; guai solamente a chi ardisse di contrastargli.» Nel qual tempo scriveva il direttorio a Bonaparte: «La religione romana, irreconciliabile con le repubblicane libertà, essere il pretesto e l’appoggio de’ nemici della Francia. Egli perciò distruggesse il centro della unità a romana, e, senza infiammare il fanatismo delle coscienze, rendesse odiato e spregevole il governo de’ preti; sì che i popoli vergognassero d’obbedirgli, e ’l papa e i cardinali andassero a cercare asilo e credito fuori d’Italia.» Ma nella mente di Bonaparte i tempi e i destini di Roma non erano maturi.
Le schiere di lui, Francesi e Italiani delle nuove repubbliche, fugati facilmente i papalini, occuparono le tre legazioni, parte delle Marche, Perugia e Foligno. Bonaparte in Ancona ordinava meno la guerra che la politica degli stati nuovi, quando il principe di Belmonte ambasciatore di Napoli gli riferì essere desiderio del suo re che l’armistizio tra ’l papa e la repubblica fosse guida e principio della pace. E poichè Bonaparte, numerando i sofferti oltraggi, diceva impossibile adempimento di quel desiderio, il principe, per semplicità o astuzia, ma incauto, mostrò i mandati del suo governo; e il generale vi lesse; «Degli affari di Roma essere il peso così grave all’animo del re, ch’egli in sostegno degli amichevoli officii avrebbe mosso l’esercito.» Al che l’altro: «Non ho, tre mesi addietro, abbassato l’orgoglio pontificale, perchè supposi il re di Napoli confederarsi contro la Francia, in tempi ne’ quali guerra maggiore impediva rispondergli. Oggi (senza scemare gli eserciti acquartierati, solo per prudenza, incontro all’Austria), trentamila Francesi sciolti dall’assedio di Mantova, e quarantamila già mossi dalla Francia stanno liberi e vogliosi di guerra. Se dunque il re di Napoli alza segno di sfida, voi ditegli che io l’accetto.» Così a voce. Rispondendo alla nota scrisse cortesemente, essere gravi i mancamenti del pontefice, più grande la modestia della repubblica; trattar quindi la pace, ma togliendo a Roma le armi temporali; e confidando alla sapienza del secolo vincer le sacre; essergli gradevole aderire alle commendazioni de’ sovrani di Napoli e di Spagna.
La pace con Roma fu poco appresso conchiusa in Tolentino; e per essa il pontefice, oltre milioni di danaro e cavalli ed armi e tesori d’arti e di lettere, perdè i dominii delle legazioni e della fortezza di Ancona; restò impoverito, adontato e scontento. Gli stati passati alla Francia ottennero di ordinarsi a repubblica per legge; gli stati vicini per tumulti. E nella stessa Roma i cittadini, ricordando la gloria, senza la virtù, degli avi, si levarono parecchie volte a ribellione; ma perchè pochi, e imprigionati i capi, dispersi gli altri, fu sempre misera la fine. La plebe parteggiava dal pontefice, non per affetto ma per impeto cieco, disonesti guadagni e impunità. Era dicembre, Alcuni patriotti (così erano chiamati gli amanti di repubblica) inseguiti da birri, fuggirono per asilo nella casa dell’ambasceria di Francia; e con seco entrarono i persecutori ed alcuni del popolo. Il luogo, gli usi, l’onore di proteggere gli oppressi, e l’aura e il nome francese, fecero che tutti dell’ambasceria si ponessero a scudo de’ fuggiti; ma quelle cose istesse. e l’aspetto di ragguardevoli personaggi nulla ottennero dagli assalitori, i quali uccisero il generale. Duphot, chiaro in guerra, e minacciarono l’ambasciatore Giuseppe Bonaparte, fratello al vincitore d’Italia. Nella città si alzò tumulto; nel Vaticano niente operavasi a sedarlo, nè a punire o ricercare gli assassini di Duphot. Era scorso il giorno; molte lettere aveva scritte l’ambasciatore a’ ministri di Roma; nessun uomo, nessun foglio del governo rassicurava gli animi e le vendette. Perciò, abbassate le insegne di Francia, partirono da Roma i Francesi, e tornò lo stato di guerra. Il governo romano, a quegli aspetti di nemicizia, spedì oratori al ministro di Francia, e lettere a’ potentati stranieri, delle quali caldissime e preghevoli al vicino sovrano delle Sicilie. Ma niente poteva quanto il disegno del direttorio, e de’ popoli francesi e italiani; fu rammentata la morte di Basville, le brighe del Vaticano, le paci sempre iradite, le promesse mancate, la necessità di cacciare d’Italia la carie che da tanti secoli la rode. E fu subita la vendetta; chè il 28 del dicembre morì Duphot, e il 25 di gennajo le schiere francesi movevano di Ancona contro Roma, per comando venuto da Parigi.
Le guidava il general Berthier; poichè Bonaparte, fermata la pace dli Campoformio, era andato in Francia per trionfare, non come gl’imperatori dell’antichità (però che alla repubblica francese mancò il senno di ravvivare l’augusta cerimonia del trionfo), ma per pubbliche lodi e accoglienze. Il presidente del direttorio lo chiamò l’uomo della provvidenza; in tutte le adunanze, ne’ circoli, tra le moltitudini, si ripeteva ciò che stava scritto sopra bandiera donatagli dalla repubblica. «Ha disfatto cinque eserciti; trionfato in diciotto battaglie e sessantasette combattimenti; imprigionato centocinquantamila soldati. Ha mandato centosessanta bandiere alle casi militari della Francia; milacentocinquanta cannoni agli arsenali, duecentomilioni all’erario, cinquantuno legni da guerra a’ porti; tesori d’arti e di lettere alle gallerie e biblioteche. Ha fermato nove trattati, tutti a gran pro della repubblica. Ha dato libertà a diciotto popoli.» Ma più che il desiderio del trionfo, egli portava il disegno di altra guerra, e la speranza di maggiori glorie. Per la pace di Campoformio ebbe la Francia frontiere più vaste, meglio difese tra l’Alpi e il Reno; sorse la repubblica cisalpina, e spuntarono altre repubbliche; finì la veneta; e per i suoi stati ceduti all’impero si agguagliarono le disparità di dominio che le nuove avean prodotte; fu misera la sorte de’ Veneziani ma condegna di popolo tralignato. Il re delle Sicilie riconobbe la repubblica cisalpina. Parve durevole quella pace perchè danno alla Frania confini desiderati e naturali, ed all’Austria, benchè sempre vinta, una frontiera in Italia meglio configurata dell’antica, e dominii più vasti, e maggior numero di soggetti, soffrivano danno alcuni principi del corpo germanico incapaci di guerra, e la repubblica veneziana, prima invilita e allora spenta. I negoziatori d’ambe le parti ebbero premii da’ proprii governi, lodi dal mondo; il marchese del Gallo, che aveva sostenute le ragioni dell’impero, tornò in Napoli ricco di doni e di fama.
XXVII. Erano altri cehe di pace i destini di Europa; e di già la turbavano i fatti di Roma. Il generale Berthier, negando ascolto agli ambasciatori del papa ed agli offizii delle corti di Vienna, Napoli e Spagna, fece chiaro il proponimento di guerra. E allora in Roma la moribonda potestà concitò alle difese, lusingando la coscienza dei popoli con le arti sacre di processioni, preghiere, e giubileo; e col trovato del cardinal Caleppi che le immagini delle madonne, rispondendo al pianto de’ sacerdoti, versavano dalla tela e dal legno lagrime vere. In mezzo alle processioni e miracoli pervenne in città l’editto di Berthier, che annunziava già vicino l’esercito punitore degli assassini di Duphot e di Basville, ma proteggitore del popolo e delle sue ragioni, obbediente alla disciplina; timori, speranze, agitazioni, secondo le parti, si levarono. E poco appresso all’editto il luccicare delle armi, e le bandiere dei tre colori, viste sopra i colli di Roma, bastarono a’ novatori per adunarsi tumultuosamente a Campovaccino; e gridando libertà, ergere l’albero che n’era il segno. Ambasciatori della non ancora nata repubblica andarono a Berthier, attendato alle porte di Roma, per pregarlo ad entrare in città e stabilire gli ordini nuovi co’ diritti sovrani del popolo e della conquista. Egli entrando pomposamente per armi, suoni, e plausi, decretò cessato il tirannico impero de’ preti, e ristabilita la repubblica di Roma da’ discendenti di Brenno, che davano libertà nel Campidoglio a’ discendenti di Camillo; rammentava Bruto, Catone ed altri nomi e memorie che rialzavano la eloquenza del discorso, e la solennità di quell’atto. Ciò ai 15 di febbrajo dell’anno 1798. Il pontefice Pio VI, in que’ tumulti chiuso in Vaticano, ignaro di governo, immobile, silenzioso, avrebbe fatto maraviglia di serenità e di filosofica rassegnazione se necessaria pazienza non togliesse virtù a quelle mostre. Non governava, nè partiva; era intoppo e scandalo alla repubblica; della quale andato ambasciatore il general Cervoni per chiedergli che in qualità di pontefice riconoscesse il nuovo stato, egli, preparato alle risposte, disse: «Mi viene da Dio la sovranità; non mi è lecito rinunziarla. Ed alla età di ottanta anni non mi cale della persona e degli strazii.» Bisognando a discacciarlo i modi della forza, fu investito il Vaticano, disarmate le guardie pontificie, scacciati i famigli, messo il suggello agli appartamenti, e infine impostogli che in due giorni partisse, Obbedì, e il dì 20 di quel mese con piccolo corteggio uscì di Roma per la volta di Toscana.
Io ne compio la istoria. Si fermò à Siena, ma, spaventato da’ tremuoti, passò alla Certosa di Firenze; e poi (per sospetti e comandamenti della repubblica francese) a Parma, a Tortona, a Turino, a Briançon. Sommo pontefice, cadente per estrema vecchiezza, infermo, afflitto, era portato prigioniero di città in città, partendosi prima degli albori ed arrivando nella notte per celarlo alle viste de’ devoti. Nè a Briançon quietò, ma fu menato nella fortezza di Valenza; e di là volevano trasportarlo a Dijon; ma ne fu libero per morte desiderata, che lo colpì ai 29 di agosto del 1799. Posero le spoglie in oscuro deposito dove restarono sino a che decreto consolare, segnato Bonaparte, non dicesse: «Considerando che il corpo di Pio VI sta da sei mesi senza gli onori del sepolcro, che sebbene quel pontefice fosse stato, quando ci vivea, nemico alla repubblica, lo scusano vecchiezza, perfidi consigli e sventure; che è degno della Francia dare argomento di rispetto ad uomo che fu de’ primi della terra; i consoli decretano che le spoglie mortali di Pio VI abbiano sepoltura conveniente a pontefice; e che si alzi monumento che dica di lui e nome e dignità.» Fu eseguito il decreto; quindi le ceneri trasportate in Roma, e deposte nel tempio di San Pietro sotto il pontificato del successore.
XXVII. Alla partita di Pio VI fuggirono da Roma le antiche autorità, cardinali, prelati, personaggi più chiari; venutane gran parte in Napoli ad accrescere la pietà per i sacerdoti, lo sdeegno per la Francia. Si vedevano lungo le frontiere di Abbruzzo e del Liri, stendardi, squadre francesi, alberi di libertà; e con essi, spogli, violenze, povertà di cittadini, e, sotto specie di repubblica, vera tirannide. Chi prevedeva i futuri benefizii di stato libero tollerava le passeggiere licenze della conquista; chi giudica e vive del presente, abborriva e temeva gli ordini nuovi. Cosicchè per i Napoletani la vicina libertà fu più ritegno che stimolo all’esempio. Il generale Balait venne messaggero di Berthier per chiedere al nostro governo l’esilio degli emigrati, il congedo dell’ambasciatore inglese, la espulsione del general Acton, il passaggio per il territorio napoletano a’ presidii di Benevento e Pontecorvo. E soggiungeva che il re, oggi feudatario della repubblica romana, perchè già della chiesa, offrisse ogni anno il solito tributo, e pagasse in quel punto centoquarantamila ducati, debiti alla camera di Roma. Così per ambasciata; e il re sapeva che i suoi stati farnesiani erano, come di nemico, sottoposti a sequestro. Ira giusta e grande lo prese; e rispondendo all’ambasciatore che ne tratterebbero, per ministri, i due governi; fatto occupare con buone squadre le città di Pontecorvo e Benevento, afforzò le linee della frontiera. Perciò sdegni, sequestri, sospetti, vigilie, tutte le condizioni della guerra, fuorchè le battaglie, travagliavano le due parti.
Tra le quali agitazioni venne riferito da Sicilia, che la flotta già di Venezia, ora francese, sciolta da Corfù, correva il mare di Siracusa; e, giorni appresso, che ne’ porti dell’isola erano approdati legni innumerevoli francesi, da guerra, da trasporto, carchi di soldati e cavalli; altri avvisi soggiunsero esserne partiti; ed altri, che l’isola di Malta, scacciatone l’ordine de’ cavalieri, era stata presa da’ Francesi, e subito il navilio salpato per novelli destini; che Bonaparte stava imbarcato sul vascello l’Oriente; che il disegno era ignoto, smisurati gli apparecchi. Alle quali notizie il governo di Napoli più temendo per la Sicilia che per l’altro regno, fece ristaurare le antiche fortezze, alzar nuove batterie di costa, meglio guardare i porti, presidiare l’isola di ventimila soldati, e quaranta migliaja di milizie civili, concertare i segnali a prender l’armi, e i luoghi dove accampare. E a maggiori cose provvedendo, strinse nuove alleanze, ma secrete, con l’Austria, la Russia, la Inghilterra, la Porta. Delle quattro confederazioni uno il motivo: la vendetta; uno il pretesto, ristabilire la quiete di Europa. Per l’alleanza con l’Austria, durevole quanto la guerra, l’imperatore terrebbe stanziati nel Tirolo e nelle sue province italiane sessantamila soldati; il re, nelle sue frontiere, trentamila; e l’uno e l’altro accrescerebbe il numero quanto il bisogno; quattro fregate napoletane correbbero l’Adriatico in servizio delle due parti. Il ministro Thugut per l’Austria, il duca di Campochiaro per Napoli, fermarono il trattato, a Vienna, il 19 di maggio del 1798.
L’imperatore di Russia Paolo I fu magnanimo, concedendo senza prezzo o mercede una flotta in difesa della Sicilia, e battaglioni di soldati, duecento Cosacchi, le corrispondenti artiglierie di campagna, per combattere in Italia sotto il generale supremo del re di Napoli. Alleanza per otto anni, fermata in Pietroburgo il 29 di novembre dal marchese di Serracapriola per le nostre parti, e da Bezborodko, Kotschoubey e Rostopchin per la Russia. L’imperatore amaya Serracapriola, che n’era degno per prudenza e virtù. La lega con la Inghilterra, negoziata il 1° del dicembre in Londra tra ’l marchese del Gallo e ’l cavaliere Hamilton, stabiliva che la Gran Bretltagna terrebbe nel Mediterraneo tanto navilio che soperchiasse al navilio nemico; e Napoli vi unirebbe quattro vascelli, quattro fregate, quattro legni minori; e darebbe al bisogno dell’armata inglese del Mediterraneo tremila marinari di ciurma. E infine con la Porta ottomana ripeterono in quei giorni medesimi le proteste antiche di amicizia; quello imperatore promettendo a richiesta del re dieci migliaja di Albanesi.
XXIX. Le cure di guerra grandi e sollecite non distoglievano dalle tristizie de’ processi, ed anzi per nemico più vicino e felice imperversarono i sospetti; le autorità di polizia vedevano in ogni giovine un congiurato; in ogni moda o foggia di vestimento un segno di congiura; la coda dei capelli tagliata, i capelli non incipriati, i peli cresciuti sul viso, i calzoni allungati sino al piede, i cappelli a tre punte e piegati; certi nastri, o colori, o pendagli, erano colpe aspramente punite, apportando prigionia e martorii come in cause di maestà. Quindi stavano le carceri piene di miseri; le famiglie di lutto, il pubblico di spavento; e tanto più che profondo silenzio copriva i delitti e le pene. Alcuni prigionieri erano stati uditi, altri non mai; nessuno difeso; come tirannide usa con gl’innocenti.
Benchè nuova legge stabilisse che la infamia per i delitti o le pene di maestà non si spandesse nel casato ma rimanesse intera sul colpevole, e benchè fosse vietato, tanto più nella reggia, difendere o raccomandare i creduti rei, pure due donne, madre di due prigioni, la duchessa di Cassano e la principessa Colonna, questa grave d’anni, quella uscita di giovinezza, entrambe specchi di antica costumatezza, vinte dal dolore, andarono in vesti nere alla regina; e or L’una or l’altra confusamente parlando e piangendo insieme, la pregarono in questi sensi: «Vostra maestà che è madre può considerare il dolor nostro, che madri siamo di miseri figliuoli. Eglino da quattro anni penano in carcere, e quasi ignoriamo se vivono. Le nostre case stanno in lutto; genitori, sorelle, parentado, non troviamo quiete, e dalla prima orrida notte non spunta riso da’ nostri labbri. Senta pietà di noi, ci renda i figli e la pace; e Dio la rimuneri di queste grazie con la felicità della sua prole. Ma se fossero rei? la regina riprese. Ed elle per dolore affrettando il discorso, ad una voce replicarono : «Sono innocenti; lo attesta il silenzio degl’inquisitori, la tenera età de’ nostri figli, e gli onesti costumi, la religione verso Iddio, l’obbedienza che ci portavano, e nessuna macchia, nessun fallo, nemmeno que’ leggieri che si perdonano alla inesperta gioventù.» Nè altro dissero, instupidite e accommiatate. Più de’ discorsi l’aspetto dolentissimo e la egregia fama delle donne commossero la regina; non così da far grazie alla reità degli accusati, ma perchè sospetto della innocenza. Ella inflessibile a’ rei, non bramava travagliare i giusti; diversa da’ ministri suoi, che dall’universale martirio traevano grandezza e potere. Quei principi, credendo ad inique genti, furono spietati non ingiusti; sino ad altra età, che, non più ingannati, ma volontarii, cruciarono i soggetti, innocenti o rei, per amore di parti e insazietà d’impero.
Ma in quell’anno 1798, men guasto il senno è l’animo di loro, il re, dopo il riferito discorso delle due donne, scrisse lettere alla giunta di stato che imponevano di spedire il processo degli accusati di maestà. i quali da quattro anni languivano nelle prigioni, stando in sospeso la giustizia, con grave danno dell’esempio , e forse travagliando immeritamente gran numero di sudditi infelici. Per quello stile di pietà, nuovo, inatteso, intimorendo la giunta (che tutti tremano della tirannide; chi la esercita, chi la sopporta), i duo primarii inquisitori, Castelcicala e Vanni, consultarono. Nulla i processi provavano, ed eglino temendo l’ira de’ principi, le grida popolari, la vendetta degli accusati, macchinarono partiti estremi e disperati, cosicchè a tutti, raccolti nel seguente giorno in magistrato, letto il messaggio del re, vista la necessità di spedire i referti, Vanni disse; «I processi, che sono tanti, almeno quanti gli accusati, voi vedrete compiuti nelle parti che agli inquisitori spettavano;: manca per la pienezza la pruova antica, la tortura, che i sapienti legislatori prescrissero indispensabile ne’ delitti di maestà, ed anche allora che le altre pruove soperchiassero. Così per legge, ne’ casi presenti tanto più necessaria, perchè incontrammo rei pertinaci al mentire o al tacere; promessa di comune silenzio chiude le labbra di que’ malvagi, ma forza di giustizia e di tormenti snoderà la parola, da infame sacramento rattenuta. Io, nella qualità che il mio re mi ha concessa, d’inquisitore e di fiscale, dimando che i principali colpevoli, cavaliere Luigi de’ Medici, duca di Canzano, abate Teodoro Monticelli e Michele Sciaronne, sieno sottoposti allo sperimento della tortura, nel modo più acerbo prefisso dalla legge con la formola torqueri acriter adhibitis quatuor funiculis. Dopo del quale atto, compiuta la procedura, io dimanderò in nome del mio re quali altri esperimenti crederò necessarii alla integrità delle pruove. Non vi arresti, o giudici, debole ritegno di martoriare que’ colpevoli, che voi stessi a maggior martoro e più giusto condannerete, quando tra poco si tratterà non del processo ma del giudizio.» Ciò detto, levossi dalla seggia, e girando intorno il viso imperterrito, di pallore naturale ricoperto, con sguardi terribili come di fiera, soggiunse: «Son due mesi che io veglio, non di fatica su i processi, ma di affanno per i pericoli corsi dal mio re; e voi, giudici, vorrete sentir pietà d’uomini perfidi, che le più sante cose rovineranno, se gli ajuta fortuna, e non gli opprime giustizia? E perciò, ripetendo la istanza per la tortura de’ rei maggiori, io vi esorto alla giustizia, alla fede verso il re, alla intrepidezza, ch’è la virtù più bella di giudici chiamati a salvare un regno.»
Il magistrato Mazzocchi, presidente della giunta, rispose al Vanni: «Pompeggia su i vostri labbri la frase di mio re, nella quale nascondete, sotto specie di zelo, soperchianza e superbia; dite d’ora innanzi, e meglio direte, nostro re.» Poi volto a’ giudici, e chiesto il voto su la istanza del Vanni, tutti la ributtarono come spietata ed inutile, però che l’inquisitore avea tante volte accertato evidenti le pruove, chiari i misfatti e i colpevoli. Solo fra tutti alzò minaccioso la voce il principe di Castelcicala, che sostenendo gli argomenti dell’inquisitore, ed aggiungendo i suoi, diceva giusta e necessaria la dimandata tortura; chiamava quella riluttanza de’ giudici debolezza o colpa; ne agitava la coscienza e la timidezza, con dire che il re ne prenderebbe vendetta. Tutte le insidie adoprò, che forse egli medesimo ha obliate; ma oggi la storia le palesa perchè vadano di età in età, con le debite infamie, agli avvenire. Bramava il Castelcicala la tortura del Medici, sperando che vi morisse di vergogna e di dolore; o che scampato, restasse inabile agli offizii, infamato se non d’altro, dalla infamia della pena. Ma rimasto fermo il voto de’ più, la giunta rispose al regale messaggio, essere compiuti i processi, per quanto volevano le leggi, ed avea suggerito l’ingegno e l’arte degl’inquisitori; mancar null’altro che il giudizio; ma essere la giunta nominata solamente ad inquisire.
Il re compose altra giunta, della quale il medesimo Vanni fiscale. I processi, che questi diceva forniti e portava in giudizio, risguardavano ventotto accusati; tra’ quali udivansi nomi chiari per nobiltà, de’ Medici, Canzano, di Gennaro, Colonna, Cassano; ed altri chiarissimi per dottrina, Mario Pagano, Ignazio Ciaja, Domenico Risceglia, Teodoro Monticelli. Il fiscale, riferendo le denunzie, le colpe, le pruove, amplificandole a danno, e tacendo le scuse, dimandava, per cinque la morte, preceduta dai tormenti della tortura, spietati come sopra cadaveri, sia per incremento di supplicio, sia per tirarne altri nomi di complici e di fautori. Al Medici e ad altri tre (que’ medesimi accennati dalla giunta d’inquisizione) la sola tortura, per gli argomenti già riferiti, ed ora con maggior impeto ripetuti. E per i rimanenti diciannove, continuazione di carcere e di procedura, sperando migliori pruove dalle confessioni per tortura, e dal tempo. Parlarono a difesa gli avvocati; e benchè magistrati scelti dal re a quell’uffizio, amanti e devoti alla monarchia, rotti nel discorso e tempestati dal Vanni, sostennero animosamente le parti degli accusati. Giusti furono i giudizi, che ne decretarono la innocenza e la libertà. Usciti del penoso carcere quei ventotto ed altri parecchi, la dimostrata ingiustizia della prigionia, la morte in essa di alcuni miseri e ’l racconto de’ patiti strazii, generarono lamento universale; tanto che il governo per iscolparsene unì il suo sdegno allo sdegno comune, ed indicando il Vanni fabbro di falsità, lo depose di carica, lo cacciò di città, l’oppresse di tutti i segni della disgrazia; il principe di Castelcicala, suo compagno alle colpe, se ne mondò, gravandone il suo amico infelice; il general Acton simulò di allontanarsi da’ carichi dello stato; altri uomini, altre forme si videro nel ministero, ma le cose pubbliche non mutarono. Sgomberate le carceri di alcuni prigioni, ripopolavansi di molti; gli stessi uomini malvagi rimasero potenti; le spie, la polizia, i delatori, non caddero nè scemarono; Castelcicala fu ministro per la giustizia; ed al Vanni passavano in secreto ricchi stipendii e consolatrici promesse.
XXX. In mezzo alle riferite male venture della città, si udì arrivato in Egitto il navilio di Francia, e sbarcati con Bonaparte quarantamila soldati che prendevano il cammino di Alessandria. Palesato il disegno di quella impresa, il napoletano governo si rinfrancò per vedere allontanato il pericolo dalla Sicilia; ed accolse; e spandeva le voci trovate dalla malignità, che dicevano scaltrezza del direttorio cacciare della repubblica uomo ambizioso e potentissimo, e mandarlo in paese dove perderebbe vita o riputazione per nemico infinito, e clima pestifero ed invincibile. Pochi dì appresso giunse nuova della battaglia navale di Aboukir; per la quale l’ammiraglio inglese Nelson, arditamente manovrando, aveva prese o bruciate le navi di Francia, ancorate dopo il disbarco dell’esercito in quella rada, stoltamente sicure dagli assalti: talune da guerra fuggirono in Malta, ed altre poche da trasporto nelle rade siciliane di Trapani e Girgenti, dove gli abitanti non fedeli alla pace, spietati alla sventura di quelle genti, e sordi alla carità di rifugio, ricevettero i Francesi ostilmente, negando asilo, predando i miseri avanzi della disfatta, uccidendo alcuni marinari, fugando i resti: mentre in Napoli si bandiva lietamente il commentario della battaglia. Poco di poi videsi far vela verso noi l’armata inglese, la stessa di Aboukir, accresciuta de’ legni predati che navigavano senza bandiera dietro a’ superbi e vincitori. Subito il re, la regina, il ministro d’Inghilterra e sua moglie, sopra navi ornate a festa, andarono incontro per molto cammino al fortunato Nelson; e, passati nel suo vascello, l’onorarono in varii modi; il re facendogli dono di spada ricchissima, e di lodi sì allegre, che non più se la vittoria fosse stata della propria armata in salvezza del regno; la regina presentandogli altre ricchezze, tra le quali un giojello col motto: «All’eroe di Aboukir»; l’ambasciatore Hamilton ringraziandolo da parte dell’Inghilterra; e la bellissima Lady mostrandosi per lui presa di amore. Tutti vennero in Napoli alla reggia, tra pazza gioja che si propagò nella città; e la sera, come usa nelle felicità pubbliche o della casa, fu illuminato il gran teatro; dove al giugnere dei sovrani e di Nelson si alzarono dal popolo infinite voci di evviva, confondendo insieme i nomi e le geste. La regina, le dame della corte, le donne nobili, portavano fascia o cinto gemmato, con lo scritto : «Viva Nelson.» Intanto le navi trionfanti e le vinte, ancorarono, contro i trattati, nel porto: ed allora l’ambasciatore di Francia Garat, presente a’ fatti, e schernito documento di pace tra i due governi, facendo oneste lamentanze ni ministri di Napoli, sentì rispondere che i legni inglesi erano stati accolti per la minaccia dell’ammiraglio di bombardare (quando fosse negato l’ancoraggio) la città: non dando, per la concitata pubblica gioja, nè scusa, nè risposta.
CAPO TERZO.
Guerra sventurata contro la repubblica francese. Moti nel regno. Fuga del re. Vittoria e trionfo dell’esercito di Francia.
XXXI. Il governo di Napoli scopertamente operava perchè confederazione contro la Francia erasi stretta in Europa, ed egli teneva prefissa e pronta la guerra, I sovrani d’Inghilterra, d’Austria, di Russia, delle Sicilie, vedendo scemate in Italia le squadre francesi chiamate all’esercito del Reno o trasportate in Egitto, e sapendo lontano l’uomo invitto, formarono nuovi eserciti a più vasti disegni. Muoverà il Tedesco in Lombardia sessantamila combattenti, e dietro il Russo; Napoli quarantamila, navilio inglese correrà i mari d’Italia; la Gran-Brettagna fornirà gli alleati di danaro, armi e vestimenti. Si aspettava per le mosse che il più crudo verno fosse passato.
Napoli nel settembre del 98 aveva fatta nuova leva di quaranta mila coscritti, con modi tanto solleciti che non per volere di sorte o di legge si toglievano i cittadini alle comunità, i figli alle famiglie, ma per arbitrio de’ ministri e per necessità di tempo; perciocchè senza preparamenti o scrutinio, in un sol giorno, due di quel mese, ogni comunità dovea fornire otto uomini per mille anime; dalla quale fretta derivarono infinite fraudi ed errori, infinite scontentezze o lamenti. Ogni coscritto, ricordando le patite ingiustizie, tenevasi vittima dell’altrui forza; e parendogli che nessun dovere, nessun sacramento, nessun fatto giusto l’obbligasse alla milizia, solo vi stava per timor della pena. I nuovi coscritti uniti agli antichi soldati empievano l’esercito di sessantacinque mila combattenti, soperchi per le fermate alleanze, non anco bastevoli a’ concetti. E a tante squadre mancando il condottiero, venne d’Austria il generale Mack, noto per le guerre di Germania dalle quali, benchè perdente, usci accreditato di sapienza nell’arte e di valore nelle battaglie. Onorato dal re, da’ cortigiani e dall’esercito, rassegnò le schiere spicciolatamente, senza percorrere la frontiera; però ch’ei mirava non alle difese, alle conquiste; conferì per le idee principali della guerra col generale Parisi, per la fanteria col generale de Gambs, per la cavalleria co’ principi di Sassonia e di Philipstadt, per l’artiglieria col general Fonseca; i pochi suoi detti passavano da labbro a labbro, ammirati come responsi di oracolo. Accertò il re avere esercito pronto ad ogni guerra; e fu creduto.
XXXII. La regina irrequieta volea prorompere negli stati romani, agevolata dagl’Inglesi, che tenaci alla guerra, temevano il congresso già convocato a Rastadt per la pace. Stava perciò in Napoli sin dal settembre il barone di Awerveck confidente di Pitt, viaggiatore oscuro ma potentissimo, amico a Repnin ministro di Prussia, a Metternich di Austria; motore tra i primi delle discordie nelle conferenze di Rastadt, consigliere all’orecchio de’ nostri principi. Il re, nel quale intiepidiva l’amore di quiete, da che l’ira e i timori lo avevano alquanto allontanato dal grossolano vivere nei piaceri, chiamò consiglio per decidere o guerra o pace; e, se guerra, il tempo e il modo. Divise le sentenze, furono per la pace il marchese del Gallo, il ministro de Marco, i generali Pignatelli, Colli, Parisi; ma prevalendo l’autorità della regina, di Acton, di Mack, di Castelcicala, fu deciso far guerra e subita, retta dal general Mack, dissimulata sino alle mosse. Allora si spartì l’esercito in tre campi: attendarono in Sangermano ventiduemila soldati, negli Abruzzi sedicimila, nella pianura di Sessa ottomila; stavano altre sei migliaja nelle stanze di Gaeta, e navi da trasporto pronte a salpare per Livorno. Comandava il primo campo il general Mack, il secondo il general Micheroux, il terzo il general Damas; dirigeva la spedizione preparata in Gaeta il general Naselli. Cinquantadue mila combattenti aspettavano il cenno a prorompere negli stati romani; ma era il capo straniero e nuovo; erano i generali stranieri ancor essi o inabili alla guerra, gli uffiziali inesperti, i soldati se allora coscritti, scontenti; e se antichi, peggiori, perchè usati alle male discipline di milizia sfaccendata o ribalda; gli usi di guerra nessuni, l’ordinarsi negli alloggiamenti, preparare il cibo, ripararsi dalle inclemenze delle stagioni, provvedere al maggior riposo, e, in somma, tutte le arti del miglior vivere, necessarie al sostegno delle forze, non praticate, nè conosciute ne’ campi. L’amministrazione mal regolata ingrandiva i disordini, le distribuzioni incerte, il giungere dei viveri non misurato co’ bisogni, sì che spesso vedevi l’abbondanza dove mancava chi la consumasse, e presso a lei la penuria. Nello esercito serpeva potentissimo veleno e secreto; diffidenza scambievole de’ minori e de’ capi. Le milizie stanziate in Abruzzo furono spartite in tre campi; sul Tronto, all’Aquila, a Tagliacozzo. Nel campo di Sangermano erano continui gli esercizii d’armi; e benchè in autunno piovosissimo sopra terreno fangoso e molle, si fingevano gli assalti e le difese come in guerra. Stavano in quel campo il re preparato a marciare con l’esercito, la regina che sopra quadriga con abito di amazone correva le file de’ soldati, gli ambasciatori de’ re amici, altri forestieri famosi o baroni del regno, e lady Hamilton, che sotto specie di corteggiar la regina, faceva nel campo mostra magnifica di sua bellezza e pompeggiava la gloria di aver vinto il vincitore di Aboukir, il quale nel carro istesso mostravasi di lei e vago e servo. Nè si stava oziosi negli alloggiamenti di Sessa e di Gaeta. Ma l’opera continua ed accelerata non poteva su la brevità del tempo; uomini coscritti nel settembre, venuti per forza nell’ottobre, muovevano alla guerra ne’ primi del novembre; sì che le braccia incallite a ruvidi esercizii della marra non rispondevano alle destrezze dell’armi.
I Francesi dalla opposta parte, quando videro gli apparecchi del re di Napoli, disposero la guerra, così che la frontiera fosse linea difensiva; centro in Terni, estrema diritta in Terracina, estrema sinistra in Fermo; l’ala manca assai forte da resistere, l’ala diritta solamente osservatrice; pronta meno a combattere che a ritirarsi, principale scopo il raccogliersi, e mantenere sicure le strade che menano in Lombardia. I nuovi consigli dagli eventi.
Così certa o non intimata la guerra, l’ambasciatore di Francia dimandò ragione delle vedute cose al governo di Napoli, che ancora fingendo rispose: tener guardata la frontiera napoletana perchè quella di Roma era ingombera di soldati francesi; stare ne’ campi le nuove milizie per istruirsi; egli bramar sempre pace con la repubblica. Ma giorni appresso, il 22 di novembre, comparve manifesto del re, che rammentando gli sconvolgimenti della Francia, i mutamenti politici della Italia, la vicinanza al suo regno de nemici della monarchia e del riposo, l’occupazione di Malta feudo de’ re di Sicilia, la fuga del pontefice, i pericoli della religione; per tante ragioni e tanto gravi, egli, guiderebbe un esercito negli stati romani, a fine di rendere il legittimo sovrano a quel popolo, il capo alla santa sede cristiana, e la quiete alle genti del proprio regno. Che non intimando guerra a nessun potentato, egli esortava le milizie straniere di non contrastare alle schiere napoletane, le quali tanto oltre avanzerebbero quanto solamente richiedesse lo scopo di pacificare quella parte d’Italia. Che i popoli di Roma fossero presti a’ suoi cenni, ed amici; sicuri nella sua clemenza, egli promettendo di accogliere con paterno affetto i traviati che tornassero volontarii all’impero della giustizia e delle leggi.
Così il manifesto. Lettere secrete de’ ministri del re concitavano gli altri gabinetti d’Italia o i personaggi più arrischiati alle nemicizie ed alla guerra. Delle quali lettere una del principe Belmonte Pignatelli, scritta al cavaliere Priocca ministro del re del Piemonte, intercetta e pubblicata, diceva tra le cose notabili: «Noi sappiamo che nel consiglio del re vostro padrone molti ministri circospetti, per non dire timidi, inorridiscono alle parole di spergiuro e di uccisione; come il fresco trattato di alleanza tra la Francia e la Sardegna fosse atto politico da rispettare. Non fu egli dettato dalla forza oppressiva del vincitore! non fu egli accettato per piegare all’impero della necessità? Trattati come questi, sono ingiurie del prepotente all’oppresso, il quale, violandoli, se ne ristora alla prima occasione che il favor di fortuna gli presenta, Come, in presenza del vostro re prigioniero nella sua capitale, circondato da bajonette nemiche, voi chiamerete spergiuramento non tener le promesse strappate dalla necessità, disapprovate dalla coscienza? E chiamerete assassinio esterminare i vostri tiranni? Non avrà dunque la debolezza degli oppressi alcuno ajuto legittimo dalla forza che gli opprime?» E poco appresso: «I battaglioni francesi, assicurati e spensierati nella pace, vanno sparsi per il Piemonte. Eccitate il patriottismo del popolo sino all’entusiasmo ed al furore; così che ogni Piemontese aspiri all’onore di atterrare a’ suoi piedi un nemico della sua patria. Queste parziali uccisioni più gioveranno al Piemonte che fortunate battaglie; nè mai la giusta posterità darà il brutto nome di tradimento a cotesti atti energici di tutto un popolo, che va su i cadaveri degli oppressori al racquisto della sua libertà.
I nostri bravi Napoletani, sotto il prode general Mack, soneranno i primi la campana di morte contro i nemici de’ troni e de’ popoli; saranno forse già mossi quando giugnerà in vostre mani questo foglio....»
XXXIII Tai sensi atroci esponeva quel foglio, e già bandito il manifesto di guerra, le milizie napoletane, levando i campi proruppero negli stati di Roma. Il generale Micheroux con dieci mila soldati, valicato il Tronto, fugando dalla città di Ascoli piccolo presidio francese, avanzava per la strada Emilia sopra Fermo. Il colonnello Sanfilippo con quattromila combattenti, uscendo dal campo d’Aquila, occupava Rieti progredendo a Terni. II colonnello Giustini con un reggimento di fanti ed alcuni cavalli scendeva da Tagliacozzo a Tivoli per correre la Sabina; il general Mack, e seco il re, con ventiduemila soldati, mossi da Sangermano, marciavano per le difficili strade di Ceperano e Frosinone sopra Roma; dove il generale Damas dal campo di Sessa per la via Pontina, conduceva ottomila combattenti; e nel giorno medesimo salpavano da Gaeta per Livorno molte navi cariche di seimila soldati, sotto l’impero del general Naselli. Le quali ordinanze dimostravano che l’esercito di Napoli non andava formato in linea, non avea centro; che le schiere di Sanfilippo e Giustini non legavano, perchè deboli, l’ala diritta alla sinistra; che un corpo non assai grande, quello di Micheroux, assaltava la sinistra francese, la più forte delle tre parti di quello esercito; e che il maggior nerbo de’ Napoletani, trentamila uomini, procedeva contro l’ala diritta, di poca possa, intesa a ritirarsi. Erano dunque le speranze di Mack, superare le parti estreme della linea francese, avvilupparle, spingere gli uni corpi su gli altri, confonderli nel mezzo ed espugnarli; mentre la legione del general Naselli, per le forze proprie e le insurgenti della Toscana, molesterebbe il fianco delle schiere francesi fuggitive verso Perugia. Scarsi concetti. La figura della frontiera, la linea prolungata e sottile dell’esercito francese, la sua base in Lombardia, il numero delle nostre forze quasi triplo delle contrarie; invitavano a sfondare (come si dice in guerra) il centro; e assalendo per il fianco le sue ale nemiche, impedire che si ajutassero; e tagliare, se volesse fortuna, le ritirate nella Lombardia. Perciò, ne’ casi nostri, andava diviso l’esercito in tre corpi: ventisei mila uomini all’Aquila per attaccar Rieti a Terni; dodicimila su la strada Emilia per combattere o impegnare l’ala sinistra francese; ottomila nelle Paludi Pontine per incalzare le piccole partite della diritta; mentre che la legione della Toscana, senza nemico a combattere, coi popoli dalle sue parti, avrebbe corso il paese insino a Perugia, per appressarsi a noi ed ajutarci nelle vicende varie della guerra. Solamente così l’inesperto e nuovo esercito di Napoli poteva superare per ingegno strategico e propria mole l’agguerrita e felice oste francese. 1l resto della guerra dipendeva da’ preparati tumulti nel Piemonte e dalla venuta in Italia de’ Tedeschi.
Tali erano i consigli della ragione e dell’arte; ora narriamo i fatti. I corpi di Mack e di Damas, trentamila soldati, camminando sopra strade parallele, senza incontrare il nemico sollecito a ritirarsi, giunsero il ventinove di novembre a Roma; e il re, fatto ingresso pomposo, andò ad abitare il suo palazzo Farnese. I Francesi, lasciato piccolo presidio in Castel-Santangelo, si partirono, e con seco i ministri e gli amanti di repubblica; ma pur di questi alcuni confidenti alle regali promesse di clemenza, o arrischiosi, o dal fato prescritti, restarono; e nel giorno istesso furono imprigionati o morti; due fratelli, di nome Corona, napoletani, partigiani di libertà, rimasti con troppa fede al proprio re, furono per comando di lui presi ed uccisi. La plebe scatenata, sotto velo di fede a Dio ed al pontefice, spogliò case, trucidò cittadini, affogò nel Tevere molti Giudei, operava disordini gravi e delitti. Vergogne del vincitore; che assai tardi nominò a giunta di sicurezza i due principi Borghesi e Gabrielli e i marchesi Massimi e Ricci; la plebe allora fu contenuta. Sparirono i segni della oppressa repubblica; innalzando la croce dov’era l’albero di libertà, e congiugnendo in cima delle torri e de’ pubblici edifizii le immagini e l’armi del pontefice con le insegne del re delle Sicilie. Il quale spedì messi a Napoli per annunziare la vittoria e ordinare nelle chiese sacre preghiere in rendimento di grazie, al pontefice, dicendo: «Vostra santità sappia per queste lettere che ajutati dalle grazie divine e dal miracolosissimo san Gennaro, oggi con l’esercito siamo entrati trionfatori nella santa città di Roma, già profanata dagli empii, ma che fuggono spaventati all’apparire della croce e delle mie armi. Cosicchè vostra santità può riassumere la suprema e paterna potestà; che io «coprirò col mio esercito. Lasci dunque la troppa modesta dimora della Certosa, e su le ale de’ cherubini, come già la nostra Vergine di Loreto, venga e discenda al Vaticano per purificarlo con la santa sua presenza. Tutto è preparato a riceverla; vostra santità potrà celebrare i divini offizii nel giorno natale del Salvatore.» Un terzo foglio era scritto a nome del re dal suo ministro principe Belmonte Pignatelli a’ ministri del re di Sardegna, per dire, tra le molte cose: «I Napoletani guidati dal generale Mack han sonato i primi l’ora di morte a’ Franecsi; e dalle cime del Campidoglio avvisano l’Europa che la veglia de’ re è ormai giunta. Sfortunati Piemontesi, scuotete le vostre calene, spezzatele, opprimete gli oppressori vostri; rispondete all’invito del re di Napoli.» Le quali jattanze ho qui riferito per dipingere del re e de’ suoi ministri lo sdegno cieco e la vanagioria, femminili passioni sempre schernite dalla fortuna.
XXXIV. Correvano cotesti fogli, mentre successi contrarii accadevano in Abruzzo. Avvegnachè il general Micheroux, scemato alquanto di forze per diserzioni ed infermità, giunto ne’ dintorni di Fermo con novemila soldati, vi trovò schierate a battaglia in preparate posizioni le squadre francesi rette da’ generali Mounier, Rusta e Casabianca; e venute le parti a combattimento, non fu la pruova nè dubbia nè lenta, perchè i Napoletani agguagliati di numero, superati d’arte, mal diretti, sconfidati, si diedero alla fuga lasciando sul campo alcuni morti, molti prigioni, artiglierie e bandiere. I resti della colonna si riparavano tra i monti dell’Abruzzo, e pochi Francesi contenevano con la paura, giacchè i molti andavano a rinforzare il centro e l’ala diritta della linea. Nel qual centro il colonnello Sanfilippo, presa Rieti senza contrasto, avanzava per le strette di Terni guardate dal generale Lemoine con poca gente; ma sopraggiungendo ad ajuto il general Dufresse con mezza brigata di duemilaquattrocento soldati, pareggiarono le forze delle due parti, e le sorti del Sanfilippo furono, come quelle del Micheroux, infelici. Il colonnello Giustini impedito a Vicovaro dal generale Kellermann, volgendo verso la schiera di Sanfilippo, e udito il capo prigioniero, lei fuggitiva, Rieti in potere de’ Francesi, andò celeremente lungo la sponda del Tevere; indi a Tivoli.
Così l’esercito francese combattendo sino allora in egual numero co’ Napoletani, vincitore, come era debito a forze uguali, assicurata l’ala sinistra, raccolse la diritta (nè già per vie curve come temeva, ma per diritto cammino) in Civita Castellana e ne’ vicini monti, forti per luogo e munimenti; erano settemila Francesi e duemila partigiani, valorosi quanto voleva necessità di vincere o morire; gli uni e gli altri comandati dal generale Macdonald già chiaro nelle guerre di Alemagna e d’Italia. Dietro al esso, ma in distanza ed avendo tra mezzo i difficili monti Apennini, volteggiava il generale supremo Championnet, il quale, lasciati contro agli Abruzzi il generale Duhesme e seimila soldati, avanzava con altri ottomila in soccorso di Macdonald. Piccolo squadrone di Perugia stava in vedetta della legione sbarcata in Livorno, e de’ temuti movimenti civili. Ma nè quelle milizie napoletane, nè gl incitamenti degli Inglesi, nè lo sdegno de’ popoli poterono in Toscana contro i Francesi. Il 28 di settembre le armate di Napoli e d’Inghilterra, superbe di molti legni, arrivate a Livorno, chiesero a sbarcar soldati e cannoni. Il governo toscano, allora in pace con la Francia, patì prepotenza o la finse; e manifestando che non in dispregio della fermata neutralità, ma per condizione de’ meno forti egli tollerava il disbarco de soldati, dichiarò voler mantenere la pienezza dell’imperio ne’ suoi stati, e commettere le sue ragioni alla giustizia ed a Dio. Con altro editto, accresciute le milizie assoldate, create le urbane, provvisto alla quiete dei soggetti, attese il fine della guerra di Roma. Il generale Naselli non mosse, aspettando, come gli era prescritto gli ordini del Mack; il quale inabile alle vaste combinazioni strategiche, e poi smarrito ne’ precipizii delle sue fortune, obliò quella legione di ben seimila soldati, che neghittosa e spregiata restò in Livorno. Egli ed il re si godevano in Roma le non mai gustate delizie del trionfo; e, come a guerra finita, stettero cinque giorni senza procedere contro Macdonald; solamente invitando alla resa o minacciando il presidio di Castel-Santangelo. È degno di memoria il cartello che il tenente-generale Bourcard spedì al tenente-colonnello Walter comandante del forte; però che tra l’altro diceva: «I soldati francesi ammalati negli ospedali di Roma, saran tenuti ad ostaggio; così che ogni cannonata del castello cagionerà la morte di uno di loro per rappresaglia; o consegnandolo all’ira giusta del popolo.» Del quale cartello una copia, segnata Mack, mandata al generale Championnet, e da questo bandita nell’esercito, rese la guerra spietata. Rifiutando il castello di arrendersi, tirarono d’ambe le parti, a sdegno più che ad offese, inutili colpi; e il giorno 3 del dicembre l’oste di Napoli mosse da Roma. Seimila soldati restarono a guardia del re; e poichè la schiera del colonnello Giustini aveva raggiunto l’esercito, venticinquemila combattenti andarono contro Civita Castellana.
XXXVI. In cinque corpi. Altro capitano che Mack, assennato se non da altro da’ fatti di quella stessa guerra, chiamata di Toscana la legione Naselli sopra Perugia, conduceva il maggior nerbo dell’esercito per la manca riva del Tevere, e accampato a Terni combatteva con forze tre volle doppie le poche genti di Macdonald prima che Championnet scendesse gli Appennini. Ma l’ostinato duce de’ malaugurati Napoletani avviò lungo il Tevere piccola mano di soldati, e spartì gli altri ventiduemigliaja in quattro corpi, che dopo leggieri combattimenti accamparono a Calvi, a Monte-Buono, a Otricoli, a Regnano. E colà stettero cinque giorni o neghiltosi o assaltando per piccole partite il campo de’ nemici. Ciò che Macksperasse era ignoto; ma il generale francese prima inteso a difendersi, mutò pensiero; e con le medesime schiere assaltò, l’un dietro l’altro i nostri campi. Tutti gli vinse o gli fugò, combattendoli partitamente con forze uguali o maggiori, e maggior arte, ed amica fortuna. Primo a cadere fu Otricoli, quindi Calvi, poi Monte-Buono. Il general Mack aveva scemato il campo di Regnano delle maggiori forze per unirle a quelle che risalivano lungo la diritta sponda del Tevere, e stabilirle a Cantalupo; idea (sola in quella guerra) degna di lode; ma nel cammino, avvisato della sventura de’ suoi campi, diede comando di ritirata generale sopra Roma. Ciò ai 13 dicembre. Negli otto precedenti giorni, sette combattimenti tutti ad onore dell’esercito francese, avevano debellato i Napoletani che vi perdettero mille uomini morti, novecento feriti, diecimila prigionieri, trenta cannoni, nove bandiere, cavalli, moschetti, macchine innumerevoli. Eglino, solamente in Otricoli per poco d’ora fortunati, avevano sorpreso il presidio francese, duecento uomini, uccisa la più parte, imprigionato il resto; e per malvagità degli abitanti, o per caso, appreso il foco all’ospedale, morirono gl’infermi tra le fiamme, e si alzò grido che il barbaro cartello del generale Bourcard non era cruda minaccia ma proponimento. La qual menzogna creduta da’ Francesi accrebbe fierezza alle naturali offese dell’armi. Cominciata nel giorno istesso la ritirata di Mack, i Napoletani sempre perdenti, e sempre infelici, comandati da stranieri, vedendo tra le file molti Francesi, generali o colonnelli, ognun de’ quali, a modo di emigrati, per iscampare da’ pericoli della prigionia, sollecitava il cammino da parer fuga; creduli al male come sono gli eserciti, sospettarono di esser traditi; e chiamando giacobini i capi, e confondendo gli ordini, cadde o scemò l’obbedienza. Si aggiunse a’ mali la scarsezza dei viveri; perciocchè all’ignoranza ed alle fraudi degli amministratori, delle quali cose ho parlato sin dal principio de’ racconti, si unirono le perdite de’ convogli, e i magazzini abbandonati, o a modo di rapina votati dalle milizie, già divenute licenziose e contumaci.:
XXXVI. A quelle nuove i Romani, per amore alla repubblica o per prudenza verso il vincitore, si mostravano della parte francese, per lo che il re Ferdinando, il quale dal giorno 7 stava ad Albano, per natura codardo, impaurito fuggì, al declinare del giorno 10, verso Napoli. Disse al duca d’Ascoli suo cavaliero, essere brama e sacramento de’ giacobini uccidere i re; e che bella gloria sarebbe ad un soggetto esporre la propria vita in salvezza della vita del principe; esortandolo a mutar vesti e contegno, così ch’egli da re, il re da cavaliere facessero il viaggio. Il cortigiano, lieto, indossando il regio vestimento, sedè alla diritta della carrozza, mentre l’altro con riverente aspetto, avendo a maestra la paura, gli rendeva omaggi da suddito. In questa vergognosa trasformazione il re giunse a Caserta nella sera dell’11. Frattanto in Roma le schiere napoletane traversavano celeremente la città inseguite dalle francesi; tanto da presso che uscivano d’una porta i vinti, entravano dall’altra i vincitori. Il generale Championnet erasi congiunto a Macdonald; e mentre in tanta possa venivano in Roma, udirono che una legione di settemila Napoletani, retta dal generale Damas, scordata da Mack o per celere fuggire abbandonata, raddoppiava il passo per giungere prima de’ Francesi; ma così non giunse. Damas per araldo chiese passaggio, che prenderebbe, non concesso con la forza; ed avuta risposta, che abbassate le armi si desse prigioniero, dimandò trattare; i legati convennero. Bramavano indugio i Francesi per aspettare altri soldati nella città, essendo allora e pochi e stanchi; bramava indugio il generale Damas, già risoluto a voltar cammino, per disporre ritirata difficile innanzi a nemico doppio di forza e felice; le ore passavano come per accordi, mentre gli eserciti si preparavano alla guerra. E, giunta l’opportunità, il Damas, con buono senno ed ardito, prese il cammino di Orbitello, fortezza lontana e in quel tempo del re di Napoli. Schiere francesi lo inseguirono, ingorde della preda che, tenuta certa, fuggiva; e colto il retroguardo alla Storta, combatterono; ma venuta la notte, e rimasti d’ambe le parti morti e feriti, Damas continuò il cammino, i Francesi riposarono. Al dì vegnente altri Francesi mossi da Borghetto sotto il generale Kellermann sperarono precedere i Napoletani, e li raggiunsero a Toscanella, dove, combattendo, molti degli uni e gli altri morirono, ed ebbe il generale Damas la gola forata da mitraglia; ma pure la legione procedendo giunse, com’era prefisso ad Orbitello, e trovò la fortezza senza munimenti o vettovaglie, sì che l’accordo di uscirne liberi e tornare in regno non fu per la possanza di que’ muri, ma frutto del dimostrato valore de’ soldati e del duce. I quali andarono laudati di que’ fatti; ma poche virtù fra molte sventure si cancellano presto dalla memoria degli uomini. Ne’ medesimi giorni la lezione del general Naselli sciolse sopra legni inglesi da Livorno; e così, svaniti mezzi e segni ad offendere, le cure di Mack volsero alle difese.
Egli sentì l’errore di essere uscito a modo barbaro, senza base. di operazioni, certo e pieno della conquista, trasandando il restauro delle fortezze, le opere militari nello interno, tutte le arti che lo ingegno, o almeno le pratiche suggeriscono. Nè tra le avversità sperimentate in Romagna egli fissò la mente alla difesa del regno; ma spensierato tra que’ precipizii vide giugnere il bisogno di custodire il paese quando stavano le fortezze non preparate, la frontiera nuda, i luoghi forti malamente muniti e guardati. Attese a radunare le genti fuggitive; e veramente con le legioni tornate intere di Damas e Naselli, con altre squadre non comparse alla guerra, e con i molti resti dell’esercito infelice, poteva comporre oste novella, più assai numerosa di quella che a nostro danno apprestava il general Championnet. Il quale in Roma, poi ch’ebbe ristabilito il governo repubblicano, castigati alcuni tradimenti, rialzati con religiosa cerimonia i rovesciati sepolcri di Duphot e di Basville, e dato lode alle geste, breve riposo alle fatiche delle sue squadre, ordinò l’esercito e gli assalti contro il reame di Napoli. Imperava a venticinquemila combattenti in due corpi; uno di ottomila che il generale Duhesme guidava negli Abruzzi, altro di diciasette migliaja comandato da Rey e Macdonald per la bassa frontiera del Garigliano e del Liri; egli medesimo, Championnet, andava con la legione Macdonald. Gli abbondavano artiglierie, macchine, vettovaglie, ragioni, coscienza; solamente scarseggiava il numero, se il valore proprio e la fortuna, lo scoramento e le infelici prove dei contrarii, non avessero agguagliato le differenze. Ogni cosa prefissa, cominciò la impresa, rischievole per le rivoluzioni del Piemonte, le conferenze sciolte in Rastadt, gli armamenti dell’Austria, le poche schiere della repubblica in Lombardia; ma il destino corresse i falli della prudenza.
XXXVII. Il dì 20 del dicembre tutta l’oste francese levossi verso Napoli. 1l generale Duhesme negli Abruzzi andò minaccioso al forte Civitella del Tronto, îl quale in cima di un monte, inacessibile da due lati, fortificato in due altri, avendo bastevole presidio, dieci grossi cannoni, munizioni da guerra, e per la vicina città vettovaglie abbondanti, poteva reggere a lungo assedio, se pure il nemico avesse avuto artiglierie e mezzi per tanta impresa; ma sole armi de’ Francesi erano le minacce ed il grido, giacchè per que’ terreni dirupati, senza strade da ruote e quasi senza sentieri non potevano trasportare a quell’altezza pezzi di bronzo pesantissimi, Ben lo sapeva il comandante del forte; ma timido, e in mezzo a tanti esempii di codardia impunita, dopo diciotto ore d’investimento, chiesto accordi al nemico, si arrese con l’intero presidio prigioniero di guerra. Aveva nome Giovanni Lacombe, spagnuolo, tenente-colonnello agli stipendii del re di Napoli. Avuta Civitella, il generale Duhesme avanzò negli Abruzzi; e, respinte o fugate varie partite di genti d’armi, giunse al fiume Pescara, prima difeso, poi disertato da’ difensori, e subito valicato da’ Francesi. Duhesme facendo mostra di soldati e di artiglierie, sebben di campo, intimò resa alla fortezza dello stesso nome Pescara; e il comandante di lei, per argomento d’intrepidezza, mostrate all’araldo le fortificazioni, le armi, il presidio, la pienezza de’ magazzini, gli disse: «Fortezza cosi munita e provveduta non si arrende.» Il nemico a quelle ambasciate raddoppiò le apparenze di guerra; ed alle apparenze il comandante, deposto il bello ardire, alzò bandiera di pace, e donò al vincitore la fortezza integra e salda, sessanta grossi cannoni di bronzo, dieci di ferro, quattro mortari, altre armi, polvere, vestimenti, vettovaglie e millenovecento soldati prigionieri. Era comandante il colonnello Pricard, straniero ancor egli, accetto e fortunato come voleva nostra misera condizione e il dispregio ver noi de’ nostri principi.
Mentre Duhesme operava le dette cose, il generale Mounier correva malagevole sentiero che mena, traversando i monti di Teramo, a Civita di Penna; e il generale Rusca, sentiero peggiore, per andare ad Aquila e Torre di Passeri; non temevano pericoli da nemico fuggitivo. ma il generale Lemoine giunto a Popoli, trovò in ordinanza forte schiera di Napoletani, e venuti a combattimento, morto il generale francese Point, stava incerta la vittoria, quando il nostro malo destino fece sorger voce di tradimento nelle file napoletane, che nel miglior punto della battaglia lasciarono il campo, e per Isernia e Bojano rifuggirono confusamente a Benevento. Così procedevano le cose negli Abruzzi, mentre l’ala diritta de’ Francesi sotto il general Rey per le Paludi Pontine, e il general Macdonald per Frosinone e Ceperano, venivano senza contrasto nel regno. Il re di Napoli, perduta speranza che i Francesi occupati nel Piemonte, minacciati nella Lombardia, pochi di numero, non si avventurassero a lontana spedizione; sentite le perdite degli Abruzzi, impose a’ popoli guerra nazionale sterminatrice. Aveva il bando data di Roma l’8 del dicembre, benchè più tardi fosse scritto in Caserta; e diceva: «Nell’atto che io sto nella capitale del mondo cristiano a ristabilire la santa chiesa, i Francesi, presso i quali tutto ho fatto per vivere in pace, minacciano di penetrare negli Abruzzi. Correrò con poderoso esercito al esterminarli; ma frattanto si armino i popoli, soccorrano la religione, difendano il re e padre che cimenta la vita, pronto a sacrificarla per conservare a’ suoi sudditi gli altari, la roba, l’onore delle donne, il viver libero. Rammentino l’antico valore. Chiunque fuggisse dalle bandiere o dagli attruppamenti a masse, andrebbe punito come ribelle a noi, nemico alla chiesa ed allo stato.»
Fu quello editto quanto voce di Dio; i popoli si armano; i preti, i frati, i più potenti delle città e de’ villaggi li menano alla guerra; e dove manca superiorità di condizione, il più ardito è capo. I soldati fuggitivi, a quelle viste fatti vergognosi, unisconsi a’ volontari; le partite, piccole in sul nascere, tosto ingrandiscono; e in pochi dì sono masse e multitudini, Le quali concitate da scambievoli discorsi e dalla speranza di bottino, cominciano le imprese; non hanno regole se non combattere, non hanno scopo fuorchè distruggere; secondano il capo, non gli obbediscono; seguono gli esempii, non i comandi. Le prime opere furono atroci per uccisione di soldati francesi rimasti soli perchè infermi o stanchi, e per tradimenti nelle vie o nelle case; calpestando le ragioni di guerra, di umanità e di ospizio. Poco appresso inanimiti da’ primi successi, pigliarono la città di Teramo, quindi il ponte fortificato sul Tronto, e slogati i battelli che lo componevano, impedirono il passaggio ad altre schiere; mentre in Terra di Lavoro torme volontarie adunate a Sessa, correndo il Garigliano, bruciato il ponte di legno, s’impadronirono di quasi tutte le artiglierie di riserva dell’esercito francese, poste a parco su la sponda; e poi trasportando il facile, distruggendo il resto, uccidendo le guardie, desertavano quel paese. Le tre colonne dell’ala sinistra non più comunicavano tra loro, nè con l’ala diritta, impedite dai Napoletani, che in vedetta delle strade uccidevano i messi o le piccole mani di soldati.
Stupivano i Francesi, stupivamo noi stessi del mutato animo; senza esercito, senza re, senza Mack, uscivano i combattenti come dalla terra, e le schiere francesi invitte da numerose legioni di soldati, oggi menomavano d’uomini e di ardimento contro nemici quasi non visti. E poichè lo stupore de’ presenti diviene incredulità negli avvenire quando s’ignorino le cagioni de’ mirabili avvenimenti, egli è debito della storia investigare come i Napoletani, poco innanzi codardi e fuggitivi, ricomparissero negli stessi campi, contro lo stesso nemico, valorosi ed arditi. Il valore negl’individui è proprio, perchè ciascuno ne può avere in sè le cagioni; forza, destrezza, certa religione, certa fatalità, sentimento di vincere o necessità di combattere: il valore nelle società, come negli eserciti, si parte d’altre origini; da fidanza ne’ commilitoni e ne’ capi. Il valore negli individui viene dunque da natura; negli eserciti, dalle leggi: può quello esser pronto; questo chiede tempo, istituzioni ed esempii; e perciò non ogni popolo è valoroso, ma ogni esercito può divenirlo. Dico sentenze note a’ dotti degli uomini e delle umane società. Tali cose premesse, non farà maraviglia se i Napoletani robusti e sciolti di persona, abitatori, la più parte, de’ monti, coperti di rozze lane, nutrendosi di poco grossolano cibo, amanti e gelosi delle donne, divoti alla chiesa, fedeli (nel tempo del quale scrivo) al re, allettati da’ premii e dalle prede, andassero vogliosi e fieri a quella guerra, per mantenere le patrie insituzioni e gli altari, e avendo libero il ritorno, proprio il consiglio di combattere, proprio il guadagno, bastevole il valor proprio. Ma nella buona guerra poco innanzi combattuta, eglino coscritti nuovi, scontenti della milizia, consapevoli della scontentezza de’ compagni, conoscitori (benchè ultimi negli ordini militari) della ignavia de’ capi, sospettosi della loro fede, mal guidati, mal nutriti, miseri e perdenti, nessuna qualità di esercito avevano in pregio e praticavano. La quale assenza di militari virtù era il retaggio degli errori del governo antichi e presenti; ma sebbene il popolo fosse innocente, n’ebbe egli la vergogna, che nemmeno forse cesserà per i veraci racconti della istoria; avendo le nazioni qualcosa di fatale nella lor vita, ed essendo fatalità, io credo, a’ Napoletani la ingiustizia de’ giudizii del mondo.
XXXVIII. L’ala sinistra francese intrigata negli Abruzzi procedeva lentamente; la diritta correva spedita sino al Garigliano. Il general Rey intimò rendere la fortezza di Gaeta al governatore maresciallo Tschiudy nato svizzero, venuto (per il mercato infame che fa la Svizzera de’ suoi cittadini) agli stipendii napoletani, e salito ad alto grado per merito di casato, per lo inerte corso degli anni e, per favore; egli forestiero, non educato alla guerra, sordo all’onore dell’armi, trepidò; e radunando non so quale consiglio, udito il voto del vescovo che dicevasi ministro di pace e de’ magistrati del comune solamente intesi ad evitare i danni dell’assedio, decise arrendersi. Mentre l’avvilito concilio preparava il tradimento, il generale francese lanciò nella città una granata da sei, non avendo artiglieria più grossa di un obice; ed a quel segno di guerra precipitarono i consigli, ed alzata bandiera di sommissione, un araldo del governatore dimandò pace a larghe condizioni; ma il generale Rey, poi che vide quella estrema vilezza, replicò: «Resa a discrezione o rigor di guerra.» Ed a discrezione si arresero quattromila soldati dentro fortezza potentissima, munita di settanta cannoni di bronzo, dodici mortari, ventimila archibugi, viveri per un anno, macchine da ponti, navi nel porto, innumerevoli attrezzi di assedio. Andavano i prigionieri a Castel-Santangelo; ma lo sfrontato maresciallo pregò indulgenza per sè e per altri sessanta uffiziali, i quali come partecipi e benemeriti della resa, ottennero la vergognosa parzialità di uscir liberi con giuramento di non mai combattere i Francesi.
Le cessioni, a modo di tradimento, di Civitella, Pescara e Gaeta diedero speranza di egual successo per la fortezza di Capua; benchè in essa, dietro al fiume Volturno, il generale Mack riordinasse l’esercito, e vasto campo trincerato su la fronte verso Roma, guardato da seimila soldati, accrescesse i munimenti e le difese. Quindi il generale Macdonald avanzò contro noi, a vincere se noi codardi, o a riconoscere la fortezza. Era ii mezzo giorno quando egli a tre colonne assaltando il campo, mise scompiglio nelle guardie, delle quali parecchie fuggitive alle porte della fortezza minacciavano di atterrarle se non si aprissero. Ma da un fortino del campo, dove i cannonieri stiedero saldi alle minacce del nemico ed al malo esempio dei timorosi, partì scarica di sei cannoni a mitraglia vicina, ben diretta, che produsse molte morti nella colonna di cavalleria, procedente prima e superba; altri colpi tirarono i bastioni, e subito retrocedute le colonne assalitrici, e rianimate le guardie del campo, la battaglio fu rintegrata. Erano Napoletani gli artiglieri del fortino, e Napoletano il loro capo, giovine che trattava in quella guerra le prime armi, alzato dal generale Mack da tenente a capitano, in premio più del successo che del valore; perciocchè i cavalli francesi, e nè manco i fanti, potevano entrare nel campo, che aveva riparo, fosso, alberi abbattuti, e poi cannoni e presidio. I Francesi tornando agli assalti, tentarono passare il fiume a Cajazzo, guardato da un reggimento di cavalleria sotto il duca di Roccaromana. Respinti e perdenti nello intero giorno, viste le sorprese non bastevoli al desiderio, mutato consiglio, disposero espugnar la fortezza con il lento cammino dell’assedio. Avean perduto negli assalti di Capua e di Cajazzo quattrocento soldati, metà morti e feriti, cento prigioni; il generale Mathieu ebbe il braccio spezzato da mitraglia, il generale Boisgerard fu morto, il colonnello Darnaud prigioniero. E dalla nostra parte, cento soli più feriti che morti; e tra i feriti, il colonnello Roccaromana.
Giunti in quel mezzo dagli Abruzzi i generali Duhesme e Lemoine, riferirono i sostenuti travagli e gli impedimenti e gli agguati, la nessuna fede degli abitanti, le morti de’ Francesi troppe e spietate; il generale Duhesme portava ancor vive due ferite sul corpo; e narrando le maggiori crudeltà, citava i nomi spaventevoli dli Pronio e di Rodio. E poi che il generale Championmmet v’ebbe aggiunto la storia de tumulti e de’ fatti popolari di Terra di Lavoro, e ricordato i nomi già conti per atrocità di frà Diavolo e di Mammone, videro i generali francesi (adunati a consiglio nella città di Venafro) stare essi in mezzo a guerra nuova ed orrenda; essere stato miracolo di fortuna la viltà de’ comandanti delle cedute fortezze; e non avere altro scampo per lo esercito che a tenerlo unito, e per colpi celeri e portentosi debellar le forze e l’animo del popolo. «Sia quindi nostra prima impresa, conchiudeva il supremo duce di Francia, espugnare Capua in pochi dì; le schiere, le armi, le macchine di assedio si dispongano a campo in questo giorno, intorno alla fortezza.»
XXXIX. Peri quali provvedimenti superbivano le parti borboniche, vedendo gli Abruzzi liberi per valore proprio, e l’esercito di Francia radunato, non già, credevano, per mira o prudenza di guerra, ma per ritirarsi nella Romagna. Tanti successi di genti avventicce, paragonati alle perdite dell’immenso esercito di Mack, confermavano nella mente comune il sospetto di tradimento; e tanto più che all’avanzar de’ Francesi, cresciute le acerbità di polizia, si udivano imprigionamenti e castighi; molti uffiziali dal campo menati nelle fortezze; chiuso in fortezza lo stesso ministro per la guerra maresciallo Airola. Le quali cose, dividendo il popolo, indebolivano le resistenze al nemico, e generavano le discordie civili e le tante calamità da quel misero stato inseparabili. Fu questo il più amaro frutto dell’antico mal senno del governo in supporre e punir congiura, in sè non mai vera, surta ne’ disegni ambiziosi di pochi tristi, annidata nell’animo superbo della regina, poscia involgata e creduta. Esiziale menzogna che annientò la dignità della monarchia, il credito de’ grandi, l’autorità de’ magistrati. Per essa disobbedivano i soldati a’ capi, i soggetti a’ maggiori; e udivi ai ricordi de’ doveri o delle leggi, rispondere i contumaci la usata voce di traditore. Cosicchè, spezzati gli ordini sino allora venerati della società, la parte per numero e ardire più potente, cioè la bassa moltitudine dominava; tanto più nella città, dove la plebe più numerosa, il ceto de’ lazzari audace, i guadagni più facili e grandi. Cadute le discipline, dispregiato il comando, le squadre ordinate si scioglievano; i fuggitivi chiamati, non tornavano alle bandiere; il valore de’ partigiani si disperdeva in opere mirabili ma vane. La corte in quel mezzo ed i ministri vivevano incerti ed angosciosi; vacillava sul capo del re corona potente e felice; agitavano la regina pericoli o rimorsi; il generale Mack ondeggiava tra speranze di nuove imprese, e le rovine della sua fortuna; Acton, Castelcicala, tremavano quanto si conviene ad animo vigliacco ed a vita colpevole; i consiglieri della guerra, gl’inquisitori di stato, i satelliti della tirannide si abbandonavano a disperati consigli. Così provveder divino infestava quelle anime perverse, che ricordevoli delle male opere, ne vedevano certa e vicina la vendetta. Fuggire, era il desiderio comune, ma secreto perchè estremo e codardo; l’oste francese non avanza, impedita da una fortezza, da un fiume e da truppe armate di popolo; i tumulti della città stavano per il re, e si udivano voci e voti di fedeltà verso il trono e la chiesa; nessuna provincia o città ubbidiva i Francesi, che a tanta poca terra comandavano quanta ne copriva piccolo esercito; e per le impreviste avversità avevano i Borboni e i Borboniani stanze sicure ne’ Principali, nella Puglia, nelle Calabrie. Nessuno argomento a fuggire, ma fugava i malvagi la coscienza.
Altre genti paventavano; i notati giacobini nei libri della polizia, gli uffiziali dell’esercito creduti traditori, e i possidenti di qualunque ricchezza, principale mira della commossa plebaglia. I giacobini, esperti a radunarsi, intendevano per secreto congreghe alla propria salvezza, e ad agevolare, ov’ ei potessero, le fortune de’ Francesi e i precipizii del monarca di Napoli. Quelle furono veramente le prime congiure, colpevoli quando miri al disegno di rovinare il governo; necessarie quando pensi che solamente tra quelle rovine vedevano vita e libertà; nascosti nel giorno, profughi dalle case nella notte, menavano vita incerta e miserabile. Spedirono legati al campo francese per informare il generale Championnet dello stato della città e della reggia, e incitarlo a compiere l’avanzata impresa, promettendo dalla loro fazione ajuti potentissimi. Le quali pratiche sapute dalla polizia o sospettate accrescevano da ambe le parti i pericoli e i timori. Ma le ansietà nella casa del re erano già insopportabili, quando un fatto atroce precipitò i consigli e le mosse. Il corriere, che dicevano di gabinetto, Antonio Ferreri, fido e caro al re, mandato con regio foglio all’ammiraglio Nelson, e trattenuto dal popolo su la marina come spia de’ Francesi, tra mille voci muojano i giacobini, ferito di molti colpi e non estinto, trascinato per le vie della città, fu gettato morente in una fogna dove finì la vita. Mentre i crudeli lo traevano semivivo, chiesero con baldanzose voci sotto la reggia che il re vedesse nel supplizio del traditore la fedeltà del suo popolo; e, ciò detto, non si partivano, non quetavano, cresceva lo scompiglio e la moltitudine, sino a tanto che il re per prudenza mostrossi, e riconobbe l’infelice Ferreri, che moribondo fisò gli occhi in lui, come a chiedere pietà; ed egli tutto re che fosse, non potè liberarlo da’ manigoldi. Inorridì, treniò per sè, decise di fuggire. Chi disse quella strage archilettata per l’effetto che sortì, chi per nascondere certe trame con l’Austria note al Ferreri.
XL. Fermata in animo del re da partenza, ne accelerò gli apparecchi, occulti come di fuga; ma non bastò segretezza, e si apprese che la casa e i ministri regii fuggivano, e che altre fughe o nascondigli si preparavano i più lividi seguaci della tirannide. Per la quale timidezza svanite le ultime speranze di resistere al nemico e riordinare l’esercito e lo stato, consigliere animoso e fedele, il cui nome non citano le invidiose memorie, fece chiaro al re l’errore e ’l danno di quella fuga; ma nulla ottenne, fuori che fosse a’ popoli smentita, per non allentare nelle province l’impeto della guerra e l’odio a Francesi. Quindi lettere e messi andarono accertando che il re disponeva l’esterminio del nemico, il quale ajutato da’ tradimenti, e arrischiatosi nel cuore del regno tra fortezze, soldati e masse armate, troverebbe debito castigo alla temerità. Il popolo che tutto crede, presta fede a que’ detti, doppiò gl’impeti e i cimenti contro i Francesi. Ed ecco inaspettatamente nel giorno 21 del dicembre, navigar nel golfo molte navi sciolte nella notte dal porto; e sul maggior vascello inglese andare imbarcato il re e i regali, come segnavano le bandiere. Nel tempo stesso che un editto chiamato avviso, affisso ai muri della città, diceva: passare il re nella Sicilia; lasciar vicario il capitan generale principe Francesco Pignatelli; divisare di tornar presto con potentissimi ajuti d’armi.
Partitosi il re, si palesavano i segreti della fuga, le brighe de’ perversi cortigiani onde vincere nella reggia gli ultimi indugi a partire, le instigazioni valentissime di Hamilton, Nelson, lady Hamilton: s’intesero tolti i giojelli e le ricchezze della corona; le anticaglie più pregiate, i lavori d’arte più eccellenti de’ musei, e i resti de’ banchi pubblici e della zecca, in moneta o in metallo; in somma il bottino (ventimilioni di ducati) de’ tesori dello stato; lasciando la infelice nazione in guerra straniera e domestica, senza ordini, con leggi sprezzate, povera, incerta. Comunque sieno i legami tra re e popolo, patteggiati dagli uomini, o voluti dalla ragione, o anche prescritti da’ cieli, in tutte le ipotesi più libere o più assolute, abbandonare lo stato co’ modi e le arti del tradimento, è peccato infinito, nemmeno cancellabile dalla fortuna e dal tempo. Trattenute dai venti restarono le navi tre giorni nel golfo; ed in quel tempo la città, i magistrati, la baronia, il popolo, inviarono legati al re, promettendo, se tornasse, sforzi estremi contro il nemico, e, per tante braccia e voleri, certa vittoria. Il solo arcivescovo di Napoli tra i legati parlò al re, gli altri a’ ministri; il re disse irrevocabile il proponimento, ed i ministri ripeterono la medesima sentenza con più duro discorso. Per le quali cose, mutato il sentimento universale, i magistrati per salvezza o disdegno si ritiravano dagli offizii pubblici, gli amanti di quiete aspettavano timidamente l’avvenire, i novatori si alzavano a speranze; la sola plebe, operosa, prorompeva nel peggio. Scomparvero intanto le regie navi e le altre che trasportavano uomini tristi, timidi, ambiziosi, le peggiori coscienze del reame; e giorni appresso giunse nuova che tempesta violentissima travagliava i fuggitivi, de’ quali altri ripararono nelle Calabrie, altri nella Sardegna e nella Corsica, molti correvano le fortune del mare; ed il vascello del re, che l’ammiraglio Nelson guidava, spezzato un albero, frante le antenne, teneva il mare a stento. La regia famiglia pareva certa di final rovina; così che detto alla regina essere morto il regio infante don Alberto, ella rispose: «Tutti raggiungeremo tra poco il mio figlio.» Il re, profferendo ad alta voce sacre preghiere, e promettendo a san Gennaro e a san Francesco doni larghissimi, faceva piglio sdegnoso al ministro ed alla moglie, con quel suo modo rimproverandoli delle passate opere di governo, cagioni a quella fuga e a quel lutto. Si ammirava fra le tempeste andar sicuro il vascello napoletano che l’ammiraglio Caracciolo guidava; e sebbene ei potesse avanzar cammino, e’ tenevasi poco lontano dal vascello del re, per dare a’ principi animo e soccorso; avresti detto che le altre navi obbedivano a’ venti, e che la nave del Caracciolo (così andava libera e altiera) li comandasse. La quale maraviglia osservata dal re e laudata, diede a Nelson cruccio d’invidia. Pure tempestosamente correndo, il vascello inglese giunse il dì 25 a vista di Palermo, dove il mare è meno sicuro, e l’entrata difficile; così che dalla città veduto il pericolo e scoperto che il re stava imbarcato su quella nave sdrucita, il capitano di fregata Giovanni Bausan, sopra piccola barca affronta i flutti, giunge al vascello, e si offre di que’ mari pilota esperto. L’ammiraglio Nelson gli diede volontario il comando del legno; e, fosse perizia o fortuna, in poco d’ora entrò nel porto, e fermò alla Banchetta come in tempo di calma. Caracciolo arrivò al punto stesso; e sbarcate le genti ch’egli menava, riposò su le ancore l’illeso vascello. Ebbero bella gloria di que’ fatti gli uffiziali del navilio napoletano.
XLI. Il vicario del regno, Pignatelli, notificando al general Mack per lo esercito, ed agli eletti della città per gli ordini civili, le potestà conferitegli, animò le difese nell’uno, il consiglio negli altri. Un re o per fino un vicario che fosse stato pari alle condizioni del tempo avrebbe scacciato i Francesi o fermata la pace o prolungato la guerra sino a che per le mosse dell’Austria o dei Russi dovesse l’esercito nemico da questa ultima Italia correre in soccorso della Lombardia. Damas era giunto con settemila soldati, altri seimila ne conduceva Naselli, quindici migliaja o più stavano intorno a Capua, vacillanti alla disciplina o contumaci; ma, come spesso avviene delle moltitudini, facili a tornare, per un cenno o per un motto, all’obbedienza; gli Abruzzi, la provincia di Molise, la Terra di Lavoro formicavano di Borboniani; le altre province si agitavano; la popolosa città di Napoli tumultuava per le parti del re. Ordinare tante forze, muoverle assieme, unirvi la virtù dell’antico, del legittimo, e la idea riverita delle patrie instituzioni, bastava a formare una potenza tre volte doppia di ventiquattromila Francesi, e poche centinaja di novatori non esperti alle rivoluzioni o alla guerra. Ma il generale Pignatelli, nato in ignorantissima nobiltà ed allevato alle bassezze della reggia, non poteva, nè per mente nè per animo, giungere alla sublimità di salvare, per vie generose, un regno ed una corona. È questo il peggior fato del dispotismo; educando i suoi all’obbedienza, non trovarne capaci di comando.
Gli eletti della città, dopo brieve accordo col vicario, sospettando in lui malvage intenzioni provenienti dagli ordini secreti de principi o dal proprio ingegno, e chiamati da’ sedili altri eletti, cavalieri o del popolo, levarono milizia urbana molta e fedele. E poi trattando gli affari pubblici, fu prima sentenza fiaccare il potere del vicario: sì che rammentate le concessioni di Federico II, del re Ladislao e di Filippo III, poscia gli editti o patti di regno di Filippo V, e di Carlo III, pretesero non dover essere governati dai vicerè; e che alla partita del re si trasferisse il regio potere agli eletti che sono i rappresentanti della città e del regno. Si oppose il vicario; e, inaspriti gli umori, a tal si giunse che la città mandò a lui ambasciata di abbandonare quel potere illegittimo. Si palesava la contrastata autorità negli editti degli uni e dell’altro, contrarii di stile o di scopo: e poichè gli eletti si affaticavano a contenere i tumulti, il vicario a concitarli, diviso il popolo, stavano gli onesti co’ primi, i dissoluti e la plebe col secondo. Tra le quali agitazioni fu visto, il 28 del dicembre, nel lido di Posilipo fumo densissimo, quindi fuoco; e s’intese che per comando del vicario, ubbidiente invero a comandi maggiori, s’incendiavano centoventi barche bombardiere o cannoniere, riparate in alcune grotte di quel lido montuoso. E, giorni appresso, tornando da Sicilia parecchi legni da guerra, si offerse spettacolo più mesto; impercioccchè, a chiaro sole, il conte di Thurn, tedesco a’ servigi di Napoli, da sopra fregata portoghese comandò l’incendio di due vascelli napoletani e tre fregate, ancorati nel golfo. Il fuoco appariva benchè in mezzo al giorno a’ riguardanti per color fosco e biancastro; sì che vedevansi le fiamme, come uscenti dal mare, lambire i costati delle navi, è scorrere per gli alberi, le antenne, le funi catramate e le vele; disegnando in fuogo i vascelli, che poco appresso, cadendo inceneriti, scomparivano. Tacito, mesto, costernato, mirava il popolo; e, sciolto lo stupore, l’un l’altro addimandava: «Perchè quella rovina? Non potevano i marinari napoletani ed inglesi trasportare in Sicilia que’ legni? Sarà dunque vero che bruceranno il porto, gli arsenali, i magazzini dell’annona pubblica? Sarà vero che la fuggitiva regina vorrà lasciare non altro al popolo che gli occhi per vedere la pubblica miseria, e per piangere?» E subito abbandonato il lamento, correndo alle opere, andarono alla casa del comune per dimandare che gli edifizii pubblici fossero custoditi da’ popolani; ma quetaronsi al vedere che numerose milizie urbane già guardavano la città. Gli eletti, al pari del popolo commossi dalla empietà degl’incendii e dal timore di più grandi rovine, consultarono dello stato; proponendo, chi ordinarsi a repubblica per ottenere facile accordo da’ Francesi, chi trattar pace per danaro, chi cercare alla Spagna nuovo re della casa Borbone, e chi (fu questo il principe di Canosa che qui nomino acciò il lettore lo conosca da’ suoi principii) comporre governo aristocratico; essendo le democrazie malvage, e la monarchia di Napoli, per la fuga e gli spogli, decaduta. Fra pensieri tonto varii o non consoni a’ tempi si sperdevano i giorni.
XLII. Così nella città: mentre ne campi l’esercito francese combatteva co’ Borboniani, assalitori continui delle parti più deboli o più lontane, e messa a seco e bruciata la città d’Isernia per aver contrastato il passo al generale Duhesme, preparava l’assedio di Capua; e incontro al quale esercito il general Mack accelerava i restauri della fortezza, ed accresceva i munimenti e le guardie. Ma il vicario, che già negoziava secretamente con Championnet per la pace, gli chiese almeno lunga tregua; e convenuti nel villaggio di Sparanisi, per le parti di Napoli il duca del Gesso e ’l principe di Migliano, per la Francia il generale Arcambal, concordarono il giorno 12 del 1799: «Tregua per due mesi; la fortezza di Capua, munita ed armata com’ella era, nel dì seguente a’ Francesi; la linea de’ campi francesi tra le foci de’ regii Lagni e dell’Ofanto; dietro la riva diritta del primo fiume, la sinistra dell’altro; ed occupando le città di Acerra, Arienzo, Arpaja, Benevento, Ariano; le milizie napoletane ancora stanziate ne’ paesi della Romagna, richiamarsi; farsi Napoli debitrice di due milioni e mezzo di ducati, pagabili, metà il giorno 15, metà il 25 di quel mese.» Tregua peggiore di guerra sfortunata. Perciocchè deporre le armi per pace a duri patti, poteva in alcun modo giovare al re ed al regno; ma sospendere in alto le armi, e trattenere, indi estinguere la maggior forza di quel tempo, la foga de’ popoli, e concedere al nemico la sola fortezza che difende la città, e vasto e ricco paese nel cuore dello stato, e sicurezza ed agio ad aspettare nuovi rinforzi di Lombardia: ossia, cadere certamente dopo due mesi di affannoso respiro, era solamente danno, solamente precipizio, senza mercede o speranza. Fermata la tregua, i Francesi al dì vegnente occuparono la fortezza di Capua; e, posti i campi su la riva de’ Lagni, occuparono sino all’Ofanto (fiume che sbocca nell’Adriatico) l’acquistato paese. Le milizie napoletane, che tuttodì per fughe menomavano, accamparono, a segno di guerra più che a difesa, nella opposta riva de’ Lagni. I popoli della città e delle province riprovarono quegli accordi; e chiamandoli del nome usato di tradimento, cessò la guerra esterna, la domestica crebbe. I commissarii francesi nella sera del 14 di gennajo vennero in Napoli a ricevere il pattovito denaro, non ancor presto, nè possibile a raccogliere, perchè tutto il pubblico ed il comune, in moneta, in metallo, dalle chiese, da’ banchi, dalla zecca, era stato involato nella fuga del re. La plebe, visti i commissari, si alzò a tumulto che durò tutta la notte, arrecando timori non danni, avvegnachè per pratiche secrete del vicario i Francesi uscirono di città, e la guardia urbana contenne le ribalderie,
Al seguente mattino tutto in peggio si volse. Alcuni soldati, vogliosi o timidi, cederono le armi a’ popolani, che assalendo i quartieri delle guardie urbane, e disarmandole, sciolsero quella benefica milizia. Divenuti potenti per numero, armi, e prime fortune, corsero alle navi arrivate nella notte con seimila soldati; i quali dubbiosi, ed il capo general Naselli, codardo, diedero le armi; e facili a’ tumulti quanto avversi alla buona guerra, si unirono agli assalitori. Così di piccolo rio fatto un torrente, quelle forme chiesero al vicario i castelli della città; e il vicario di natura vigliacco, atterrito, preparato a fuggire, diede comando che al popolo della città, nemico ai Francesi, fedele al re, fossero i castelli consegnati; e lo furono; le carceri, le galere furono aperte; molte migliaja di tristissimi si unirono alla plebe. Ed allora dalla grandezza de’ casi alzato l’animo de’ magistrati del municipio, mandarono al vicario deputazione; l’orator del quale, principe di Pindemonte, così parlò: «La città vi dice per nostro mezzo rinunziare a’ poteri del vicariato; cederli a lei; rendere il denaro dello stato che è presso di voi; prescrivere per editto ubbidienza piena e sola alla città.» Il vicario disse: consulterebbe; e nella notte, senza rispondere alle intimazioni, nè lasciando provvedimenti di governo, fuggì. Chi pensò essere quelle le istruzioni a lui date dalla regina; e chi suggerite dal proprio senno per ignavia ed abito antico agli errori; o per opprimere sotto le rovine il suo nemico general Acton. Andò in Sicilia oratore infelice della sua vergogna, e fu chiuso in fortezza.
Il popolo vedendo quarantamila armati dei suoi, le castella in sue mani, spezzati i freni delle leggi e della paura, si credè invincibile. Chiamando traditori e giacobini i generali dell’esercito, nominò suoi condottieri i colonnelli Moliterno e Roccaromana, segnati di fedeltà, l’uno da un occhio acciecato nella guerra di Lombardia, l’altro da recente ferita nel combattimento di Cajazzo; e poi nobili, domatori arditi di cavalli, e (che più val su la plebe) grandi e belli della persona. Accettarono per non aver colpa del rifiuto, e perchè speravano con l’autorità da furibondi concessa, moderarne il furore. La municipalità, solo magistrato che stesse in atto di uffizio, assenti alla scelta; e l’impaurita città fece plauso. Torma di plebe andò in cerca di Mack; e non trovatolo in Casoria dove credeva, per subito mutato consiglio ritornò. Il generale, ricoverato nella notte dentro piccola casa di Caivano, agli albori del seguente giorno, vestito da generale tedesco, ed offertosi al generale Championnet in Caserta, ebbe magnanime accoglienze e la permissione di libero viaggio per Alemagna; ma trattenuto in Milano, andò prigione a Parigi. Le geste militari narrate in questo libro assai dimostrano di lui l’arte e ingegno; e la storia di Europa ne conserva documenti più chiari ne’ fatti d’Ulma, l’anno 1805. Depose nel general Salandra l’impero dell’esercito a pompa e a nome, però che l’esercito sciolto, nè ubbidito l’impero. Il nuovo capitano fu poco di poi ferito da genti del popolo, e seco il generale Parisi, mentre andavano uniti ordinando i campi. Altri uffiziali furono feriti, altri uccisi, desertate le trinciere o le stanze, nessuna l’obbedienza, il sentimento della propria salute prepotente; e non altra forza che ne’ tumulti, non altra autorità e pericolante che in Roccaromana e in Moliterno.
XLIII. Incontro agli accampamenti francesi non restando milizie napoletane, e solo apparendo qualche uomo armato del popolo, aspettavasi che il nemico (rotta la tregua perchè non pagato il prezzo) procedesse contro la città; e quelle voci moltiplicate ed accresciute si ripetevano ad incitamento nella plebe. Il senato municipale, sgombro del vicario, consultando col principe di Moliterno, divisero le cure dello stato. Questi per editto comandò preparar guerra contro i Francesi, e cominciarla quando necessaria; mantenere gli ordini interni, e soprattutto la quiete pubblica; rendere l’armi a’ depositi per distribuirle con miglior senno a’ difensori della patria e della fede. E conchiudeva: i disobbedienti a queste leggi, nemici e ribelli all’autorità del popolo, saranno puniti per solleciti giudizii ed immediato adempimento; al qual effetto si alzeranno nelle piazze della città le forche del supplizio. E si firmava, «Moliterno, generale del popolo.» Il senato per decreti provvide alla finanza, allo giustizia, a tutte le parti di governo; minacciando a’ trasgressori pena lo sdegno pubblico. ratto e terribile. Per distorre intanto i popolani alle domestiche rapine, bandì libera la pescagione e la caccia nelle acque e ne’ boschi regii. E scelse ambasciatori per esporre al generale Championnet le mutate forme di reggimento, e la comune utilità nel comporre pace che fosse gloriosa e giovevole alla Francia, ma non misera nè abbietta per il popolo napoletano, pur meritevole di alcuna stima, ora che riscatta con le armi e col danno proprio i falli del governo e dell’esercito.
Per tante provvidenze di quiete, la foga popolare allentò, molte armi tornarono al Castelnuovo, grande numero de’ perturbatori andò ne’ regii laghi o boschi; il tumulto e ‘l romore scemarono. Ma gli antichi settarii di libertà, e i nuovi surti allora dalle vicine speranze, praticavano secretamente co’ Francesi; ed offerendo potenti ajuti nella guerra, della quale i successi darebbero larga mercede di ricchezza e di onore alla repubblica, pregavano si negassero alle proferte lusinghiere di pace: ingrandivano di se medesimi la potenza ed il numero; spregiavano i contrarii; accertavano che le province cheterebbero ad un punto quando sentissero presa la capitale, e ‘l popolo vendicato in vera libertà. Così stando le cose, giunsero nel pieno della notte i legati della città (ventiquattro popolani caldissimi) tra quali era il Canosa, nato principe, aristocratico per dottrina, plebeo per genio: tutti guidati dal generale del popolo Moliterno; confidenti nelle proprie forze, inesperti de’ travagli della guerra e della incostanza delle moltitudini. Parlavano al generale Championnet confusamente, a modo volgare; chi dicendo l’esercito napoletano vinto perchè tradito, ma non tradito nè vinto il popolo; chi pregando pace, e chi disfidando guerra a nome di gente infinita contro piccolo numero di Francesi. E poi che si furono saziati di scomposte preghiere o minacce, il Moliterno con discorso considerato, così disse:
«Generale, dopo la fuga del re e del suo vicario, il reggimento del regno è nelle mani del senato della città; così che trattando a suo nome, faremo atto legittimo e durevole; questo (diede un foglio) racchiude i poteri de’ presenti legati. Voi, generale. che debellando numeroso esercito, venite vincitore da’ campi di Fermo a queste rive de’ Lagni, crederete breve lo spazio, dieci miglia, quello che vi separa dalla città; ma lo direte lunghissimo e forse interminabile, se penserete che vi stanno intorno popoli armati e feroci; che sessantamila cittadini, con armi, castelli e navi, animati da zelo di religione e da passione d’indipendenza difendono città sollevata di cinquecentomila abitatori; che le genti delle province sono contro di voi in maggior numero e moto; che quando il vincere fosse possibile, sarebbe impossibile il mantenere. Che dunque ogni cosa vi consiglia pace con noi. Noi vi offriamo il danaro pattovito nell’armistizio e quanto altro (purchè moderata la inchiesta) dimanderete; e poi vettovaglie, carri, cavalli, tutti i mezzi necessarii al ritorno, e strade sgombere di nemici. Aveste nella guerra battaglie avventurose, armi, bandiere, prigioni; espugnaste, se non con l’armi, col grido, quattro fortezze; ora vi offriamo danaro e pace da vincitore. Voi quindi fornirete tutte le parti della gloria e della fortuna. Pensate, generale, che siamo assai ed anche troppi per il vostro esercito; e che se voi per pace concessa vorrete non entrare in città, il mondo vi dirà magnanimo; se per popolana resistenza non entrerete, vi terrà inglorioso.»
Rispose il generale: «Voi parlate all’esercito francese, come vincitore parlerebbe a’ vinti. La tregua è rotta perchè voi mancaste a patti. Noi dimani procederemo contro la città.» E, ciò detto, li accomiatò. Stavano al campo, seguaci e guida dell’esercito, parecchi Napoletani, che parlando a’ legati con detti lusinghieri di libertà, avute risposte audaci, e gli uni e gli altri infiammati da sdegno di parte, si minacciarono di esterminio. I legati riportarono al senato quelle acerbe conferenze, che di bocca in bocca si sparsero nella città infestissime alla quiete. Alcuni preti e frati, settarii del cadente governo, vista la casa dei Borboni fuggita, il vicario cacciato e ’l senato della città dettar leggi senza il nome del re, andavano tra la plebe suscitando gli antichi affetti; rammentavano il detto della regina: «Solamente il popolo esser fedele, tutti i gentiluomini del regno giacobini»; spargevano quindi sospetti sopra Moliterno, Roccaromana, gli eletti, i nobili; consigliavano tumulti, spoglio di case, ed eccidii. Così rideste le sopite furie, i popolani, la vegnente notte, atterrate le forche, sconoscendo l’autorità di Roccaromana e di Moliterno, crearono capi due del popolo; nominati uno il Paggio, piccolo mercatante di farina, l’altro il Pazzo, cognome datogli per giovanili sfrenatezze, servo di vinajo; entrambo audaci e dissoluti.
La prima luce del 15 di gennaio del 1799 palesò i nuovi pericoli, che subito si avverarono; imperciocchè torme numerose di lazzari andarono contro i Francesi; altre sguernivano delle artiglierie i castelli e gli arsenali; ed altre più feroci correvano la città rubando ed uccidendo. E fatta sicura la ribalderia, que’ frati e preti medesimi con abiti sacri, nelle piazze, nelle chiese accendevano con la parola chiamata di Dio il furore civile. Sì che un servo della nobile casa Filomarino, accusando in mercato i suoi padroni, mena i lazzari nel palagio, ed incatenano nelle proprie stanze il duca della Torre, e ’l fratello Clemente Filomarino; questi noto per poetico ingegno, quegli per matematiche dottrine; la casa ricca di arredi è spogliata, indi bruciata, distruggendo molta copia di libri, stampe rare, macchine preziose, e un gabinetto di storia naturale, frutto di lunghi anni e fatiche. Mentre l’edifizio bruciava, i due miseri prigioni trascinati alla strada nuova della marina, sono posti sopra roghi e arsi vivi con gioja di popolo spietato e feroce. Altre stragi seguirono; si sciolse atterrito il senato della città; gli onesti sì ripararono nelle case; non si udiva voce se non plebea, nè comando se non di plebe. Il cardinale arcivescovo sperando alcun soccorso da quella fede in cui nome i lazzari combattevano, ordinò sacra processione; e nel mezzo della notte, con la statua e le ampolle di san Gennaro percorreva le strade più popolose, cantando inni sacri, e da luogo in luogo predicando sensi di giustizia e di mansuetudine. E mentre la cerimonia procedeva, fu visto nella folla aprirsi strada e giungere al santuario uomo grande di persona, coperto di lurida veste, con capelli sciolti, piedi scalzi, e tutti i segni della penitenza. Egli era il principe Moliterno, che, invocato permesso dell’arcivescovo di parlare al popolo, e manifestato il nome, il grado e il giusto motivo (la universale calamità) di quel sordido vestimento, esortò le genti che andassero al riposo per sostenere nel seguente giorno le fatiche della guerra; certamente ultime, se tutti giuravano per quelle sacre ampolle di sterminare i Francesi, o morire; poi disse a voce altissima: «Io lo giuro»; e mille voci ripeterono, «Lo giuriamo.» Il discorso, le vesti, la cerimonia, la comune stanchezza poterono su quelle genti, che tornando alle proprie case fecero per poco tempo tranquilla la città.
XLIV. Ma non dormivano i repubblicani, sopra dei quali pendeva imminente pericolo di strage. Avevano promesso al generale Championnet prendere il castello Santelmo, e lo tentarono la notte innanzi con infelice successo, perciccchè alcuni de’ congiurati mancarono al convenuto luogo; le parole di riconoscenza fallarono; e, destato all’arme il presidio, salvaronsi appena con la fuga. Comandava la fortezza Niccolò Caracciolo, grato al popolo perchè fratello del duca di Roccaromana; e la guardavano centotrenta làzzari dei più fidi, guidati da Luigi Brandi, lazzaro ancor esso e ferocissimo; era il Caracciolo nella congiura de’ repubblicani. Concertò che nel primo mattino del 20 andasse al castello inattesa ed inerme, come a rinforzo del presidio, piccola mano di congiurati; giunse il drappello, dicendosi mandato dal popolo; avvegnachè tutti gli ordini, preti, frati, nobili, magistrati, combatterebbero in quel giorno, contro i Francesi, da’ castelli, dalle mura e nel campo; e ch’ei venivano inermi perchè, certi di trovar armi nelle armerie del forte, avevano date le proprie a coloro del popolo che ne mancavano. Il bel dire piacque agli ascoltatori; e ’l numero piccolo e disarmato non movendo sospetti, fu il drappello accolto con suoni militari, e provveduto d’armi trionfalmente. Indi a poche ore il castellano rammentando la comparsa de’ giacobini nella scorsa notte, comandò che numerose pattuglie girassero intorno alle mura, ed elesse a guidarle lo stesso Brandi. Uscirono. Dipoi prescrivendo che le ascolte fossero doppiate, pose a fianeo di un popolano un congiurato. Richiamò dalle pattuglie il solo Brandi per conferire di materia gravissima; ed appena giunto, chiusagli indietro la porta ed afferratolo fu menato tacitamente in profondo carcere. Così orbato del capo il presidio de’ lazzari, bastarono pochi arditissimi ad opprimere i resti; perciocchè, fatto, segno, le ascolte de’ congiurati impugnarono le armi sul petto alle vicine; gli altri assalirono i lazzari che andavano sicuri ed inermi per il castello; l’ardire e la sorpresa prevalsero; e in breve ora i centotrenta del popolo furono cacciati dalle porte, o chiusi in carcere da soli 31 repubblicani; altri repubblicani al concertato segnale, accorsero; e da quel punto il castello fu conquista della parte francese senza che stilla di sangue si spargesse. I lazzari discacciati e quegli usciti a pattuglia col Brandi narravano le patite ingiurie, ma non creduti perchè ancora la bandiera del re sventolava sula rocca, e perchè il vero che spiace, tardi è creduto. Il generale Championnet fu avvisato dei successi.
XLV. Il giorno innanzi de fatti di Santelmo, torme di popolo uscite in armi dalla città assalirono il posto francese a Ponte-rotto; lo espugnarono, e procedendo valicarono il finme Lagni; ma da maggiore schiera incontrate e battute, ritornarono. L’oste francese, quel giorno stesso 19 di gennajo, levò i campi ed attendò più presso a noi tra Sarno e Aversa per aspettare la mezza brigata mossa di Benevento sotto il colonnello Broussier, il quale al passaggio che faceva delle strette Caudine, note col nome di Forche per la sventura e la vergogna romana, visto in cima delle convalli e nelle boscose pendici gran numero di armati, si ricordò le male sorti de’ due consoli; ma di coloro più avventuroso, ovvero meno esperti de’ Sanniti i popoli presenti del Principato, egli per arte di guerra li vinse. Avvegnachè simulando prima gli assalti, poi la fuga, spostò da quelle forti posizioni gl incauti difensori, che giunti al piano furono facilmente sconfitti, come genti spicciolate, da schiere in ordinanza. Pure quattrocento Francesi caddero morti o feriti, ed in assai maggior numero della opposta parte; la legione Broussier, superata la stretta univasi all’esercito, e quasi spensierata procedeva, quando vide e combattè e vinse truppa di lazzari, che volteggiando, come dotta in guerra, dietro al monte Vesuvio, sorprendeva opportunamente le stanze del generale Duhesme, e le pigliava; essendo in numero quanto mille contro dieci.
Adunato l’esercito francese, ventiduemila soldati, fu disposto in quattro colonne; delle quali una si dirigeva sotto il generale Dufresse a Capodimonte, altra sotto il generale Duhesme alla porta della Capuana, la terza sotto il generale Kellermann al bastione del Carmine, e la quarta sotto Broussier stava in riserva. Napoli non ha bastioni, o cinta di muri, o porte chiuse; ma la difendevano popolo immenso, case l’una all’altra addossate, fanatismo di fede, odio a’ Francesi. Era il giorno 20. Il generale Duhesme avanzò più degli altri; e il suo antiguardo, guidato dal generale Mounier, scacciate molte bande di lazzari, presi alcuni cannoni, entrò la porta Capuana per mettersi a campo nella piazza dello stesso nome. Subito in giro in giro, dalle case preparate a combattere per feritoje ne’ muri, e per cammini coperti, partono a migliaja i colpi di archibugio, ed i Francesi ne sono uccisi o feriti; cadde moribondo il generale Mounier, cadono i più arditi, non si vede nemico, a nulla puote arte o valore; sì che, abbandonato l’infausto luogo, traggonsi addietro. Kellermann, superate le guardie del ponte della Maddalena, pone il campo nella diritta sponda del Sebeto: e ’l generale Dufresse, non contrastato, si alloggia in Capodimonte. Vanno i lazzari orgogliosi della riconquistata piazza Capuana.
Per brev’ora, perciocchè lo stesso Duhesme, tornato agli assalti ed espugnata una batteria di dodici cannoni messa innanzi alla porta, procede nella piazza lentamente, incendiando gli edifizii che la circondano. Era già notte; le fiamme, la vastità e l’infausto augurio degl’incendii, spaventarono i lazzari, che andarono a ripararsi nella città. Il dì seguente il generale Championnet, addolorato delle morti nel proprio esercito e dal guasto di nobile città, sperò soggettarla per sole minacce o consigli; così che spiegati a mostra su le colline i soldati, le artiglierie, le bandiere, esortava per lettere benigne alla resa. Ma l’araldo impedito nel cammino ed offeso da’ lazzari, tornò fuggendo; altro messo travestito pervenne; ma trovando non capi, non ordini, non magistrati, sciolto il senato, fuggitivi Moliterno e Roccaromana, null’altro che plebe e che scompiglio, venuto al campo riferì le vedute cose. Il generale Duhesme aveva intanto spedito piccola avanguardia al largo delle Pigne; e poichè i lazzari l’offendevano dal vasto palagio di Solimena, poca mano di soldati per subita incursione giunse all’edifizio, lo bruciò, tornò al campo. Così passò il giorno 21; e con poca guerra il seguente.
XLVI. Ma nella notte il capitano francese dispose per il giorno 23 gli ultimi assalti; ed avvisati i capi delle colonne, e i partigiani in Santelmo, ordinò le mosse e le azioni; prescrivendo nella sperata vittoria, severa disciplina a’ soldati; e provvedendo nelle possibili sventure, al ritorno ed alla sicurezza dell’esercito. Terminava il comando con dire: «Alla prima luce del giorno muoveremo.» E mossero. Al generale assalto i lazzari per le strade combattevano; senza consiglio, senza impero, a ventura, disperatamente; e quando da Santelmo partì colpo di cannone ed uccise alcun d’essi nella piazza del mercato, tutti volgendosi al castello videro bandiera francese e si accertarono del tradimento. Moliterno e Roccaromana erano in quel forte rifuggiti; altri repubblicani, vestiti da lazzari tramezzo a questi, prima impedirono le stragi e i furti nella città, poi menavano al flagello de’ Francesi la tradita plebe. Opere malvage, se pongasi mente alla ingannata fede; ma scusabili o benedette perchè intendevano a finire gli eccessi e le furie di stato senza leggi. A’ giudizii di Dio e della istoria sono colpevoli degl’infiniti misfatti di quel tempo chi suscitò la guerra e la disertò, e chi mosse il popolo allarmi ed abbandonò i partigiani, lo stato, il comando, i freni del regno. Queste azioni erano sentite dalla coscienza e volontarie; le altre dipendevano quando da istinto di salvezza, quando da carità di patria, e più sovente da necessità. La peggiore plebaglia, corsa allo spoglio della reggia, e da due cannonate di Santelmo sbaragliata, lasciò a mezzo il sacco. Procedevano intanto i Francesi; il generale Rusca prese di assalto il bastione del Carmine, il Castel nuovo si arrese al generale Kellerman, il general Dufresse passato da Capodimonte a Santelmo scendeva nella città ordinato a guerra.
E il generale Championnet, che fra tante ostilità non aveva deposto il pensiero magnanimo di pace, andò al campo di Duhesme nel largo delle Pigne; e alzando bandiere di concordia, chiamando a se col cenno molti del popolo, dimostrò con modi e parole benevoli dissennata quella guerra da che i Francesi erano padroni de’ castelli; e, peggio che dissennata, ingiusta, perchè portavano al popolo quiete, abbondanza, miglior governo; e ne’ loro giuramenti rispetto alle persone ed alle proprietà, venerazione alla comune religione cristiana, divozione al beatissimo san Gennaro. Il generale, che speditamente parlava l’idioma d’Italia, fu inteso e applaudito. Era tra i presenti quel Michele il Pazzo, scelto capo, come ho riferito, dei lazzari, il quale pregando al generale che fosse posta guardia di onore a san Gennaro, subito ottenne che due compagnie di granatieri andassero alla cattedrale; le quali tra lazzari napoletani, che precorrendo gridavano viva i francesi, facevano sentire altamente, rispetto a san Gennaro! Non mai la fama fu più rapida; da un punto all’altro della vasta città si narravano que’ fatti. si ripetevano quelle voci di concordia, mentre su le rocche sventolava la insegna de’ tre colori, e le bande musicali francesi sonavano ad allegrezza; era il cielo brillantissimo, come suole in Napoli nel gennaro. Caddero le armi di mano al popolo: belva, furibonda o mansueta, a gioco di fortuna; facile alla libertà ed al servaggio; proclive meno al moto che alla pazienza; materia convenevole al dispotismo. Cessato il romore di guerra, uscite da nascondigli le appaurite genti, il generale Championnet fece ingresso magnifico, pubblicando editto in questi sensi:
«Napoletani! siete liberi. Se voi saprete godere del dono di libertà, la repubblica francese avrà nella felicità vostra largo premio delle sue fatiche, delle morti e della guerra. Quando ancora fra voi alcuno amasse il cessato governo, sgomberi di se questa libera terra, fugga da noi cittadini, vada schiavo tra schiavi. L’esercito francese prenda nome di esercito napoletano, ad impegno e giuramento solenne di mantenere le vostre ragioni, e trattar per voi le armi, ogni volta giovi alla vostra libertà. Noi Francesi rispetteremo il culto pubblico, e i sacri diritti della proprietà e delle persone. I vostri magistrati per paterne amministrazioni provvedendo alla quiete ed alla felicità dei cittadini, svaniscano gli spaventi della ignoranza, calmino il furore del fanatismo; sieno solleciti a pro nostro quanto lo è stata contro noi la perfidia del caduto governo.»
Durò la gioja. I repubblicani per le strade abbracciandosi e ricordando le sofferte pene, le benedicevano; gridavano i nomi di Vitaliano, Galiani, De Deo tra lacrime di tenerezza e di piacere; e patriotiche brigate accorrevano alle case de’ parenti loro, per consolarli dell’antico dolore. Tra le quali festive apparenze si rimoveva l’occhio e il pensiero da’ corpi morti delle due parti, che ancora ingomberavano le strade; mille. almeno Francesi; tremila o più Napoletani. Giunta la notte, furono vinte le tenebre dalle infinite luminarie della città; ed il monte Vesuvio, che da parecchi anni non gettava fuoco nè fumo, alzò fiamma placida è lucentissima come di festa; il quale spettacolo parve al volgo assentimento celeste, ed augurio di felicità; ma furono fallaci le apparenze. però che il tempo nascondeva sorti contrarie.