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LIBRO TERZO — 1797. 173

che l’armistizio tra ’l papa e la repubblica fosse guida e principio della pace. E poichè Bonaparte, numerando i sofferti oltraggi, diceva impossibile adempimento di quel desiderio, il principe, per semplicità o astuzia, ma incauto, mostrò i mandati del suo governo; e il generale vi lesse; «Degli affari di Roma essere il peso così grave all’animo del re, ch’egli in sostegno degli amichevoli officii avrebbe mosso l’esercito.» Al che l’altro: «Non ho, tre mesi addietro, abbassato l’orgoglio pontificale, perchè supposi il re di Napoli confederarsi contro la Francia, in tempi ne’ quali guerra maggiore impediva rispondergli. Oggi (senza scemare gli eserciti acquartierati, solo per prudenza, incontro all’Austria), trentamila Francesi sciolti dall’assedio di Mantova, e quarantamila già mossi dalla Francia stanno liberi e vogliosi di guerra. Se dunque il re di Napoli alza segno di sfida, voi ditegli che io l’accetto.» Così a voce. Rispondendo alla nota scrisse cortesemente, essere gravi i mancamenti del pontefice, più grande la modestia della repubblica; trattar quindi la pace, ma togliendo a Roma le armi temporali; e confidando alla sapienza del secolo vincer le sacre; essergli gradevole aderire alle commendazioni de’ sovrani di Napoli e di Spagna.

La pace con Roma fu poco appresso conchiusa in Tolentino; e per essa il pontefice, oltre milioni di danaro e cavalli ed armi e tesori d’arti e di lettere, perdè i dominii delle legazioni e della fortezza di Ancona; restò impoverito, adontato e scontento. Gli stati passati alla Francia ottennero di ordinarsi a repubblica per legge; gli stati vicini per tumulti. E nella stessa Roma i cittadini, ricordando la gloria, senza la virtù, degli avi, si levarono parecchie volte a ribellione; ma perchè pochi, e imprigionati i capi, dispersi gli altri, fu sempre misera la fine. La plebe parteggiava dal pontefice, non per affetto ma per impeto cieco, disonesti guadagni e impunità. Era dicembre, Alcuni patriotti (così erano chiamati gli amanti di repubblica) inseguiti da birri, fuggirono per asilo nella casa dell’ambasceria di Francia; e con seco entrarono i persecutori ed alcuni del popolo. Il luogo, gli usi, l’onore di proteggere gli oppressi, e l’aura e il nome francese, fecero che tutti dell’ambasceria si ponessero a scudo de’ fuggiti; ma quelle cose istesse. e l’aspetto di ragguardevoli personaggi nulla ottennero dagli assalitori, i quali uccisero il generale. Duphot, chiaro in guerra, e minacciarono l’ambasciatore Giuseppe Bonaparte, fratello al vincitore d’Italia. Nella città si alzò tumulto; nel Vaticano niente operavasi a sedarlo, nè a punire o ricercare gli assassini di Duphot. Era scorso il giorno; molte lettere aveva scritte l’ambasciatore a’ ministri di Roma; nessun uomo, nessun foglio del governo rassicurava gli animi e le vendette. Perciò, abbassate le insegne di Francia, parti-