Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro III/Capo I
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LIBRO TERZO.
REGNO DI FERDINANDO IV.
(anno 1791 sino al 1799.)
CAPO PRIMO.
Provvedimenti di guerra e interni, a seconda de’ casi della rivoluzione francese.
I. I due sovrani di Napoli partendosi da Vienna l’anno 1791 speravano strignere in Italia confederazione di guerra contro la Francia: ma trovato negli altri principi ugual timore, non eguale sdegno serbarono a più maturi tempi l’utile intendimento; e tanto più ch’ei sapevano quanto l’Austria riprovasse la congiunzione dell’armi italiane. Proseguirono il cammino verso Roma, dove il pontefice l’attendeva; Pio VI, bello della persona piacevole di maniere, amante e vanitoso di ornamenti come femmina. Que’ sovrani, nel primo viaggio l’anno 1785, fervendo allora gli sdegni contro di Roma scansarono quel territorio, schivi per fino delle apparenti cortesie, debite fra principi. Ma dalla rivoluzione di Francia e dal comune pericolo ammollito il cruccio, avevano composto, per ministri, patti di amicizia che furono: abolire per sempre il dono della chinea e la cerimonia; cessare ne’ re delle due Sicilie il nome di vassallo della santa sede; concedere nella incoronazione del re largo dono a’ santi apostoli per pietosa offerta; il papa nominare a’ benefizii ecclesiastici, tra i soggetti del re, eleggere i vescovi, nella terna proposta dal re; dispensare negl’impedimenti di matrimonii: confermare le dispense già concesse dai vescovi.
E dopo ciò, i monarchi si avvicinavano amici e riventi al pontefice, preparato ad accoglierli con fasto e grazie. Giunti il dì 20 di aprile, nel giorno istesso andarono al tempio di San Pietro; e di là per secreto accesso agli appartamenti di Pio. Non attesi, ed imposto silenzio dal re alle guardie ed a’ servi pontificii penetrarono sino alle stanze dove Pio con vesti magnifiche sacerdotali giaceva sopra seggia in riposo. Piacque a lui quel confidente procedere di re superbi, e scordate appieno le passate ingiurie, fu d’allora innanzi sincero amico. Le feste durarono molti dì; i doni ricchi e scambievoli. Stavano in Roma le due principesse di Francia, Adelaide e Vittoria, zie del re Luigi, fuggitive da’ rivolgimenti della patria; le quali narrando i travagli della casa, più concitavano l’ira de’ principi.
Così sdegnosi vennero in Napoli, tra feste popolari e sontuose quanto non comportava la povertà dell’erario. Il re e la regina mostravano piglio severo, nunzio degli imminenti rigori: e gli spettatori, avversi o inclinevoli alle nuove dottrine della Francia, non vedevano in quelle feste ragionevole argomento di piacere; fu dunque gioja per la sola plebe la quale non disturba per antiveder di sventura le presenti allegrezze. Dopo alquanti dì, nella reggia si consultarono materie di stato; benchè i consiglieri fossero parecchi, una fu la sentenza, quella medesima che stava in animo alla regina: guerra alla Francia ed austera disciplina de’ sudditi. I ministri partirono le cure. Subito negli arsenali si congegnarono altre navi da guerra; provveduti nell’interno e dall’estero legnami, canapi, metalli infiniti; e fonder cannoni, fabbricar carretti, cassoni, altri difizii di campo; le armerie accresciute formar dì e notti armi e nuove; i fochisti ordinati a compagnie militari fabbricar polveri ed artifizii; venivano di ogni parte del regno, vesti, arnesi, calzari, e molti fanti coscritti dalle comunità, molti cavalieri dai feudi, molti volontarii per grosso ingaggio; andavano i vagabondi alle milizie, passavano i prigioni dalle carceri e dalle galere alle armi; accorsero agli stipendii altri Svizzeri e dalmati nuovi; e forestieri di grado, come i principi d’Hassia Philipstad, di Wittemberg, di Sassonia, tutti e tre di sangue regio; i preti, i frati, i missionari predicavano gli odii contro la Francia da’ pergami, li persuadevano da’ confessionali. E perciò tutte le arti, tutte le menti, le braccia, le persone, servivano al proponimento di guerra, studii inusitati e molesti.
II. E ciò fatto, provvide il governo alla sicurezza dell’imperio per modi palesi e celati. La polizia ebbe commissario vigilatore e giudice, con seguaci e guardie, in ogni rione della città, e sopra tutti, col nome antico di reggente della vicaria, il cavaliere Luigi de’ Medici, giovine scaltro, ardito, ambizioso di autorità e di favore. Altri ministri spiavano in secreto le opere o i pensieri dei soggetti, chi ne pubblici luoghi, e chi nel secreto delle case. La regina guidava que’ maneggi, conferendo con le spie a notte piena, nella sala chiamata Oscura della reggia; ed onestando l’arte infame col nome di fedeltà, non la disdegnavano i magistrati, i sacerdoti, i nobili, tra quali fu sospettato la prima volta Fabrizio Ruffo principe di Castelcicala, non bisognoso di opere malvage perchè ricco del proprio, ed agevolato alle ambizioni dal grado di principe; ma vi era spinto (dicevano) da rea natura. Il clero, viste le sventure della chiesa di Francia, sperando il riacquisto della perduta potenza, si fece sostegno e compagno al dispotismo. Il re, a sessantadue vescovadi vacanti nominò uomini caldi e zelosi; restituì la pubblica istruzione a’ cherici; fece mostre di sincera amicizia a’ preti, a’ frati. Esposti più d’ogni altro all’ira del governo ed alle trame delle spie erano i dotti e i sapienti, per la fallace opinione che il rivolgimento francese fosse opera della filosofia e de’ libri, più che de’ bisogni e del secolo. Esiziale credenza, che durata e durante, ha recato gravi sventure ai migliori, ed ha spogliato l’impero e ’l sacerdozio de’ potenti ajuti dell’ingegno. I libri del Filangieri furono sbanditi, e in Sicilia bruciati; il Pagano, il Cirillo, il Delfico, il Conforti erano mal visti e spiati; cessarono ad un tratto le riforme di stato, avuto pentimento delle già fatte; i libri stranieri, le gazzette, impedite; i circoli della regina, disciolti; le adunanze di sapienti vietate; negavasi ricovero a’ fuggitivi francesi, che sebbene contrarii alla rivoluzione apportavano per il racconto de’ fatti scandalo e fastidio. Mutata la faccia della città, l’universale mestizia successe alla serenità della quiete.
III. Per tal modo ordinate le cose pubbliche, aspettava il governo gli avvenimenti di Europa. Inghilterra, Olanda, Prussia chiedevano fine della guerra di Oriente all’Austria che prometteva di accordarsi; e la Russia e la Porta, egualmente pregate, dechinavano dagli sdegni. Venne allora in Italia l’imperatore Leopoldo, il più adirato contro la Francia; e conferendo con secreti ambasciatori, scrisse a Luigi, il 20 di maggio, essere preparata la invasione della Francia, per le Fiandre con trentacinque mila Tedeschi; per l’Alsazia con quindicimila; altrettanti Svizzeri per Lione; più che tanti Piemontesi per il Delfinato; ventimila Spagnuoli da’ Pirenei. La Prussia sarebbe collegata all’Austria, la Inghilterra neutrale. Un manifesto delle case borboniche regnanti a Napoli, in Ispagna ed a Parma, sottoscritto per la Francia da’ regali della famiglia fuggitivi, dimostrerebbe la giustizia di quella guerra. Stesse il re Luigi aspettando le mosse, per ajutarle delle proprie forze manifeste o secrete. Ma Luigi temendo che a quegli assalti le fazioni di libertà infuriassero, prese partito più cauto; fuggir di Parigi per ricoverare in Montmedy dove il generale Bouillè aveva radunate le schiere più fedeli; e di colà, sicuro il re, assaltar la Francia con gli eserciti stranieri, secondati dalle proprie squadre, e da fuorusciti e partigiani che egli credeva più del vero numerosi ed arditi. Stabilite alla fuga le strade, il tempo, i segnali, uscirono travestiti da porta secreta il re, la regina, la principessa Elisabetta e i principi infanti, menati per mano da madama de Tourzel, che, sotto finto nome della signora di Korff, figurava che viaggiasse co’ suoi figliuoli, e fossero sue cameriere la regina e la principessa, servo il re, corrieri o pur servi tre guardie del corpo travestiti. Nel tempo stesso per altra strada fugge il fratello del re con la moglie; e celeri messi avvisano quelle fughe a’ re stranieri. Saputa in Parigi nel mattino seguente la partita del re, l’assemblea, fingendo ch’ei fosse stato rapito da nemici della Francia, decretò trattenerlo: ma godendo vedersi libera del maggiore intoppo, desiderò che fuggisse. Meglio provvidero i cieli, avvegnachè forze straniere ed interne, natural debolezza degli stati nuovi, varietà di parti e dispotismo, forse avrieno distrutte in breve le opere maravigliose di due anni, le speranze di un secolo, e sottomesso il popolo della Francia alla tirannide. La rivoluzioni danno apparenza ingannevole, perchè immense a vederle, minori in fatto, sono audaci e caduche.
Rallegrava la regina ed il re di Napoli la fuga della famiglia di Francia, quando seppero per altre lettere che scoperta a Varennes, ricondotta prigioniera a Parigi. era tenuta in custodia dalle milizie. Nè però cadendo la speranza de’ re collegati d’invadere la Francia, convenuti a Pilnitz l’imperatore Leopoldo, il re di Prussia, l’ elettore di Sassonia e ’l conte d’Artois, pubblicarono, a nome de’ due primi, editto che diceva: «sconvolti affatto gli ordini della Francia, invilita la monarchia, imprigionato il re; necessaria l’opera de’ re stranieri a rendere la pace a quel regno, la libertà a quel principe; squadre poderose prussiane ed austriache adunarsi ad esercito: invitare alla impresa gli altri re della terra, per tener sicuri i proprii regni, e vendicare la dignità della corona.» Gustavo III, re di Svezia, ardente di sdegno, bramoso di gloria, dicendosi pronto e sollecito all’invito, s’impazientava de’ ritardi. Avvegnachè, fornito in Francia, nel settembre del 1791, il novello statuto, il re fatto libero, venuto in assemblea, udito il grido de’ popoli come ne’ tempi di sua prosperità, e per li poteri che aveva dallo statuto ritornato re dopo le abiezioni della prigionia, sperando meglio dal tempo, dalla incostanza de’ popoli, e da una novella assemblea, tratteneva le mosse degli eserciti stranieri. Ma crescevano le parti per la repubblica, tanto da impaurire que’ medesimi caldissimi, nella constituente di libertà. Morì nel fiore degli anni e del consiglio il conte di Mirabean, che libero quanto comportava la ragione de’ tempi, Viste le sfrenatezze de’ giacobini, erasi unito al re, per opporsi alle imprese di repubblica, sconvenevole a popolo invecchiato nella obbedienza, cui manchino così le virtù della giovinezza, come il senno di matura civiltà. Quel Mirabeau, che, dotto degli uomini e del secolo, bramava libertà possibili alla Francia, era morto. E le ambizioni destate nel popolo in due anni di rivolgimento, non capendo nell’assemblea legislativa, sfozavano ne’ clubs, e principalmente in quello de’ giacobini, dove si vedevano tutte le parti di congrega nazionale; elezione di membri, divisioni per province, presidenza, altri offizii, esame di materie civili, tribuna, decisioni per voti, pubblicità. A lui non mancava per aver forza di rappresentanza che la legalità, ma la compensavano il numero, la veemenza degli associati, l’assentimento del pubblico. Volevano i giacobini popolare governo; poco manco altre adunanze: e incontro a tanti stavano debole assemblea legislativa, re tante volte soperchiato, staluto nuovo e non difeso.
IV. Alle circolari del re Luigi, portanti l’assenso al nuovo statuto della Francia, il re di Napoli rispose che a credergli attenderebbe di sentirlo libero; e gli altri monarchi variamente, come voleva diversità di politica e di affetti. Solo il re del Piemonte, spaventato del vicino incendio, già volta in paura la stolta speranza di conquistar su la Francia, propose a’ principi d’Italia lega italiana, che impedisse la entrata delle armi francesi e delle dottrine rivoluzionarie. Tutti aderivano, fuorchè Venezia e gli stati imperiali di Lombardia; essendo casa d’Austria più sospettosa della Italia unita che della Francia sconvolta. Così svanita la proposta, ogni stato italiano si affidò al proprio senno, è, direi meglio, alla ventura. Frattanto l’imperatore Leopoldo, per natura schivo di guerra, armigero insino allora per primo sdegno, inchinevole più di altro re, o solo tra i re al bene dei popoli, rinviò alle antiche stanze il radunato esercito; la imperatrice di Russia, pacificata con la Porta Ottomana, non mirava ad altre guerre; la Prussia si acchetò; la Spagna impigriva col suo re; durava in pace la Inghilterra: l’ira della regina di Napoli, e gl’impeti guerrieri del re Gustavo nulla potevano contro la Francia. La quale avrebbe forse invalidate le opinioni di repubblica e provveduto al suo governo, se due fazioni civili, più fiere del giacobinismo, non l’agitavano: fuorusciti e clero. I primi (che dirò emigrati, pigliando il nome come i fatti dalle istorie di Francia). in gran numero adunati ed ordinati a guerra su le due frontiere del Reno e del Piemonte, minacciavano la sicurtà della patria. Nobili la più parte, non veri cittadini della Francia, nè servi fidi al re, punto guerrieri, punto animosi, assetati di privilegi e di favore, fuggivano la nuova eguaglianza civile, e col mal tolto nome di fedeltà sospiravano il ritorno di monarchia prodiga e sfrenata. Furono inavvertite o tollerate le prime fughe; ma quando crebbero da comporre due eserciti, con armi, danaro, uffiziali esperti e principi della casa, l’assemblica legislativa sentì sdegno e sospetto: gl’invitò a tornare in patria: gravò di taglie i beni de’ contumaci; minacciò di pena le persone; ma nulla potendo gl’inviti o le minacce, essi stavano a’ confini, segnale e principio d’incendio, onde si affidavano che tutta la Francia bruciasse. Accusavano le intenzioni meglio cittadine, incitavano i potentati stranieri alla guerra; arrischiavano la vita del re, il cui nome serviva di onorato pretesto a brighe infami. Il clero stava diviso tra i ripugnanti a giurare per lo statuto e i giuranti. i primi di maggior numero e più intatta fama; sequestrate le terre della chiesa, poi confiscate; due brevi di Roma e l’immagine del pontefice bruciati a scherno; ingiuriate ed offese le persone de’ preti. I quali, per la opposta parte andavano suscitando le coscienze e le armi dei credenti. Il re teneva dagli emigrati perchè re, e da’ preti perchè divoto.
V. Così stavano le cose di Europa l’anno 1791. Nel principio dell’anno seguente morto l’imperatore Leopoldo, successe Francesco suo figlio. Nel mese istesso fu morto Gustavo III re della Svezia da’ nobili che opprimeva; ma, finchè ignote le trame, si disse dalle parti giacobine. La morte di Leopoldo apportò dolore; quella di Gustavo sospetti; e si andavano ricordando îl club francese, la propaganda, la legione de’ tirannicidi, il motto dell’assemblea «a’ re che ci mandano la guerra, noi rimanderemo la libertà»; ed altri o fatti o dicerie che atterrivano i principi. Fu quindi in Napoli più vigilante la polizia, che per meglio spiare fece scrivere le strade, numerare le case in cartelli di marmo; diligenza e fornimento di città grande. Facendo sospetto diecimila condannati e dodicimila prigioni nelle carceri e galere di Napoli o Castellamare, ne andò gran parte alle isole di pena, Lampedusa e Tremiti. Il giovine reggente di Vicaria tornò in uso la frusta e il deposito dei creduti colpevoli nelle galere; alle quali condanne erano pruova le delazioni delle spie, gli atti inquisitorii degli scrivani, il proprio giudizio del reggente. Tollerarono, primi, quel supplicio uomini della plebe infami e tristi; e frattanto l’aspetto e l’esercizio del dispotismo avendo ingenerato nel popolo servitù e pazienza, la polizia non temè di punire con eguale licenza uomini di buona fama. Dal sospetto di colpe false, le vere nacquero. I Napoletani amanti delle dottrine francesi, consultati poco innanzi come sapienti su le riforme dello stato, al presente spiati e mal visti; si adunavano in secreto per conferire delle cose di Francia; nè già con isperanza di bene vicino e preparato, ma per esercizio d’ingegno e felicità ideale dell’avvenire; le quali onestà praticavano con le arti e mistero del delitto. E poscia invaghiti dello statuto francese dell’anno 1791, e della dichiarazione dei diritti dell’uomo, e di tutti gli ornamenti filosofici di quella carta, tanto da credere che leggendoli verrebbe universal desiderio di egual governo, ne fecero improntare con grande spesa e caratteri nuovi, da stampatore fidatissimo, due migliaja o più. Ma non li divolgarono perchè, all’ardimento succeduto il timore, solamente sparsero alcune copie nella notte per le vie della città, due altre copie per giovanile contumacia negli appartamenti della regina; e le molte, spartite in sacchi ila farina, gettarono în mare tra gli scogli del Chiatamone. Due nobili giovani con vesti plebee, al primo tramonto per iscansare la luce del giorno o le guardie della notte, indossarono i sacchi, e per le vie più popolose della città, simulando l’uffizio di facchino, li trasportarono e deposero nel disegnato luogo. N’ebbero plauso dai compagni come di salvata repubblica; e intanto quella stampa e quello ardire accrebbero l’ombra e il dispetto de’ dominatori. Queste furono le prime faville di un incendio civile non mai più spento.
VI. Peggiorando per le male opere degli emigrati, del clero e de’ giacobini le cose di Francia, imperversarono le parti, i maneggi del re, i sospetti del popolo. Fra tanti moti civili erano surti uomini da grandi imprese; ma, discordi tra loro, dividevano a brani le forze dello stato: Dumouriez, contraddetto ed affaticato, aveva deposto il carico di ministro con virtù facile e volgare; La Fayette, soldato di libertà e cavaliero francese, dopo i tumulti del 20 di giugno venuto a Parigi con proponimento di salvare la monarchia erasi fermato a mezzo corso; Bailly, Condorcet, altri uomini egregi, seguivano le norme, deboli allora, delle dottrine; Pethion ed altri moltissimi, atti a suscitare, impotenti a dirigere i tumulti, il re, sofferente più che intrepido, con virtù passiva, ammirata ma inerte; la regina, querula e leggiera, agitata de bramosia di vendetta; le parole, già venerate come sacre, di leggi, trono, popolo, religione, non avevano perduto appieno l’antico prestigio; e mancava tanto uomo che sapesse avvincerle alla condizione de’ tempi, da che Mirabeau era morto, e non ancora su la scena del mondo Bonaparte appariva. Di là i malî e gli errori, II re, sospettoso di veleni, mangiava in secreto con la famiglia poveri cibi ma sicuri; tollerando per molti mesi la più stretta penuria. Mandò privati ambasciatori a’ campi degli emigrati ed a’ monarchi d’Austria e di Prussia per sollecitare gli eserciti a liberarlo. Fu allora intimata la guerra alla Francia. Oste prussiano-austriaca procedeva; e la regina, misurando il cammino, presagiva il giorno dell’arrivo a Parigi con mal celata allegrezza.
Nella città e nella casa del re moti e pericoli continui ed opposti; quindi stanchezza e jattura di tempo e di consiglio. La Fayette ripete l’offerta di salvare il re con la fuga; e ’l maresciallo Luckner, forestiero agli stipendii francesi, veniva ostilmente a Parigi per far sicura la partenza del re. Questi aderiva: la regina alla vergogna di vivere obbligati al costituzionale La Fayette, preferiva la morte; e allora il re, prono a desiderii di lei, scortesemente ributtò il benefizio. Quella superbia serbò forse la vita, certamente la fama, al generale; imperciocchè tali erano le condizioni del tempo, che la monarchia o la Francia precipitasse. Tra i quali ardori comparve editto del prussiano Brunswick, il quale protestando la già vieta modestia de’ suoi principi, chiamando fazione la Francia intera e solamente il re saggio a conoscere, legittimo a concedere le riforme di stato, annientava le cose fatte in tre anni; poscia imponeva, come se fosse certo vincitore, sciorre gli eserciti rivoluzionarii, le assemblee, le congreghe; accogliere gli Austro-Prussi amichevolmente, unirsi a loro gli amici del re, fuggire o dimandar perdono i nemici. E intanto numerose truppe di emigrati seguivano le colonne alemanne, ultimi al campo, primi allo sdegno, instigatori a guerra domestica e sanguinosa. L’editto, nemmen grato al re che vide i pericoli della casa e trapassati i termini della sua dimanda, spinse il popolo a fatti estremi: de’cittadini, altri timorosi della regia vendetta, altri disperati di perdono, altri dolenti per carità di patria, trepidavano ed agitavansi; ma pure alcuni d’ingegno acuto ed altiero, sperando salute dal ridurre ad una le passioni, ad uno gli impeti del popolo, indicarono a segno di comune odio il re.
Non risguarda le napoletane istorie tutto il racconto de’ fatti di Francia; qui bastando che io rammenti essere stato a’ 10 di agosto di quell’anno 1792 il re assalito nella reggia, e la reggia presa e bruciata da battaglioni di popolo; andati a scampo, il re, la moglie, i figli, la sorella, nell’assemblea legislativa, dove in abbietto penetrate restar nascosti, e sentir comporre e legger il decreto che dichiarava il re Luigi decaduto dal trono. Quale spettaeolo al mondo! veder la reggia de’ re di Francia assediata e presa non da genti nemiche in buona guerra, ma da sudditi sollevati per foga di libertà, ed arse le immagini e le insegne di re potenti e rispettati. E fuggir tra le fiamme il re, poi la regina portante in braccio il piccolo Delfino, e la principessa Elisabetta traendo tenera infanta figliuola del re; senza corteggio, a fronte china per il dolore e per celare le lacrime a riguardanti. Affretto la fine de’ racconti. Andò la regal famiglia prigioniera al Luxembourg, quindi al Tempio; lo stato, senza ordini certi, si governava per fazioni; il generale La Fayette, dopo di aver resistito agl’impeti nuovi di sfrenata libertà, dichiarato nemico della patria, disobbedito dalle schiere, fuggì nel Belgio, e dagli Austriaci fu chiuso in carcere. Altri sostenitori della prima libertà, venuti a sospetto de’ nuovi, fuggirono minacciati di morte, avvegnachè ad essi erano succeduti Danton, Marat, Robespierre ed altre furie che ne’ civili sconvolgimenti scaturisce lezzo plebeo. Dumouriez, tornato in favore perchè nemico al nemico del popolo La Fayette, reggeva incontro a centotrentaduemila Alemanni, oste francese che numerava centoventi migliaja di soldati, spartiti sopra lunghe frontiere, e per le infermate religioni ritrosi e contumaci all’obbedienza. La fortuna secondava l’armi alemanne; cadde la fortezza di Longwy, poco appresso Verdun; esercito austriaco stava incontro alle fortezze del Nord; mila Prussiani e torme di emigrati camminavano sopra Parigi. Tra le quali agitazioni, e timori e sospetti di popolo, si eseguirono tali e tante atrocità nella Francia che di non esserne il narratore io ringrazio la sorte. La misera famiglia de’ Borboni stando al Tempio vedeva parte delle stragi, udiva gli ultimi lamenti degli uccisi nelle prigioni vicine; raggio di speranza le rimaneva ne’ soccorsi stranieri. Ma Brunswick ponderato e lento, il suo re focoso, gli emigrati menzogneri nelle promesse, le due collegate monarchie varie di politica e di speranze, producevano sconcordia e languore nel campo alemanno; mentre nel campo francese l’ingegno di Dumouriez, la gioventù delle sue schiere, l’allegrezza di libertà, compensavano i difetti di numero e di fortuna. Pure i Prussiani giunsero a Chàlons; ma poi travagliati da’ morbi, dalla battaglia di Walmy, e da stagione inclemente, sgomberarono la Francia; gli altri eserciti austriaci o prussiani che battevano diversi punti della frontiera, affrettarono il ritorno; Francesco e Federico Guglielmo, con disegni mutati, ritornarono a Vienna e Berlino. Si sciolse la prima lega contro la Francia; la rivoluzione fu certa e confermata.
Cadute le ultime speranze della casa infelice, il giacobinismo già potentissimo ordiva gli atti del processo contro Luigi. Difendevano il re l’antico rispetto, la presente pietà e ’l contegno di lui sereno che pareva serenità di coscienza; lo accusavano i fatti ed il nome. Confuse le ragioni, sparita la giustizia delle leggi, scordata la qualità dell’accusato, a tal si giunse che la vita o la morte del re stava nello esame «Che più giovasse, che più nuocesse alla Francia.» Decisero per maggioranza di un solo voto, che più giovasse la morte; e Luigi sopra palco infame perdè la vita. Fu poi morta la regina, indi la principessa Elisabetta per condanne inique di tribunale feroce; finì di stento nel carcere il Delfino; la sorella di lui servì di riscatto ad alcuni Francesi prigionieri in Alemagna. Per le quali miserevoli nuove la corte di Napoli, vietando nel carnevale ogni festa pubblica o privata, dopo molti giorni di duolo, uscì a bruno per andare nel duomo a pregare e piangere pe’ defunti; le stesse cacce del re furono rare e secrete. Era intanto la Francia ordinata a repubblica, ed il sovrano di Napoli negava di riconoscerla nel cittadino Makau, venuto ambasciatore; ed aveva operato che il cittadino Semonville non fosse ricevuto ambasciatore dalla corte ottomana.
VII. È più fece. Comunicò a’ due governi di Sardegna e Venezia nota in questi sensi: «Comunque essere le fortune degli Alemanni sul Reno, importare alla Italia far barriera d’armi su le Alpi, e impedire che i Francesi per disperato conforto, se vinti, o per vendetta e conquiste, se vincitori, venissero a turbare la quiete dei governi italiani. Se perciò si collegassero le Sicilie, la Sardegna e Venezia, concorrerebbe il sommo pontefice alla santa impresa; i più piccoli potentati che stanno tra mezzo seguiterebbero, vogliosi o no, il moto comune; e si farebbe cumulo di forze capace a difendere l’Italia, e a darle peso ed autorità nelle guerre e ne congressi di Europa. Essere obbietto di quella nota, proporre e strignere confederazione, nella quale il re delle Sicilie, ultimo al pericolo, offrivasi primo a’ cimenti; ricordando ad ogni principe italiano che la speranza di campar solo era stata mai sempre la rovina d’Italia,» Saggio ed animoso partito, accettato dal re di Sardegna, rifiutato dal senato di Venezia, e subito negletto dallo stesso re delle Sicilie; perchè, in quel mezzo grosso navilio francese a vele e bandiere spiegate giunse al golfo di Napoli. Sapeva il governo che molti vascelli della repubblica navigavano il Tirreno, ed aveva perciò riparato le antiche batterie delle marine, altre nuove inalzate, e meglio munito d’armi e d’uomini il porto. E frattanto l’ammiraglio La Touche condusse la flotta, quattordici vascelli da guerra, come in porto amico o disarmato; gettò le ancore del maggior vascello a mezzo tiro dal castello dell’Ovo; gli altri vascelli, in linea di battaglia ed ancorati, spiegaronsi nel porto. Popolo immenso guardava; e le milizie e i legni armati di Napoli erano in punto di guerra, quando il re mandò per dimandare all’ammiraglio il motivo di quello arrivo e di quelle mostre; e rammentare l’antico patto, onde a sei vascelli solamente era libero entrare in porto. La Touche dicendo, risponderebbe, inviò legato (di alto grado, però che onorato nel tragitto dagli spari continui della flotta), il quale con lo scritto che recava e col discorso chiedendo ragione della rifiutata accoglienza dell’ambasciatore, e delle pratiche ostili presso la Porta, proponeva la emenda di que’ falli, o la guerra.
Il re unì consiglio; e sebbene gli apparati di resistenza fossero maggiori delle minacce, si che La Touche sarebbe stato perdente o fuggitivo, pure la regina, dicendo pieno di giacobini e nemici il regno, pregava pace; la secondavano i timidi consiglieri; aderiva il re. E subito fu manifestato per detti e lettere accettar ministro Makau, riprovare le pratiche con la Porta, richiamare a castigo il legato di Napoli presso quella corte, spedire ambasciatore a Parigi, promettere neutralità nelle guerre di Europa, essere amici alla Francia. La prima codardia, suggerita da mal nati sospetti, fu stipulata in quel giorno. E nel giorno istesso La Touche salpò; ma poco appresso colpito da tempesta, si riparò nello stesso golfo di Napoli, dove chiese ristaurare le sdrucite navi, rinnovar l’acqua, mutare i viveri, praticare nel porto; prieghi onesti a re amico, spiacenti al governo di Napoli ma innegabili. Molti giovani napoletani, ardenti nelle nuove dottrine, comunicarono con gli ufficiali del navilio, con Makau, con La Touche; e però che in quel tempo era scaltrezza del governo francese incitare i popoli a libertà per averli compagni ai pericoli ed alla guerra, La Touche più infiammò quelle giovani menti, consigliò secrete adunanze; e in una cena, tra le allegrezze de’ desiderii e delle speranze, i convitati appesero al petto piccolo berretto rosso, simbolo allora de’ giacobini di Francia. Sapeva il governo di Napoli quelle colpe, ma ritardava il castigo per aspettar la partenza dell’ospite importuno; accelerò il raddobbo delle navi, diede viveri, condusse l’acqua purissima di Carmignano a’ bisogni della flotta sino alla punta del molo.
VIII. La flotta salpò; il trattenuto sdegno sfogò in vendette o te preparava. Presi nella notte e menati in carcere molti di coloro che praticarono co’ Francesi, ed altri per sospetto di maestà; tenute secrete le sorti loro, così che i parenti, gli amici, le voci popolari li dicevano uccisi nelle cave delle fortezze, o mandati ne’ castelli delle isole più lontane della Sicilia: tardi si udì che stavano chiusi ne sotterranci di Santermo, mangiando il pane del fisco, dormendo a terra ed isolati, ognuno in una fossa. Erano dotti o nobili, usati agli agi del proprio stato ed alla tranquillità degli studii. Custodi spietati, che dovrò nominare quando i tempi si faranno peggiori, eseguivano que’ feroci comandamenti con zelo ferocissimo. E la regina sospettando che presso all’ambasciatore di Francia fossero le fila e i nomi della creduta congiura, fece involargli le carte da Luigi Custode, che usava nella casa di Makau; accusato del furto, tradotto in giudizio, fu assoluto dai giudici, premiato dalla corte. Non furono trovati fra quelle carte o nomi o documenti della congiura; bensì le note de’ mancamenti del governo napoletano alla fermata neutralità. Ma, non ostante, il re creò tribunale per i colpevoli di maestà, detto giunta di stato, di sette giudici ed un procurator fiscale, Basilio Palmieri, noto per pratiche rigorose; e tra’ giudici, il cavaliere de Medici, il marchese Vanni, e ’l caporuota Giaquinto, poi chiari per patite o esercitate iniquità. Crebbe il numero de’ prigioni; la giunta e la polizia formavano in secreto i processi; stava la città spaventata. E vendette più vaste meditava la regina su la Francia co’ modi generosi di buona guerra. Per i provvedimenti poco innanzi descritti le milizie assoldate montavano a trentaseimigliaja, ed il navilio a centodue legni di varia grandezza, portanti seicentodiciotto cannoni e ottomilaseicento marinari di ciurma. Non riposavano le armerie e gli arsenali, e continuavano le nuove leve, agevolate dalla fame, poco men dura in quell’anno 1793 dell’altra che nel precedente libro ho descritta, correndo l’anno 1764; nè furono migliori le provvidenze, non essendo bastato il lungo tempo e le infelici pruove ad assennare i reggitori che non il comando e non la forza, ma il privato guadagna e la libertà, sciogliendo i monopolii, apportano a’ mercati pienezza, ed alle fantasie del popolo tranquillità; la quale se manca, steriliscono le terre, sì vuotano i granai, e riducesi a povertà l’abbondanza. Tra quegli stenti del vivere, i più miseri prendevano ingaggio alla milizia; e in maggior numero nella città dove la vita più costa per vizii e lusso. Fu perciò in Napoli coscrirta nuova legione che si disse degli spuntonieri, dall’arme (lo spuntone) che portavano i soldati, destinati a combattere in luoghi impediti e coperti come nei boschi o dietro agli argini, o disposti a quadrato contro i cavalli, o facendo impeto come con la bajonetta: la scarsezza degli archibugi e la ignoranza de’ capi militari suggerirono quell’armatura sconveniente al combattere moderno. Gli spuntonieri furono coscritti volontarii o per legge, tra i lazzari; da che tolgo argomento per dire di cotesta genia, malamente nota dalle istorie, le cose importanti. Surse il nome di Lazzaro nel viceregno spagnuolo, quando era il governo avarissimo, la feudalità inerme, i vassalli suoi non guerrieri, la città piena di domestica servitù; con pochi soldati e lontani, con meno di artisti o d’industriosi, con nessuni agricoli; e però con innumerabili che vivevano di male arti. Fra tanto numero di abbiette genti molti campavano come belve, mal coperti, senza casa, dormendo nel verno in certe cave, nella estate, per benignità di quel cielo, allo scoperto; e soddisfacendo agli usi della persona senza i ritegni della vergogna. Cotesti si dissero lazzari, voce tolta dalla lingua de’ superbi dominatori; i quali, prodotta la nostra povertà e schernita, ne eternavono la memoria per il nome. Non si nasceva lazzaro, ma si diveniva; il lazzaro che addicevasi a qualunque arte o mestiero perdeva quel nome; e chiunque viveva brutalmente, come sopra ho detto, prendeva nome di lazzaro. Non se ne trovava che nella città; ed ivi molti ma non sommati, perchè ne impediva il censo la vita incivile e vagante; si credeva che fossero intorno a trentamila, poveri, audaci, bramosi e insaziabili di rapine, presti a’ tumulti. Il vicerè chiamava i lazzari negli editti con l’onorato nome di popolo; ascoltava i lamenti e le ragioni da lazzari deputati, oratori alla reggia; tollerava che ogni anno nella piazza del mercato, in dì festivo, scegliessero il capo, a grido, senza riconoscere i votanti o numerare i voti; e con questo capo il vicerè conferiva, ora fingendo di volersi accordare intorno a’ tributi su le grasce, ora impegnando i lazzari a sostenere l’autorità dell’imperio; il celebre Tommaso Aniello era capo-lazzaro quando nell’anno 1647 ribellò la città. Per le quali cose la legione degli spuntonieri, disciplinando parecchie migliaja di quei tristi, accresceva numero all’esercito, e faceva più sicura la quiete pubblica.
IX. Pieno di forze il regno, volle il re fermare alleanza con la Inghilterra, già nemica della Francia; e a dì 20 di luglio di quell’anno 1793 fu pattovito (secretamente, perciocchè durava la neutralità poco innanzi stabilita con La Touche) che il re di Napoli aggiugnerebbe nel Mediterraneo quattro vascelli, quattro fregate, quattro legni minori e seimila uomini di milizia, a tanti legni e soldati della Inghilterra, quanti insieme componessero armata superiore a quella del nemico; onde far sicuri i dominii e ’l commercio delle due Sicilie. AI qual trattato aderendo i potentati legati in guerra con la Gran Brettagna, si trovò Napoli unito alle vaste interminabili confederazioni europee contro la Francia. In mezzo a tante forze navali, legni sottili barbareschi, navigando arditamente i nostri mari, predavano barche, rubavano su le marine, impedivano e danneggiavano il commercio; per lo che i capi delle navi mercantili dimandarono di andare armati; ma il governo che in ogni congrega d’uomini già vedeva un club di ribelli, temè di armarli, e l’utile offerta fu ricusata. Vennero i Tunisini a far prede nel canale di Procida.