Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro II/Capo III
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CAPO TERZO.
Rivoluzione di Francia e suoi primi effetti nel regno di Napoli.
XXXV. Già turbava, nell’anno 1790, la quiete de’ principi e delle genti la cominciata rivoluzione di Francia, per la quale tanto mutarono le regole del governo che avresti detto in Napoli altro re, altro stato; e perciò in due libri ho distribuito il regnare di Ferdinando IV, come che procedesse continuo sino all’anno 1799: Le varietà della politica napoletana tornerebbero incredibili, disgiunte dalle cose di Francia; a raccontar le quali, benchè a’ dì nostri per altri libri e racconti conosciute, io (sperandomi alcun lettore nella posterità) credo far lavoro non disgrato a’ presenti, giovevole agli avvenire. E ciò premesso, imprendo a dire con quanta potrò brevità e pienezza i principii di quel rivolgimento, e ’l suo stato al finire dell’anno 1790 quando in Napoli si pervertirono l’impero e l’obbedienza.
I disordini dell’azienda francese cominciati nei tempi di Luigi XIV, cresciuti sotto i re successori, erano sentiti gravissimi nel regno di Luigi XVI l’anno 1786, e bisognando a riparo d’imminente rovina scemar le spese, abolire o stringere i privilegii, accrescere le taglie comuni, si opponevano ora gli usi ed il lusso della reggia, ora la baldanza del clero e della nobiltà, ora il timore del popolo. Tutto dì, come suole nello scompiglio di uno stato, mutavano i ministri; e la novità, sollevando il credito e le speranze, ristorava il tesoro pubblico; ma poco appresso cadevano più basso il tesoro, il credito, le speranze, il ministro. Il re chiamò in consiglio i notabili; sette principi o regali, cinque ministri, dodici consiglieri di stato, trentanove nobili, undici ecclesiastici, settantasei magistrati ed uffiziali; in tutto centocinquanta consiglieri. Convennero in Versailles al cominciare dell’anno 1787; il re, dicendo egli stesso voler seguire in quella adunanza l’esempio di parecchi re francesi, ed essere suoi disegni accrescere le entrate dello stato, renderle sicure e libere, affrancare il commercio, sollevare la povertà de sudditi, chiedeva a’ notabili consiglio ed ajuto. Parlarono appresso il guarda-sigilli laudando il re; e con diceria più altiera il controloro del fisco Carlo Alessandro Calonne, inteso a discorrere i pregi e le opere del principe, le miserie dell’azienda nel 1783, la prosperità di lei nel 1787, e le proprie gesta. Poi, minaccioso, rispondendo alle divulgate accuse del pubblico, tacciava di mentitori Terray e Necker, suoi predecessori nell’azienda, conchiudeva proponendo inusitate gravezze a’ beni ecclesiastici e feudali. Spiacquero i discorsi e la tracotanza, sconvenevoli a’ tempi, e peggio a’ bisogni del re e dell’erario.
Furono quindi oneste le opposizioni; e tanto grido si alzò contro il Calonne che il re per prudenza lo scacciò, e scelse successore il vescovo di Tolosa, tra’ notabili caldo parlatore, grato a’ compagni. E l’assemblea, secondando i voleri del re, propose gravezze nuove a’ beni del clero e de’ nobili, rivocò molti privilegi, scrisse l’atto de’ decreti, e si sciolse.
XXXVI. Mentre le riferite cose agitavano in Versailles l’assemblea de’ notabili e la corte, i sapienti e i novatori della Francia, disputando le stesse materie di governo con libertà popolana, concitavano gli animi e i desiderii a riforme assai più vaste delle profferte dal re. Le quali mandate secondo l’uso al parlamento di Parigi, questi, ambizioso di pubblica lode, negò apertamente di registrarle. Un giovine consigliero denunziò le prodigalità della reggia, altro consigliero espose il bisogno di convocare gli stati-generali, e poichè questi promettevano grande utilità, così dalla propria possanza come dal desiderio compreso e universale fu la voce lietamente udita e ripetuta. Gli stati-generali, principio della rivoluzione francese, ebbero veramente il primo grido nel parlamento di Parigi.
Il qual grido sdegnò il re, e chiamato il parlamento a Versailles, in adunanza comandata (detta nelle costituzioni di Francia Letto di Giustizia) fece compiere gli atti rifiutati a Parigi. Ma il congresso, tornato libero, protestò contro la patita violenza; e ‘l re, per castigo ed esempio, lo confinò a Troyes. Gli altri parlamenti della Francia denunziavano al popolo i fatti del parlamento di Parigi: e gli editti o leggi, però che non registrati, mancavano di effetto; e cresceva fuor di misura il bisogno del fisco. Il re costretto a simulare accordi, dicendo il parlamento ravveduto e supplichevole, lo richiamò a Parigi per adunarlo il dì 20 di settembre.
Quando egli, con fasto inopportuno e trasandando i discorsi di convenienza e d’uso, lesse decreto che imponeva il prestito di quattrocentequaranta milioni, e prometteva di convocare al quinto anno gli stati-generali. Si notava nell’adunanza silenzio e sbigottimente, allorchè il duca d’Orteans con atti sommessi dimandò, se quello era letto di giustizia o libero congresso; e il re «È seduta regale.» Dopo la prima voce, altre più ardite si snodarono; ed esiliati dall’assemblea e dalla città, l’Orleans e gli oratori, la nuova legge fu registrata per comando. Ne’ consigli regali essendo deciso fiaccare ne’ parlamenti le cagioni e gl inizii della disobbedienza, menomare le facoltà giudiziarie di que’ magistrati, e cassar le politiche, il re creò nuova corte, detta Plenaria, di pari, prelati e capi militari; ed aspettava per pubblicar l’editto che Je milizie giungessero nelle sedi de’ parlamenti, e i ministri dell’autorità regia preparassero, le sorprese e le pene a’ contumaci.
Pratiche oscure; ma palesate al parlamento di Parigi, che spiando e comprando i custodi del segreto, contrappose all’editto con pubblico manifesto le instituzioni della Francia, i diritti del popolo e del parlamento, gli obblighi del re. Si levarono voci minaccevoli. Scompigli peggiori agitavano province, dove la scontentezza non era frenata dal timore; o ingannata dalle arti, o corrotta da doni della corte; ed in quel mezzo, negate le nuove imposte, mancato il prestito, cresciute le spese, disordinate le amministrazioni, era vuoto l’erario. Nè più bastando gli artifizi, il re, alla metà dell’anno 1788, tratto da ingrata necessità convocò gli stati-generali per il primo di maggio dell’anno seguente, e richiamò Necker ministro. Un grande avvenimento in prospetto arrestò le brighe del presente; ogni fazione pose speranza in quella vasta assemblea; lo stesso re vi confidava per il dispotismo.
Tra la chiamata e l’adunanza i giorni scorrevano per ogni setta solleciti ed operosi; ma più potè la setta de’ sapienti, che, disputando le quistioni di stato, palesavano ciò che è popolo e ch’è monarca, dove risiede la sovranità; che sono nella nazione clero, nobiltà, terzo-stato; che sono nella signoria magistrati e tributi; qual’è il cittadino, i suoi debiti, i suoi diritti; quanto debba valere nelle intenzioni delle leggi e nelle opere de’ reggitori la dignità dell’uomo. Per le quali dottrine la Francia conobbe il suo meglio civile, e lo bramò. La libertà di quel tempo non procedeva oltre la monarchia; gli uomini medesimi che un anno poi furono caldi seguaci di repubblica terminavano i ragionamenti e le speranze ad una camera rappresentante, ad altre forme che nulla offendevano le ragioni e la grandezza del monarca.
Gli stati-generali rammentavano tempi difficili ma onorati. Di quattordici assemblee numerate dalla storia, cominciando dall’anno 1302 sotto Filippo il Bello sino al 1614 sotto Luigi XIII, una sola, quella del 1560 fa romorosa ed inutile; le altre tredici apportarono al re quando soccorso avverso al pontefice, quando quiete nelle discordie della famiglia, e talora forza contro i nemici e spesso danari ai fisco impoverito: ma non mai tra gl’infiniti moti di tanto affollate congreghe, la pace del regno fu sconvolta. De quali esempii il re incorava, ed attendeva ad introdurre nell’assemblea personaggi che sostenessero le prerogative del dispotismo.
XXXVI. I deputati nel prefisso giorno adunaronsi a Versailles, divisi d’animo, perciocchè la nobiltà ed il clero prevedendo ne’ precipizii dell’impero assoluto i proprii danni, ormai dolenti della palesata resistenza nell’assemblea de’ notabili e ne’ parlamenti, si avvicinavano al trono come che timidi e sconfidati, ma risoluti di sostenere i proprii diritti (così chiamando i privilegi) contro gl’impeti e la baldanza del terzo-stato, che veniva orgoglioso e potente di numero e di ragione. Durando le discordie, non si potè ridurre ad una le tre assemblee; e all’ultima sconvenendo il nome di terzo-stato, si chiamò assemblea dei comuni, poi nazionale. Lesse i mandati, e trovò che i commettenti dimandavano: il governo della Francia regio; la corona ereditaria in linea mascolina; la persona del re sacra, inviolabile; il re depositario del potere esecutivo; gli agenti dell’autorità responsabili; le leggi solamente valide quando fatte dalla nazione, confermate dal re; necessario a’ tributi l’assentimento nazionale; saecra la proprietà, sacra la libertà de’ cittadini. E tutti chiedevano che i presenti stati-generali dessero legge durevole al regno, e che le succcedenti convocazioni fossero certe e prefisse.
Questi erano i mandati e le speranze de’ Francesi l’anno 1789; documento e gloria di quella età e di quel popolo. Fu vista irreparabile la riforma dello stato, fuorchè dal re, da’ nobili, dal clero, accecati da’ diletti del dispotismo. Il 20 di giugno, impedita dalle guardie del re all’assemblea nazionale la entrata nella sala delle sue adunanze, ella, dopo inutile pregare, si ricoverò in un vasto edifizio destinato a giochi di palla; e là in piede (anche i vecchi e gl’infermi, un giorno intero) assunsero la stato, si dissero permanenti sino a che avessero dato alla Francia durevole statuto; e giurarono. L’adunanza, il luogo, la dichiarazione, il giuramento, erano primi atti di certa rivoluzione. Forza e mente a que’ moti fu Gabriele Onorato Ricchetti conte di Mirabeau, di seme italiano, nobile ma deputato del terzo-stato della Provenza, egregio per eloquenza e per i trovati della politica, passionato e campione di libertà, ma di quella che volevano i bisogni e i costumi della Francia. Altri uomiuni eccelenti si palesarono, ma le glorie più grandi che succedettero coprirono i loro onori; e di quel tempo restò solo in sublime, a spettacolo degli avvenire, il Mirabeau.
L’adunanza del 20 di giugno agitò il re e la corte. Il re annunziò per messaggio che il posdomani parlerebbe a’ tre stati uniti ad assemblea generale; e nel giorno seguente, chiamate numerose squadre di fanti e di cavalli, le accampò a modo di guerra intorno a Versailles e Parigi. Andò nel dì prefisso tra gli evviva del popolo al congresso; e parlando superbamente, rivocati i decreti e per fino il nome dell’assemblea nazionale, comandò la unione de’ tre stati. Fu notato che disse: «Nessun provvedimento degli stati-generali aver forza senza il suo beneplacito. Giammai re quanto lui aver tanto fatto a pro del popolo. Egli solo saper fare il bene de’ Francesi, sol egli (se abbandonato dagli altri) compirebbe l’opera cominciata, però ch’egli era il vero e il solo rappresentante de suoi popoli.» In mezzo al qual discorso il guarda-sigilli lesse diceria nella quale si udiva spesso, il re vuole, il re comanda, ed altre frasi che la condizione de tempi disdegnava. Poscia il re, dicendo fornite le bisogne di quell’adunanza, si partì; seguito da’ plausi e dalle persone de due primi stati, dal silenzio del terzo che restò nella sala a consultare; licenziato, resistè; ed in quelle angustie di animo e di tempo decretò inviolabili le persone de’ rappresentanti del popolo.
Crescevano il sospetto e ’ltumulto. Il re fastidito dei tiepidi consigli del Necker, lo mandò in esilio; altre milizie adunava intorno a Versailles; feste militari nella reggia concitavano le guardie; la rozina irritava gli sdegni; l’annona scarsa in quell’anno, più scemava; i moti civili turbavano la Francia intera. Pure bramavano pace l’assemblea ed il re; ma pace per l’una erano le nuove leggi, e un libero stato; pace per l’altro, la sommissione del popolo è l’antica pazienza; e però dal desiderio comune di quiete sorgevano le discordie. Gli animi, pronti a gran fatto. si mossero a Parigi, appena udita la cacciata del Necker, tenuto sostegno della finanza, oppugnatore a’ partiti estremi della tirannide, paciero tra l’assemblea e la corte. I popolani alzati a tumulto, portando ad onore per la città il busto in marmo del disgraziato ministro, gridavano voci onorevoli a lui, minacciose al monarca; e le guardie svizzere non sopportando lo spettacolo, fiaccata con l’armi la calca, ruppero il busto ed il trionfo. Trionfo indebito quanto l’esilio; avvegnachè il Necker, buono di animo, mezzano d’ingegno, vanitoso, non uguale all’altezza de’ tempi, ebbe fama o patì sventure dalle necessità del presente: tre volte chiamato in Francia onorevolmente, e tre scacciato; ogni caduta compianta; l’ultima, come dirò, inavvertita.
Le tre assemblee, sino allora discordi, amico il timore, sì che formate in una mandarono al re pregando di allontanare i campi dalle due città. e armare le milizie cittadine a sostegno dello stato. Rispose che i fatti di Parigi obbligavano anzichè allontanare quelle schiere, avvicinarle ed accrescerle; che le milizie civili in quel momento farebbero pericolo; ch’egli saprebbe reprimere i popolari tumulti; egli solo potendo giudicare la gravezza de’ casi. Le quali sentenze animose non risponderebbero al cuor debole di Luigi, se già gran tempo, per istinto di re, per deferenza a’ voleri dell’amata e superba regina, e per malvagi consigli, non avesse in sua mente stabilito spegnere per la forza dell’esercito i desiderii di novità; aspettare gli avvenimenti estremi per onestare l’eccesso di volgere l’armi contro i soggetti; cosicchè le dissensioni nelle assemblee, i tumulti, gli azzufamenti civili, agevolavano il mal disegno.
XXXVIII. Ma in Parigi la truppa urbana tumultuariamente composta elesse capo il marchese di La Fayette, chiaro per la gloria meritata in America da soldato di quella istessa libertà che sospirava la Francia. Sorge al un tratto in città voce «Alla Bastiglia»: i più arditi del popolo, forti delle armi involate a’ depositi ed alla casa degli invalidi, accresciuti da’ disertori de’ vicini accampamenti, furibondi e diresti dissennati, andarono ad assaltare la fortezza, valida per grosse mura, molte armi, e fedele presidio, comandato dal marchese di Launais, caldo per le regie parti, spregiatore del popolo e di civile libertà. Quelle torme di plebe, innanzi alle porte del castello, per grida e per ambasciate dimandavano la resa; che, negata, accrebbe lo sdegno, il moto, il numero e gli apparecchi.
Giorno spaventevole, che vedeva da una banda sei principi, cinquanta mila soldati, cento cannoni, otto campi attorno a Parigi ed a Versailles, altre schiere dentro le due città, una fortezza armata; e quegli strumenti di rovina pronti al cenno di un sol uomo, sdegnato e re. E dall’opposta banda briganti armati, soldati disertori, popolo, plebe infinita. Si presagivano tra le due parti scontri feroci, e la vittoria segnare i destini della Francia. Ma il re impaurito da quegli aspetti, o irresoluto, fece solamente avvicinare i campi alla città; la quale, a quelle viste, sbarrò in fretta le porte, guerni di armati le mura, scompose i lastricati, preparava la guerra, Le milizie urbane, centocinquantamila in vario modo armati, pendevano dal cenno della civile autorità, che stava in atto di offizio mirabilmente serena.
Ma la plebe intorno alla Bastiglia andava ciecamente furiosa cercando le entrate, tentando le porte e le mura, minacciando il presidio. Del quale il comandante fastidito di quella turba, sicuro nella fortezza contro genti avventicce, e certo di ajuti da’ vicini campi, comandò scaricare le armi sul popolo e vide parecchi cader morti, altri feriti. Le torme si allontanarono; ma subito successe allo spavento il furore, tante genti nemiche intorno la fortezza che la prima cinta fu presa, e stava il popolo sotto la seconda, quando il comandante, insino allora sordo agli accordi, mostrò bandiera di pace; e fu stipolato a’ cittadini la fortezza, al presidio la vita. Ma plebe furibonda non tiene i patti; l’infelice Launais, uscito dalle mura, fu trucidato, e ’l capo conficcato ad una lancia menato per la città con orribile festa. Molti fatti seguirono d’ambo gli estremi, eroici cd orribili; si trassero a pubblica vista gl’istromenti di martoro, e uscirono alla luce sette miseri, uno de’ quali mentecatto, cadente per ultima vecchiezza, abitatore immemorabile della Bastiglia, sconosciunto, nè mai più saputone il nome o la patria; un altro vi stava da 30 anni; e cinque vi entrarono, regnante il decimosesto Luigi. IL popolo il giorno istesso (14 di luglio del 1789) cominciò ad abbattere le mura, e l’assemblea nazionale decretò che la Bastiglia scomparisse. Scomparve: il luogo infame per tirannide chiamarono piazza della Libertà.
Procedeva la rivoluzione per fatti rapidi; manifesta già negli atti e nei giuramenti dell’assemblea, nella Bastiglia espugnata fu, per sangue cittadino, irrevocabile. Sollevò quella gesta tutte le menti, e sì che fu la corte compresa di timore, la plebe di arroganza, il popolo di sicurezza, il mondo di maraviglia. Il re, nel seguente giorno, senza guardie, senza corteggio, accompagnato de’ soli fratelli, andò all’assemblea, e rimasto in piede, disse che veniva a consultare degli affari più gravi allo stato e più penosi al suo cuore; i disordini della città. Il capo della nazione chiede all’assemblea nazionale i mezzi d’ordine pubblico e di quiete. Sapeva le voci malvage contro di lui, ma sperava che le smentisse il sentimento universale della sua rettitudine. Sempre unito alla nazione, confidando a’ rappresentanti ed alla fede di lei, aveva allontanate le milizie da Versailles e da Parigi.
Dopo gli applausi e i segni di riverenza e di gioja, fu pregato il re sceglier ministri meglio adatti al tempo, e mostrar se stesso al popolo di Parigi. Tutto concesse o promise; e si partì a piede, accompagnato per corteggio da’ tre stati sino alla reggia; dove in pubblico luogo la regina aspettava, tenendo per mano il delfino, e sì che la intera casa del re ed il popolo parevano uniti da legami concordi per la felicità della Francia. Mutato il ministero, tornò ministro Necker; molti della corte per comando o per mala coscienza si allontanarono; il re il seguente giorno andò a Parigi con pompa cittadina, perchè scortato da milizie civili, corteggiato dall’assemblea nazionale, incontrato da’ magistrati della città, accompagnato dal popolo innumerabile e plaudente. E confermate per discorsi le universali speranze, fu giuoco di fortuna contrapporre, nel corso di un giorno al tremendo spettacolo della Bastiglia spettacolo di pace magnifico.
XXXIX. Due mesi, o più, passarono le lusinghiere apparenze di concordia; faceva l’assemblea buone leggi, prometteva il re di approvarle; il clero, i nobili risegnavano gli antichi privilegi; i doni chiamati patriottici soccorrevano a’ poveri ed all’erario; fa dato al re titolo gradito di Restauratore della pubblica libertà; e mentre le forze buone dello stato così crescevano, di altrettanto scemavano i misfatti. Ma sotto la scorza di felicità due germi contrarii celatamente fecondavano; di repubblica e di tirannide. Imperciocchè scosso e poi spezzato il freno delle leggi, cadute le antiche autorità, quella del re dechinata, agevolato il salire alle ambizioni ed alle fortune, molti tristi, molti audaci congegnavano governo più largo, la repubblica. E, per la opposta parte, gli usi e i diletti del dispotismo, non mai scordati da’ prìncipi e da’ grandi, suggerivano disegni di tirannide. Erano mezzi alle speranze de’ primi le colpe e i disordini del popolo; e de’ secondi, le trame occulte e gl’inganni della reggia: ambe le parti per parecchi indizii si palesarono.
Avvegnachè le guardie reali ne’ due primi giorni di ottobre chiamarono a convito i reggimenti stanziati a Versailles, e nella ebbrezza si udirono saluti per il re e la regal famiglia, ingiurie o minacce per l’assemblea nazionale e per i deputati più chiari, indicati a nome. Comparve il re, tornando da caccia; indi la regina e ’l delfino; e allora crebbero le voci, gli auguri, lo scandalo, la gioja. La regina ne’ circoli, rammentando quelle allegrezze, premiava di doni e di laudi gli uffiziali più caldi a’ voti, o più arditi ai disegni; le dame della sua corte dispensavano coccarde bianche (segnale della parte regia); le guardie impedivano a chi portasse le tricolorate (le nazionali) ingresso al palazzo; e alcuni cittadini fregiati di quel nastro a tre colori erano stati nelle vie di Versailles e di Parigi dalle guardie del corpo battuti ed uccisi. L’assemblea, insospettita, mandò al re alcune leggi, pregando approvarle; e il re, che aveva ripigliate le maniere di libera signoria, rispose non essere ancor tempo di approvar leggi. Correvano la Francia quelle nuove, peggiorate dalla fama e dal malevolo spirito di parte.
Quindi cresceva l’animo a’ repubblicani. La mattina del 5 di ottobre numero di femmine (quattromila o più) plebee e parigine, simulando i lamenti e l’ardire disperato della fame, andarono alla casa del comune a cercar pane; e quindi con grida e gesti furibondi, saccheggiando e rubando nella città, si avviarono a Versailles. Le guidavano alcuni del popolo, notati ne’ fatti della Bastiglia; e quando quella torma incontravasi ad altre donne, a sè le univa o forzate o vogliose; erano l’armi, picche, mazze e clamori. Le truppe urbane sedarono i tumulti nella città, e parte segui le donne, insospettita di quella non usata milizia, e del mobile ingegno delle militanti. Quando all’improvviso i soldati stanziati a Parigi chiesero di andare ancor essi; e non bastando a distoglierli autorità e ’l consiglio del comandante supremo La Fayette, ventimila soldati, portando il nome di esercito di Parigi, mossero per Versailles, La Fayette li seguiva. Giunsero alla mezza notte poco appresso alle donne, e mentre quelle a gruppi o a folla scompigliavano la città, questi si accamparono nelle piazze.
Molte brighe accaddero la notte; maggiori al dì vegnente. Le donne comunicarono per deputazioni con l’assemblea e col re; ed esprimendo a fascio bisogni e desiderii, con preghi o minacce e pianto ed ira, avute risposte consolatrici e benigne, si univano alle compagne, riferivano le cose dette e le intese, contendevano, strepitavano; e già stanche della fatica de’ nuovi offici e delle piogge che stemperate cadevano, si ricoverarono dopo molta notte nelle chiese e negli atrii dell’assemblea. Ma non prendeva riposo una masnada di ribaldi (cinquecento almeno) venuti con le donne a Versailles, prevedendo tumulti o a suscitarne; i quali entrando spicciolati ne’ giardini o nelle corti mal guardate del palazzo, e quindi apertamente forzando ed uccidendo le guardie, occuparono la reggia. I prìncipi (erano il re, la regina, una principessa e due figli bambini) desti dal romore delle armi e da’ servi, rifuggirono ai più secreti pebetrali della casa; ed in quel tempo gli spietati manigoldi, con l’armi nude, cercando giunsero alla stanza dove poco innanzi dormiva la regina; e trovando il letto vuoto, ancora tiepido della persona, lo trapassarono di molti colpi di pugnale o di lancia, niente offensivi, più atroci. E fu provvedere divino che non sapessero gli ordini interni della casa, per lo che non pervennero al luogo dove stava la misera famiglia, sbigottita, e tacita gemendo, per sospetto che il pianto la denunziasse. Molte guardie del re, molti servi furono uccisi; accorsero le milizie civili di Versailles e l’esercito di Parigi; e spuntato alfine il giorno, i deputati dell’assemblea e i cittadini amanti giustizia si assembrarono; e, guardata la reggia, scomparvero gli empii carnefici della notte,
Orrenda notte, non mai cancellata dalla mente del re, cagione di alto sdegno e di domestica strage. I repubblicani, bramando che il re stesse a Parigi dov’era grande numero di loro, andavano strillando come plebe «Il re a Parigi.» L’assemblea non discordava, sperando in quella città maggior sicurezza; e lo bramava La Fayette per meglio custodire il re, serbare in lui la monarchia, e farlo ostacolo alle già palesi pratiche dei faziosi. Il re, dal terrore della notte indocilito, sempre dicendo volere quel che il suo popolo volesse, stabilì nel giorno medesimo andare a Parigi con la famiglia; l’assemblea nazionale seguirebbe.
Divelgata la nuova, si apprestò il partire, il ricevimento. I manigoldi, usciti di Parigi due giorni avanti, vi tornavano superbi come vincitori; portando a trionfo in punta delle lance due teschi che attestavano la morte di due guardie del corpo, fedeli al re, uccise combattendo nelle camere della reggia; sì che la barbara pompa era pietà ed onore agli oppressi, infamia a trionfanti. Succedevano i battaglioni delle donne, le quali avendo trasandato per i crudeli offizii di quei giorni le mondizie e le dolcezze del sesso, parevano in furie o mostri trasformate; indi marciavano con ordine le schiere, guidate da La Fayette, e dietro a tante moltitudini le carrozze del re, della regina e della famiglia; i quali (benchè alle voci festive con festivo sembiante rispondessero) portavano in fronte la mestizia, il sospetto, la fatica e ’l terrore della scorsa notte. Mutarono da quello istante le regole di governo; il re confermava le nuove leggi dell’assemblea; dava la cura della città a’ magistrati municipali; la custodia del regno e sin anche della reggia alle milizie nazionali. Stavano per forma di monarchia i ministri; reggevano lo stato le municipalità, gli elettori e l’assemblea. Il re faceva le mostro del prigioniero, ma si diceva libero per compiacere alla contraria fazione, che in lui ad un punto voleva modestia di cattivo acciò non opponesse a’ novelli statuti, e possanza di re per legittimarli. Egli perciò sconfidato di tornare in signoria per le proprie forze o per favore delle sue parti, volse l’animo e i maneggi a’ potentati stranieri; e sperò fuggirsi di Francia e rientrare con Prussiani e Tedeschi. Ma il gran cimento abbisognava di tempo e di fortuna.
Nel qual mezzo la Francia, sciolta da’ freni dell’usato imperio, si governava a ventura, seguendo il vario senno dei potenti del luogo. Gl’impeti primi del popolo si voltarono a’ castelli e terreni baronali, dove ardendo e rapinando in nome della libertà e per odio alle feudali memorie, infiniti misfatti commettevano. Uomini oscuri, per diventar potenti, si adunavano in secrete combriccole; e i nobili, fuggendo la infausta terra, andavano allo straniero; aristocratici e nemici fu un nome istesso. L’alta nobiltà migrando a Coblentz, e la nobiltà provinciale al Piemonte, sotto il conte d’Artois fratello del re, per armi e trame combattevano la rivoluzione. In tante guise il cammino alla repubblica si agevolava. Sola, fra disegni discordanti o perversi, un’ adunanza discuteva le dottrine di stato, e poneva la sperata monarchia sopra fondamenti di ragione. Dichiarata la uguaglianza tra gli uomini, venivano uguali le leggi, certa di ognuno da proprietà, sicure le persone, facile il cammino alla giustizia, le ingiustizie impedite o castigate; lasciati al re gli onori, le riechezze, l’imperio, la felicità di far grazia; non più il clero arricchito da superstizioni, ma dotato dallo stato; e però la chiesa impotente al male, cresciuta in dignità. Altre leggi sapienti e benefiche l’assemblea nazionale maturava.
XL. Tali erano in Francia le cose al finire dell’anno 1790; ma variamente raccontate nel mondo e producendo, come l’animo degli ascoltatori, opinioni differenti, spaventavano i re, i cortigiani, i ministri, concitavano il clero, allegravano i filosofi e i novatori. I due sovrani di Napoli con più odio e sdegno le sentivano, perchè parenti dei Borboni di Francia, e sorelle le due regine; ed essi stando in quel tempo nella reggia di Vienna, conoscevano i disegni dell’imperatore Leopoldo. Il quale già mosso ad ira dalle ribellioni del suo Belgio, quantunque inchinato al bene de’ soggetti, voleva che lo ricevessero da libere concessioni di sovranità; e perciò apprestava un esercito a soccorrere il re Luigi quando superasse con la fuga i confini della Francia.
Ma degli altri re non era concorde il consiglio; che sebbene le sentenze della rivoluzione francese si appropriassero a tutti i popoli, differivano le ragioni di stato, le nature de’ governanti. Godeva la Inghilterra ne’ travagli della sua rivale; impigriva la Spagna sotto re inesperto ed imbelle, la Prussia patteggiava con l’impero il prezzo di maggiori dominii nella Polonia; intendeva il Russo alla guerra col Turco; e la Italia in povero stato preparava interminabili sventure per vane colpe di desiderii e di speranze. Vero è che il Piemonte agitato da’ vicini moti della Francia, visti alcuni paesi dell’ultima Sayoja ribellanti, accresceva ed ordinava le sue milizie; e Napoli, ardendo delle passioni della sua regina, divisava guerra e vendette.
In mal punto; perciocchè le forze dello stato dechinavano. Il censo numerava quattromilioni ed ottocentomila Napoletani, ma niente armigeri per natura o per uso. I baroni scordatisi delle armi, divoti al re ma per amore di piaceri e di fasto, snervati che schivavano qualunque sforzo magnanimo. Il clero avverso al governo, nemico alla rivoluzione di Francia, indifferente agli affanni del re, ma compagno ne’ comuni pericoli. La curia irresoluta perchè non certa de’ futuri eventi; i curiali uniti a’ dominatori, da partigiani in segreto, da sottomessi in aperto, per essere preferiti ne’ benefizii del presente, e non esposti a’ pericoli dell’avvenire. I sapienti, gli amanti di patria e di meglio vagheggiavano le sentenze della rivoluzione; ma usati a vedere le utili riforme procedere dal monarca, abborrivano le violenze sovvertitrici della monarchia, il popolo che rimane, era amante del re; sapeva della rivoluzione di Francia quanto ne udiva da’ signori ne’ circoli, e da’ preti ne’ confessionali e ne’ pergami; teneva i Francesi irreligiosi, crudeli, incenditori di case e di città, uccisori d’uomini, oppressori delle nazioni.
L’esercito napoletano era di ventiquattromila fanti e cavalieri, metà stranieri e regnicoli, mal composto, peggio disciplinato; e non poteva crescere se non per le usate leve di doppio dispotismo: regio, feudale: nè divenire ammaestrato ed obbediente, perchè mancavano istruttori ed animo di guerra; la pace lunga, l’ingegno abbietto dei reggitori, la scarsezza dell’erario avevano fatto trasandare, come innanzi ho detto, il numero e ’l nerbo delle milizie. L’artiglieria, per le cure del Pomereut, era la meglio composta ma nascente; gli arsenali, le armerie non bastanti; l’amministrazione pessima; le fortezze cadenti; le tradizioni, le memorie, gli usi di guerra, nessuni. Il navilio era ordinato; tre vascelli, più fregate, altri legni minori, insieme trenta; diretto e maneggiato da uffiziali, parecchi buoni, qualcuni ottimi, e da marinari destri ed arditi.
La finanza, stretta già da dieci anni, e più angustiata per le spese del tremuoto della Calabria, per due viaggi fastosi de’ principi, e per tre maritaggi della casa, stentava non che a’ bisogni della guerra, al mantenimento pacifico dello stato. Nè poteva migliorare, da che le gravezze antiche premevano appena i ricchi, troppo i poveri, e dalle nuove andrebbero sicuri i primi per privilegi e possanza; i secondi, per impotenza. Quindi le arti poche, minori le industrie, il commercio povero e servo; l’agricoltura, favorita dal cielo, trattenuta dall’ignoranza de’ tempi, smagrita dalle male regole del governo; tutte le vene delle private ricchezze, rivoli del tesoro pubblico, aduste o scarse.
La Sicilia, che ubbidiva e fruttava allo stesso re, e non era meno che quarta parte del reame, poco valeva per uomini e per tributi, negando i soldati, e disperdendo le imposte fra gl’intricati giri della finanza e della corte.
XLI. Sopra tali uomini e tali cose regnava Ferdinando 1V fiacco d’animo e di mente, inesperto al governo de’ popoli, propenso a’ comodi ed ai piaceri, spassionato di gloria e di regno, e perciò inchinevole a vita torpida e allegra. La regina, che più del re governava, pativa diversi affetti; nata di Maria Teresa, cresciuta nella reggia austriaca tra le sollecitudini di lunghe guerre, sorella di Antonietta, regina di Francia, sorella dei due Cesari (Giuseppe e Leopoldo) gloriosi, vaga di ugual rinomanza, avida di vendetta, superba, ardimentosa più che femmina. La secondava il generale Acton ministro potentissimo, straniero così di patria e così di affetto a’ popoli che gli obbedivan; ignorante ma scorto, e assai fornito delle arti che menano a fortuna. Gli altri ministri o consiglieri servivano muti e obbedienti. Cosicchè tre menti, una del re, debole; l’altra della regina, femminile e annebbiata da bollenti passioni; la terza dell’Acton, corrotta da cupidige private, dovranno guidare il regno per mezzo alle vicine tempeste.