Novelle rumene/Peccato
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PECCATO
Un ragazzotto forte — la barba appena gli spuntava, sotto il berrettone di pelle di pecora, i capelli eran ricciuti e fitti... e i suoi occhi eran miti — un giovanotto intelligente. Quando partì di casa per andare a Bucarest, a studiare per tanti anni, sua madre, brava donna, lo baciò più volte, gli riavviò i capelli, gli accomodò il berrettone e lo baciò di nuovo dicendogli:
«Nizza, 1 figlio mio, tu parti bello e sano: che Iddio e la Madonna ti aiutino a ritornare lo stesso».
E per quanto fosse savia, la vecchia non potè più trattenersi... la vinse il pianto. Tante volte egli si era mosso per andarsene, ma essa lo aveva trattenuto per carezzarlo ancora. Egli desiderava partire, e benché volesse bene a sua madre, s’era quasi arrabbiato contro di lei perchè gli ritardava troppo la partenza. Aveva pianto anche lui, è vero, del pianto di lei; ma mentre i suoi occhi erano tristi, l’immaginazione volava allegramente sulla strada che gli si apriva davanti lunga e sconosciuta.
Tre anni di tremenda malinconia. Le medesime ore... i medesimi passi... per tre anni interi. Il quarto, benchè il principio annunziasse lo stesso andamento, gli riserbava una novità, una sorpresa strana.
Accanto al seminario, stava un antico edilizio signorile. Dalle finestre e dal terrazzino dietro il fabbricato, si vedeva di là dal muro, il cortile di ricreazione della scuola. Una volta, un giorno festivo, Nizza passeggiava attorno per il cortile, tenendo un libro in mano: era rimasto a scuola per prepararsi agli esami che si avvicinavano. Era un dogma imbrogliato, egli girava nel cortile ripetendo a memoria, col libro chiuso in mano. Difficilmente si potevano ritenere frasi talmente torturate... aprì di nuovo il libro...
Passando davanti al muro, il seminarista trasalì. Una pallottola di carta lo colpì sulla mano e scivolando sul libro aperto cadde dinanzi a lui. Nizza si fermò... Senza dubbio, di nuovo uno scherzo di qualche compagno... un pezzettino di mollica bagnato d’inchiostro... o chissà che cosa.
Guardò intorno a sè... nel cortile nessuno. Il colpo era venuto dall’edifizio vicino. Levò gli occhi e vide alla più prossima finestra, che stava aperta, le tende muoversi come se qualcuno si nascondesse dietro... che cosa era?
Vediamo... Il seminarista si chinò e raccolse la pallottola; dentro c’era un piccolo involto. Volle aprirlo... si punse... uno spillo! che scherzo villano! arrabbiato gettò per terra la pallottola e prese ad asciugare il dito sul cui polpastrello, dopo ogni compressione, sgorgava di nuovo una grande goccia rossa.
La pallottola gettata per terra con rabbia si aprì. Tra le pieghe un fiore! meravigliato e con una attenzione più grande della prima volta, levò lentamente il pezzo di carta... infatti era un garofano colto da poco, rosso come il sangue che gli usciva dal dito.
Aprì tutto l’involto... c’era scritto qualche cosa...
Il giovane corpo sentì un brivido che lo scosse dal capo alle piante... Tutto il calore gli salì alla fronte. Nascose in seno la carta e il fiore, si guardò intorno per vedere se qualcuno della scuola avesse visto ciò che era accaduto e scappò via senza osare guardare la finestra dove si muovevano le tende.
Ammalato... febbre e palpitazione tale che non si poteva più reggere sulle gambe. Il curato direttore, convintosi che il giovanotto fosse gravemente ammalato, lo mandò a riposare. Nizza salì al dormitorio, si stese sul letto, tirò fuori dal seno il fiore e il bigliettino e lesse un’altra volta, di nuovo e poi continuamente.
«Sei bello... se tu volessi io ti amerei molto...» Se volesse!...
Chi era? Egli non era un ragazzo, aveva già 23 anni... Chi? Una donna!
L’ammalato balzò dal letto, uscì dal dormitorio e senza avvertire nessuno, come avrebbe voluto il regolamento, uscì dal portone. Davanti gli edifizi vicini rallentò il passo e traversò la strada per poter afferrare con un solo sguardo tutta la facciata. Le finestre erano tutte chiuse e le tende abbassate.
Egli sapeva d’esser bello. Sua madre glielo aveva detto spesso, più spesso forse le ragazze del villaggio, ma certo più di tutti, la sorella di Cuzitejo, Sultana. Con affetto lievemente misto d’orgoglio sorrise ricordandosi allora di sua madre. Fa scuro e il seminarista gira ancora dinanzi alla casa dove si trova quella donna che gli vorrebbe molto bene «s’egli volesse». La campana della scuola suona, chiamando alla cena. Questo suono lo ridesta, egli si sbriga ed entra.
Tutti stanno a tavola; egli non ha fame... va a mettersi a letto nascondendo sotto il guanciale il biglietto e il garofano, dopo aver lungamente guardato quelle parole, che d’ora innanzi non potrà mai più dimenticare.
Il rumore dei suoi compagni che entravano nel dormitorio lo irritava molto. Alla loro vista mise subito la mano sotto il capezzale, strinse il tesoro e rimase immobile... alcuni gli domandarono qualche cosa... non capì niente... non si muoveva, facendo finta di dormire.
È quasi mezzanotte. Tutti dormono profondamente. Nizza si alza piano piano e con la più grande precauzione esce, trova tastoni la porta della scala e scende nel cortile. Alla finestra c’è luce, è aperta e le tende sono abbassate... egli rimane con gli occhi fissi lassù, errando in un altro mondo, sognato spesso, ma senza mai sperare di vederlo.
Il giovanotto sollevò il petto, stirandosi le braccia paralizzate dal freddo, finchè le ossa scricchiolarono quando le tende si mossero e una donna stese la mano per chiudere la finestra. Il seminarista gela; vuole gridare, ma non può e prima che passi l’effetto dell’emozione, la finestra è chiusa, le tende ricadono e il lume è spento.
Il giorno si avvicina quando il giovane si decide a tornare nel dormitorio. Si butta sul letto, con la mano destra si preme il cuore nel quale sente uno stringimento indefinibile e sulla sinistra appoggia la fronte bruciante — s’addormenta e dorme profondamente fino al suono della campana per la colazione.
Tre notti d’agguato... quattro... cinque... e altrettanti giorni più insopportabili delle notti: ore di lezione e di meditazione, il rumore dei camerati, l’impossibilità di restare solo con la sua immaginazione, la febbre... e le finestre sempre chiuse... e le tende continuamente abbassate.
Il medico, un uomo di spirito, quando il curato direttore gli presentò Nizza, carezzò il giovane e mettendogli la mano per scherzo sulla barbetta disse:
«Non ha niente, padre: vada a spasso... e gli passerà».
Domenica... Finalmente!
Nizza è stato consigliato dai suoi camerati e dal padre direttore di uscire a passeggio; ma ha preferito rimanere a scuola per imparare le lezioni trascurate a causa della febbre... Il superiore, naturalmente, è rapito di tanta assiduità.
Il pranzo è finito. Ora la scuola è di nuovo vuota. L’assiduo seminarista si dirige verso il cortile che sta in fondo... Ma se le finestre sono sempre chiuse! No, e prima di avere alzato gli occhi desiderosi vede giungere per aria una nuova pallottola che in un attimo gli cade ai piedi. Questa non è più attaccata con uno spillo; ma è legata con un nastrino rosso:
«Passa a mezzanotte... ti aspetto... vedrai quanto ti amo».
Nessun movimento è dietro le tende, nessuna visione! il giorno scorre lento... ma qualche volta c’è tanto piacere nell’ansia dell’attesa! E poi la notte! ma i seminaristi sono andati a letto così tardi!... Per fortuna, più tardi nessun impedimento sopraggiunge.
Salta il cancello senza far rumore e s’indirizza solo verso la meta. Una donna l’aspetta nell’ombra del corridoio! Egli si ferma soffocato. Ella gli sussurra: «Vieni, ti aspetta!» Ma... non è proprio lei!
Egli si lascia prendere per la mano e condurre lentamente per le tenebre... una scala stretta... stanze scure... di nuovo qualche scalino. Il giovane cammina macchinalmente lasciandosi trascinare dalla mano della donna come un bambino sonnolento. Ad ogni passo non sicuro, ad ogni vacillamento, una fermata di un momento, un consiglio discreto, un sussurro d’incoraggiamento, e avanti!
Si fermano... La donna gli lascia la mano... Un minuto, abbandonato in quel luogo scuro e sconosciuto, si sente perduto, ode negli orecchi un fischio acuto e sente i suoi ginocchi vacillare.
La donna picchia lievemente con la punta delle unghie — sono presso una porta — e la porta si apre subito.
Dentro c’è luce — una luce azzurra... d’un azzurro languido e pigro... La donna che l’aveva guidato per l’oscurità, lo sospinge lentamente nella luce e l’uscio si chiude di fuori.
Parole? Bastano le parole?
Come una donna sa accarezzare — come le sue dita delicate s’immergono nei muscoli tesi — e la sua bocca fredda come il ghiaccio — e i suoi occhi ebbri — e la lanugine delle sue guance infiammate sfiorata dai brividi — il piegare morbido del suo corpo — lo sbattere del cuore contro il petto — e l’odore inesprimibile che emana dalle radici dei suoi capelli, e quanto è dolce abbandonarsi alla signoria di tante sensazioni che ti avvolgono da tutte le parti come turbini di vapori caldi, saturi di essenze assopitrici.
Dire tutto questo con parole? Queste cose si sentono e si pensano, ma non si possono dire... È una scossa dolce e dolorosa dell’anima, un’esaltazione dei sensi spaventevole e deliziosa.
Molte notti simili ed ognuna diversa... Libazioni sotto i raggi della lampada azzurra; tutte le follie immaginabili e non immaginabili; aneddoti piccanti di cui egli aveva un repertorio popolare così ricco; scene di gelosia senza ragione; e scherzi, e morsi; e lotte tanto ineguali per lei come forza, per lui come grazia... E poi, dopo tanta fatica, la narrazione di ciò che era loro accaduto prima di essersi conosciuti.
Egli aveva poco da raccontare... Il villaggio nel quale egli aveva vissuto era così piccolo e la sua vita tanto insignificante fino a che «lo aveva punto uno spillo!» Era furbo il contadino — teneva molto a ripetere questa frase; egli sapeva bene che accompagnata dal succhiare del dito punto e da uno sguardo di cattiveria finta, era copiosamente ricompensata.
Ma lei aveva molto da dire e la storia della sua vita era abbastanza triste. Cinque anni di vita coniugale con un uomo esaurito, più tardi pazzo e paralitico; finalmente vedova, con una bimba ammalata e idrocefala — una ragazzina che rodeva e mangiava tutto ciò che trovava in terra e che doveva essere continuamente custodita perchè non appiccasse il fuoco. Interessi grandi... Una fortuna immensa... consiglio di famiglia... suocera e cognati — esseri rudi e brutali che facevano intorno a lei una polizia schifosa.
E poi, alla frase prediletta di lui, veniva così naturale: «Figurati che sete avevo della vita! quanto desiderio avevo di te!».
Il calore, tanto tempo accumulato in quel bell’essere, si effondeva ora con un impeto invincibile: quel periodo di felicità fu per lui corto sì, ma pieno.
Ma tutto finì.
Egli dovette rinunziare a lei, quando tra loro si alzò il muro del consiglio di famiglia. Questo, certo non poteva permettere una simile aberrazione, Pianti... ribellione — inutile. Un ultimo sforzo da parte del disperato fu decisivamente annientato.
Quando il seminarista osò non tener conto delle raccomandazioni imperiose fattegli, e mise il piede sulla soglia per la quale prima passava verso la felicità, dovette pagare caro il suo passo imprudente. Fu un maltrattamento forse meritato, ma troppo selvaggio. Gli sbirri incaricati della correzione dell’audace usarono uno zelo eccessivo. Il disgraziato, sorpreso, fu schiacciato dai colpi... la testa rotta, il petto calpestato. Svenuto, fu gettato davanti il portone del seminario, dove i servi lo trovarono il giorno seguente, più morto che vivo.
Tutte le ricerche e gli sforzi del padre-direttore, per scoprire e far punire i delinquenti, che avevano così ferocemente attentato alla vita dell’alunno favorito dovettero cessare. Il vecchio fu chiamato avanti agli altri prelati. Gli si fece osservare che non sapeva compiere i suoi doveri, che non si curava sufficientemente della moralità degli scolari e gli si fece capire che, se voleva rimanere direttore, non avrebbe dovuto più occuparsi di ciò che accadeva fuori del portone del seminario: questo spettava agli uomini della giustizia e non a quelli della chiesa!
Nizza per molto tempo fu tra la vita e la morte; mesi interi passarono prima che egli si rimettesse in salute. Non era morto per questo; ma forse le notti, che sua madre, chiamata subito, passò al capezzale del disgraziato, avevano abbreviato di molto la vita della povera vecchia. Fin da allora egli rimase ammalato di cuore ed ebbe molto a soffrirne, fino alla morte.
Ma si era rimesso... Egli cominciò a cercare la felicità perduta... Troppo tardi... Le case vicine si stavano demolendo e si era principiato proprio dall’ala dove un tempo stava la camera azzurra... La donna era morta... La bambina malata si trovava in un istituto di educazione all’estero... Il consiglio di famiglia non restava con le mani in mano.
Prima, una santa rassegnazione, poi a poco a poco, se non l’oblio, per lo meno la calma del desiderio sotto il peso degli anni. Dieci anni!... Il seminarista è ora sacerdote — il pope Nizza di Dobreni — uomo serio e stimato da tutto il comune.
La mattina la capitale del distretto è animatissima — c’è la fiera annuale. Il pope Nizza cammina sulla strada maestra, va di qua e di là come si gira nelle fiere, dappertutto, senza una meta precisa...
Davanti al caffè centrale c’è molta gente che sta guardando qualche cosa e ride clamorosamente... Forse una bestia ammaestrata che svela l’età ed i vizi degli spettatori... forse un buffone... od altra cosa. L’affollamento diventa sempre più grande... Il pope segue la folla... Sul marciapiede del caffè, seduti sulle sedie e in piedi stanno i notabili della città — il Rappresentante del Distretto, in vacanza parlamentare, i Membri del Tribunale, gli Impiegati della Prefettura, del Municipio, della Finanza, gli Ufficiali; tutt’intorno la folla variopinta di tutti gli strati sociali forma un semicerchio. Nel mezzo si rappresenta la commedia. Il pope Nizza si addentra anche lui.
Che c’è? Che cosa fa tanta sensazione?
Un ragazzo di otto-nove anni, cencioso e sudicio, scalzo, vestito di abiti smisurati — un giacchettone di cui l’orlo gli scende fino alle caviglie, sulla testa una tuba schiacciata — dice delle facezie.
E un piccolo buffone molto corrotto — rachitico, rattrappito e pallido; i suoi polpacci secchi, che si scorgono attraverso gli strappi dei calzoni, sono, pieni di scorticature. È tutto logorato e ciò nonostante è petulante. Fuma una sigaretta lunga, fa delle smorfie strane, deride e chiama i notabili con soprannomi.
Comincia a cantare una canzone oscena fingendo di battere le nacchere, facendo gesti e mosse imperdonabili. Il pubblico ride sgangheratamente. Una contadina vecchia che sta nella prima fila degli spettatori vergognatasi del ritornello che il ragazzo le lanciava con un’intenzione diabolica, si ritira per sottrarsi agli sguardi indirizzati verso di lei, fa il segno della croce e dice nell’allontanarsi:
«Chissà che peccati! Che Iddio ne preservi ogni ragazzo!»
Il piccino, stanco, si è fermato: va a salutare molto comicamente colla sua tuba enorme i notabili e si siede su di una sedia con le gambe a cavalcioni, accanto al signor senatore... Un’altra sigaretta... Il signor senatore gli offre caffè e rum. Un altro «amico» gli dà ancora un bicchierino... e poi un altro...
Il ragazzo si alza e ricomincia il ballo... Adesso le mosse e i gesti sono ancora più accentuati... Ma a poco a poco le membra perdono la loro sicurezza e la simmetria dei movimenti; il canto è roco, l’articolazione ineguale... un’altra strofa!... Ma l’affanno lo soffoca. Il cantante si ferma un momento vacillando: è giallo come la cera; gli occhi biechi si spengono nel fondo delle orbite. Uno sforzo, eccitato dall’incoraggiamento unanime degli amatori!... Sospira profondamente, vuole alzare la gamba, gira su sè stesso e il piccolo corpo esaurito cade pesantemente sull’orlo del marciapiede. — Ubriaco morto!
La gente si era troppo affollata, la circolazione nella fiera, nella città, era interrotta. Il questore chiamò una guardia per levare di là il piccolo depravato e disperdere l’agglomerazione.
Il pope Nizza, coi pugni serrati salì sul marciapiede e apostrofò, coll’accento del massimo sdegno, quelli che ridevano:
«È peccato, signori miei! Pensateci! Cristiani!... Bella cosa!... Peccato grave!»
S’intende che la gente che si era divertita così bene non trovò affatto a posto l’apostrofe del moralista e gliela pagò con sarcasmi grossolani. Il pope non poteva trovar la calma: batteva nervosamente con le dita sul marmo del tavolino brontolando tra i denti diverse esclamazioni di sdegno.
Il caffettiere che sapeva molte cose fu pronto a dargli tutti i particolari sul ragazzo. Incredibile, ma vero... e il pope ascoltava sbalordito:
È un ragazzo di buona famiglia. — La vedova di un proprietario benestante pazzo. — Invaghita di un giovane della campagna, un seminarista. — Incinta. — Vergogna immensa. Va a partorire nella sua tenuta. — Il bambino è abbandonato: cresce presso una vecchia che muore anche lei, e il piccolo rimane sulla strada. — Qui, nella città, fece la sua apparizione circa sei mesi fa ed essendo di natura viziosa, di scherzo in scherzo si è ridotto in questo stato. — Una ragazza ammalata che scappa dalla scuola e va all’estero, ivi mal ridotta; poi trovata dai tutori e portata a Bucarest: ora scappa con un ufficiale, dall’ufficiale passa ad un altro. — Un calzolaio ebbe pietà del ragazzo e lo prese come principiante: ma che! Il monello non aveva voglia di lavorare — indole perversa! avvezzo a mendicare, a fumare e a bere. Il maestro lo battè una volta paternamente; il neghittoso fuggì e da allora in poi vive in questo modo: dice delle facezie, delle sfacciataggini, delle oscenità e si procura così il pezzo di pane, sì fa vestire dalla pietà dell’uno o dell’altro e dorme Iddio sa dove, dove lo abbatte la stanchezza. — D’altronde questa storia la conosce tutta la città e perciò viene chiamato «Mitu il Bojaro». 2
Il pope, coi gomiti appoggiati sul cavolo, stringendosi le tempie fra i pugni, madido di sudore, se ne stava con gli occhi fissi su di una mosca che girava sul marmo bianco; e seguì l’insetto fino all’orlo del tavolo. Che cosa avvenisse nella povera testa grande quanto un seme di papavero, non si può dire; il fatto è che la mosca si fermò, allungò le zampe posteriori intrecciandole, incrociò le antenne, poi ad un tratto s’innalzò e scomparve. L’uomo, destato, balzò in piedi e uscì.
Ricerche infruttuose... Non poteva trovare il ragazzo. Tutte le informazioni delle guardie erano sbagliate: alla caserma dei pompieri non c’era... Sotto il portico della posta nemmeno, nella baracca del Municipio neppure: né qui, né là... Tre, quattro ore di corsa in cerca di una notizia esatta. Sulla piazza, la guardia sa di sicuro che «Mitu il Bojaro» è entrato poco prima, insieme a parecchi ufficiali e impiegati, nel caffè dell’angolo dove «le ragazze cantano teatro».
Il pope dal viso spaventato produsse un’impressione inaudita quando entrò nel locale delle muse profane.
«Ecco anche il padre» gridò il procuratore del Re con il tono soddisfatto con cui si accoglie di solito un invitato in ritardo. E una delle cantanti che sedeva sulle ginocchia dell’intendente, alla stessa tavola con il giovane magistrato, aggiunse:
«Benedite, Padre»
Allora uno scoppio di risate, di battimani, di calpestii, di fischi, di grida «Bravo il pope! Bis il pope» — Infernale! Un serraglio di bestie che brucia.
Il successo colossale, spontaneo non turbò affatto il nostro uomo; il rumore profondo di quell’anima soverchiava la tempesta allegra del di fuori. Il pope avanzò deciso fin nel mezzo della sala, cercò con gli sguardi in tutte le parti e uscì precipitosamente sotto la pioggia delle risate, degli scherzi villani e degli urli.
Non c’è neanche là. Ma non può tornare a casa solo... Impossibile... Avanti... Un’altra guardia; forse a S. Giovanni nel cortile della chiesa; il ragazzo dorme anche lì quando fa bel tempo...
... Infatti era là...
Dietro l’abside dove un fanale nel crocicchio spandeva intorno una luce fumosa, riposava rannicchiato, colla testa su una tomba senza nome nè recinto un piccolo uomo... Appena allora il pope si accorse di quanto aveva camminato e si sedette per calmare i battiti del cuore. Egli pose timidamente la mano sulla testa del ragazzo: allora sentì distintamente all’indice destro una puntura di spilla... Sì — era qui, accanto a lui il frutto delle notti passate nella luce azzurra. Ragazzo in guerra con il mondo, così precocemente, quasi apposta si era fermato vicino all’altare per poter furtivamente strappare uno sguardo a Dio, il quale da quando gli aveva dato la vita non si era degnato di guardarlo nemmeno una volta.
«Dio! sussurrò il pope pieno di amarezza; guardalo. Dio Santo abbi cura anche di lui!» E afferrando nelle braccia quel pezzo di carne addormentata balzò in piedi e se ne andò. Il ragazzo svegliato, mormorò sonnacchiosamente una bestemmia e si addormentò di nuovo nelle braccia che lo stringevano con tanta passione.
Nelle vie oscure della città, l’uomo che portava il suo tesoro ebbe la fortuna di non incontrare nessuno: era l’ora che anche i fanali possono essere spenti, che anche le guardie possono dormire. Arrivato all’albergo svegliò il cocchiere e l’oste, pagò e partì. Il giorno seguente, prima di mezzodì, erano a casa, a Dobreni.
La moglie del pope non poteva essere troppo contenta di ciò che il marito le aveva portato dalla fiera. Non è tanto facile ripulire un ragazzo così sudicio. Il corpo era pieno di scorticature e di piaghe cagionate dai graffi e dalla sporcizia. Quante lavature, quante liscivie e pomate per levare a mano a mano, da questo essere abbandonato, la crosta nella quale la miseria, per tanti anni l’aveva avviluppato.
Il ragazzo aveva lasciato volentieri che facessero di lui ciò che volevano. Più difficile a curare che le piaghe erano i vizi e le cattive abitudini... Finalmente anche queste furono vinte; i buoni consigli, la mitezza, qualche osservazione più severa quando occorreva, la devozione della buona gente che l’aveva accolto nel suo seno caldo e soprattutto una malattia lunga, avevano disperso, se non completamente, almeno per la maggior parte e gli istinti e le abitudini perverse. Non è impossibile al giardiniere intelligente e paziente raddrizzare un arboscello gracile obbligato a crescere di traverso.
Quando fu completamente ripulito, una domenica lo vestirono con abiti nuovi — giacca ornata di fili d’oro, calzoni stretti bianchi, con cordoncini neri di seta e cappello con nastrino tricolore, e il pope gli disse:
«Che tu li goda sano! Cresci bene negli anni e che la fortuna ti assista!» Il ragazzo mise le mani nelle saccocce, si guardò seriamente e per lungo tempo nello specchio e poi cominciò a ridere... Del suo riso risero pure la donna e il marito. Ma quando si volse ed i loro sguardi s’incontrarono il pope lo prese nelle braccia, lo baciò parecchie volte e poi scoppiò in pianto... E cominciarono a piangere anche il ragazzo e la donna.
Poi se ne andarono in chiesa... Mitu, nel suo nuovo vestito, fece impressione. Soprattutto le donne una ad una lo carezzavano, perchè era un ragazzo così perbenino. Solamente, Mitu era ammalato: tosse secca, dolori di ventre, non mangiava niente e tutta la giornata sonnecchiava. Febbre? Malocchio?
Era un torpore generale... Tutta la giornata giaceva sulla soglia esposto al sole... Appena poteva andar carponi... medicine, incantesimi, tutto vano: si consumava, si logorava a vista d’occhio. La gioia voleva essere breve e quanto più egli la vedeva diminuire tanto più cresceva l’idea spaventosa che oggi o domani sparirebbe la felicità così inaspettatamente trovata... Ecco ora si spegneva il lume che gli era apparso sul cammino... La lucerna era quasi consumata...
Il pope si assopì vestito verso mattina. La donna vegliava presso il malato che dormiva da più di un giorno. Toccò con la mano la guancia del ragazzo — fredda; accostò l’orecchio alla sua bocca aperta — niente!
«Alzati, padre, gridò lei spaventata... Non respira più!»
L’uomo balzò, prese il ragazzo nelle braccia e scappò nel cortile gridando:
«Aiuto, buona gente! Aiuto!»
Il sole spuntava sulla cima della montagna,... un gruppo di uomini e soprattutto di donne si radunò... Il pope aveva posto il ragazzo rigido sulla soglia e lo piangeva in ginocchio... Una donna teneva il cero.
Ma non è morto ancora... Un incantesimo con acqua vergine... Il ragazzo sembra muoversi... Si alza lentamente. Egli apre gli occhi, respira forte e dice con la voce spenta.
«Ho fame!»
Bravo medico è l’aria di Dobreni!
Il ragazzo era completamente salvo, il sangue puro cominciò a colorirgli il viso tanto sciupato prima, gli occhi così cupi finora si riempirono di luce e allegria. Fu una lotta estrema, terribile: la vita adesso avanzava fulgente e orgogliosa del suo trionfo.
Mentre la moglie del pope, Sultana, appende nella chiesa di Dobreni una bellissima icona consacrata alla vergine che aveva esaudito il suo voto, nella capitale del distretto c’era un po’ di movimento al caffè centrale: si eran scoperte le tracce di Mitu il Bojaro.
La sua disparizione non poteva passare più inosservata. Era un vero danno per tanti amatori di divertimenti. Non si sapeva che cosa fosse accaduto.
Era scappato?... Era morto?... Finalmente si seppe la verità. Una notizia pubblicata sul giornale locale diceva che durante la fiera, un pope della campagna, che aveva girato di notte ubriaco nel Café-Chantant, aveva interrogato tutte le guardie per sapere dove era il ragazzo. Senza dubbio il pope l’aveva condotto seco.
Il Procuratore del Re prese l’affare nelle sue mani e con una intelligenza e «con una intelligenza e uno zelo che gli fanno un vero onore» scoprì che «la vittima del ratto» si trovava presso il Pope Nizza di Dobreni. Allora il giovane magistrato, accompagnato dalla forza pubblica, si recò sul posto per l’inchiesta necessaria.
Il pope ribellatosi, perchè gli si voleva prendere il ragazzo, sostenne eloquentemente la causa.
Un ragazzo che moriva di fame; in preda a istinti vergognosi e nocivi anche per un uomo maturo; corrotto dagli eccitamenti della gente beffarda e mai sazia di divertimenti... Strappato da quella sorte matrigna, tolto dalla via perversa — dalla morte alla vita... Dormiva per terra, ammalato e ubriaco, col corpo coperto dal capo alle piante di piaghe sporche, coll’anima infetta di vizi... Che cosa avrebbe fatto quel ragazzo senza tetto, senza protettore, quando fosse cominciato il gelo e la neve?
— Sarebbe morto su un mucchio di immondizie come un cane vagabondo. Ammettiamo che avesse potuto affrontare tante tempeste! Che cosa ne sarebbe divenuto?... Il manicomio... La prigione... La galera.
La parola dell’oratore aveva conquistato quasi tutti i presenti... Si leggeva sui loro volti un’impressione di benevolenza. Ma il Procuratore del Re rispose corto e con autorità:
«Pope, non puoi sequestrare il minorenne, il minorenne dev’essere restituito a chi di diritto: la legge è con lui, la legge protegge i minorenni... Dura lex, sed lex!»
Il tono magistrale e severo, le parole alte e degne del Procuratore del Re, dovevano inevitabilmente vincere l’impressione che il pope aveva ottenuto con la sua eloquenza sentimentale. Il segretario cominciò a scrivere il verbale, mentre l’uomo della legge gli dettava.
Era deciso: gli si toglieva il ragazzo! Ma egli non poteva lasciarlo! Però... glielo prendevano.
Il pope battè gli occhi sbalorditi e vide sangue... Egli si precipitò nella camera e prese il fucile che stava sospeso ad un chiodo, quando il suo cognato Cuzzitei, il sindaco, uomo che aveva visto e viaggiato molto, lo seguì afferrandogli la mano... E il pope comprese che in simili momenti, non si deve mai cercare l’ispirazione a distanza di un chilometro; essa ci sta davanti agli occhi — certo chi guarda lontano non la vede... Il pope sospese di nuovo il fucile — aprì il baule, frugò nel fondo, lasciò cadere con molta discrezione il coperchio mettendo a posto il tappeto che vi stava sopra.
Il sindaco passò di nuovo là dove si scriveva il verbale.
L’uomo della legge dettava.
«Disponiamo dunque...»
Cuzzitei l’interruppe, domandando rispettosamente scusa al magistrato, per dirgli qualche cosa... ed uscirono insieme nella stanza attigua.
«Signor procuratore, sussurrò il sindaco lanciandogli certo sguardo, il pope è un gentiluomo... Lei non lo conosce... Favorisca, favorisca!»
E, aprendo la porta, introdusse cortesemente il giovane laureato, nella camera dove l’aspettava impazientemente il pope. E così... si accomodarono le cose... Il verbale non doveva essere cambiato: tutto consisteva nella conclusione.
Il procuratore domandò al segretario:
«Dove siamo giunti?»
— «Disponiamo dunque...» rispose il segretario gravemente.
«Non così, disse il procuratore. Però disponiamo».
E per la contentezza di tutti, il rappresentante del Pubblico Ministero dettò:
«Però — considerando le informazioni le più minute, che unanimemente trovano sua Santità il pope Nizza di Dobreni un uomo dotato delle più belle qualità: considerando d’altra parte i progressi fisici e morali realizzati sotto la cura di Sua Santità dal minorenne Mitu detto il Bojaro — disponiamo che il sopra nominato minorenne, rimanga sotto la protezione e la responsabilità di questo meritevole e caritatevole sacerdote».
La sera ci fu grande cena dal pope. Il signor Procuratore dovette cedere alle preghiere di tutti per rinviare al giorno seguente la sua partenza. Egli «credette compiere un atto di dovere» nel fare le più sincere e calorose lodi ai sentimenti umani del Padre «di cui l’esempio non si potrebbe abbastanza raccomandare». Il signor Procuratore parlava molto e bene — era lietissimo: il diplomatico Cuzzitei sorrideva al pope facendogli segno con gli occhi, mentre questi teneva tra le ginocchia Mitu e, col pensiero ben lontano, gli carezzava lentamente i capelli biondi e morbidi.
Una donna come Sultana, la moglie del pope, così buona con un ragazzo poverello, solo, Iddio doveva ricompensarla — e infatti, entro il medesimo anno, partorì una bambina. Che allegria!... Molto fastidio per allevarla e molti dispiaceri — perchè era una bambina stranissima. C’era da meravigliarsi come una madre tanto docile e mite avesse dato vita a un tale carattere.
Una volta avevano un vitello: la vacca era morta e il poverino era rimasto senza nutrimento — ma lo salvarono dalla morte. Chi lo curava? — Ileana — a quell’epoca era una ragazza di dodici anni. Chi lo nutriva? Chi aveva supplicato la madre di lasciare con lei in casa il vitellino? — Ileana. Era un amore indicibile. Però una mattina, si alzò arrabbiata — non volle parlare nè con la madre nè con il padre; i genitori, vedendola di nuovo di cattivo umore, la sgridarono; lei scappò nel giardino. Là cominciò a giocare, come di solito, col piccolo Priano; prese a carezzarlo e affilando i denti gli strinse fortemente il muso. O perchè quella mattina neanche lui aveva voglia di giocare; o forse perchè le carezze di lei lo stizzirono, la bestia si staccò e si allontanò sbuffando. Lei lo chiamò — esso non obbedì... Lei lo inseguì, esso non volle... Lo sgridò — Priano scappò via... e continuò sempre così... La sua ostinazione cresceva in proporzione delle insistenze di lei. Non volle a nessun modo. Stanca, col viso infiammato, tremando di rabbia, andò a prendere un pezzo di polenta e un’accetta e tornò di nuovo. Appena la vide venire, Priano si puntò sulle zampe, e levò la coda... Lei si avvicinò piano piano... con la mano sinistra stesa, tenendo la destra nascosta, dicendo al suo amico che l’aveva fatta arrabbiare, parole carezzevoli... Esso fissò su di lei i suoi grandi occhi di bestia, guardandola con sfiducia, mandando dal fondo delle narici umide un soffio dolce di latte... Stette fermo. La ragazza porse lentamente la mano... Priano stese il muso tenero, ma prima che potesse prendere il pezzo, Ileana lo colpì ferocemente nel ciuffo riccio; la lama s’infisse profonda nell’osso non ancora maturo. La testa graziosa di Priano si macchiò di sangue. Il poverino cadde per terra e cominciò a sbattere spaventosamente le zampe...
La madre la vide tornare tetra e macchiata di sangue sul volto, sulle mani e sul petto.
— Che c’è?
— Ho ammazzato Priano nel fondo del giardino... Vieni a vederlo.
Quando giunsero Priano era morto.
— Barbara, Barbara! gridò la madre... Perchè? — Così!
La bastonarono; lei sopportò tutto — senza una parola, senza una lacrima. Però la madre si lagnò molto, affannata e ansiosa...
E quando si adirò il padre e prese l’incensiere buttandolo per terra ed errò fuggiasco, per tre giorni nella foresta, senza dare notizie di sé? E più tardi — giovinetta — quando per un niente afferrò nelle braccia Stanca di Radu, e senza perder tempo volle gettarla dal luogo ove si ballava la hora3, giù dalla rupe? Due giovani dovettero lottare con lei per salvare Stanca. Peccato per una donna così bella essere così crudele e temeraria.
La povera Sultana fu chiamata per tempo dalla madre di Dio. Il marito pianse molto la moglie affettuosa, che aveva tanto amato per la sua anima buona, per la sua pietà verso il poverello raccolto nella strada.
Il vedovo sconsolato, tosto dopo la morte della moglie maritò la figlia — non c’era più scampo — doveva sbarazzarsene una volta.
È un uomo dabbene il genero; ma è debole... brutto e debole di ginocchia... è balbuziente... capisce difficilmente... Bravo uomo, senza vizi, ma non è ciò che avrebbe dovuto essere — soprattutto per una donna simile ci vorrebbe un altro marito.
Mitu è cresciuto grande e forte. Adesso è maestro a Dobreni. Padre Nizza ha desiderato molto di averlo vicino, finalmente è riuscito a farlo trasferire qui fin da sei mesi per poterlo ammogliare e sistemare.
⁂
Tutto ciò passa ora per la mente del Padre Nizza e perciò il vecchio è molto affannato. Si sforza inutilmente di scacciare i pensieri che lo tormentano — il canto che viene di fuori lo strazia più forte: Ileana sua figlia, la moglie di Matache, sta seduta nel cortile col mento appoggiato sulle palme delle mani e canta.
Ileana canta bene, si sa; ma adesso il fuoco del suo canto è ben diverso; la sua voce arde. L’uomo, che aveva tanta esperienza, ascoltava mordendosi le labbra; egli sospettava... no, capiva bene la forza che aveva disteso tanto le corde della cantatrice.
Un’aria semplice e monotona — ma quanti significati, che smania di anima, quante promesse smisurate e che passione cieca! La figlia cantava la gioventù di lui.
Quel canto lo innalzava come su ali larghe e vigorose e lo portava trent’anni indietro... Ritornando verso l’attimo presente egli contava, a uno a uno, gli anelli che formavano la catena della sua vita.
Il canto di Ileana gli faceva troppo male; era insopportabile: doveva essere soffocato. Il padre uscì sulla soglia e la chiamò bruscamente. — Ella tacque e si avvicinò.
«Ileana, Ileana, disse il pope con un tono di rimprovero e fulminandola con lo sguardo. È peccato!
— Padre!
— È peccato, aggiunse il pope più insistente. Vergogna, è peccato! — e uscì precipitosamente dal cortile senza volgere la testa indietro.
Se ne andò direttamente dal maestro... Quest’uomo faceva impazzire Ileana... sì, lui!
Qui accadde una scenata molto spiacevole; rimproveri di ingratitudine da una parte, proteste calorose d’innocenza dall’altra. Il giovane giurò che erano stati soltanto scherzi, esagerati dalla cattiveria degli uomini, o meglio delle donne del paese, le quali, se non dicono del male, non possono vivere. Il vecchio continuava a sostenere, senza ascoltare, che un uomo maturo non deve lasciarsi trascinare dalla mente debole di una donna. E alla fine per farla corta: una volontà decisa fino al sangue di impedire la vergogna e il peccato...
Il maestro doveva domandare subito di essere trasferito in un altro distretto; il pope aveva dei mezzi per ottenere l’approvazione immediatamente. Gli dava una somma cospicua; gli trovava una bella giovane per ammogliarlo... l’amava come suo proprio figlio... più che Ileana... E con queste parole il vecchio sentendo che perdeva la sua energia, si affrettò ad andarsene senza più riapondere alle osservazioni del giovane, che non sapeva di meritare quel bando.
Il pope si diresse verso casa; ma ad un tratto si fermò... un momento di indecisione...poi tornò indietro - non voleva rivedere Ileana... andò da Cuzzitei...non era che volesse dirgli qualche cosa, ma sentiva bisogno di non essere solo.
Il sindaco era a casa. I vecchi amici sedettero l’uno accanto all’altro. Il pope non aveva appetito per mangiare; ma un bicchiere di buon vino è sempre buono. Cuzzitei portò dalla cantina un boccale spumante... Il sindaco era molto allegro e perchè non aveva sonno, come al solito, aveva voglia di chiaccherare.
Fra uomo e uomo c’è spesso una distanza come tra stella e stella. Lì sta un sole gigantesco e più in là un altro. Fra la polvere turbinosa dei mondi, un colosso di fiamma appena scorge un altro, piccolo come una favilla che scintilla perduta nelle tenebre senza fondo... E quanti poi non si vedono affatto e neanche sospettato la loro reciproca esistenza! Succede spessissimo che gli uomini comprendano a vicenda, nello stesso modo, le loro anime...
I due vecchi e buoni amici stavano faccia a faccia, ma la distanza tra loro era così smisurata! e ciò riduceva per Cuzzitei a proporzioni così infime i timori del prete. Alla fine delle fini, che c’era di grave e di spaventevole? C’è qualche cosa che accada più spesso e più facilmente? Che cosa? Due giovani si amano... E poi?... Non sono esseri umani?
«Io sapevo fin dal principio che ci sarebbe un imbroglio, disse Cuzzitei col suo solito sorriso... non poteva essere altrimenti... Prima sospettavo solamente - adesso ci metterei la testa... Senti... Domenica, due settimane addietro, non so che cosa facevo nel giardino... Che vidi? Venivano tutti e due dalla parte del fiume, passavano lentamente presso la siepe e parlavano sussurando... Non ho potuto sentire niente. Solamente mi sembrò che lei dicesse: «Non ti credo!» ed egli le rispondeva «Vedrai!» Saltai subito la siepe prima che loro arrivassero ai binari, perchè camminavano piano piano e si fermavano spesso; uscii davanti a loro dal portone. Si stringevano uno accanto all’altro come se camminassero sull’acqua... stavano per passare vicino a me senza vedermi. — Buona sera, comaruccia, dico io. — Ti bacio le mani, compare — Ma dove andate? — Andavamo anche noi alla chiesa... qui vicino ci siamo incontrati con Mitu. Io le feci un segno coll’occhio e dissi: «Buona passeggiata, comare». Egli tacque e diventò rosso come il peperone; ma lei, la diavoletta, cominciò a ridere e disse: «Ti bacio la mano, compare», e proseguirono insieme.
Li ho guardati fin che entravano nel cortile della chiesa... tanto belli! E poi perchè chiacchierare, Padre? Se Iddio ha fatto a questo modo il nostro mondo... Dissi anche io: così sì, così mi piace anche a me!...
— E poi, che cosa sarebbe — aggiunse Cuzzitei dopo un breve silenzio — che cosa sarebbe se lei abbandonasse quel tanghero di Matache e prendesse per marito Mitu?
— Finchè io vivrò, questo non può succedere, disse il Pope...
— Ma che! Perchè?
— Perchè io non voglio!» E il pope sentendosi la gola secca bevette due bicchieri di vino uno dopo l’altro... e poi un altro.
— Ma che! Lo domanderanno a te? E finalmente è meglio che gli sia moglie che amante... Guarda come si meraviglia il pope! Come se avesse visto per la prima volta simili cose... che, tu non sei stato mai giovane? Non ti è successo... Ecco a me, tale quale mi vedi, mi è accaduto... e poi il mio è stato un caso singolare... Ora posso dirtelo come a un confessore, perchè è scorso molto tempo d’allora... Io mi ero invaghito di mia cognata, cognata...»
Il pope fece un movimento.
— Sì, sì, della moglie del mio fratello defunto... Si voleva morire insieme, e non altro...
Tutto il villaggio lo sapeva e mio fratello... Povero defunto!... bravissimo uomo, ma bestia! Sembrava che il diavolo l’avesse spinto ad aiutarmi egli stesso. Mi ricordo che una volta insistette tanto perchè io andassi con lei alla città, lui aveva da fare in paese... che gioia per noi! Ero già salito nella carretta, insieme a Smaranda, quando ecco tua madre... Era venuta per viaggiare con noi. Che fare? L’abbiamo presa... Un giorno intero ci siamo sforzati di farla smarrire nella città senza riuscirci... Mio padre mi faceva la paternale da una parte, tua madre dall’altra... E l’uno e l’altra sorvegliavano Smaranda... Come avvicinarla?... Che mi balenò per la mente? Scappar con lei nel vasto mondo... Chi l’avrà detto... come l’avranno saputo... non lo so... so solo questo: che mio padre per sbarazzarsi di me e del peccato — mi vendette...
— Come?
— È semplice... Un mattino mi capitò di sentire un gran clamore nel villaggio, urli, grida di donne e di ragazzi... Che c’è?..., che c’è?... Correvano per prendere giovani per l’arruolamento e... Non feci tempo a mettermi la giacca, ecco Smaranda anelante: «Scappa Costantino! cercano te... scappa perchè ti acchiappano!» Ad un tratto mi venne d’improvviso in mente «È quel ladro di mio padre che me l’ha fatta» perchè qualche giorno prima m’aveva detto... «Costantino, tu saresti un buon soldato... perchè non vuoi fare il militare?» «Oramai, dico, sarò acchiappato, almeno...». Afferrai Smaranda trascinandola nella camera... ma che! Prima che io avessi toccato il catenaccio, ecco arriva mio padre con l’ascia alzata... «Sciagurati, vi fulmini Iddio, vi spacco la testa come ai cani.»
«Quelli erano già entrati nel cortile... Do un urtone al vecchio — riposi in pace — esco sulla soglia, porto la mano alla cintola, afferro il manico del coltello... «Sentite, dico, il primo che oserà toccarmi gli squarcio il ventre come ai cani» e mi metto a fuggire verso la siepe... dove mi inseguono. Un caporale di fanteria avanzava pieno di rabbia e girava per aria il cappio; mi pare di vederlo ancora alto e dalle spalle larghe, come un gigante.... «Arrenditi!... non t’arrendi?». Quando fui per mettere i piedi sulla siepe, mi gettò il cappio intorno al collo e tirando indietro mi fece cadere sulle spalle. Mi divincolai finché potei... ma ero già sfinito. — Come lottare più quando il cappio ti strozzava la gola? Mi legarono e mi portarono via...
— E poi?
— Mi portarono via. Chi avrebbe pagato per me? Mio padre? Mi portarono al posto di guardia e poi alla città... Scappai via una volta, con l’intenzione di prendere Smaranda e di darmi al brigantaggio... M’acchiapparono, mi bastonarono e mi misero in prigione. Una notte saltai il muro... La sentinella se ne accorse, m’inseguì, sparò ferendomi alla gamba — ne ho ancora il segno... Fui di nuovo bastonato; orribilmente... Stetti molto tempo nella prigione finché venne per liberarmi — e con quante spese! — chi lo crederebbe?, il mio povero fratello...
Tornai a casa... Smaranda aveva due bambini... Era stata ammalata... era diventata brutta... Quando ci vedemmo ci vergognammo l’uno dell’altro.
— E poi?
— Poi presi moglie e ho vissuto come tu sai... Grazie al povero padre mio: fu lui che mi salvò dal peccato... perchè siccome io ero pazzo l’avrei fatto — l’avrei fatto ed era fatto per sempre...
Il pope era venuto per trovare la calma, dal suo cognato Cuzzitei; ed egli gli aveva dato non vino, ma veleno. E perciò, assai tardi, il pope tornava a casa un po’ ebbro, cercando un’ispirazione luminosa e non potendo, col suo cervello confuso, prendere una decisione. Una stanchezza indicibile, una specie di disgusto più doloroso che la disperazione pesava sulle vecchie spalle.
Egli comprendeva benissimo di richiedere un sacrificio — d’altronde egli sapeva perfettamente come Cuzzitei — un sacrifizio che non si fa volentieri, che deve esser fatto colla costrizione... «Colla costrizione!...» E affrettò il passo... Giunse a casa, trasse qualche cosa dal baule e si mise in seno un pacchetto avvolto in un grande fazzoletto, salì a cavallo e partì... Quando spuntava il sole era lontano.
Il viaggio fu corto e lungo; lungo per l’impazienza, corto per i pensieri... Si deciderà il Prefetto?... Un maestro non può essere soldato... Come proporre? Come cominciare? Ma se non riesce? Se non è possibile?... Ma che! Se il Prefetto lo vuole, tutto è possibile.
Il Prefetto era una vecchia conoscenza — il procuratore di un tempo. Già deputato, adesso ricchissimo, con grandissima influenza. S’egli volesse sarebbe possibile. La tranquillità del viaggiatore stava nelle mani di quell’uomo. Questi si ricordava quanto buono egli fosse stato verso di lui! Sì, ma adesso non era più il giovane allegro di un tempo, doveva essere un uomo maturo... Forse le cose non sarebbero andate così facilmente come allora.
E così tormentandosi colle congetture, il cavaliere vide dinanzi a sè le torri scintillanti di latta della città... Un altro po’ di cavalcata... Finalmente!...
Entrò per la medesima porta per la quale più di venti anni addietro era uscito portando seco il tesoro trovato accanto all’altare di S. Giovanni. Il cavaliere evitò apposta le vie principali della città, non volendo più vedere i luoghi che furono, un tempo, il teatro delle prodezze del piccolo buffone. Il Prefetto abitava all’estremità della città, in un palazzo circondato da un vasto giardino... Dal Prefetto c’era molta gente... Il pope aspettò nel salotto. Si era appena seduto timidamente su di un angolo di sedia quando sentì in una stanza vicina un rumore infernale: dispute, schiaffi, urli, grida: la porta della camera si aprì ad un tratto; una serva brutta e dal viso stupido, muggendo come una bestia, col naso e la bocca pieni di sangue, uscì sbalordita; subito dietro lei, una signora piccola e asciutta, colla testa coperta di nastri di carta, fuori di sè, con la schiuma alla bocca, tenendo in mano una molla gridava: «Chiudetela nel pollaio! nel pollaio!» E scomparvero tutte e due per un’altra porta.
Il pope si alzò in piedi più per paura che per rispetto. Prima ch’egli potesse spiegarsi ciò che aveva veduto, sentì una risata forte e poi altre grida, questa volta più dolorose e strazianti — una donna si lamentava come se stesse per morire. La porta si aprì di nuovo, e un’Ungherese entrò portando nelle braccia la signora con la testa avvolta di carta. Le sue membra erano rigide, il collo contorto, il viso come la calce, e dei suoi occhi smisuratamente sbarrati si vedeva solamente il bulbo bianco... Gemeva e le stridevano i denti. Il servo, aiutato da due donne la portò nella sua camera. Dopo qualche momento egli uscì, asciugandosi le mani — l’aveva morso.—
— Che c’è? domandò il pope confuso.
— Ecco, peccati!
E senza insistere troppo, il pope seppe quanto fosse cattiva e ammalata la padrona, la moglie del Prefetto. Uno scorpione! bastonava i servi a sangue, li pungeva con aghi, li bruciava col ferro dei ricci riscaldato allo spirito... e quando si stancava, le durava l’accesso, rideva, piangeva, gridava e restava delle ore intere rigida... Doveva essere fregata con spazzole dure, battuta con ramoscelli sottili e avvolta nel fumo di certi medicamenti forti, finché recuperasse la conoscenza.
Il pope si fece il segno della croce e si sedette di nuovo per aspettare. Solo tardi il Prefetto uscì per condurre fino allo scalone un bojaro vecchio. Finito che ebbe, scorse il pope, che stava umiliato in piedi. Scambiarono due parole, si riconobbero subito. Il pope disse a mezza voce:
«Vorrei, eccellentissimo signor Prefetto, comunicarle una cosa che mi pesa sull’anima... a quattr’occhi... ma a quattr’occhi»... Perchè aveva ancora due invitati, il Prefetto condusse con molta cortesia il pope, malgrado le sue proteste, in un altro salotto ed entrò nello studio per sbrigare gli altri due.
Il pope passando nel salotto si fermò un momento. Era molto tempo che non era entrato in un appartamento simile!... Da molto tempo i suoi occhi non erano carezzati da una tale combinazione di forme e colori! Era veramente meraviglioso. Il salotto dava sul giardino e il riflesso degli alberi, passando attraverso le stuoie, aggiungeva un incanto a quell’interno ricco e di buon gusto.
Fece un passo, avanzando come un viandante in una vallata piena di ricordi incantevoli, che rivede dopo un lungo smarrimento. Attonito, guardò intorno a sè; ma quando il suo sguardo si fermò sul canto dove la luce venuta da tre grandi finestre si rifletteva, il viandante rimase confuso... un grido soffocato uscì dalla sua gola: i suoi occhi avevano incontrato gli sguardi di un gran ritratto...
Era un’apparizione — più dolce, più buona, felice. Sorrideva con lo stesso sorriso indimenticabile, composto di molta mitezza e di molta passione; tanta intelligenza lucida e tanti istinti ciechi... Il vecchio stette molto... molto davanti a lei, come se avesse voluto infiammare coi suoi sguardi quegli occhi fissi lassù e farli battere almeno una volta, poi disse chinando la testa.
— Eh! se tu sapessi ciò che avviene adesso nell’anima mia!...
— Favorisca, padre, disse il Prefetto.
— Chi è? domandò lui, additando il ritratto che stava sulla parete, senza guardare nemmeno l’uomo che lo svegliava così bruscamente dal sogno.
— È mia suocera... la madre di mia moglie... Una donna disgraziata: è morta giovane, la poverina! — Il vecchio si voltò macchinalmente.
— Ebbene? che c’è? ditemi il vostro dolore, aggiunse il Prefetto; accomodatevi.
Il pope sedette e tacque.
— Avete qualche processo... qualche imbroglio...dite. —
Il pope non disse niente.
— Siamo soli, non abbiate soggezione. Non ci sente nessuno. Raccontate, disse con benevolenza, benché un po’ impaziente, il Prefetto. Se è possibile, siccome conosco che uomo siete, farò tutto per Vostra Santità. — Il vecchio scivolò dalla sedia e cadde bocconi sul tappeto morbido... il questore, che aspettava fuori degli ordini, per fortuna si trovava vicino, e alla chiamata del superiore venne a prestar aiuto all’ammalato: lo sbottonò al collo, al seno, gli tolse la cintura... gli fece una frizione con aceto alle tempie e al cuore... Quando riprese conoscenza, il pope era steso sul sofà nello studio. Si abbottonò subito, chiese scusa — era ammalato, soffriva di cuore e di vertigini — ora si sentì vacillare, gli si era oscurato tutto intorno, si era addormentato... Si alzò, salutò e volle andarsene.
«Va bene, ma non mi avete narrato niente» disse il Prefetto, facendo segno al questore di uscire.
Il questore se ne andò contentissimo del servizio umanitario che aveva reso... Il pope cercava continuamente nel seno, alla cintura, nelle saccocce, senza proferire una parola. Il Prefetto stanco, disse:
«Eh via! dite in una volta...»
«L’ho perduto!» rispose ingenuamente il pope, salutò ed uscì precipitosamente.
Il Prefetto alzò le spalle... Chiamò il questore... Il questore era assente, ma doveva tornare subito; se n’era andato correndo — «aveva dimenticato il rapporto della notte nella cancelleria».
⁂
Per quanto fosse giovane, Ileana aveva capito che suo padre aveva letto nella sua anima come leggeva nei suoi libri di chiesa...
Se è così, vuol dire che anche lui lo sa... E poi?... che lo sappia! Che importa?... Paura?... Di chi?... Di che?... Di Matache?... Lo stupido?...
L’abbandonerà e buona pace: la convivenza forzata è impossibile... Onore?... Parola. Vergogna?... Non ne ha. — Sì, che lo sappia il villaggio intero!... Le dispiacerebbe se non lo sapessero tutti!... Lo dirà lei stessa... Sì, perchè non può più nascondere il fuoco che l’arde; una volta per sempre deve farlo vedere; il canto e il pianto di nascosto non servono più. Scenderà nella strada... no, andrà alla chiesa, e quando tutta la gente sarà adunata griderà ad alta voce che le crepa il cuore di tanta sofferenza muta, che senza quell’uomo impazzisce, uccide chi incontra e si strangola da sè con le unghie, come una belva rabbiosa. E con le mani infisse nei capelli, la donna scuoteva, come per dolore, la sua bella testa. Dietro la casa si sentì — così tardi! — il segnale conosciuto; la belva, d’un salto, fu al collo della preda.
«Vieni più presto! disse lei gemendo. — Perchè mi tormenti? Che cosa vuoi? — che io muoia? Dimmi che vuoi che io muoia... Per l’anima della mia madre che sta nella tomba — che io giaccia verminosa presso le siepi finché perfino i cani fuggano da me! — che la mia carne imputridita mi cada dalle ossa! che le mie ossa si logorino fino al midollo; che gl’insetti della terra facciano il loro nido nel mio petto e nel mio teschio: dimmi se tu vuoi che io muoia... subito, qui, e io morirò!»
I suoi occhi si spalancarono, le guance e la bocca si coprirono di rughe e cadde sfinita nelle sue braccia. — Quando la donna sentì il soffio dell’uomo riacquistò la voce e cominciò a dirgli quanto ingiustamente egli si era adirato contro di lei, come era stata fanciullesca e senza ragioni la loro disputa, e quanto aveva sofferto lei della sua assenza.
Da molto tempo l’uno era nelle braccia dell’altro quando si sentì scricchiolare il cancello; arrivava il pope a cavallo... Tutti e due rimasero immobili. Il viaggiatore smontò, tolse la sella e lasciò libero il cavallo di pascolare. Da lontano, dal fondo del giardino dove stavano, si vide la finestra della camera del vecchio illuminarsi. «S’egli sapesse che io mi trovo qui, disse Ileana col viso contenuto e stringendosi per paura a Mitu, mi ammazzerrebbe!»
Il pope aveva spento il lume e si era sdraiato sul letto per radunare i suoi pensieri e per escogitare un’altra combinazione, un nuovo espediente.
Benché fosse stanco di tanto cavalcare, e di tanti altri fastidi, non poteva addormentarsi. Piano piano stava per assopirsi. Era sul punto di varcare il limite felice, al di là del quale i pensieri sfuggono alla nostra coscienza, per correre e saltellare liberamente in danze bizzarre...
...Balzò in piedi.
...Qualcuno camminava nel cortile. Una porta si apre e si chiude nella casa di fronte, di sua figlia... Conversazione misteriosa! Il vecchio uscì subito. — Niente: nella notte fresca si sentiva solamente il cavallo pascolare. Era stata una allucinazione... Girò intorno alle case... Di nuovo niente... Oscurità... Nessun movimento. Bussò alla finestra di Ileana... un’altra volta... più forte... fortissimo... Nessuno rispondeva... Rompere la porta!... Andò a prendere l’ascia e poi tornò; ma quando tastò per trovare la maniglia sentì l’anello; era chiuso a catenaccio. Nessuno! Con la testa scoperta, coi capelli dritti in disordine alla mercè del vento, il vecchio uscì dal portone correndo. Alla scuola; chiusa col catenaccio... Indietro! Da Ileana c’era il lume: si spogliava per mettersi a letto... Indietro! Alla scuola c’è lume.
Salì di un sol passo i tre gradini della scaletta e guardò per la finestra: Mitu stava al tavolo con la testa appoggiata sulla mano. La bellezza del giovane, i suoi sguardi perduti chissà dove, l’aria estatica che gli illuminava la testa, confusero l’uomo che stava fuori; questi si coprì gli occhi per non vedere più la spaventevole immagine.
Stette così un attimo, poi bussò con decisione, si avanzò sfigurato, si fermò sulla soglia e irruppe:
«Perchè mi vuoi male? Perchè? Uomo senza anima, senza fede e senza Dio!... Ti ho raccolto per le strade, ti ho riscaldato al mio seno; tu vuoi la vergogna della mia famiglia? Tu vuoi uccidermi? Che male ti ho fatto io? Che colpa ho io? Dimmi: mi pento, tu mi perdonerai!... Perdonami! Abbi pietà d’un povero vecchio... Mitu, mio figlio!...».
E il vecchio coi capelli sciolti si trascinava in ginocchio e lottava per afferrargli la mano, e baciarla con forza...
«Padre! disse il giovane tremando e cercando di staccare la mano. Tu devi perdonarmi... Perdonami!... Io non dimentico ciò che hai fatto per me... io non voglio farti nessun male, nessuna vergogna. Lei non può più vivere insieme al suo marito... se lei l’abbandona, io... io la prendo per moglie.
— Tu prenderla? —
— Sì, io; io non posso più vivere senza di lei...
— Sciagurato, è tua sorella!
— Perchè mi hai allevato tu...
— No... ti è sorella carnale!
— Come? —
— Tu sei mio vero figlio... Carne mia!
— Padre... tu vuoi ingannarmi...
— No, non t’inganno... Ho sbagliato... ho fatto un peccato e Iddio ha voluto punirmi e mi ha mandato te per punirmi... Da molto tempo dovevo io dirti questo segreto: eri giovane ed io ero confessore... potevo io confessarmi ad un ragazzo? Ma quanto bene ti ho voluto io,... e mai non l’hai capito, non hai sospettato nemmeno ch’io fossi il vero padre? Perchè non hai capito, ecco, io il confessore vengo a te a confessarmi e a pregarti: non lasciarmi con la paura della morte nell’anima!... Se non ti senti in grado di resistere al peccato che ti spinge, parti, scappa lontano: qui è l’inferno e per te, e per lei e per me!... Solo io devo sapere dove sei... lascia... ti passerà... prenderai una bella sposa... avrai bambini. Lascia qui tutto... il tuo buon padre verrà a vivere con te e morire felice, senza questa piaga che mi rode il cuore!
Il vecchio si fermò, non ne poteva più. Mitu l’aveva ascoltato pallido. Senza rispondere alzò la mano del pope, che lo strinse al petto come un tempo, bagnandogli la testa con lacrime calde e rumorose.
«Adesso parto, padre, disse lui; parto!» E partì.
Son passati due giorni... È la terza notte da che l’abbandonata sospende alla finestra il segno convenuto, un asciugamani annodato, ma inutilmente... Non viene. Lei geme nell’ansia dell’attesa, dell’incertezza, della disperazione. Ammalato tra stranieri! Morto? Con un’altra donna?...
Cercarlo? Dove?... Aspettare? Quanto tempo? Morire?... Come?
Dov’è? dove?
È qui vicino... Torna da lontano al suo posto...
Ha meditato tanto tempo nel cammino e si è convinto che non può lasciare la disgraziata senza pentimenti, senza dirle una parola, senza piangere insieme a lei il peccato commesso nell’ignoranza...
Ma se il pope per fanatismo o per riguardi sociali avesse inventato una fiaba? Speranza dolce! Allora il suo amore non sarebbe più imperdonabile!... Ma se fosse vero? E poi? Alla fine delle fini era lui il colpevole? Lei? Il destino!... Dove un’intiera filosofia pagana, davanti alla quale ogni convenzione è eresia, ogni credenza è superstizione.
Così filosofando ha saltato la siepe e sta in agguato. Non può avanzarsi... Ha paura... un momento vuole tornare indietro e partire... Questa volta per sempre. Mette il piede sulla siepe... ma ci ripensa... Scende e si pianta sul posto... Sta così a lungo tra due strade senza poter avviarsi per nessuna; deve essere trascinato per muoversi... e sarà trascinato. La luce della finestra del pope è spenta. Il giovane lascia passare un po’ di tempo, e poi fa un passo per vedere se da Ileana c’è lume... Non c’è... si avvicina piano piano. Il cane comincia ad abbaiare. L’uomo sussurrando lo chiama per nome; la bestia si dimena scodinzolando e si calma. Adesso, dal vecchio si accende di nuovo il lume. Il giovane si ritira fino alla siepe. Il pope esce... va fino al portone, torna e Mitu lo vede passare attraverso i raggi di luce e dirigersi dietro il cane, seguirlo come una guida esplorando verso il fondo del giardino. Agile, il maestro salta la siepe e va a nascondersi dietro la grande croce dalla parte della montagna, al quadrivio. Il pope torna a casa e spegne la luce. Adesso è ricominciata una lotta così accanita, che fra i battiti rapidi del cuore non può intromettersi neanche un momento di pentimento... Il cane, scacciato, va a girare; l’uomo salta di nuovo nel giardino. Che cosa fa la donna?... Il marito starà a casa? Non sembra... Il carretto non è nella stalla e nella scuderia nessun rumore... Ad un tratto la finestra d’Ileana s’illumina... l’asciugamano annodato... L’aspetta... Coraggio! Egli stropiccia la porta colla mano, molto discretamente. Un grido soffocato dentro... Ileana smorza la candela ed esce. Trema percorsa dai brividi... Lei lo trascina nel giardino al solito posto, dove da tanto tempo il tappeto disteso aspetta... La donna si appende al suo collo. Egli la stringe nelle braccia con forza e sta per toccare le sue labbra... Ma sente un brivido di spavento e la respinge.
Adesso comincia il suo diluvio di parole — giuramenti, maledizioni incoerenti, ma piene di significato; sospetti di tradimento... minacce di delitto e suicidio... pianti e suppliche di pietà... Lui tronca gravemente il discorso mostruoso... e le narra tutto, tutto. Prima, lei rimane sbalordita... poi comincia a ridere piano e a mano a mano più nervosamente finchè scoppia in una risata forte e colpendolo brutalmente sul braccio vigoroso lo serra schiacciandolo sotto le dita:
«Bestia! Ti ha burlato!... Hai creduto? Non è vero! Mentisce!»
E gli si scaglia addosso, lo mette a ginocchi per terra...
Una striscia biancastra sorge sulla cima della montagna da levante... Vicino alla croce del quadrivio: scricchiolano le ruote dei carri che partono di buon’ora per arrivare a destinazione prima dell’afa. Mitu si desta in sussulto.
«Spunta l’alba, Ileana! alzati subito!» La striscia bianca si estende ed altre ruote scendono dall’altura verso la pianura, si avvicinano... un canto zufolato, un canto di viandante senza affanno... e discorsi... Il giovane sollevò la donna, e siccome le girava la testa, l’aiutò per giungere fino alla porta della casa.
È difficile la separazione... Sarà impossibile!
... Il vecchio ha dormito molto male; le palpitazioni del cuore l’hanno svegliato troppo spesso... Si leva soffocato dal letto; ha bisogno di aria: va ad aprire la finestra, tira la tenda, e gli sembra di vedere sulla soglia di rimpetto due ombre bianche che pare vogliano fondersi l’una con l’altra... Si asciuga gli occhi e guarda meglio... Sì!... Stacca lo schioppo dal chiodo ed esce sulla soglia: «Chi è?»
Una fiamma rossa, una detonazione, alla quale rispondono lungamente le montagne l’una dopo l’altra. — Mitu è caduto fulminato «Che cosa hai fatto, pazzo?» gli grida la donna avanzandosi di un passo.
Il secondo colpo! Ileana cade in ginocchio... si agita inutilmente per alzarsi... Vuole gridare... Uno sgorgo di sangue erompe dalla sua bocca... Le sue forze si esauriscono, si trascina per una certa distanza e siede per terra.
Il pope butta giù lo schioppo di cui le canne fumano ancora l’odore soffocante di polvere... oltrepassa la siepe, sale nel campanile si attacca con ambedue le mani alla corda di tiglio e comincia a tirarla con uno sforzo sovrumano: le tre piccole e povere campane cominciano a suonare, a lamentarsi dolorosamente.
Accorre molta gente.
Il pope prende la mano di Cuzzitei e s’avvia seguito da tutto il villaggio... Conduce tutti al luogo dove giacciono i due disgraziati figli... La piccola striscia biancastra, mentre le campane si lagnavano è divenuta grande e rossa.
«Io li ho ammazzati, disse il vecchio con calma... Prima lui e poi lei... Sì, io!...»
E si volse per guardarli... Ileana era spirata, stringendo tra le braccia i ginocchi del fratello... Il pope si chinò verso di lei:
«Non così, cagna! disse sorridendo crudelmente... Non così, perchè è peccato!» E slacciando le sue mani ancora calde, la sospinse un po’ più lontano. Il sorriso intelligente era scomparso dal viso dell’amico Cuzzitei... L’uomo si coprì scioccamente le labbra illividite con una mano, e coll’altra gli occhi umidi... Tutti stavano col capo scoperto... Neanche un soffio...
Il pope si alzò, si volse verso la folla cogli sguardi fissi e pieni di un’ansia spaventevole.
«Il cuore! disse, il cuo...» e cadde bocconi per dormire il sonno eterno accanto ai suoi figli.