Pagina:Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825 I.pdf/167


LIBRO TERZO — 1794. 157

palmi napoletani novemiladuecento); la base, ellittica, cinque miglia in giro; la grossezza maggiore della lava, undici metri (quaranta palmi); la terra coperta di fuoco, cinquemila moggia; il molto largo la quarta parte di un miglio, sporgente in mare ventiquattro metri, elevato su l’acqua sei metri; gli uomini morti trentatrè, gli animali quattromiladuecento. Furono le cure del governo solamente pietose, impedita la liberalità dalle strettezze dell’erario. In breve tempo, sopra il suolo ancora caldo, videsi alzare nuova città; soprapponendo le case alle case distrutte, e le strade alle strade, i tempii a’ tempii. Possente amor di patria che dopo tanti casi di esterminio si direbbe cieco ed ostinato, se in lui potesse capir difetto!

In que’ giorni di lutto universale, Îl re con la casa e col generale Acton, caro alla famiglia, andarono agli accampamenti di Sessa, lontani dal pericolo e dalla mestizia. I teatri, la curia, le magistrature si chiusero. Solamente in quel feriato di dolore, la giunta di stato non sospese i crudeli offizii; essendosi trovati negli archivii molti atti segnati di que’ giorni. Prima opera di lei fu la morte di Tommaso Amato, che in giorno festivo, nella chiesa del Carmine, spingendosi verso il santuario e lottando con un frate che lo impediva, proferì a voce alta bestemmie orrende contro Dio, contro il re. Arrestato dal popolo e dato alle guardie del vicino castello, accusato reo di lesa maestà divina ed umana, fu condannato a morire su le forche. Il re prescrisse pubbliche orazioni onde placare la collera di Dio, mossa dal veder profanato il tempio e i sacerdoti. Le spoglie di Tommaso Amato non ebbero cristiana sepoltura, e si citava il nome ad orrore. Ma per lettere che da Messina, patria dell’infelice, scrisse il generale Danero governatore della città, seppesi Tommaso Amato soffriva in ogni anno accessi di pazzia, e che da certo tempo era fuggito dalla casa de’ matti. Il pre sidente Cito, e ’l giudice Potenza, avendone avuto sospetto nel processo, votarono che fosse custodito come demente; ma piacque agli altri giudici punire uomo creduto malvagio dal popolo, e radicar la sentenza nella plebe: nemico del re, nemico a Dio. Dal primo sangue, gli animi inferociti, prepararono la gran causa de’ rei di stato; così portava nome. Il governo incitava i giudici alla severità, spaventato dalle nuove cose di Francia e d’Italia; era capo in Francia Robespierre, e trionfavano allo interno le dottrine più feroci; allo esterno, gli eserciti: nel Piemonte scoprivasi congiura contro il re, e tumulti la secondavano; spuntavano in Bologna germi di libertà ed in Napoli si passava dalle finte alle vere cospirazioni, per gli scarsi ricolti sempre pericolosi alla quiete, e la povertà del popolo, e lo sdegno degli oppressi, è l’usato cammino della scontentezza. La giunta di stato giudicava. Era inquisitorio il processo, scritta la pruova; le secrete accuse o denunzie potevano come indizii; i