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LIBRO TERZO — 1798. 179

Vanni disse; «I processi, che sono tanti, almeno quanti gli accusati, voi vedrete compiuti nelle parti che agli inquisitori spettavano;: manca per la pienezza la pruova antica, la tortura, che i sapienti legislatori prescrissero indispensabile ne’ delitti di maestà, ed anche allora che le altre pruove soperchiassero. Così per legge, ne’ casi presenti tanto più necessaria, perchè incontrammo rei pertinaci al mentire o al tacere; promessa di comune silenzio chiude le labbra di que’ malvagi, ma forza di giustizia e di tormenti snoderà la parola, da infame sacramento rattenuta. Io, nella qualità che il mio re mi ha concessa, d’inquisitore e di fiscale, dimando che i principali colpevoli, cavaliere Luigi de’ Medici, duca di Canzano, abate Teodoro Monticelli e Michele Sciaronne, sieno sottoposti allo sperimento della tortura, nel modo più acerbo prefisso dalla legge con la formola torqueri acriter adhibitis quatuor funiculis. Dopo del quale atto, compiuta la procedura, io dimanderò in nome del mio re quali altri esperimenti crederò necessarii alla integrità delle pruove. Non vi arresti, o giudici, debole ritegno di martoriare que’ colpevoli, che voi stessi a maggior martoro e più giusto condannerete, quando tra poco si tratterà non del processo ma del giudizio.» Ciò detto, levossi dalla seggia, e girando intorno il viso imperterrito, di pallore naturale ricoperto, con sguardi terribili come di fiera, soggiunse: «Son due mesi che io veglio, non di fatica su i processi, ma di affanno per i pericoli corsi dal mio re; e voi, giudici, vorrete sentir pietà d’uomini perfidi, che le più sante cose rovineranno, se gli ajuta fortuna, e non gli opprime giustizia? E perciò, ripetendo la istanza per la tortura de’ rei maggiori, io vi esorto alla giustizia, alla fede verso il re, alla intrepidezza, ch’è la virtù più bella di giudici chiamati a salvare un regno.»

Il magistrato Mazzocchi, presidente della giunta, rispose al Vanni: «Pompeggia su i vostri labbri la frase di mio re, nella quale nascondete, sotto specie di zelo, soperchianza e superbia; dite d’ora innanzi, e meglio direte, nostro re.» Poi volto a’ giudici, e chiesto il voto su la istanza del Vanni, tutti la ributtarono come spietata ed inutile, però che l’inquisitore avea tante volte accertato evidenti le pruove, chiari i misfatti e i colpevoli. Solo fra tutti alzò minaccioso la voce il principe di Castelcicala, che sostenendo gli argomenti dell’inquisitore, ed aggiungendo i suoi, diceva giusta e necessaria la dimandata tortura; chiamava quella riluttanza de’ giudici debolezza o colpa; ne agitava la coscienza e la timidezza, con dire che il re ne prenderebbe vendetta. Tutte le insidie adoprò, che forse egli medesimo ha obliate; ma oggi la storia le palesa perchè vadano di età in età, con le debite infamie, agli avvenire. Bramava il Castelcicala la tortura del Medici, sperando che