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196 LIBRO TERZO — 1798.

confermavano nella mente comune il sospetto di tradimento; e tanto più che all’avanzar de’ Francesi, cresciute le acerbità di polizia, si udivano imprigionamenti e castighi; molti uffiziali dal campo menati nelle fortezze; chiuso in fortezza lo stesso ministro per la guerra maresciallo Airola. Le quali cose, dividendo il popolo, indebolivano le resistenze al nemico, e generavano le discordie civili e le tante calamità da quel misero stato inseparabili. Fu questo il più amaro frutto dell’antico mal senno del governo in supporre e punir congiura, in sè non mai vera, surta ne’ disegni ambiziosi di pochi tristi, annidata nell’animo superbo della regina, poscia involgata e creduta. Esiziale menzogna che annientò la dignità della monarchia, il credito de’ grandi, l’autorità de’ magistrati. Per essa disobbedivano i soldati a’ capi, i soggetti a’ maggiori; e udivi ai ricordi de’ doveri o delle leggi, rispondere i contumaci la usata voce di traditore. Cosicchè, spezzati gli ordini sino allora venerati della società, la parte per numero e ardire più potente, cioè la bassa moltitudine dominava; tanto più nella città, dove la plebe più numerosa, il ceto de’ lazzari audace, i guadagni più facili e grandi. Cadute le discipline, dispregiato il comando, le squadre ordinate si scioglievano; i fuggitivi chiamati, non tornavano alle bandiere; il valore de’ partigiani si disperdeva in opere mirabili ma vane. La corte in quel mezzo ed i ministri vivevano incerti ed angosciosi; vacillava sul capo del re corona potente e felice; agitavano la regina pericoli o rimorsi; il generale Mack ondeggiava tra speranze di nuove imprese, e le rovine della sua fortuna; Acton, Castelcicala, tremavano quanto si conviene ad animo vigliacco ed a vita colpevole; i consiglieri della guerra, gl’inquisitori di stato, i satelliti della tirannide si abbandonavano a disperati consigli. Così provveder divino infestava quelle anime perverse, che ricordevoli delle male opere, ne vedevano certa e vicina la vendetta. Fuggire, era il desiderio comune, ma secreto perchè estremo e codardo; l’oste francese non avanza, impedita da una fortezza, da un fiume e da truppe armate di popolo; i tumulti della città stavano per il re, e si udivano voci e voti di fedeltà verso il trono e la chiesa; nessuna provincia o città ubbidiva i Francesi, che a tanta poca terra comandavano quanta ne copriva piccolo esercito; e per le impreviste avversità avevano i Borboni e i Borboniani stanze sicure ne’ Principali, nella Puglia, nelle Calabrie. Nessuno argomento a fuggire, ma fugava i malvagi la coscienza.

Altre genti paventavano; i notati giacobini nei libri della polizia, gli uffiziali dell’esercito creduti traditori, e i possidenti di qualunque ricchezza, principale mira della commossa plebaglia. I giacobini, esperti a radunarsi, intendevano per secreto congreghe alla propria salvezza, e ad agevolare, ov’ ei potessero, le fortune de’ Francesi e