Novelle rumene/All'osteria di Manjoala
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ALL’OSTERIA DI MANJOALA
Un quarto d’ora fin all’osteria di Manjoala... di là, fino a Popesti superiore, una ventina di chilometri; di trotto serrato, un’ora e mezzo... Il cavallo è buono... se gli do, all’osteria, dell’avena e lo lascio riposare tre quarti d’ora... cammina. Cioè, un quarto d’ora, più tre quarti: un’ora, e fino a Popesti un’ora e mezzo, fanno due ore e mezzo... Sono le sette passate: al massimo, alle dieci sarò dal colonnello Iordache... Ho fatto un po’ tardi... dovevo partire più presto... ma in fin dei conti sono sicuro che mi aspetterà...
Così calcolando, vidi da lontano, a un tiro di fucile, molta luce all’osteria di Manjoala; cioè, così l’era rimasto nome: ora era l’osteria della moglie di Manjoala — il marito era morto da cinque anni circa... Che donna energica!... Mentre il marito era ancora vivo la loro osteria stava per essere venduta, ma lei a forza di tenacia, era riuscita a pagare i debiti, a restaurare l’edilizio, a far costruire inoltre una scuderia in pietra, e dicono tutti che disponga anche di un capitaletto. C’è chi crede che abbia trovato un tesoro... c’è chi sostiene che si occupi di stregonerie.
Una volta vennero i briganti a derubarla... cominciarono a forzare la porta, uno di loro, il più forte, un uomo come un toro, alzò l’ascia per colpirla con furia, ma cadde per terra. Lo sollevarono subito! era morto... Suo fratello volle parlare, ma non potè — era ammutolito. Erano in quattro. Posero il morto sulle spalle del fratello e gli altri due l’afferrarono per le gambe, per portarlo in qualche parte lontana e seppellirlo. Mentre stavano per uscire dal cortile dell’osteria, la Manjoala prese a gridare alla finestra: Aiuto! ladri! ed ecco davanti a loro il delegato insieme a quattro guardie a cavallo. Il delegato gridò: «Chi va là?» Due dei ladroni scapparono via lasciando il muto col fratello morto sulle spalle.
Ora, come cavarsela all’interrogatorio? Tutti sapevano che il muto parlava, chi poteva credere che il muto non fingesse? Lo bastonarono finchè impazzì, invano! non ricuperò la parola. D’allora i giovani del paese non osarono più assalire l’osteria...
Mentre tutto ciò mi passava per la memoria ero arrivato. Un gran numero di carri sostavano nel cortile dell’osteria; gli uni portavano assi, in giù; gli altri, granturco, in su. Era una sera gelida d’autunno: i carrettieri si riscaldavano intorno ai fuochi... perciò si vedeva, da lontano, tanta luce. Un servitore mi prese il cavallo, per dargli dell’avena, nella stalla. Entrai nell’osteria; c’era molta gente che chiacchierava mentre due zingari insonnoliti, l’uno col violino, l’altro con la cobza1, strimpellavano una canzone dell’Oltenia2. Avevo fame e freddo — ero vinto dall’umidità.
— Dov’è la signora? Domandai al garzone del banco —
— Al forno.
— Deve far più caldo lì, dissi, e poi attraverso una saletta passai dalla cantina nella cucina.
La cucina era molto pulita... c’era un odore, non come quello della cantina, di cuoiame, di stivali, di sandali bagnati — odore di pane caldo.— La Manjoala sorvegliava il forno. — Ben trovata, signora Marghioala.3
— Ben venuto, signor Fanica.4
— Ci sarebbe qualche cosa da mangiare?
— Per gentiluomini come lei, anche a mezzanotte.
E subito la signora Marghioala, comandò ad una serva vecchia di preparare la tavola nella stanza, e poi avvicinandosi al focolare disse:
— Guardi, scelga.
La signora Marghioala era ben formosa, bella, dagli occhi attraenti, lo sapevo. Ma da quando la conoscevo — e la conoscevo da molto tempo — ero passato tante volte presso l’osteria di Manjoala sin da bambino, quando il mio povero padre viveva ancora, perchè per andare in città, dovevamo per forza passare di là — mai non mi era parsa così attraente... Ero giovane, elegantino e sfacciatello, più sfacciato che elegante. Mi accostai alla sua sinistra e mentre era chinata sul focolare l’abbracciai per la vita; e toccando il suo braccio destro, duro come la pietra, mi spinse il diavolo a pizzicarla... — Non ha nulla da fare? disse la donna guardandomi corrucciata.
Ma io per mettere le cose a posto le dissi:
— Che occhi terribili avete, signora Marghioala!
— Non mi adulate; ditemi piuttosto che cosa desiderate.
— Datemi... datemi... datemi ciò che avete voi.
— Accidenti!...
Ed io sospirando:
— Davvero, signora Marghioala, che terribili occhi avete!
— Se vi sentisse il vostro suocero?
— Che suocero? Come lo sapete?
— Voi credete che se vi nascondete sotto il berrettone, nessuno vede più che cosa fate... Non andate adesso dal Colonnello Iordache per fidanzarvi con la sua figlia maggiore? Via, non guardatemi più in questo modo; passate nella stanza da tavola.
Molte stanze pulite ho visto nella mia vita, ma come quella stanza... Che letto! Che tendine! che pareti! che soffitto! tutto bianco come il latte. E l'abbaino è tutto quanto lavorato a ricamo in diversi modi... vi fa caldo come sotto l’ala della chioccia... v’è un odore di mele e di cotogne...
Prima di sedermi a tavola, per una abitudine presa da bambino, mi voltai a vedere in che direzione era il levante, per fare il segno della croce. Guardai con attenzione intorno a me sulle pareti — nessuna icone. La signora Marghioala disse:
— Che cosa cercate?
— Le icone... Dove le tenete?
— Al diavolo le icone!... non servono che di nido alle cimici e ad altri insetti.
Che donna pulita! Mi accomodai a tavola, facendo, come di solito, il segno della croce quando, ad un tratto, un grido: avevo pestato, probabilmente, col ferro dello stivale, un gattone vecchio che stava sotto la tavola. La signora Marghioala si alzò subito e spalancò la porta; il gattone adirato scappò fuori e l’aria fredda invase la camera e spense la lampada. Si cercano i fiammiferi a tastoni; io cerco da una parte, la signora dall’altra — ci urtiamo nel buio, petto contro petto... Io, sfacciato, la stringo nelle braccia e comincio a baciarla... La signora finge di non volere, ma lascia fare; le bruciavano le guance, la sua bocca era fredda e i capelli intorno all’orecchie ebbero un brivido... Finalmente ecco la donna che porta il piatto con cibi ed una candela. Sembra che avessimo cercato per molto tempo i fiammiferi, perchè il vetro della lampada era già freddo. L’accendemmo di nuovo.
Eccellente pasto! pane fresco, anitra con cavoli al forno, salsicce di porchetto e un vino! e caffè turco! e risate e chiacchiere... bravissima signora Marghioala!
Bevuto il caffè, disse alla donna:
— Va a dire che ci portino un mezzo litro di moscato... — Straordinario moscato! Fui preso da una specie di intirizzimento alle articolazioni; mi sdraiai sul letto, per fumare una sigaretta e bere le ultime gocce color di avorio, e guardavo attraverso il fumo di tabacco la signora Marghioala, che era seduta davanti a me, occupata a farmi delle sigarette.
— Per Dio, signora Marghioala, che occhi terribili avete!... Sapete che cosa?
— Che cosa?
— Se non v’incomodo... vorrei un altro caffè; ma... non tanto dolce.
E risate!... Quando venne la donna col caffè, disse:
— Signora, loro stanno a discorrere qui... non sanno che cosa succede fuori... — Che c’è?
— Ha cominciato a tirare un vento... è un finimondo.
Saltai dritto in piedi e guardai l’orologio: quasi le dieci e tre quarti. Invece di una mezza ora mi ero trattenuto più di due ore e mezzo! Ecco che succede quando ci si mette a chiacchierare!
— Fatemi portare il cavallo!
— Che? I servitori si sono coricati.
— Vado io stesso alla scuderia...
— Stai fresco, ora, con tuo suocero, disse la signora Marghioala scoppiando in una risata e impedendomi di uscire.
La spinsi dolcemente da una parte e uscii sulla soglia. Davvero, faceva un tempo da cani... I fuochi dei carrettieri si erano spenti, uomini e bestie dormivano sulla paglia, stringendosi gli uni agli altri, mentre nell’aria urlava il vento.
— È una bufera spaventevole, disse la signora Marghioala, rabbrividendo e serrandomi la mano; siete sciocco? Partire con questo tempo? Pernottate qui e partirete di giorno.
— È impossibile...
Staccai con forza la mano, andai alla scuderia; con molta difficoltà svegliai un servitore e trovai il mio cavallo, gli misi la sella, lo condussi alla scala e salii nella stanza per congedarmi dalla padrona. — La padrona assorta nei suoi pensieri stava seduta sul letto tenendo in mano il mio berrettone e girandolo continuamente.
— Quanto ho da pagare? domandai..
— Mi pagherete quando ritornerete, rispose la padrona, guardando fissamente nel fondo del berrettone.
⁂
Poi si alzò e me lo porse. Presi il berrettone e lo posi sulla testa, un pò, inclinato. Guardandola fisso negli occhi, che brillavano ardentemente, le dissi:
— Vi bacio gli occhi, signora Marghioala! —
— Buon viaggio! —
Saltai in sella; la vecchia serva mi aprì il portone e partii. Appoggiato con la mano sinistra sulla coscia del cavallo, voltai la testa: al di sopra della siepe alta si vedeva la porta della camera aperta che riquadrava le forme bianche della donna, che si adombrava gli archi delle sopracciglia con la palma, nel guardarmi. Ritenni il cavallo al passo, fischiando una canzone per conto mio, fin che voltando dietro la siepe per avviarmi sulla strada maestra, il quadro scomparve. Dissi: Avanti! cammina! e feci il segno della croce: allora sentii distintamente l’urto dell’uscio e un gemito di gatto. La padrona sapendo che non la vedevano più, era rientrata al caldo, e nel chiudere la porta aveva pestato il gattone, probabilmente. Che diavolo di gatto! si mette sempre tra i piedi della gente...
Avevo viaggiato un bel pezzo. La bufera diveniva più forte e mi scuotevo sulla sella. In alto, nuvole opache volavano come spinte dallo spavento d’una punizione divina, le une di sotto, verso la pianura, le altre di sopra, verso la montagna, coprendo di tratto in tratto di strisce, ora larghe ora sottili la luce stanca dell’ultimo quarto di luna. Il freddo umido mi penetrava, sentivo i miei polpacci e le braccia ghiacciate... Avanzando con la testa china per non esser soffocato dal vento, cominciai a sentire dolori alla nuca, alla fronte; le tempie mi bruciavano e negli occhi sentivo un ronzio. Ho bevuto troppo! pensai, tirando il berrettone sulla nuca e alzando la fronte verso il cielo. Ma la corsa delle nuvole mi dava le vertigini, sentivo un bruciore sotto la coscia sinistra. Respirai profondamente il vento freddo, ma un dolore pungente mi trafisse il petto, chiusi di nuovo il mento, mi sembrava che il berrettone mi stringesse la testa come una tenaglia: lo tolsi... Stavo male... Avevo fatto male a partire! Dal Colonello Iordache, dormivano tutti, senza dubbio — mi avranno aspettato: con questo tempo, avranno creduto, è naturale, che io non fossi così sciocco da partire. Stuzzicai il cavallo che vacillava come ubriaco...
Ma il vento si era calmato; stava per piovere, c’era una luce nebbiosa; cominciò a piovigginare. Mi misi di nuovo il berrettone... Subito il sangue ricominciò a bruciarmi la testa. Il cavallo era sfinito; anelava soffocato dal vento. Lo strinsi con le gambe, gli diedi un colpo di frusta; la bestia si avanzò precipitosamente di qualche passo, e poi si fermò come se avesse incontrato un impedimento imprevisto. Guardai infatti, ed a qualche passo davanti al cavallo distinguo un piccolo coso saltellante... una bestiola!... che cosa sarà? Una belva?... È troppo piccola... Impugno la rivoltella, allora sento un grido di capretto... incoraggio il cavallo con tutte le mie forze. Esso si volta all’istante e prosegue indietro. Fa qualche passo... e si ferma di nuovo annitrendo.
Apparisce di nuovo il capretto... Feci voltare il cavallo, gli diedi diversi colpi stringendo le briglie... camminò... Fa qualche passo ed ecco di nuovo il capretto!... Le nuvole si erano assottigliate: adesso si poteva vedere meglio. È un capretto nero: ora avanzava, ora tornava in dietro e tirava calci; poi si alzava sulle due zampe, si slanciava, con la barbetta sul petto e la fronte in avanti, per cozzare, faceva dei salti incredibili e quasi da pazzo. Saltai giù dal cavallo che si ostinava a star fermo, e l’afferrai per le briglie; mi chinai e chiamai il capretto porgendo la mano come se volessi dargli da mangiare. Il capretto si avvicinò saltellando di continuo. Il cavallo nitriva pazzamente, voleva staccarsi; mi fece cadere sulle ginocchia, ma lo tenevo bene. Il capretto si era avvicinato alla mia mano: era un capretto nero molto bello, che si lasciava prendere da me con fiducia. Lo misi nella sacca destra sugli abiti miei. Intanto il cavallo tremava ed era scosso come preso dalla febbre della morte.
Gli saltai addosso... Il cavallo si mise a correre pazzamente. Da molto tempo correva come la pietra lanciata dalla fionda, saltando fossi, mucchietti di terra, tronchi d’alberi, senza che potessi fermarlo nè conoscere i luoghi, senza sapere dove mi portasse.
Durante questa corsa, nella quale ad ogni momento correvo il pericolo di rompermi il collo, col corpo gelido, la testa infuocata, pensavo al buon letto che avevo abbandonato scioccamente... Perchè? La signora Marghioala mi avrebbe dato la sua stanza, altrimenti non mi avrebbe invitato... Il capretto si muoveva nella sacca per stare più comodo: gettai i miei sguardi su di lui, mi guardava anche esso. Mi ricordai di altri occhi... che bestia sono stato! Il cavallo rallentava sfinito; lo fermai bruscamente, volle proseguire, ma cadde in ginocchio, esaurito di forze. Ad un tratto, attraverso uno spiraglio delle nuvole apparve l’ultimo quarto di luna, a rovescio.
La sua apparizione mi diede la vertigine, come un colpo sulla testa. Stava davanti a me... Allora c’erano due lune in cielo! io andavo in su: la luna doveva trovarsi alle mie spalle! E volsi subito la testa per vedere quella vera... Ho sbagliato strada! vado in giù... Dove sono? Guardo dinanzi a me: campi di granturco coi gambi non ancora tagliati. Dietro, la pianura vasta. Faccio il segno della croce, stringendo arrabbiato il cavallo coi polpacci intirizziti, per obbligarlo ad alzarsi — allora sento un urto forte al mio piede destro... Un grido! Ho schiacciato il capretto! metto subito la mano alla sacca: la sacca è vuota. — Ho perduto il capretto durante la corsa! Il cavallo si alza scuotendo la testa; si leva sulle zampe posteriori e mi butta per terra dall’altra parte; poi scappa per la campagna come inseguito dalla mosca cavallina, e scompare nel buio.
Mentre mi alzo, sento un fruscio tra gli steli e una voce umana che grida vicino a me:
— Tiu!, Za — Za — Tiu! Il diavolo!...
— Chi è là?
— Amici!
— Chi?
— Giorgio!
— Quale Giorgio?
— Natruz... Giorgio Natruz, che custodisce il granturco.
— Non vieni qui?
— Ma sì, ecco vengo.
E dai gambi di granturco, sorge l’ombra dell’uomo.
— Prego, fratello Giorgio, dove siamo noi qui? Ho sbagliato la strada con questa bufera.
— Ma dove vuole andare lei?
— A Popesti.
— Ah sì! Dal Colonnello Iordache.
— Precisamente.
— Allora non ha sbagliato strada... ma c’è da camminare fino a Popesti... Qui, lei è appena ad Haculesti.
— Ad Haculesti? Chiesi con gioia. Allora sono vicino all’osteria di Manjoala?
— Eccola qui; siamo dietro la scuderia.
— Vieni ad insegnarmi la strada; non voglio rompermi il collo proprio adesso.
Avevo errato quattro ore circa....
Facendo qualche passo arrivai davanti al portone.
Nella stanza della signora Marghioala c’era luce, e delle ombre si muovevano dietro la tenda... Avrà avuto la fortuna di godere tutto quel pulito qualche altro viaggiatore più savio. Io forse appena potrò sdraiarmi su qualche baule accanto al forno. Ma che fortuna! appena busso sono subito inteso. La vecchia corre ad aprirmi. Quando sto per entrare m’inciampo in qualche cosa di molle. Il capretto... lo stesso! era il capretto della padrona!... È entrato anch’esso nella stanza ed è andato a coricarsi zitto zitto sotto il letto.
Che cosa posso dire? Sapeva la donna che io dovevo tornare?... o si era alzata presto di mattino?... Il letto non era toccato.
— Signora Marghioala! tanto potei dire, e volendo ringraziare Iddio perchè m’aveva salvato, levai la mano destra alla fronte.
La signora mi afferrò subito la mano, e tirandola a sè, mi prese con tutta la forza nelle sue braccia. Mi pare di vedere ancora quella stanza. Che letto! Che tendine!... Che pareti! che soffitto! Tutto bianco come il latte. E l’abbaino e tutto, intorno, ricamato in diverso modo... è caldo come sotto l'ala della chioccia... e un odore di mele e di cotogne...
Mi sarei trattenuto molto tempo all’osteria di Manjoala, se non fosse venuto il mio suocero, Iordache — che Dio l’abbia in pace — per prendermi di là con grandissima difficoltà. Tre volte scappai da casa sua prima del fidanzamento, e tornai all’osterìa, finchè il vecchio, che ci teneva ad ogni costo ad avermi per genero, mandò i suoi servitori che mi legarono e mi portarono in un monastero sulla montagna: quaranta giorni di quaresima e preghiere. Uscii di là pentito: mi fidanzai e feci il matrimonio.
Solo più tardi, una notte serena d’inverno, mentre discorrevo col mio suocero, con un boccale di vino dinanzi, come si usa in campagna, sapemmo da una guardia campestre che verso la mattina vi era stato un grande incendio ad Haculesti, le fiamme avevano consumato fino a terra l’osteria di Manjoala, seppellendo la povera signora Marghioala, già vecchia, sotto un mucchio di brace.
— Finalmente l’hanno messa sulla brace quella strega; disse ridendo mio suocero.
E mi fece narrare di nuovo la storia di cui sopra, per non so la quantesima volta.
Il Colonnello sosteneva continuamente che nel fondo del berrettone mi era stato messo un filtro e che il gatto e il capretto erano la stessa cosa...
— Ma che! gli dissi io.
— Era il diavolo, credi a me.
— Può essere, gli risposi io, ma se è così, signor mio, allora sembra che il diavolo ti conduca anche al bene...
— Prima ti porta alle cose piacevoli, per renderti immondo, e poi lo sa lui dove ti porta...
— Ma voi come lo sapete?
— Ciò non t’importa, rispose il vecchio; questo è un altro paio di maniche.
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