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LIBRO TERZO — 1795. 163


XVIII. Al dì seguente disse la regina saper ancor ella le trame rivelate dal ministro, ed averle nascoste al re per non turbarne il riposo, ed aspettare la maturità delle pruove: vanto e menzogna. Furono quelle trame ordite dall’Acton a rovina de Medici, e tenute secretissime per impedire che se ne scolpasse. Ella millantava di saperle, perchè fin anco i re, quando s’intrighino tra’ maneggi di polizia, ne prendono il peggior difetto, la vanagloria. Ma lo scaltro Inglese, giovandosi della menzogna, disse in privato alla maggior parte de’ consiglieri eletti, che la regina avea scoperto nuove congiure; che un discorso di lui del giorno innanzi era stato da’ principi male accolto per la proposta clemenza; ch’era dunque il rigore necessità; tacque i nomi, e pregato il secreto, n’ebbe promessa; e della confidenza, rendimento di grazie. Raccolta in Caserta la congrega, il re dicendo voler consiglio sopra materia gravissima, chiuse il breve discorso. «Dimenticate i privati affetti, o di classe, o di parentado: un solo sentimento vi guidi, la sicurezza della mia corona. Il generale Acton esporrà i fatti.» Gli espose con discorso studiato ed ingannevole; e poscia il re permettendo il parlare, dimandò i voti. Non alcuno fra tanti dissentì, e solamente aggiunsero accuse alle accuse del ministro; malvagi o timidi per meritata sorte delle tirannidi, mancar di schietto consiglio nei bisogni maggiori. Fermarono, porre sotto giudizio il cavalier de Medici e quanti altri, nobili o no, fossero colpevoli. La giunta di stato, quella medesima tanto sollecita nel punire che non aspettò per Tommaso Amato le lettere di Messina, e tanto spietata che uccise tre giovanetti ai quali appena ombrava le gote il pelo dell’adolescenza, non fu creduta bastevole alla voluta speditezza del processo ed al rigore; e si temeva l’aderenza de’ giudici al cavalier dei Medici, sino allora giudice anch’esso della giunta, e severo contro que’ congiurati che ora dicevano suoi compagni. Lo giunta fu sciolta; e ricomposta di giudici peggiori, avvegnachè, mantenuti Vanni e Giaquinto, furono messi alle veci di Cito, Porcinari, Bisogni, Potenza, il magistrato Giuseppe Guidobaldi, Fabrizio Rufo principe di Castelcicala, ed altri famosi per tristizie. Castelcicala in quel tempo ambasciatore del re a Londra venne allegro del nuovo uffizio che davagli, diceva, opportunità di provar la fede a’ sovrani, e sfogare lo sdegno proprio contro ,i ribelli al trono ed a Dio. La regina festosamente lo accolse, però che un principe inquisitore di stato avvalorava la sentenza, «dover ella distruggere l’antico errore che riputava infami le spie, cittadini veramente migliori perchè fedeli a1 trono e custodi alle leggi.» Quindi nominava marchese il Vanni, fregiava dell’ordine Costantiniano i delatori più tristi e diffamati; e solo ad essi, disegnandoli col nome di meritevoli, dava gli offizii dello stato.