Novelle rumene/Cero di Pasqua
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CERO DI PASQUA
Leiba Zibal, l’oste di Podeni, sta pensieroso ad un tavolo sotto la pergola davanti alla bottega, aspettando la diligenza che dovrebbe essere arrivata da molto tempo; c’è un ritardo di quasi un’ora.
È lunga e non troppo allegra la storia della vita di Zibal; ma così com’è, tormentato dalla febbre, è sempre un piacere per lui ricordare ad una ad una le vicende principali della sua vita.
Merciaiolo ambulante, rivendugliolo, sensale, qualche volta forse peggio, rigattiere, poi sarto e smacchiatore in un vicolo tristo di Iassi, 1 tutto aveva tentato dopo l’accidente che gli aveva fatto perdere il suo posto di garzone in un grande negozio di vini.
Due facchini avevan portato giù in cantina un barile, sotto la sorveglianza del ragazzo Zibal. Alla divisione della ricompensa scoppiò tra loro una disputa. Uno di loro afferrò un pezzo di legno che si trovava a sua portata e colpì alla fronte il suo compagno, che cadde a terra stordito e insanguinato.
Il ragazzo, vedendo l’atto feroce, gettò un grido, ma il miserabile si precipitò per uscire fuori dal cortile e passando vicino al ragazzo alzò la mano su di lui. Zibal svenne di paura. Dopo una malattia di qualche mese, quando ritornò dal padrone, il suo posto era occupato. Allora cominciò la lotta amara per la vita che diventò più difficile e dura dopo il suo matrimonio con Sura... Ma la pazienza stanca la cattiva sorte. Il fratello di Sura, oste a Podeni, era morto, e l’osteria era rimasta a Zibal che continuò il negozio per conto suo.
Egli si trova qui da cinque anni. Si è fatto un capitaluccio discreto in denaro e vini buoni, una merce che vale sempre. Dalla povertà è ora salvo Leiba, ma sono tutti ammalati: lui, sua moglie e il bambino — la febbre di palude.
... E gli uomini sono cattivi e provocatori a Podeni... Dispute, beffe... insulti... accuse di avvelenamento con vetriolo... ma le minacce! La minaccia è più pesante per un’anima paurosa che il colpo stesso. Ciò che travaglia in questo momento Leiba, più del brivido della febbre, è una minaccia.
«A! goi 2 miserabile!» pensa egli sospirando. Il miserabile è compare Giorgio, — dove sarà ora? — un uomo con cui Zibal ha avuto una disputa molto spiacevole.
Giorgio venne all’osteria, un mattino d’autunno, stanco di aver troppo camminato; usciva dall’ospedale, diceva egli, e cercava lavoro. L’oste lo prese al suo servizio; ma Giorgio si dimostrò troppo brutale, troppo ringhioso... insultava sempre e brontolava solitario nel cortile. Era un cattivo servitore, pigro e sfacciato... e rubava.
Un giorno che la moglie, incinta, lo sgridò con ragione, egli la minacciò di colpirla nel ventre... un’altra volta aizzò un cane contro il piccolo Strul.
Leiba gli regolò subito il conto e lo licenziò. Ma Giorgio non voleva andarsene, pretendendo violentemente ch’egli si era impegnato per un anno. Allora l’oste gli disse che sarebbe andato al Municipio a chiamare i gendarmi per allontanarlo.
Giorgio cacciò la mano sotto la camicia gridando: «Giuda» e volle scagliarglisi addosso.
Per fortuna, una carrozza piena di avventori si avvicinava appunto in quel momento. Giorgio cominciò a ridere dicendo:
«Ti sei impaurito signor Leiba: ecco, me ne vado».
E, piegandosi sul banco, si accostò bieco a Leiba, che retrocedette quanto potè, sussurrando:
«Aspettami la notte di Pasqua, che romperemo uova rosse, signor mio. Sappi che ho fatto anch’io il tuo conto».
In quel momento entravano gli avventori nella bottega.
«A ben rivederci al Sabato Santo, signor Leiba!» aggiunse Giorgio allontanandosi.
Leiba andò al Municipio, poi alla sotto-prefettura, per denunziare il minacciatore, domandando di essere difeso. Il sotto-prefetto, un giovane molto allegro, ricevette prima la «modesta» regalia offertagli dal Leiba e poi cominciò a ridere dell’ebreo pauroso ed a burlarsi di lui. Leiba insistette calorosamente per fargli comprendere la gravità del caso, l’osteria essendo distante dal villaggio e dalla strada maestra. Ma il sotto-prefetto, prendendo un’aria più seria, lo consigliò di essere savio: di nemmeno alludere a simili cose, per non destare davvero il desiderio dello scasso in un villaggio dove gli uomini erano cattivi e poveri.
Più tardi, dopo qualche giorno, un poliziotto e due gendarmi vennero a cercare di compare Giorgio: era sospettato di un delitto.
Come sarebbe stato utile averlo sopportato almeno fino all’arrivo di questi uomini!: ma Giorgio era allora chissà dove.
Benché ciò fosse accaduto molto tempo prima, tuttavia nella mente dell’uomo travagliato dalla febbre, si ripeteva benissimo l’impressione del viso di Giorgio, del movimento ch’egli aveva fatto per tirar fuori dal seno qualche cosa, e delle sue parole di minaccia. Come si svegliava così chiaramente quel ricordo?
Era il Sabato Santo.
Sulla montagna, nel villaggio discosto quasi due chilometri, si sentivano sonare le campane della Chiesa... e si sente così stranamente quando si ha la febbre: ora forte, ora quasi affatto. La notte seguente era la notte di Pasqua: la scadenza della promessa di Giorgio... «Ma forse l’avranno arrestato a quest’ora».
Comunque Zibal resterà ancora a Podeni fino all’anno venturo. Col suo capitale si può prendere un bel negozio a Iassi... Nella città, sol che Leiba stia bene, starà di casa vicino al Commissariato, pagherà un bicchiere al Commissario, al brigadiere, alla guardia... Chi paga bene è ben difeso.
In una città così grande, di notte c’è rumore e luce, non oscurità e silenzio come nella vallata solitaria di Podeni. C’è un’osteria a Iassi — lì all’angolo; che bel posto per un negozio: — un’osteria vicina ad un café chantant dove tutta la notte le ragazze cantano. Che vita rumorosa e allegra: lì trovi a tutte le ore, di giorno e di notte il signor Commissario insieme alle ragazze e ad altri buontemponi. Perchè darsi tanto fastidio qui, dove, saprattutto da quando la ferrovia fa un grande giro per evitare le paludi, il guadagno diminuisce sempre?
«Leiba, grida Sura dall'interno, arriva la diligenza, si sentono le sonagliere».
La vallata di Podeni è un pianoro chiuso verso i quattro lati da montagne coperte di boschi. Verso il mezzogiorno, più basso a causa delle sorgenti che scaturiscono dalle montagne, si formano delle maremme profonde, dalle quali si alzano come spazzole canneti fittissimi. Tra la parte paludosa e la parte più alta che si stende verso il settentrione, nel mezzo della vallata, si trova l'osteria di Leiba: è un edifizio antico, di pietra, forte come una piccola fortezza; benché il terreno sia acquitrinoso, l’osteria ha i muri e le cantine ben secche.
Sentendo la voce di Sura, Leiba si alzò penosamente dalla sedia, stiracchiandosi le membra stanche, guardò attentamente all’orizzonte verso l’Oriente: neanche l’ombra della diligenza.
«Non viene, ti è parso...» rispose egli a sua moglie e si mise a sedere di nuovo.
Molto turbato incrociò le braccia sulla tavola e vi pose sopra la testa che gli bruciava forte.
Al calore del sole di primavera, che cominciava a far ribollire la superficie delle maremme, un languore piacevole s’impadronì dei suoi nervi, e il pensiero cominciò a filare sul fuso della coscienza ammalata, più raramente, sempre più raramente, scemando a poco a poco le forme ed i colori delle immagini.
Giorgio... La notte del Sabato Santo... i briganti... Iassi. Un’osteria nel centro della città. Un’osteria allegra che rende bene... la salute...; si appisolò...
... Sura insieme col bambino, è da molto tempo fuori di casa. Leiba esce sulla porta del negozio per vedere se ritorna. Sulla via principale una viva circolazione, un incessante rotolìo di ruote, accompagnato dallo scalpitio ritmico dei ferri dei cavalli sull’asfalto lucido.
Ma ad un tratto la circolazione si ferma e, dalla parte di Copou, si vede venire una folla di uomini che gesticolano e gridano commossi.
Sembrava che la folla scortasse qualcuno: militari, una guardia ed ogni sorta di pubblico. A tutte le porte dei negozi appaiono spettatori curiosi.
«Va bene! pensa Leiba, hanno messo di nuovo la mano su un birbante!»
Il corteo si avvicina. Sura si stacca dalla folla e sale sui gradini vicino a Leiba.
«Che cosa c’è, Sura?» domanda egli.
«È un pazzo scappato da Golia» 3.
«Chiudiamo il negozio, che non si precipiti su di noi». «Ora è legato; ma un momento prima si era sciolto. Si è battuto con tutti i soldati. Un ebreo spinto contro di lui, da un goi cattivo, di fra la folla, fu morso al viso dal pazzo». Leiba vede bene di sugli scalini; un gradino più su sta a guardare Sura, tenendo il bambino nelle braccia.
È un pazzo davvero furioso, tenuto da due uomini da ogni parte: i suoi pugni sono strettamente legati uno sull’altro con una forte corda. È proprio un gigante: ha una testa di toro, i capelli neri e fitti, la barba e i baffi aspri, arruffati. Attraverso la camicia stracciata dalla colluttazione, si vede il petto largo, coperto, come la testa, da una selva di peli... è scalzo; la sua bocca è piena di sangue e sputa continuamente i peli che ha strappati coi denti dalla barba dell’ebreo.
Tutti si sono fermati... perchè?
Le guardie slegano le mani del pazzo. La folla retrocede lasciando uno spazio largo intorno a lui. Il pazzo guarda da tutte le parti e ferma i suoi sguardi ardenti sulla porta di Zibal; digrigna i denti, si precipita sui tre gradini, e in un attimo, prendendo nella palma destra la testa del bambino, nella sinistra quella di Sura, le schiaccia una contro l’altra con tanta forza che si compenetrano come le uova molli. Si sente uno strepito, uno scricchiolio, che non si può paragonare a nulla, allo scontro dei due crani.
Leiba col cuore sorpreso, come un uomo caduto da un’altezza smisurata, volle gridare:
«Un mondo intero mi lascia apposta preda di un pazzo!» Ma la voce muta non obbedì alla volontà.
«Alzati, ebreo!» gridò qualcuno battendo forte con un bastoncino sulla tavola.
«Che scherzo sciocco! disse Sura dalla soglia del negozio; impaurire un uomo che dorme, contadino villano!»
Leiba balzò in piedi.
«Hai avuto paura, ebreo? Domandò ridendo il faceto. Dormi a mezzogiorno, è vero? alzati che vengono gli avventori... arriva la diligenza». E secondo la sua sgradevole abitudine, che irritava molto l’ebreo, volle prendere Zibal sotto le braccia per solleticarlo.
«Lasciami tranquillo! gridò l’oste sciogliendosi da lui e dandogli un forte urtone. Non vedi che sono malato? Lasciami tranquillo!».
Finalmente la diligenza arrivò con un ritardo di quasi tre ore. Vi erano due viaggiatori che sedettero insieme con il cocchiere, invitato da loro, intorno ad una tavola.
Dalla discussione dei viaggiatori si comprendevano chiaramente le circostanze. Alla stazione precedente di posta era accaduto, la notte prima, uno scasso con uccisione, nell’osteria di un ebreo. L’oste ucciso aveva anche il cambio dei cavalli. I ladri li avevano rubati e aspettando che se ne potessero trovare altri nel villaggio, i viaggiatori curiosi avevano avuto agio di studiare il teatro del delitto.
Cinque vittime. Ma i particolari! Se non si fosse trovata la casa predata, si sarebbe creduto ad una crudele vendetta o ad un caso di pazzia religiosa. Negli aneddoti sui settari illuminati si narra qualche volta di barbarie così assurde.
Leiba tremava assalito da un forte accesso di febbre, e ascoltava sbalordito.
Poi accadde qualche cosa, che doveva inevitabilmente colmare di rispetto il cocchiere. I giovani viaggiatori erano due studenti: uno di filosofia, l’altro di medicina; ritornavano nella loro piccola città natale per passare le vacanze. Tra loro si accese un alto dibattito accademico sul delitto e le sue cause, e se dobbiamo essere giusti, il medico era meglio preparato del filosofo.
L'atavismo... L’alcoolismo con le sue conseguenze patologiche... il vizio di concezione... la deformazione... il paludismo... Poi la nevrosi... tante e tante conquiste della scienza moderna. Ma il caso di riversione... Darwin... Haeckel... Lombroso.
Al caso di riversione il cocchiere spalancò tanto d'occhi, ne’ quali brillava una profonda ammirazione per le conquiste della scienza moderna.
«È evidente, aggiunse il medico. Perciò il delinquente propriamente detto, preso come tipo, ha le braccia sproporzionatamente lunghe e le gambe troppo corte, la fronte stretta e sfuggente, l’occipite molto sviluppato; il suo volto, di una caratteristica asprezza e bestialità, colpisce colui che ne è pratico; è un rudimento di uomo, egli è per così dire la belva che appena da poco tempo è riuscita a posar sulle due zampe posteriori, ad alzare la testa in su, verso il cielo, verso la luce!»
All’età di venti anni, dopo tanta emozione e dopo un buon pranzo con un vino così ben fatto e ben conservato come quello di Zibal, una frase di sfumatura lirica, sta bene anche in bocca ad un medico. Il giovane entusiasta, tra Darwin e Lombroso, aveva trovato il tempo di gustare anche un po’ di Schopenhauer — «verso il cielo, verso la luce!»
Zibal era lontano dall’aver capito la «brillante» teoria. Per la prima volta forse, nell’atmosfera umida di Podeni, risuonavano parole di un significato così alto, sottigliezze di pensiero così nobili. Ma ciò che Leiba aveva capito meglio di chiunque altro, meglio anche del conferenziere, era l’illustrazione stupenda della teoria; il caso di riversione lo conosceva lui in carne ed ossa: era il ritratto di Giorgio. Questo ritratto di cui, fino a un momento prima, conservava solamente i tratti fondamentali, gli si risvegliò ora nello spirito con una perfetta palpabilità fin nei particolari più insignificanti.
La diligenza era già lontana. Leiba la seguì con lo sguardo finché, facendo uno svolto a sinistra, sparve dietro una collina. Il sole era già tramontato e la sera cominciava ad annebbiare dolcemente le forme della vallata di Podeni.
L’oste, di cattivo umore, si mise a ruminare mentalmente tutto ciò che aveva sentito... Nel silenzio della notte, perduti nell’oscurità, un uomo, due donne e due bambini teneri, strappati subitamente dalle braccia del sonno benefattore, dalla mano della belva dal viso umano e sacrificati uno ad uno... le grida pazze del bambino interrotte dal pugnale che gli apre il ventre... il collo spaccato dall’ascia,... e dallo squarcio, ad ogni sgorgo di sangue, un rantolo sordo... e l’ultima vittima che, sbalordita, assiste in un canto, a tutto ciò aspettando il suo turno... il processo più spaventevole che l’esecuzione; l’ebreo senza difesa nelle mani dei goi... i crani troppo deboli per le mani immonde del pazzo di un momento prima...
Le labbra di Leiba, bruciate dalla febbre, seguivano macchinalmente il pensiero, tremando rapidamente. Un brivido potente lo colse tra le spalle: egli entrò barcollando nell’androne dell’osteria.
Senza dubbio — pensò Sura — Leiba non sta affatto bene, è molto malato; Leiba ha «delle idee nella testa»; poiché, che significato potrebbe avere tutto ciò ch’egli fa da qualche giorno e, soprattutto, ciò che ha fatto oggi?
Ha chiuso l’osteria prima che si accendesse la luce, e proprio quando finiva lo Stabat. Tre volte hanno picchiato alla porta del negozio, gridando con voci conosciute, di aprire. Ad ogni colpo, egli ha trasalito e l’ha trattenuta, sussurrandole:
«Non muoverti... non voglio che i goi entrino qui».
È passato poi nel corridoio e ha cominciato ad affilare, sul gradino di pietra della soglia, l’ascia con la quale spacca le legna. Trema così forte che non può reggersi sulle gambe, eppure non vuole riposarsi. Ciò che è più angoscioso, è che Leiba ha risposto molto seccamente alle sue domande e l’ha mandata a coricarsi, comandandole di spegnere subito il lume. Dapprima, ella si oppose, ma egli le ripetè così laconicamente il comando che la donna, benché contrariata, obbedì rassegnandosi a rimandare a più tardi la spiegazione di tutte quelle circostanze.
Sura ha spento la luce, si è coricata e ora dorme accanto a Strul. La donna aveva ragione. Leiba è davvero ammalato.
⁂
È buio completo. Zibal è seduto da molto tempo sulla soglia che dà nell’androne e ascolta... Che cosa?
Rumori indistinti vengono da lontano... sembrano scalpitii di cavalli, colpi sordi di magli, discorsi misteriosi ed agitati. Una tensione forte dell’attenzione affila il senso dell’udito nella solitudine della notte: quando l’occhio è inerme e impotente sembra che l’udito si sforzi anche a vedere.
Ma non è un’allucinazione.
Sulla via che mena dalla strada a quella direzione si sente avvicinare uno scalpitio di cavalli. Zibal si alza e vuole avvicinarsi al portone. Il portone è ben chiuso per mezzo di una trave trasversale le cui estremità sono infitte in buchi del muro. Al primo passo la sabbia pestata dalla sua pantofola fa uno scricchiolio troppo indiscreto. Zibal si toglie le scarpe e resta in calzini. Così, senza alcun rumore percettibile per un orecchio non prevenuto egli arriva al portone, appunto nel momento in cui i cavalieri passano di là. Essi parlano con voce sommessa, ma non tanto che Leiba non possa afferrare il senso di queste poche parole:
«Si è alzato presto...»
«Ma se è andato via?»
«Sarà per un’altra volta... ma io avrei voluto...» Non si può comprendere più nulla; quegli uomini si sono allontanati.
Di chi si trattava? Chi sarà coricato o andato via? Che cosa sarà per un’altra volta? Chi è quello che avrebbe voluto un’altra cosa? E che cosa avrebbe voluto quello? E che cosa cercavano su quella via cieca nella quale si entrava solamente per fermarsi al negozio?
Una stanchezza opprimente avvolse il cervello di Zibal...
«Sarà Giorgio?»
Leiba sentì che la sua forza si esauriva e sedette di nuovo sulla soglia. Tra i frammenti dei pensieri che si aggiravano nella sua testa egli non potè afferrare un pensiero intero, una decisione...; sbalordito, entrò nella bottega, prese un fiammifero e accese una piccola lampada a petrolio.
Un barlume di luce; il lucignolo è così basso che la fiamma resta nascosta nell’interno della capsula di stagno; solamente attraverso la piccola grata della lampada si proietta intorno qualche strisciola sottilissima d’una luce quasi spenta. Ma ciò gli basta per vedere bene nei cantucci conosciuti della bottega. È minore la differenza tra il sole e la menoma favilla che tra questa luce e l’oscurità cieca.
La pendola oscillava sulla parete. Quel rumore monotono snervò Zibal. Il nostro uomo prese il pendolo e lo fermò.
Aveva la bocca arida. Aveva sete. Lavò un bicchierino nella catinella che stava vicino al banco e volle versare da un fiasco della buona acquavite; ma il collo del fiasco cominciò a tintinnare forte sull’orlo del bicchiere... questi suoni erano molto più snervanti. La seconda prova, malgrado il suo sforzo di vincere la debolezza, non ebbe miglior successo.
Allora rinunciò al bicchiere, lasciandolo cadere lentamente nell’acqua; inghiottì qualche sorso dal fiasco. Poi rimise al suo posto il fiasco, il quale toccando la tavola produsse un rumore spaventevole. Si fermò un momento, soffocato da questa impressione. Poi prese la lampada e la mise sul davanzale della finestra che dava nell’androne; sulla porta, sul pavimento e sul muro che stava di rimpetto si segnarono alcune striscie larghe di una luce poco più intensa di un fantasma.
Zibal sedette di nuovo sulla soglia porgendo l’orecchio in agguato. Le campane sulla collina annunziavano la resurrezione... Vuol dire che è mezzanotte passata; il mattino è vicino... Ah! se anche il resto di questa lunga notte passasse come la prima metà!
... Uno scricchiolio di sabbia pestata sotto le scarpe! Ma egli ha solo le calze e non ha nemmeno mosso il piede... un secondo scricchiolio... molti... senza dubbio ci dev’essere qualcuno fuori, qui, vicinissimo. Leiba si alza comprimendosi il petto con la mano e tentando di vincere un nodo ribelle che gli sale alla gola...
... Ce ne sono parecchi fuori... è Giorgio! Sì, è lui, sì, è apparso sulla collina proprio nell'ora della resurrezione.
Parlano con voce sommessa.
«Ma se io ti dico che dorme... Ho visto quando ha spento il lume.»
«È meglio; mettiamo la mano sulla nidiata intera.»
«Il portone l’apro io, conosco il segreto. Tagliamo la finestrina... La trave passa di qui.»
E si sentì il palpare dell’uomo che misurava di fuori la distanza sul legno...
Un grande succhiello si sentì rodere i tessuti secchi della vecchia asse di quercia... Zibal ha bisogno di sostenersi; appoggia la mano sinistra sulla porta e con la palma destra si copre gli occhi.
Allora, per un capriccio inesplicabile del suo spirito si produsse nell’orecchio dell’uomo dall’interno una voce molto forte e chiara:
«Leiba! arriva la diligenza!»
Era certamente la voce di Sura. Un caldo raggio di speranza, un momento di felicità,... è di nuovo un sogno.
Ma Leiba ritira subito la mano sinistra: la punta dello strumento, passando da questa parte l’ha punto, nella palma.
Pensare ancora alla salvezza? È assurdo!...
Nel cervello che bruciava, l'imagine del succhiello prendeva dimensioni straordinarie. L’utensile, girando continuamente, cresceva infinitamente e il buco diventava sempre più grande, così grande che nel suo contorno rotondo il mostro poteva apparire in piedi senza piegarsi. Ciò che passava per quel cervello usciva fuori della sfera del pensiero umano; la vita si era spinta ad un tale grado di esaltazione che tutto si vedeva, tutto si sentiva, tutto si tastava, in proporzioni enormi, caotiche.
... Fuori, il lavoro continua con metodo e insistenza. Leiba ha visto già quattro volte il dente torto di acciaio penetrare e ritirarsi fuori.
«Ora porta la sega...» dice Giorgio.
Una lama stretta di sega passa attraverso il primo buco e comincia a rodere con mosse celeri e regolari. Era facile comprendere l’intenzione: quattro buchi nei quattro angoli di un quadrato; tra questi la sega tira le linee; nel centro del quadrato sta già infitto il succhiello. Quando il pezzo è completamente segato lo si tira fuori; e per il vuoto rimasto una mano forte s’introduce, afferra la trave, la toglie via e... i goi sono nella casa di Leiba.
Lo stesso succhiello fra qualche momento sarà lo strumento della tortura di Zibal e di tutti i suoi...
Due carnefici tengono la vittima per terra, le membra distese, e Giorgio ponendole il calcagno sul ventre infiggerà lentamente il succhiello, come nel legno morto, nell’osso vivo del petto, profondo, più profondo, per toccare il cuore, per arrestarne i battiti forti, per inchiodarlo.
Un sudore freddo bagnò tutto il corpo di Zibal: egli sentì i suoi ginocchi cedere e lentamente si lasciò cader a terra, come una bestia che tende il collo per ricevere l’ultimo colpo. «Sì, per inchiodarla!... pensò egli smarrito... sì, sì per inchiodarla!»
E rimase per molto tempo, cogli occhi sbarrati sulla luce della finestra... Qualche momento egli stette così sbalordito, inconscio della realtà, ma ad un tratto:
«Sì, ripetè egli sorridendo con una smorfia spaventevole; sì, per inchiodarla!»
Allora si produsse in quell'essere un fenomeno strano; un completo rivolgimento; il tremolio cessò, l'abbattimento sparì, e il suo viso scomposto da una crisi così lunga assunse una bizzarra serenità. Balzò in piedi, con la sicurezza di un uomo forte e sano, che va verso una meta facile a raggiungere.
Una linea, tra i due punti superiori del quadrato, era quasi finita. Leiba si avvicinò curiosamente per vedere il gioco dell’utensile. Il suo sorriso si definì con più asprezza. Fece un movimento di testa come per dire:
«Ho tempo ancora»
La sega recise le ultime fibre vicine al buco e continuò il lavoro tra i buchi inferiori.
«Ce ne sono altre tre» pensò Leiba, e con la precauzione del più esperto cacciatore si introdusse nella bottega. Cercò sotto il banco, prese qualche cosa, uscì di nuovo cautamente nascondendo l'oggetto che teneva nella mano, come se avesse paura dell’indiscrezione dei muri, e andò sulla punta dei piedi fino al portone.
Ma c’è qualche cosa di tremendo: il lavoro di fuori è cessato completamente... non si sente più nulla «che cosa è accaduto? sarà andato via?» balenò nella mente dell’uomo che stava dentro. E a questo pensiero, egli si morse il labbro inferiore, preso da una tremenda desolazione.
No! fu una brutta illusione: il lavoro cominciò di nuovo ed egli si mise a seguirlo ansiosamente con i battiti del cuore. Deciso, Zibal era travagliato da un desiderio incomprensibile di vedere il lavoro più presto finito.
«Sbrigati! pensò Leiba impazientemente... sbrigati!»
Sulla montagna, le campane si facevano di nuovo sentire.
«Più presto, il giorno si avvicina!» disse una voce di fuori, spinta quasi dalla volontà dell’uomo che stava dentro.
Il lavoratore ricominciò più attivamente. Ancora poche mosse e tutti i punti del quadrato saranno uniti.
Finalmente!
Il succhiello tira lentamente il pezzo quadrangolare... una mano grande e muscolosa entra... ma prima che abbia toccato la trave che cerca, si sentono due ruggiti, mentre Zibal gira fortemente l’estremità libera del laccio sul puntello fisso del portone.
Il laccio era ingegnosamente combinato: una corda lunga di cui un’estremità legata ad un puntello; a una distanza misurata, sul posto dove il quadrato stava per sparire, c’era un nodo scorsoio che Leiba teneva aperto con la mano sinistra, mentre con la destra stringeva l’altra estremità. Al momento opportuno Zibal tirò il nodo scorsoio e afferrando rapidamente con ambedue le mani l’estremità libera, con uno sforzo supremo tirò dentro il braccio intero... In un attimo l’operazione fu fatta. Due ruggiti l’accompagnavano; l’uno di disperazione, l’altro di trionfo: la mano era «inchiodata».
Poi si sentirono passi allontanarsi in fretta. I compagni di Giorgio abbandonavano a Zibal la preda presa con tanta scaltrezza.
L’ebreo corse nella bottega, prese la lampada e con un giro sicuro innalzò al massimo lo stoppino: la fiamma prigioniera nella grata uscì di sopra allegra e vittoriosa, ridando vita precisa alle forme nebulose che stavano intorno. Zibal passò con la lampada in mano nell’androne. Il brigante gemeva dolorosamente; dalla tensione del braccio si vedeva ch’egli aveva rinunziato ad un inutile sforzo. La mano era gonfia, e le dita curvate... come per afferrare qualche cosa.
L’ebreo avvicinò ad esso la lampada — un brivido — la febbre ritornava. Aveva portato il lume troppo vicino, dimodoché tremando aveva toccato col vetro caldo la mano del brigante: si produsse una increspatura violenta delle dita seguita da un gemito sordo.
Alla vista di questo fenomeno, Zibal si riscosse... ; attraverso i suoi occhi balenò un’ispirazione strana. Si mise a ridere di un riso che fece tremare la volta dell’androne, e poi entrò subito nella bottega.
Spuntava l’alba.
Sura si destò in sussulto... le sembrava d’avere inteso nel sonno dei ruggiti spaventevoli... Leiba non era nella stanza... le tornò in mente il giorno passato. Accadeva qualche cosa di brutto. Balzò dal letto e accese il lume. Il letto di Leiba non era toccato. Egli non si era coricato affatto. Dov’era? La donna guardò per la finestra: sulla montagna che stava di rimpetto, uno stuolo di lumi piccoli e vivi si muoveva, saltava, ora sparendo, ora riapparendo di nuovo...
La gente usciva dalla chiesa. Sura aprì un po’ la finestra; allora udì dei gemiti soffocati nella direzione del portone. Spaventata, discese subito la scaletta. L’androne era illuminato. Arrivata alla soglia la donna fu colpita da uno spettacolo raccapricciante.
Zibal stava su di una sedia di legno, coi gomiti sui ginocchi e col mento appoggiato sulle mani; come uno scienziato che nella miscela di qualche elemento cerchi di sorprendere un segreto sottile della natura, che da molto tempo gli sfugge, Zibal tiene gli occhi fissi su una cosa pendente, nera e informe, sotto la quale su di un’altra sedia, ad una certa altezza, brucia una torcia.
Zibal guarda, senza batter ciglio, il processo di scomposizione della mano che non gli avrebbe, certamente, risparmiato la vita. Egli non aveva sentito gli urli del disgraziato di fuori, essendo tutto preso da ciò che vedeva. Zibal aveva seguito con voluttà tutte le contrazioni, tutte le increspature strane delle dita, poi l’intirizzimento che s’impadroniva di loro, lentamente, uno ad uno... sembravano essere le membra di un insetto, che si contraggano e si stendano, si agitino in movimenti stravaganti, forti, più lenti, lenti e poi si paralizzino, per il gioco di un bambino crudele.
Era sfinito, la mano si coceva e si gonfiava piano piano, senza alcun moto.
Sura mandò un grido.
«Leiba!»
Zibal le fece segno di non disturbarlo. Un odore grasso di carne bruciata si spandeva nell’androne; si sentì uno scricchiolio e dei piccoli scoppiettii.
«Leiba! che cosa è?» ripetè la donna.
Albeggiava. — Il portone si aprì sbattendo contro il muro e trascinando il corpo di Giorgio appeso al braccio destro. La folla di contadini, tutti coi ceri di Pasqua accesi, si precipitò dentro.
«Che cosa è? Che cosa?».
Subito capirono ciò che era accaduto. Zibal, che fino a questo momento stava immobile, si alzò gravemente in piedi. — Egli si fece strada per passare, spingendo da parte tranquillamente la gente.
«Com’è avvenuto, ebreo?» gli domandò uno.
— Leiba Zibal, disse l’oste con alta voce e con un gesto largo, va a Iassi per dire al rabbino che Leiba Zibal non è ebreo... Leiba Zibal è goi, perchè Leiba Zibal ha acceso un cero per Gesù!»
E l’uomo partì lentamente verso l’Oriente nella direzione della montagna, come un saggio viandante che sa che per un lungo cammino non si parte con il passo frettoloso.