Memorie inutili/Appendice/III
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III
Lettera confutatoria da me scritta l’anno 1780
e indirizzata a Pietro Antonio Gratarol a Stockholm.
Venezia, 25 ottobre 1780.
- Signor Pietro Antonio commiserabile,
Leggendo la vostra Narrazione apologetica, non mi sono giá maravigliato né incollerito, ma estremamente seccato.
S’io m’accingessi a voler persuadere i viventi che non siete un uomo d’onore, di talento e di attivitá, farei piú torto a me stesso che a voi; ma se pretendessi di provare che non avete una gran dose di perversitá e un’altra gran dose di ostinata follia non sanabile, sarei ben imbrogliato a piantare i miei argomenti in vostra difesa.
Voi vi siete immaginato ch’io scriverò qualche cosa sulle detrazioni e sulla pittura piú che maligna che avete fatta del mio carattere nella vostra Narrazione, e in certo modo m’avete sfidato a scrivere; ed io non voglio far comparire fallace la vostra immaginazione né comparire io un codardo a non aderire alla vostra disfida.
Ho scritte le Memorie della mia vita, nelle quali leggerete per incidenza quanto è avvenuto tra voi e me per la mia commedia intitolata: Le droghe d’amore. Troverete in quelle Memorie la veritá che dovete sapere, ma che fingete di non sapere o non volete sapere, per poter piantare riguardo a me un edifizio e un rovescio di rabbiose puzzolenti menzogne, con la snaturata lusinga, non degna della vostra vantata probitá, d’uccidermi alla vita civile, se vi fosse riuscito.
Voi ed io siamo due storici che protestano di scrivere delle veritá. O le vostre o le mie sono favole.
Le mie uscirono da una penna pacifica, da un animo che saprá sempre commiserarvi e non potrá odiarvi giammai, ed hanno una lunga fila di testimoni onorati. Le vostre uscirono da una penna iraconda, da un animo sitibondo di vendicarsi d’una offesa immaginaria ch’io non v’ho mai fatta, e per tutta testimonianza non hanno che la base d’un’attrice teatrale con me stizzita, che seppe infinocchiarvi, accendere e ferire in sul vivo il vostro cervelletto leggero e superbo per auzzarvi contro me.
Per dirvi qualche cosa sul piano della vostra Narrazione apologetica, trovo in essa che avete delle ragioni e che vi furono usate delle soverchierie con ingiustizia da’ vostri oppressori nimici; ma trovo altresí che un uomo ben nato come voi siete, benché accecato dall’ira non dovesse immollare la sua penna nel fango giammai per ingiuriarli con delle trivialitá basse e plebee.
Con mio dispiacere trapela dalla vostra prolissia e noiosa Narrazione, nel mezzo ad uno sfogo arrabbiato interminabile, una presunzione di voi medesimo e una superbia che non v’adorna, e a tutti i vostri propositi sembra che intuoniate quel verso:
Chiunque non è meco è mio nimico.
Possibile che non vi siate degnato giammai d’esaminare qualche momento se in voi medesimo vi fosse alcun difettuzzo che potesse guadagnarvi de’ nimici e cagionarvi delle sciagure? Possibile che non vediate in voi che meriti, che angelici attributi, che perfezioni; e fuori di voi, che invidiosi della vostra divinitá, che sopraffattori, che ignoranti, che pusillanimi, che malvagi, che ipocriti, che persecutori, che traditori nelle avversitá, in vero troppo aspre, che sofferiste prima della vostra emigrazione, consigliata soltanto dall’odio, dall’ira, dall’orgoglio, dalla certezza immaginaria d’immensi premii al vostro gran merito sull’estensione del mappamondo e dalla brama ardentissima di vendetta?
Io leggo nella pagina 3 della vostra Narrazione stampata in Stockholm che voi avete «incontrato un matrimonio di volontá». Sembra che non vi paia d’aver fatto bene; ma non confessate nemmeno d’aver errato in un’azione immediata della «vostra volontá», e narrate d’aver incontrato quel matrimonio per esser stato «aizzato da incompetenti violenze che vi furono opposte per distorvene».
La colpa fu dunque non vostra nemmeno in quel matrimonio di «vostra volontá», ma secondo voi fu della prudenza, che voi chiamate «incompetente violenza» de’ vostri, piú saggi di voi, amici o parenti.
Tuttavia la femmina che avete sposata era assai bella non solo, ma, per la vostra confessione che si legge nella pagina 130 de’ vostri libelli stampati in Stockholm, ella era padrona d’una dote di ventinovemila ducati, opportunissimi alle vostre boriose splendidezze.
Mi direte, caro Pietro Antonio, se questa bella donna, qualunque ella si fosse ma che v’ha recati ventinovemila ducati in dote, meritasse d’essere piantata da una vostra separazione con quel «assegno decoroso» che dite e che voglio credere mantenuto, per porvi in una totale libertá di viaggiare nelle effemminate eterne galanterie e per non soffrire i giusti lamenti di quella infelice. Mi direte pure s’ella meritasse che ne’ vostri passaggi di bella in bella e nelle vostre dissipazioni e prodigalitá non vi degnaste piú nemmeno di nominarla per vostra moglie, ma soltanto per «madama Santina», come faceste. Mi direte ancora se la sfortunata da voi detta «madama Santina» e non piú vostra moglie, che vi aveva recati ventinovemila bei ducati e che vi amava, meritasse di rimanere esposta colla vostra disperata fuga a que’ disordini, a quelle rapine, a quelle ingiustizie d’un fisco, che la vostra mente profonda, il vostro grand’intelletto indovinatore, conoscitore della cattiveria de’ tribunali, de’ ministri, degli avvocati, degl’intervenienti doveva prevedere.
Ci vuol altro che le vostre rettoriche tenere commiserazioni in parole stampate in Stockholm: il dipingerla vestita a nero supplichevole per voi, immersa nelle lagrime, spogliata di tutto; e quindi le vostre invettive, le vostre detrazioni contro a’ giudici, contro a’ ministri, contro a’ forensi, sopra la miseria di quella meschina; miseria di cui dovreste conoscere in voi la vera principale sorgente.
Leggo nella pagina 127 delle vostre amenitá stampate in Stockholm: «Non ero per anco assai lontano da Venezia che un certo interveniente nominato Giovanni Cavalli, gran faccendiere nel fòro e onesto quanto lo Stainer — il qual Stainer forense è da voi qualificato «briccone da galera» alla pagina 56 del vostro libro prato fiorito, — riuscí nel suo progetto di far risolvere mia moglie a praticare un formal pagamento di dote. Sono certo che se la seduzione non le avesse impedito di conoscere la inconvenienza d’un tal procedere, non avrebb’ella seguito un sí mal consiglio», ecc. — E piú basso nella pagina stessa: «Bravo interveniente, ma piú bravo ancora quando, spillati alla buona cliente alcuni centinaia di scudi al solito, pose l’affare in rémora, finché a levarlo d’impaccio venne il tremuoto della confiscazione, ecc. Povera donna! mi fai pietá!», ecc.
Si sa che a marito vivo una moglie non può fare pagamento di dote e può soltanto fare un’assicurazione di dote, ma colle prove legali e autentiche dello sposo rovinato e fallito.
Voi avete forse ragione nel dire che la moglie «sia stata sedotta a non conoscere la inconvenienza d’un tal procedere», perocché un tal procedere certamente portava seco le prove evidenti che voi eravate sbilanziato da’ vostri fasti, dalle vostre voluttá, da’ vostri viaggi, dalle vostre effeminatezze, dalle vostre galanterie, e finalmente ch’eravate desolato e fallito.
A me sembra che doveste piú ringraziare l’interveniente Cavalli che lacerare la di lui riputazione, d’aver lasciato in «rémora» un tal affare da voi giudicato «inconveniente», perché in vero era di tanto vostro rossore; e tuttavia vilipendete il Cavalli per non averlo eseguito prima che «venisse il tremuoto della confiscazione».
Secondo voi il Cavalli ha il delitto d’aver sedotta la vostra moglie ad una «inconvenienza di procedere», e secondo voi il Cavalli ha il delitto di non aver corroborata la «inconvenienza di procedere» colle prove del vostro fallimento.
A voi basta di rinvenire argomenti di sfogare la vostra diletta canina maldicenza, d’inveire contro le ingiustizie e le rapacitá consuete de’ ministri d’un fisco, e di esclamare poscia da Stockholm verso la infelice non piú madama Santina ma vostra moglie, da voi abbandonata in Venezia nelle angoscie: «Povera donna! mi fai pietá!», senza mai confessare che voi foste la legittima cagione di tutti i disordini e di tutti i mali.
Non incollerite, caro Pietro Antonio, s’io fo qualche riflesso cordiale sopra a due squarci della vostra Narrazione apologetica, l’uno posto alla pagina 11, l’altro posto alla pagina 118 del vostro libro stampato in Stockholm, da’ quali due squarci parmi che traluchi anche l’origine d’una gran parte delle vostre disgrazie.
Ecco il primo vostro squarcio: «Mi fo anzi gloria d’avere costantemente sorpassati i precetti d’una falsa morale, che m’avrebbe voluto alieno da’ permessi piaceri, dimesso ne’ vestiti, milenso ne’ circoli e insomma tutto ricoperto da capo a piedi di quella sudicia impostura che piú d’ogn’altro paese della terra ha fortuna in Venezia e ch’io abborrisco e abborrirò in eterno. Sí, pubblicamente amai anzi moltissimo e spettacoli e giuochi e conviti e mode e bel sesso; ma l’amor de’ piaceri non mi fe’ mai scordare la professione d’onest’uomo né mai mi distrasse da qualunque dover del mio uffizio».
Ecco il secondo vostro squarcio: «Non mi riputerò nemmeno degno di biasimo se dopo d’aver sempre contribuito in piú che convenienti misure allo stato comodo e decoroso d’una moglie, non restandomi alcun altro immaginabile dovere di famiglia, pensai piuttosto a donare e a spendere il mio in allegro vivere, di quello che a pesare sulla stadera degli avari il prezzo de’ miei permessi piaceri».
Voglio credere che sin a tanto che avete potuto, abbiate «contribuito con piú che convenienti misure allo stato comodo e decoroso della vostra moglie». Un onest’uomo come voi siete doveva ciò fare. Doveva ciò fare un marito che aveva avuti da quella moglie ventinovemila ducati di dote; e doveva ciò fare un marito che sentendo evaporato e consunto l’affetto matrimoniale o il capriccio sensuale, voleva scorrere liberamente di voluttá in voluttá, di lascivie e dissipazioni, e non sofferire le moleste querimonie e le gelosie d’una moglie divenuta per voi semplicemente una «madama Santina». Voglio altresí credere che il pelago de’ vostri permessi piaceri non v’abbiano distratto dai doveri del vostro uffizio, quantunque si legga nella vostra Narrazione che aveste de’ caldi rimproveri su questo punto, quando perduto ne’ vostri deliziosi viaggi per Roma, per Napoli, per la Toscana, per la Germania, viaggi utilissimi alle vostre finanze e alla dote di madama Santina, vi fecero tardare nell’essere al «vostro uffizio».
Ma non importa. I viaggi erano necessari a’ vostri «piaceri permessi che voi non pesate sulla stadera degli avari», e poi i tempi, e gli accidenti, e gli uomini indiscreti, e gli uomini ingiusti, e gli uomini invidiosi... Breve, secondo voi il torto è sempre di tutto e di tutti, e la ragione è sempre dal canto vostro.
Chi mai vi disse che la morale piú fortunata in Venezia è una «falsa morale e una sudicia impostura», e che questa morale vi volesse «alieno da’ piaceri, dimesso ne’ vestiti, milenso ne’ circoli»? Tutta l’uva che non esce dalla vostra vigna è cimiciatola.
Quegl’innumerabili saggi dell’ordine vostro, che da tanti secoli passarono dalle magistrature alle secretarie del collegio e del senato, alle residenze, a’ spinosi uffizi de’ tribunali Eccelso e Supremo, e quindi all’alto grado di gran cancellieri di questa repubblica, ebbero dunque per guida «una falsa morale», «una sudicia impostura», «un’alienazione da’ permessi piaceri», «una dimissione ne’ vestiti», «la stadera degli avari», «la scimunitaggine ne’ circoli»?
Povero libero muratore sofista dicervellato! vi compiango. Sono certo che l’amico mio dottissimo e prudentissimo, Natale dalle Laste, che voi vantate d’aver avuto precettore, v’ha insegnato a pensare diversamente, con inutilitá per vostra sciagura.
Assegnato «in piú che convenienti misure un stato comodo e decoroso alla moglie, non restandovi alcun altro immaginabile dovere di famiglia — dite voi, — voleste godere pubblicamente spettacoli, giuochi, conviti, mode, bel sesso, donare, spendere il vostro in allegro vivere, senza pesare sulla stadera degli avari il prezzo de’ vostri permessi piaceri».
Sapete voi quali sieno i permessi piaceri che la morale di Venezia non censura? Sono i piaceri morigerati e misurati colle proprie rendite, che sono infiniti. Sapete voi quali doveri di famiglia vi restavano? La vostra misera consorte abbandonata alle rapine ed al pianto; voi medesimo; il vostro solido decoro, mondo da uno smoderato lussureggiare e da un effemminato bamboleggiare; i vostri congiunti, i vostri amici, la vostra patria.
Fate un poco l’aritmetico, caro amico affascinato e signoreggiato dalle passioni, e sommate quanti nimici vi può aver guadagnati la vostra libertá di pensare e d’operare a seconda de’ vostri farfalleschi capricci. Tutti gl’innumerabili ingegnetti leggeri, guasti il cervello dalla corruttela del costume, che videro voi galeggiare e risplendere oltremodo nel lusso e non si trovarono in gamba da potervi star dietro, che voi chiamate «invidiosetti della vostra gloria», furono nell’interno tanti vostri nimici. Tutti gli amici e tutte le amiche, commiseratori e commiseratrici delle afflizioni della vostra povera moglie trasandata e da voi disgiunta, furono tanti vostri nimici. Amando voi «moltissimo il bel sesso» come confessate, e amandolo con incostanza come è noto, passando voi di bellezza in bellezza coll’abilitá delle vostre espugnazioni, tutti i mariti, tutti gli amanti delusi, tutte le sedotte e da voi piantate pro tempore, furono vostri nimici. Tutti quelli del rispettabile ordine vostro, che dall’ambizione del sublime vostro intelletto furono guardati come maligni e «mediocri talentuzzi» e che sono posti alla rinfusa in un fascio con del disprezzo nella vostra Narrazione, furono tanti vostri nimici. Tutta la schiera degli assennati, che videro in voi un secretario del grave senato con de’ visini vezzosi del bel sesso, con frequenza cambiati, al fianco, e con tutta l’attillatura, tutti i colori, tutti i grilli, tutte le frascherie della leggerezza della moda intorno, vi fu avversa coll’opinione.
Vorreste voi farmi credere che avete tenuti sempre gelosamente chiusi nel gozzo in Venezia e sino che arrivaste a sfogarvi a Stockholm a farli stampare, tutti i vostri disprezzi, tutte le vostre detrazioni, tutti i vostri libelli, tutte le vostre ingiuriose pitture che si leggono nella vostra Narrazione contro que’ Grandi nelle cui mani stava la sorte vostra e la vostra brama d’uffizi luminosi? La vostra ambizione, il vostro orgoglio, il vostro amor proprio e il vostro irascibile non sono capaci di questo sforzo. Vi fuggirono dalla vostra imprudente gola in Venezia. I referendari non mancano. Volarono agli orecchi degli enti dominatori. Tremo per voi. Sommate il numero de’ vostri nimici.
Siate però certo ch’io condannerò sempre alcuni de’ possenti nimici vostri, i quali non paghi di perseguitarvi nelle vostre oneste dimande, lasciarono trascorrere il cruccio e lo sdegno loro contro voi sino alla indecentissima crudeltá di esporvi e di volervi esposto per nove o dieci sere ad un abbominevole martirio delle pubbliche risa sopra una scena, per mortificarvi, per punirvi o per vendicarsi. Troppo inumana e vile mortificazione, e troppo barbara vendetta col piú spregevole uomo del volgo, non che con un uomo civile e secretario d’un augusto senato.
Facendo il tedioso viaggio della lettura della vostra Narrazione, devo confessare che tra un vortice di sottigliezze, di sofismi, di stiracchiature, di menzogne, di millanterie, d’una diarea abbondantissima di verbositá, risplende l’arte d’una ingegnosa e talora anche graziosa maldicenza.
Quanto allo stile e alla locuzione, esclusa la prolissitá del vostro fiume sempre gonfio di chiacchiere, trovo alcuni spruzzi di sana e colta eleganza, che ricorda non aver voi perduta affatto la memoria degl’insegnamenti dell’eccellente scrittore Dalle Laste, vostro maestro; ma trovo anche una assai maggior quantitá di periodi alchimiati, ampollosi, achilliniani e poco dilucidatori del profluvio delle vostre idee superflue, d’un raggiro sforzato di paroioni, d’una altitonante enfatica insoffribile dicitura e lardellati di frasi non nostre e di francesismi.
Consolatevi tuttavia. Il nostro mondo è divenuto entusiasta e fanatico. Bramoso di novitá ha perdute tutte le tracce della vera nostra eloquenza; e di mille lettori del vostro libro, trenta loderanno i pochi spruzzi vostri d’eloquenza colta e sana, e novecento settanta si sbalordiranno sui vostri periodi snaturati, vorticosi e bestiali, indannaiati di frasi non nostre e di francesismi. Entreranno in un’estasi leggendoli e grideranno: — O che energia! o che perle! o che ingegno sopranaturale! o che beatitudine! o che penna d’oro!
La miglior cosa ch’io legga nel vostro libro è la separazione che fate della pianta mirabile del governo armonizzato della nostra antica repubblica da certo numero d’alcuni individui, che oggidí presiedono a cotesto governo, guasti dalla corruttela del costume morale. Mi dispenserete dal dimostrarvi con chiarezza l’origine vera di cotesta corruttela, dalla quale in parte non andate esente nemmeno voi.
Vi prego a non farmi il torto di considerare ch’io voglia scrivere una confutazione sull’intera gran massa del vostro collerico indecente volume. Leggo in esso delle veritá, de’ torti, de’ soprusi, delle ingiustizie e delle violenze che vi furono fatte, le quali in vero dovevano nausearvi e irritarti, come nausearono e irritarono anche me che sono flemmatico e non soggetto alle vostre furie.
Sarei quell’uomo cattivo che non sono e che voi volete ch’io sia, se mi recassi a confutare e a dare con uno sforzo di sofismi l’aspetto di torto alle vostre ragioni legittime.
Se mi sono fuggiti alquanti riflessi che a me sembrano ben fondati sulla vostra direzione, sul vostro carattere, sulla vostra economia, sulla falsitá del vostro pensare, vi chiedo pubblicamente perdono. Non è mio costume l’impacciarmi nelle volontá e ne’ fatti altrui, ed è perciò e perché nel mio scrivere ho molto piú di creanza che non avete voi nello scriver vostro, ch’io vi chiedo con tutto lo spirito scusa di quanto v’ho scritto sin ora.
Quanto poi a ciò che scriveste e faceste stampare senza ribrezzo contro di me, volendo voi a forza, per una ragazzesca credulitá che avete prestata ad una giovine attrice teatrale da voi vagheggiata e con me stizzita per quelle ragioni che leggerete nelle Memorie della mia vita, ch’io abbia voluto esporvi alle risa del pubblico nella commedia intitolata: Le droghe d’amore, per una mia puerile vendetta d’amoroso martello; e volendo voi a forza per una vostra vendetta d’una offesa da voi infantata, riguardo a me, tentare di farmi credere nella mia patria non solo, ma in tutte le nazioni, un falso filosofo, un ipocrita, un malvagio insidiatore, un mentitore, un mancatore, un uomo detestabile, per uccidermi alla vita civile, se fosse riuscito alla vostra perversitá; non vi chiedo giá perdono di quelle confutazioni ch’io fo sopra a quanto vi siete indegnamente svelenato a scrivere di me nella vostra Narrazione che voi chiamate «apologetica», e per quelle prove evidenti che vi dirigo, che quanto il vostro libro contiene di a me diretto non è che calunnia, invenzione, menzogna, falsa immaginazione, ridicola supposizione, maligna ignoranza, cattivitá e canino turpissimo desiderio di screditare un uomo d’onore. Vaglia la veritá d’un uomo onesto, posta al confronto della bugia d’un insidiatore impazzito e disperato. Sputo ed incomincio.
Prima d’ogni cosa rinunzio solennemente a tutti gli elogi che fate nella vostra Narrazione agli scritti miei e al contenuto di quelli, sapendo di non meritarli, ma particolarmente perché con quegli elogi cercate di comparire uomo giusto e veritiero, per aprirvi la via ad apparecchiarvi de’ credenti alle ingiuriose detestabili menzogne che narrate di me e per convalidare i vostri esosi libelli d’infamia denigratori della mia fama onorata.
Siccome nel scrivere la commedia intitolata: Le droghe d’amore, il che feci nel dicembre dell’anno 1775 sino a passata la metá dell’ultimo atto, posso giurare sull’Evangelo che non conosceva voi che di nome; cosí voi potete giurare senza rimorso sull’Evangelo che né in quel tempo né dopo né sino all’anno 1779, epoca della vostra pisciatura ossia Narrazione apologetica da voi stampata in Stockholm, non conoscevate me punto né poco, perocché incominciate a informare il pubblico di me nella pagina 14 dell’odorosa opera vostra per questo modo: «Il signor conte Carlo Gozzi, un tempo gesuita, è un uomo sessagenario, non so ben se nativo od oriundo d’una terra del Friuli, il quale misurando le sue stringate fortune ha di che vivere con esse in Venezia», ecc.
Sorpassando l’importante civile avviso che date agli uomini delle mie «stringate fortune», delle quali credo di non essere in obbligo di vergognarmi siccome credo di non dover invidiare le vostre fortune dilapidate bamboleggiando, voi cominciate a dare al mondo una informazione di me, per ignoranza o per malizia, da tre bugioni.
Quantunque però io non sia sessagenario, non sarebbe maraviglia, se anche lo fossi, che l’amore m’avesse preso per una giovine attrice di merito, come non è maraviglia che voi, che sorpassate gli anni quaranta, vi siate innamorato alla vostra foggia di quella a segno di lasciarvi raggirare pel naso come un bufalo.
V’è per attro una gran differenza da’ vostri affetti agli affetti miei. Io non mi sono introdotto nella pratica di quella giovane che stimolato e pregato, e i frutti dell’amicizia solenne mia di piú di cinqu’anni furono il soccorrerla nella sua professione coll’opere mie teatrali, il porla in grazia del pubblico, il proccurarle gli utili onesti e possibili ne’ suoi stipendi, il difenderla da’ pericoli, il stabilirla in una riputazione onorata di morigeratezza, il farla rispettare dalla sua numerosa truppa che la malignava e in cui ella aveva degl’instancabili persecutori.
Voi vi siete introdotto da lei, come narrate nella vostra pagina 13, «nel tempo che vi trovavate sciolto da quegl’impegni di costume che in Venezia inchiodano un uomo al fianco di qualche rispettabile amica» (che forse fu il ventesimo scioglimento d’inchiodatura), e vi siete introdotto co’ forieri scatole di «diavoloni», colle splendidezze, colle adulazioni; e i frutti de’ vostri vaporosi affetti furono: il far girare il cervello a quella povera giovine, il porla in un aspetto di galante mercenaria, il far scatenare la maldicenza e le detrazioni della sua compagnia sopra di lei, il cagionare finalmente il mio per me necessario abbandono alle di lei e alle vostre frascherie piú d’un anno prima delle vostre sospettose aeree bestialitá usate sulla mia commedia: Le droghe d’amore; le quali bestialitá in danno vostro, in danno dell'amica vostra e in danno mio, potrete leggerle estesamente nelle ingenue Memorie della mia vita.
Il vostro asserire con franchezza ch’io sono «nativo o oriundo d’una terra del Friuli» non sará un bugione, che palesa che non avete nessuna notizia di me e che non mi conoscete?
Leggete dunque le sincere Memorie della mia vita per apprendere ciò che sanno tutti fuori che voi, e conoscerete che tutta la mia famiglia, per un privilegio di originaria veneta cittadinanza firmato dal doge Cigogna, sino dal tempo che fu eretto il ponte a Rialto è originaria veneta cittadina; che tutta la mia famiglia abitò nella casa avita posta nella calle detta «della Regina» nella contrada di San Cassiano, dove voi medesimo foste a tener meco il famoso colloquio che riferite nella vostra Narrazione colle vostre bugie; che tutta la mia famiglia fu battezzata in Venezia, che visse in Venezia, salvo le stagioni delle villeggiature; che tutta la mia famiglia, pagato il tributo alla natura, fu seppellita nel sepolcro, che ha l’escrizione semplice: «De Gozzi», collocato nella suddetta parocchia di San Cassiano.
Ma voi siete pure ostinato, nella vostra ignoranza bugiarda, di non volere ch’io sia veneziano e piú che non siete voi, e nella pagina 49 del vostro libro zibetto, incollerendo voi col tribunale supremo che v’ha comandato di ritrattarvi del viglietto infame di puzzolente memoria che m’avete scritto e che avete in copia pubblicato il dí diciotto del gennaio 1776-77, non vi vergognate a stampare con un stomachevole dilegio ironico borioso, che «il vostro grand’errore era stato di aver perduto il rispetto ad un nobilissimo cavaliere della terra di San Vito o de’ suoi contorni». — E piú sotto, sempre colla stessa petulanza ironica: «Insomma l’aver proceduto contro un soggetto degno del piú alto riguardo in mio confronto...». — Ma chi diavolo vi siete fitto nel capo d’esser voi in mio confronto, il mio caro don Chisciotte sostenitore delle petulanze, delle calunnie e delle menzogne? Sia io d’una terra del Friuli, di San Vito o de’ suoi contorni, o veneziano, sono un uomo d’onore, protetto dalla giustizia contro i vostri viglietti bestiali e infamatorii.
Passiamo al terzo bugiardo avviso da voi dato alle popolazioni nella pagina 14: «Il signor conte Carlo Gozzi un tempo gesuita», ecc. — E voi mi conoscete? chi v’ha detto ch’io fui un tempo gesuita? Se non prestate fede alle veritá delle Memorie della mia vita, esaminate tutti i ruoli della gesuitica religione, e se trovate il mio nome o ch’io abbia avuta la menoma relazione con que’ reverendi da me rispettati quondam padri, levatemi la patente ch’io possiedo di potervi dire inventore e bugiardo.
Sospetto però che questa vostra franca bugia possa essere un artifizio della vostra malignitá fertilissima.
Cacciandomi voi indosso la veste talare da gesuita, averete sperato di dar maggior forza e colorito alla vostra bugia e di facilitare la credenza ne’ vostri lettori ch’io sia quell’«ipocrita» e quei «caupone», che con tutta l’industria d’altrettante bugie avete cercato di dipingermi agli occhi de’ miei patrioti e di tutto l’universo.
Non v’è uomo sopra la terra che si copra del sozzo manto dell’ipocrita, se non ha de’ progetti e delle mire di giugnere colla maschera di quel manto alla meta di qualche suo desiderio.
Ora io non ebbi mai moglie, di conseguenza non ho figli e sono debitore al mondo soltanto delle mie azioni onorate. Io non volli giammai cercare uffizi luminosi per poter torreggiare tra gl’inchini degli adulatori. Io ricusai di voler cariche lucrose, per essere innamorato della parsimonia, per non voler soggezione, per non piegare le rene nelle riverenze e per vivere nella mia libertá. Sempre sferzando soprattutto l’ipocrisia, ho logorati innumerabili quinterni di carta scrivendo dell’ardita critica morale e ognora scherzevole sui costumi della umanitá facetissima, e agli occhi miei tanto piú faceta quant’ella piú s’erge nella gravitá. Ho donati sempre liberamente tutti i miei scritti a de’ comici, a de’ librai o a quelli che l’hanno voluti stampare lusingandosi di qualche utilitá. Ho voluto tener pratica senza riserva con tutti i ceti de’ mortali, per conoscere i cuori e le teste dell’universale, considerando tutti gli uomini mio prossimo, a dispetto della accidentale differenza di nascita. Fui tre anni nell’armata, diciott’anni tra avvocati, intervenienti, notai e ministri del fòro nel palazzo della giustizia e agli studi deliziosi de’ causidici, piú per difendere lo stato e per accrescere lo stato di tre miei fratelli che avevano molti figli, che per me che non ne aveva nessuno. Ho praticati pubblicamente e privatamente per piú di venticinqu’anni tutti i drappelli de’ comici, delle comiche, de’ canterini, delle canterine, de’ ballerini, delle ballerine.
Come mai, il mio caro Pietro Antonio, volete voi far credere che un tal uomo pretendesse di passare per un Tommaso da Kempis, come scrivete voi nella vostra velenosa favata apologetica, e che un tal uomo possa essere considerato un «caupone » e un «ipocrita», come vorreste voi e come avete scritto (stando però a Stockholm), nella mia patria?
Se per non aver seguiti i vostri sistemi di sprezzare la da voi detta «falsa morale», di «amare moltissimo pubblicamente e spettacoli e giuoco e conviti e mode e bel sesso», di «pensare a donare e a spendere il mio in allegro vivere, senza pesare sulla stadera degli avari i miei piaceri», mi si perviene il nome d’«ipocrita», di «caupone», di «impostore», servitevi (stando in Stockholm) a seconda de’ vostri sistemi.
Ho cercato di godere il mondo da filosofo osservatore spregiudicatissimo, misurando le mie «stringate fortune» co’ miei doveri e senza scandalezzarmi degli errori della fragile umanitá, irreparabili ma remissibili; non ho mai predicati i sofismi del secolo per far girare il cervello al bel sesso e alla gioventú e per levare il guinzaglio a tutte le passioni, ed ho proccurato di tener ferma tra gli uomini e tra le donne (in vero inutilmente) quella morale che voi chiamate «falsa morale», poiché la vostra morale ha giá spezzato ogn’argine e innalzato lo stendardo vittorioso colla rovina, il rovesciamento e la sconfitta di tutti gl’intelletti e, di conseguenza, di tutte le famiglie.
Scommetto che con tutta la parzialitá affettata che dimostrate per gli scritti miei, che voi o non gli avete letti o non gli avete considerati nel loro spirito vero e sempre faceto, poiché v’ingegnate a voler farmi credere nel vostro capo d’opera Narrazione un Catone austero e rigido; e scommetto che per darmi il titolo d’«ipocrita» avete appoggiato al mio esterno che sembra serio e sostenuto, lasciando da un lato il mio interno sempre risibile e che, senza ridere delle sventure che in parte ingiustamente sofferiste voi con mio rammarico, ride persino della vostra Narrazione, micidiale riguardo a me.
I filosofi profondi affermano che gli scritti sono lo specchio dell’animo dello scrittore. Caro amico, perché mai faceste stampare un libro, parto della vostra penna, ch’è lo specchio d’un animo pessimo?
Ma è tempo ornai ch’io vi discorra sopra la commedia: Le droghe d’amore, innocentissima e fatta divenir rea, per vostro e mio pregiudizio, dalla vostra cieca credulitá, da’ vostri effemminati sospetti e dalle smaniose imprudenze del vostro orgoglio.
Mi dorrá a dovervi dare parecchie mentite nel mio confutare a parecchie vostre asserzioni assolutamente bugiarde; ma dovrete confessare che le vostre asserzioni sono figlie della vostra accesa immaginazione o delle riferte a voi fatte da un’artifiziosa giovine attrice vostra amante, con me collerica per le cause che leggerete nelle mie Memorie e per accendervi contro me; e che le mie smentite, oltre all’aver io de’ testimoni non comici che possono ribadirle, saranno in gran parte legittimate dalle vostre parole medesime e dalle vostre contraddizioni.
Nella pagina 23 della vostra amena Narrazione si legge: «Di fatto rilevai che questa commedia intitolata: Le droghe d’amore è tolta dallo spagnolo, non tradotta dallo spagnolo, come l’autore vorrebbe far credere ai gufi». — Mentite. Io trassi dal fondo delle commedie spagnole molti drammi, e sempre apparecchiati e dialogati da me con una differenza totale da quelle, come composi anche Le droghe d’amore, enunziando sempre que’ drammi come «tratti» e non come «tradotti».
Leggete il mio prologhetto ch’io volli porre alle stampe e far donare al pubblico all’uscio del teatro in vostro favore, ch’io lessi anche a voi alla presenza del Maffei, che doveva essere dispensato, non recitato da’ comici come narrate voi, e che fu da voi con pochissima civiltá rifiutato. Leggete il mio memoriale contro il vostro viglietto turpe e proditorio; memoriale che fu presentato al supremo tribunale, a cui non si cerca di far credere delle bugie, come faceste voi da calunniatore nel memoriale di querela indegna che aveste la nobiltá di presentare voi contro me. Troverete l’uno e l’altro stampato nelle mie Memorie, e rileverete ch’io nominai sempre la mia commedia, in faccia al pubblico e all’aspetto di que’ tremendi giudici, come «tratta» e non come «tradotta» dallo spagnolo.
Siete dunque voi che vuol far credere a de’ gufi ch’io volessi far credere questa baia, e non io che volesse far credere ciò che non era.
Nella pagina stessa 23 voi scriveste che la mia commedia «era quella di cui sin dall’anno precedente il signor conte aveva composti i due primi atti e gli aveva anche letti al circolo degli attori». — Scusatemi s’io dico: — Mentite. — Dovevate dire ch’io aveva composti due atti e la maggior parte del terzo, che è l’ultimo, sin dal dicembre 1775, tempo in cui io non sapeva la pratica domestica che avevate incontrata con la attrice co’ vostri forieri «diavoloni», e ch’io vi conosceva appena di nome. Dovevate dire ch’io la lessi sin da quel tempo agli amici e a’ parenti che mi tenevano compagnia in una mia lunga convalescenza e all’attrice medesima ch’era della brigata, la quale piú degli altri l’ha applaudita e piú d’ogn’altro m’ha stimolato a terminarla, perorando contro la mia disuasione.
Nel «circolo» di alcuni «attori» io la lessi, soltanto sino al segno che la aveva composta, nella quaresima del 1776; nel qual circolo la vostra attrice, da me liberamente lasciata a’ vostri ed a’ suoi «permessi piaceri» e da cui io m’era interamente allontanato sin dal trascorso carnovale, non v’era. La lessi terminata a tutta la compagnia, in cui v’era anche la attrice, nel novembre 1776, per assedio de’ comici donata e giá esaminata e licenziata per il teatro dal magistrato sopra la bestemmia.
Nella stessa pagina 23 voi aveste il coraggio di scrivere: «Intesi che unitamente al terzo atto, ch’era tutto nuovo, aveva lavorate in questo frattempo moltissime variazioni ed aggiunte negli altri due». — Come si può non smentirvi? Da chi intendeste questa falsitá? Da un’attrice vostra amante che, inviperita contro me per il mio giusto abbandono da un anno, cercava di auzzarvimi contro per fare una sua vendetta, e cercava per tal modo di colorire e avvalorare un’accusa menzognera, perocch’ella aveva udita la mia commedia piú d’un anno prima, a tempo innocente, sino al segno ch’io riferisco. Il mio originale, che è lo stesso ch’io lessi a lei e agli amici, lo stesso che ha di mio pugno sin dal novembre 1776 la divisione e assegnazione delle parti agli attori e alle attrici — due delle quali parti furono poi cambiate dalla malizia insidiosa, con un arbitrio inconveniente non so di chi, nel dicembre di quell’anno medesimo, — sta chiuso ora nel mio scrittoio e vi stará sino a tanto che voi scriviate da Stockholm a’ vostri «amici meridionali», onde possano esaminarlo con una accuratezza cancelleresca se vi sieno le «variazioni e le aggiunte ne’ due primi atti», che la vostra debolezza, prestando fede alla voce d’un’attrice, ha raccolto ed ha scritto senza timore d’una mentita.
Sono certo che i vostri «amici meridionali», a’ quali siete in dovere di credere piú che ad una attrice scenica, non troveranno sillaba di «variazione» né d’«aggiunta», e colla testimonianza de’ vostri «amici meridionali» potrò piú autenticamente smentirvi.
Quanto alla lettura della commedia da me fatta a tutta la compagnia nel novembre 1776, chi mai fu quella lingua che v’ha infinocchiato a segno di farvi scrivere nella stessa pagina 23 della vostra venerabile Narrazione: «Seppi che il medesimo autore nel leggerla aveva data una certa forza ad alcuni passi, la quale piú dello scrittore spiegava la intenzione di chi scrisse, e che egli stesso verso la prediletta attrice sua comare in cenni d’amaro scherzo ed equivoco avea, per cosí dire, fatto pompa di sue vendette, rimarcando a lei ora un carattere ed ora un altro, e interrogandola se le paresse che un tale rassomigliasse a lui stesso, se in un altro non ci trovava niente di se medesima, e se le pareva che un terzo sotto nome di don Adone avesse somiglianza con altri»?
Che miserabile impasto di sciocche invenzioni! Voglio credere l’attrice con me collerica e che da un anno aveva io abbandonata alla di lei e alla vostra direzione, la relatrice della filza di tante scipite menzogne, che un grave ministro di Stato non ebbe vergogna di ascoltare e di scrivere col suo «seppi». Ella è l’unico vostro testimonio contro di me. Ho io piú di venti testimoni ch’io non dissi altre parole su quella lettura che quelle notate nelle mie Memorie, perduta ch’ebbi la pazienza sulle di lei affettate, caricate, disturbatrici smanie, foriere del di lei vendicativo attentato.
Ella voleva farvi ministro delle sue vendette, e la vostra testicciuola in confabulazione con lei ha bevuto tutto ciò che non era né vero né probabile dopo un anno del mio abbandono, ma ch’era necessario per fomentare e accendere la vostra ambizioncella e il vostro irascibile contro me.
Mi rincresce, amico, che ne’ vostri processi e ne’ vostri «seppi» vi dipingete da voi medesimo piú leggera donnicciuola pettegola che non fu la vostra attrice per farvi girare come una trottola.
Voi confessate nella pagina medesima 23 questa vostra opinione sulla mia commedia: «Riconobbi che in complesso e l’azione e il dialogo della commedia mantenevano il consueto sistema del conte Gozzi, qualunque cosa egli scriva, vale a dire una sana critica sul costume».
Riscaldato poscia il vostro cervelletto dall’arte con cui la attrice v’ha abbeverato, interrogata da’ vostri cancellereschi eterni smaniosi sospetti che si leggono nella vostra Narrazione, ne’ quali ella vi aveva involto, la mia commedia divenne alla vostra fantasia alterata quella che lineate nella pagina 26 de’ vostri libelli per questo modo: «Il gioco della satira a dir vero sorpassò alquanto la mia aspettazione; cioè, non che scopertamente me prendesse di mira, ma sotto mascherati veli si raggirava essa da capo a fondo per tutta la azione, né v’era scena o personaggio che non fossero pregni de’ suoi equivoci e amari sali. Moltissimi però di questi non potevano essere conosciuti che da pochissimi uditori; anzi son d’opinione che buona parte non sieno stati intesi da altri fuor che da me e da un virtuoso e caro amico, da cui il vedermi per sempre diviso, nel desiato punto di stringer seco la vita, acerbamente mi pesa».
Il vostro «virtuoso e caro amico», ch’io pure stimo ed amo e su cui pongo la mano, era un vostro catellino fedele, che coltivava di «stringer con voi» la vita nelle successive residenze che speravate di sostenere, né credo d’ingannarmi, e Dio lo guardi dall’esservi stato adulatore, perocché con mio rammarico non potrei piú considerarlo né «virtuoso» né vostro «caro amico».
Si sa ch’egli era il Pilade vostro compagno nelle leggerezze e debolezze vostre ragazzesche con la attrice, e inzuppato al pari di voi il cerebro dal veleno delle asserzioni inventate di quella; e mal prevenuti tutti due, vedeste e interpretaste voi due soli i «mascherati veli», gli «amari sali», gli «equivoci da capo a fondo», che vi appropriaste in una commedia che, da’ magistrati da’ quali fu esaminata due volte con accuratezza e prevenzione, letta da infinite persone anche prevenute, ascoltata da un torrente di spettatori, fu giudicata da tutti una semplice universalissima critica sul costume.
Voi e il vostro «virtuoso e caro amico soli», posti in malizia da un’attrice, aveste il grand’acume di penetrare e rilevare a vostro discapito in quella commedia ciò ch’ella per se stessa non conteneva assolutamente.
Seguite ad amare cotesto «virtuoso e caro amico» anche stando voi in Stockholm. Egli ha il merito d’aver difeso le vostre false allusioni e interpretazioni per veritá, il vostro viglietto infamatorio che m’indirizzaste per azione da valentuomo, e tutte le vostre audaci bestialitá libellatrici da «caro e virtuoso amico vostro» per assecondarvi a denigrare il mio nome, se a voi ed a lui fosse riuscito.
Siccome compiango le vostre disavventure e siccome perdono a voi gli effetti de’ vostri deliri, siate certo che ho perdonato anche al «virtuoso amico vostro» la inurbanitá d’averli difesi e confettati con tutto quel poco zucchero ch’egli ebbe.
Farò uscire dalle stampe al pubblico la mia commedia: Le droghe d’amore tal quale sta nel mio originale legittimo, ch’io scrissi sin dal dicembre dell’anno 1775, ch’è la medesima licenziata dal magistrato e ch’io conserverò sempre parata ad un esame di confronto per chi desiderasse di farlo. Ognuno, e lo stesso «virtuoso caro amico vostro», se però è guarito dal difetto della mente, troverá la mia commedia soltanto una sferza sul costume universale oggidí tra noi introdotto; e che la parte d’episodio del don Adone, che serví alla vostra attrice, sdegnosa con me, a far saltellare i grilli della vostra zucca orgogliosa, non può da nessuno essere considerata una satira personale direttamente relativa al vostro carattere, ch’io non conosceva quando composi l’atto primo, secondo e maggior parte del terzo ed ultimo della mia commedia, ma che da’ giusti e giudiziosi può soltanto essere considerata il carattere di forse ventimila giovinastri leggeri che infettano d’una falsa e perniziosa morale le nostre famiglie.
Se l’urbanitá non me lo proibisse, mi sarebbe agevole l’additarvi piú di mille di cotesti giovinastri guastatori di teste in Venezia, e se per sorte voi aveste qualche somiglianza con essi, incolpatemi se la coscienza ve lo permette.
Le vostre follie, i vostri strattagemmi, le vostre stravaganze, le vostre cervicositá, le vostre millanterie, la vostra superbia e la vostra Narrazione apologetica m’hanno fornito ora perfettamente di cognizioni del vostro carattere; e se avessi in me la indiscreta abborribile volontá di comporre una commedia prendendo il vostro carattere per principale e quello de’ vostri fautori per episodi, potrei e saprei comporla mirabilmente, rendendo voi e i vostri fautori non solo ridicoli ma l’odio di tutte le nazioni. Tutte le prove appoggiate alla pura veritá, ch’io non ebbi intenzione di esporre il vostro carattere alle pubbliche risa in un teatro nel carattere d’episodio del don Adone, sono superflue. Voi medesimo l’averete confessato nella pagina 23 del vostro obbrobrioso fenomeno: Narrazione apologetica, colle seguenti parole: «Quanto poi al carattere nel quale s’aveva a prefiggersi che l’autore m’avesse preso di mira, trovai in fatto di veritá, ad eccezione di qualche sentimento ch’è cosí mio come lo è di infiniti altri uomini, essere egli cosí distante dal carattere mio proprio e in natura e in costume e in accidenti, come è l’asino dal cavallo».
Voi confessate due cose opposte all’accusa che mi date e alla colpa che in me volete. — Il carattere del don Adone non era il vostro. — Dunque perché urlate ch’io vi ho posto nella mia commedia? — I sentimenti del don Adone erano cosí vostri come lo erano d’infiniti altri uomini. — Dunque il carattere del don Adone era universale.
Quantunque, e per le ingenue e innegabili ragioni addotte e per la vostra confessione, il vostro carattere non sia stato da me innestato nella mia commedia per quella vendetta di geloso amore, e come la vostra attrice, con una imprudenza vendicativa e per un bilioso umore verso di me e per auzzarvi, ha facilmente fatto credere alla vostra virile puerilitá effemminata; non crediate però ch’io pretenda di sostenere che non siate stato spettacolo al popolo in un teatro. Lo foste per vostra e per mia fatalitá, ma lo foste perché con una industria ed una sublimitá d’ingegno non piú uditi vi siete posto da voi medesimo, trottando a far uffizi per impedire ciò che non v’era, risvegliando illusioni e ciarle, armando i vostri nimici, combattendo e rovesciando tutti i miei passi, tutti i miei apparecchi, tutte le mie opposizioni perché non avvenisse ciò ch’è avvenuto, come se veramente voleste vincere di voler essere pubblico spettacolo a mio dispetto.
Giuro a Dio ed a’ vostri «amici meridionali» che non v’è uomo sopra la terra che, non volendo esser posto sopra una scena, cerchi con maggior industria di voi e con maggior puntiglio di voi d’esser posto sopra una scena.
Crederete forse ch’io sia per provare stentatamente e imitando le vostre menzogne e stiracchiature di maldicenza questa mia solida proposizione? V’ingannate. La vostra stessa Narrazione mi somministrerá le prove evidenti.
Lasciando da un lato per ora tutte le vostre pettegole asserzioni, che crocidando raccoglieste con un’arte degna della vostra maturitá e serietá circospetta da un’attrice vostra amante e vostro unico perpetuo testo classico, mi concederete d’aver scritto nella vostra sciloppata Narrazione alla pagina 22: «Un giorno dunque sulla fin di novembre, trovandomi io in sua casa (cioè dell’attrice), poche ore dopo ch’essa tornata era dall’udir la lettura d’una commedia nuovamente finita dal signor conte Gozzi (cioè finita nelle poche scene che mancavano all’ultimo atto, sin dal giugno, d’una commedia scritta sino a quel segno nel dicembre 1775, tempo innocente), mi diede motteggiando tai cenni e mi lanciò certi tocchi (si noti l’arte fina d’un’attrice vendicativa), per i quali ho dovuto entrare in sospetto che in quel dramma ci potessi aver io qualche parte».
Erano superflui i vostri «interrogatorii da processo» e le vostre «seduzioni studiate» con la attrice, che riferite nelle pagine stesse. Ella aveva giá scagliata la pietra, inebbriato il vostro cervello di sospetto, ed aveva avuto il di lei intento.
L’evangelo di quella giovane astuta v’ha assicurato che nella parte d’episodio del don Adone della mia commedia, giá esaminata e licenziata per il teatro dal magistrato sopra la bestemmia, io aveva presa di mira precisamente la vostra persona.
Dite il vero, caro il mio Pietro Antonio. L’esservi dichiarato a seconda de’ vostri sogni galanti e delle vostre frasche, un anno prima di questo avvenimento, «competitore di visite» con me senza ch’io cercassi competenze con voi, ha consolidato il sospetto nell’animo vostro.
Spero che non vorrete negarmi che la attrice da me giá abbandonata alla sua libertá e privata delle mie visite, de’ miei consigli e della mia assistenza da un anno, non fosse fremente e collerica contro me.
Nella vostra Narrazione riferite che dopo aver presentato voi una querela precisamente calunniosa contro me al tribunale supremo per far sospendere la commedia alla quinta replica (sospensione ch’era dalle mie preghiere giá ottenuta e stabilita), e che essendo la vostra querela rispinta, correste dalla amica attrice per indurla a far quello che il tribunale supremo aveva ricusato di fare, con una di lei finta caduta e un finto slogamento d’un piede (richiesta indiscreta e non mai da amante né da amico a una povera comica, per farla odiosa ad un pubblico). E si legge nella vostra pagina 33: «La buona giovine a prima vista rimase un po’ atterrita della proposizione, non per altro riguardo se non per il sommo fermento in cui era asceso l’affare (fermento dalla serie delle vostre inquietezze e stolidaggini orgogliose cagionato). Ma riflettendo alla crudel mia situazione (purtroppo vera e da voi cagionata) ed alle proprie sue ragioni di sdegno contro l’autore...».
Adunque non resta piú dubbio: a voi era noto che la attrice bolliva di sdegno contro di me, e nulla ostante avete ciecamente in buonissima fede ingoiato l’amaro calice de’ sospetti ch’ella seppe instillarvi, per cercare una sua vendetta contro un cordiale benefico amico di quasi sei anni e compare, armando la vostra superbia contro lui.
Non sono giá curioso di sapere le ragioni del suo «sdegno», ch’ella ebbe l’abilitá di farvi credere, come vi fece credere ch’io aveva dipinto voi nel carattere di don Adone nel carattere della mia commedia. Degnatevi di leggere le Memorie della mia vita, e rileverete che riguardo a me le ragioni del di lei «sdegno» non furono che fracidi torti.
È cosa rimarcabile che tutto ciò che la vostra gravitá assennata ha raccolto intorno a me e all’amica vostra, e tutta la lunga filza de’ vostri «seppi» e «rilevai» e «seppi» e «seppi» e «seppi», meschini, ragazzeschi, vergognosi e menzogneri, che si leggono nella vostra Narrazione a me relativi, non furono che «seppi» da voi raccolti da un’attrice teatrale con me sdegnosa ed unico testo della vostra leggera farfallesca effemminatezza, ornamenti d’un vostro pari, secretario d’un augusto senato.
Ma favelliamo degli evidenti gradi co’ quali il vostro sublime ingegno vi ridusse spettacolo al popolo in un teatro. Appena la attrice potè schizzare il veleno del sospetto nella vostra fantasiuzza, co’ di lei «motteggi, cenni e tocchi lanciati», ch’io aveva disegnato il vostro carattere nell’episodio della parte del don Adone del mio dramma, voi, credulo, pavido e adombrato come un pulledrino non scorto, correste a «consultare con un saggio autorevole amico», come si legge nella pagina 22 delle «apologetiche» vostre detrazioni.
Tutti convengono che cotesto in vero «saggio e autorevole amico» sia stato il signor Giovanni Zon secretano degl’inquisitori di Stato. Cotesto uomo, assennato veramente, incredulo sulla vostra esposizione, vi suggerí che «bisognava accertarsi meglio della veritá d’un tal fatto, e che facendo voi col mezzo di qualche vostro amico richiamare al magistrato della bestemmia la commedia, giá licenziata, ad un esame novello, da tal nuovo esame si potrebbe prendere argomento di direzione». Non potrete negare che nella pagina 22 della bell’opera vostra non sia impresso questo consiglio, colla vostra esclamazione: «Savissimo, ottimo consiglio!».
Voi eseguiste il consiglio e col mezzo d’un vostro amico faceste che il signor Francesco Agazi ministro revisore del magistrato sopra la bestemmia, che aveva giá esaminata, trovata la commedia innocente, e licenziata, intimasse al Sacchi capocomico di presentare nuovamente al magistrato l’opera ad un novello esame, nel punto ch’io per un puro sospetto di previsione d’un mal uffizio ch’io indovinai da’ cenni, da’ movimenti e dal borbottare della attrice con me sdegnosa, aveva con arte impedito l’ingresso nel teatro della commedia, per estinguere il fuoco ch’io scòrsi accendersi nella mala volontá della attrice.
Non isdegnate di considerare i naturali tristi effetti che cagionaste voi col passo e colla ricerca della richiamata a nuovo esame del dramma, e particolarmente sulla parte d’episodio del don Adone, carattere universalissimo e parte da voi con precisione indicata e raccomandata. Ecco gli effetti.
Alla richiesta della commedia ad un nuovo esame da voi proccurato, il capocomico Sacchi, avveduto che ciò succedeva per cagion vostra e per la insidia dell’attrice che vi aveva infinocchiato, temendo di perdere un capitale qual egli si fosse per un uffizio di semplice invenzione infantata, si sottrasse da presentare il manoscritto, adducendo che lo aveva dato da leggere ad una dama e promettendo di presentarlo al magistrato tosto che lo avesse ricuperato. Egli chiese però al signor Agazi ministro revisore per qual peccato si richiamava una commedia giá esaminata e licenziata; alla qual richiesta il signor Agazi rispose scherzevolmente: — De’ pettegolezzi di quel fanatico Pietro Antonio Gratarol cagionano ch’io devo esaminare con maggior attenzione una parte di certo don Adone ch’entra nella commedia.
La pianta d’apparecchio ad un’illusione per la cittá cominciò a pullulare da questo principio; del qual principio incolpate me se la coscienza ve lo concede.
Il Sacchi per non comparire bugiardo col signor Agazi ministro revisore corse tosto col manoscritto licenziato dalla dama, e non solo depositò il libro nelle mani di quella, ma ebbe la indiscretezza e la bestialitá truffaldinesca, forse per accenderla contro voi e contro la attrice, d’informarla dell’uffizio fatto da quella e de’ vostri smaniosi imprudenti passi per i quali era richiamato il manoscritto, e di raccomandarsi perché il suo capitale non gli fosse dalle vostre sopraffazioni fiscato. Il caso fu un delizioso argomento per quella dama capricciosa e bizzarra, che v’odiava cordialmente e che vi aveva giurato d’esservi «fatale».
Proviamo questo «fatale» giuramento colla vostra medesima confessione. Nella pagina 17 della vostra puzzolente pisciatura apologetica (pagina d’un tal libello contro quella signora che, per quanto sia l’uomo cruccioso e per quanta ragione egli abbia d’esserlo, s’egli è ben nato, se ha una dramma di civile e colta educazione, se non ha un animo vile, brutale e plebeo, non cade nella esosa trivialitá animalesca di scriverlo e di pubblicarlo contro una donna) scriveste anche la seguente notizia: «Alla fine, dopo circa tre anni di nauseante coltura (cioè di coltivazione da voi usata verso quella dama), la mia recredenza ad un solo veramente ridicolo di lei volere mi cacciò nella turba de’ suoi nimici, né mi valsero incensi o sommessioni anche scritte: giurò d’essermi fatale». — E nella pagina 22 della vostra apologetica scorrenza si legge: «Non molto prima del fatal giuramento della diva, la compagnia di Sacchi era tornata a Venezia per ripigliare come al solito le comiche rappresentazioni».
Ora il Sacchi col suo deposito del mio manoscritto licenziato, colla sua indiscreta, incauta, inonesta informazione contro voi e contro la attrice, con le sue raccomandazioni istrioniche, non poteva recare a quella signora miglior capitale per ordire, in vero con inumano e inurbano capriccio, l’esecuzione dell’esservi «fatale» che vi aveva giurata.
Non istupite se dopo il mal consigliato passo che faceste di far richiamare la commedia al magistrato della bestemmia per un nuovo esame espressamente sulla parte del don Adone, il bisbiglio cominciasse a spargersi per la cittá. Il vostro amico che ha stimolato il richiamo a una nuova revisione, il signor Agazi revisore, punto per cosí dire da un rimprovero d’aver mal esaminato e mal licenziato, punto nel vedere de’ ministri d’un tribunale supremo impacciarsi nella di lui mèsse, punto dalla gelosia della di lui iurisdizione ferita; sono tutte cose che non istanno in silenzio, massime trattandosi di materia teatrale e d’una commedia ch’era resa nota e ch’era attesa dal pubblico con quella aviditá che a Venezia s’attendono tali inezie.
Due giorni bastarono per empiere la cittá tutta della seguente disseminazione: — Il Gozzi ha posto in una sua commedia intitolata: Le droghe d’amore Pietro Antonio Gratarol; il Gratarol mette sossopra i magistrati perché quella commedia non entri nel teatro. — L’apparecchio della illusione è seminato, la brama e la curiositá de’ vostri nimici di vedervi in iscena è in fermento, le dicerie sopra a voi e sopra a me gorgogliano. La dama che ha giurato d’esservi «fatale» legge il mio manoscritto: non trova in esso che caratteri universali. Lo fa leggere a parecchi: tutti trovano la mia commedia innocente. Ma la dama si serve della circostanza e vuole che quell’opera le serva ad esservi «fatale». Esagera contro voi, contro la vostra leggerezza nelle di lei numerose conversazioni. La cittá è tutta in cicaleccio per questa freddura; l’illusione si rinforza e si dilata come una macchia d’olio alla barba vostra. L’opera è presentata, in obbedienza al magistrato della bestemmia, sotto una nuova revisione. Ella è letta, esaminata anche colle viste di prevenzione sulla parte da voi indicata. La parte è trovata d’un carattere universale, la commedia è trovata innocente in tutta la sua estensione. È letta da’ vostri aderenti da voi mossi: nessuno trova in essa il vostro carattere. È ampiamente licenziata per il teatro una seconda volta, e si legge nella pagina 24 della vostra fiorita Narrazione: «Il dí seguente, cioè il sesto dopo il discorso tenuto col saggio amico (vale a dire col saggio signor Giovanni Zon secretario del tribunale supremo) viene egli sulle mie tracce e mi dice all’orecchio ch’io fossi tranquillo sulla commedia, ch’essa per di lui opera era giá ripassata, e non esserci cosa che meritasse pensiero». — Che piú? Voi stesso confessate che il carattere del don Adone aveva a fare con voi quanto «quello d’un cavallo con quello d’un asino».
Caro il mio Pietro Antonio, quando dunque concederete che riguardo a me e all’opera mia niente è imputabile di ciò che la attrice vostra co’ suoi «cenni di motteggio e i suoi tocchi lanciati» vi ha fatto ingoiare, e che colle vostre sublimi perquisizioni sostenete, con una aerea, stolida e crucciosa loquacitá, d’aver scoperto? Non vi scordate giammai che dopo tutti gli esami da voi con imbecillitá proccurati, il signor Agazi ministro del magistrato di revisione, offeso nella di lui ispezione, mi commise magistralmente di non pretendere piú nulla sull’opera mia donata, e anzi di sollecitarne la rappresentazione, aggiungendomi seriamente queste parole: — Il mio magistrato non falla. — E quindi lasciatemi fare la seguente conclusione, a cui sono certo che il vostro gran cerbacone non avrá che rispondere.
I vostri uffizi da femminetta sospettosa e superba, la vostra sinderesi, le vostre esagerazioni ingiuriose contro a’ Grandi, la illusione che apparecchiaste, una dama offesa che «v’ha giurato d’esservi fatale», una venalitá comica protetta, un baratto di parte contro la mia disposizione, la scelta d’un attore che aveva con voi della somiglianza, un vestito, un’acconciatura di capelli, un gesticolare insegnato e imitato (cose tutte a me tenute celate ed eseguite sopra un palco scenario) furono le cagioni della vostra in vero troppo crudele e abborribile sciagura, che con un’industria mirabile vi tesseste. Confessate che la mia commedia non fu che un istrumento innocente, lontanissimo dall’avere la menoma relazione con voi.
Nulla ostante, dopo quattro sere d’una indegna prostituzione della vostra persona in un pubblico teatro, avvenuta per i sopraddetti clandestini spregevoli apparecchi (prostituzione ch’io non so se dolesse piú a voi che a me), voi non vedeste o non voleste vedere che in me la causa d’un avvilimento che vi siete proccurato per aver dato retta a una riferta d’un’attrice e, can guasto furioso contro me solo, cercaste di rovinarmi con un memoriale presentato senza vergogna da falso delatore agl’inquisitori di Stato; memoriale che si legge alla pagina 31 del vostro squisito libro, pubblicato con una franchezza da vostro pari e che comincia per questo modo: «Umana debolezza, scossa da circostanze troppo puerili e indegne da riferirsi alla maestá di questo supremo tribunale, indusse il signor conte Carlo Gozzi a spargere di satira una sua commedia tolta dallo spagnolo ed intitolata: Le droghe d’amore, e ad innestarvi un carattere apposito unicamente per fare scherno e ridicolo dilegio dell’umilissima persona di me, Pietro Antonio Gratarol, onorato del prezioso ministero di secretario dell’eccellentissimo senato e recentemente fregiato della destinazione di residente alla real corte di Napoli»; — con ciò che segue nel vostro assassino falso delatore memoriale, dettato da uno spirito diabolico di vendetta d’un’offesa ch’io non v’ho fatta, e interamente appoggiato a delle uniche informazioni che raccoglieste da un’attrice scenica con me irritata per quelle «proprie ragioni di sdegno contro l’autore della commedia»; ragioni che voi accennate e non dite, ma che leggerete nelle mie Memorie, se però la vostra elevatezza si degnerá d’abbassarsi a una cosí umile lettura.
Non so se pretendiate ch’io vi ringrazi d’una tale nerissima azione. Trascorriamo per ora. Ella diverrá ancora piú sozza, com’io ve la dimostrerò.
Se sul vostro ricorso que’ giudici gravissimi avessero fatto sospendere la commedia, siate certo che avrebbero favorito piú me che voi; e se mi chiedete se dovessero comandare la sospensione sulla vostra supplica, per mio parere vi risponderei di sí. Perocché, fosse vera o falsa la vostra querela, da qualunque fonte derivasse la vostra sventura, la veritá è che un secretario del senato, eletto ministro ad una real corte, era in una specie di berlina in un pubblico teatro, e che per troncare un tal considerabile sfregio era un nulla il fermare una scipita commedia.
Tuttavia non v’offendete s’io non vi do gran ragione sulle declamazioni che scrivete enfaticamente nella vostra pagina 32 sul rifiuto del vostro mal fondato, ingiusto e falso memoriale, dettato dall’ira e dallo spirito di vendetta, che sono queste: «In quell’ultime contrade, ove dell’umanitá giacciono ancor sepolti nell’antica barbarie i migliori attributi, io non mi persuado che da giudici selvaggi i giusti lamenti d’un selvaggio individuo fossero peggio accolti di quello che lo fur questi miei. Se non si trattasse d’un fatto giá noto a un intero popolo, io dovrei scusare chi ponesse in dubbio la mia fatale asserzione. Questa supplica di questo suddito, in queste narrate circostanze, o Dio! fu rigettata».
Voi chiamate «giusti lamenti» una falsa calunniosa delazione che tende alla rovina d’un uomo d’onore innocente?
La sola veritá contenuta dalla vostra insidiosa denunzia è quella che voi realmente eravate esposto sopra una scena spettacolo al popolo. È però altresí vero che nella giustizia che chiedevate di sospensione della commedia, il vostro memoriale doveva essere concepito da una penna ingenua e appoggiato alla veritá, e non architettato dalle menzogne d’una fantasia accesa, rabbiosa e vendicativa ostinatamente e concitata da’ soffi artifiziosi d’un’attrice con me sdegnosa ed unico vostro testimonio riguardo a me.
Perché mai piantaste assolutamente per rei principali della vostra disgrazia me e la mia commedia? Una commedia letta da cento e trovata innocente; presentata a una grave magistratura di revisione, trovata innocente e licenziata per il teatro; fatta richiamare dalle vostre mosse puerilmente sospettose ad un nuovo esame, esaminata da’ vostri saggi amici, da molte altre persone e trovata da tutti innocente; riletta in tutte le viste e colle prevenzioni dalla vostra cecitá e imprudenza suscitate, da provvidi revisori trovata innocente e licenziata di nuovo per il teatro; doveva esser rea per la sola ragione che un’attrice con me sdegnosa aveva fatto credere alla vostra circospezione una reitá che voi solo credeste e invasato vedeste?
Ma voi, profondo ministro del senato d’una repubblica, eletto residente per questa repubblica ad una real corte al maneggio di cose recondite, eravate pure in debito di conoscere i sistemi del vostro governo e dovevate anche conoscere che, accusando me e la mia commedia col vostro memoriale, accusavate non solo tutti quelli che avevano letta quell’opera e l’avevano trovata netta da quel peccato che voi pertinacemente voleste in essa, ma accusavate una rispettabile senatoria magistratura di malizia o d’ignoranza, che sulle vostre smanie aveva doppiamente esaminata l’opera mia e, trovato che niente aveva a fare con voi, considerandovi un fanatico, l’aveva nuovamente licenziata per il teatro.
Qual maraviglia che il tribunale supremo non abbia aderito alla vostra falsa querela, per un politico riguardo di non fare uno sfregio ad una ragguardevole senatoria magistratura, il decoro della quale deve essere con austeritá sostenuto in una repubblica, e che doppiamente e diligentemente esaminando l’opera mia con tutte le viste, l’aveva trovata illesa dalle fantastiche colpe che la vostra farfallesca natura aveva facilmente bevute al puro unico fonte d’un’attrice teatrale, e l’aveva licenziata per il teatro di nuovo?
Dovete dire che il vostro memoriale sia stato dettato piú dal livore e dall’avida brama d’una ingiusta vendetta contro me che da una ingenuitá supplichevole per ottenere grazia e giustizia.
Perdonate, caro il mio signor Pietro Antonio, la temeritá mia, che m’induce a riformare un memoriale e a correggere la vostra penna d’oro, che scrisse quella bellissima Orazione gratulatoria per il mio buon amico Giovanni Colombo elevato al grado di gran cancelliere della nostra repubblica; orazione che secondo la vostra fantasia ambiziosetta vi fece tanti invidiosi, siccome riferite nella vostra celeberrima Narrazione.
Perché non è negabile che la vostra leggerezza e le altrui insidiose malignitá v’abbiano esposto a’ schiamazzi delle pubbliche risa sopra una scena, era ben dovere che sul vostro ricorso fosse troncato uno scandalo indecente e turpe, qualunque fosse la causa che lo cagionasse.
Ma scordatevi per un momento, se potete, l’ira e l’odio ciechi ed ingiusti che aveste direttamente verso me e verso la mia commedia nel vergare il vostro vendicativo, mentitore e calunnioso memoriale, e sofferite ch’io lo rifonda con que’ sentimenti sinceri co’ quali si ricorre ad un tribunale supremo per ottenere grazia e giustizia e co’ quali la vostra penna circospetta era tenuta a scriverlo.
Io lo espongo alla vostra sapienza. Bevete un calmante con un poco d’elleboro prima di leggerlo, e mi direte poscia pacificamente il vostro parere.
SERENISSIMO PRINCIPE
Illustrissimi ed eccellentissimi signori inquisitori di Stato,
Fu donata dal conte Carlo Gozzi alla comica compagnia del Sacchi una di lui commedia tratta dallo spagnolo e ridotta al gusto delle nostre scene, intitolata: Le droghe d’amore, la quale, rassegnata sotto la revisione del magistrato sopra la bestemmia, fu anche licenziata per il teatro Vendramini in San Salvatore.
Uscita, non so da qual fonte, e sparsa per tutta la cittá una diceria che l’autore di quell’opera, per delle infantate cause puerili indegne da riferirsi alla maestá di questo supremo tribunale, si fosse indotto ad innestare in quell’opera un carattere apposito sotto il nome d’un don Adone unicamente per far scherno e ridicolo dilegio di me, Pietro Antonio Gratarol, onorato del prezioso ministero di secretario dell’eccellentissimo senato e recentemente fregiato della destinazione di residente alla real corte di Napoli, prendendo vigore una tal voce, sparsa e fatta nota al magistrato di revisione, fu anche richiamata ad un nuovo esame dal zelo del magistrato suddetto la commedia medesima.
Ma letta con accuratezza a quel magistrato, anche con la prevenzione della disseminata diceria, fu di fatto trovata la commedia un composto di critica universalissima sul costume in tutte le parti che la conformavano e niente particolarizzata, e quindi replicatamente licenziata per il teatro.
Nulla ostante però, resistendo viva la diceria che il carattere del don Adone fosse una parte apposita a me particolarmente e prendendo forza per la cittá un apparecchio d’illusione, la temeraria licenza e la turpe venalitá comica, forse protetta e animata da’ miei nimici, valendosi della circostanza, colla mira d’un schifo interesse, arbitrarono con un baratto di parte, celatamente e contro la disposizione e assegnazione delle parti fatta dall’autore della commedia, appoggiando la parte del don Adone, resa sospetta dalle disseminazioni, ad un attore che ha con me della somiglianza, vestendolo di panni simili a’ miei, imitando la pettinatura de’ miei capelli e ammaestrandolo di gesti e di passi imitati, quantunque il carattere non avesse con me relazione, fu confermata per veritá la diceria, soccorsa dall’illusione preventiva e dalle allusioni immaginate dal popolo, e fui veduto prostituito e spettacolo esposto alle pubbliche risa e a’ schiamazzi dell’universale.
Soffersi con indifferenza una tale scandalosa prostituzione, colla lusinga che la commedia assai lunga e per se stessa noiosa non proseguisse; ma vedendo da quattro sere rinforzarsi il concorso, lo strepito popolare e l’applauso al personaggio indicato, vedendomi anche attorniato e mostrato a dito per le vie dalla plebe ne’ giorni trascorsi, dubitando che la voce d’un cosí fatto ludibrio possa giugnere a Napoli alla cui regia corte sono destinato per questo serenissimo dominio, temendo anche di poter essere incolpato d’indolenza a non presentarmi con un ricorso onde sia troncata l’inaudita temeraria comica venale licenza, altamente ferito nell’onore, si rassegna alla incomparabile giustizia di questo supremo tribunale il piú riverente ministro del senato, prossimo a rivestire la propria umiltá col fregio luminoso di sua stessa rappresentanza presso Sua Maestá siciliana, e profondamente umiliato implora un rifugio sotto la protezione della venerabile autoritá di Vostre Eccellenze. Grazia, ecc.
Dal canto mio non so dubitare che le veritá esposte in questo memoriale, in cui come vedete ho preservati per quanto ho potuto de’ vostri maestosi periodi, non avessero mossi que’ tre giudici supremi a troncare il corso del vostro non meno che del mio abborribile martirio.
Un tal ricorso non offendeva un tribunale senatorio di revisione che sulle vostre mosse aveva replicatamehte esaminata l’opera mia e licenziata, non attaccava gl’innocenti: metteva in vista soltanto una veritá innegabile, condannabile, ed era facile rincontrare il fatto coll’esame del mio originale, che allora era tra le mani de’ comici.
Si sarebbe veduta registrata di mio pugno in quell’originale la distribuzione e assegnazione delle parti da me fatta agli attori e rilevato l’insolente arbitrio preso del baratto della parte in contesa; e quanto all’insidioso indegno apparecchio del vestito simile al vostro, dell’acconciatura e de’ movimenti imitati, Venezia intera vi sarebbe stata testimonio.
La vostra cervicositá nel voler per guida eternamente l’unica voce d’una scenica attrice, da voi vagheggiata, in tutte le vostre mosse e le vostre immaginarie presunzioni, vi fece anche estendere un memoriale di falsa base, accusando per rei della vostra sventura me, la mia commedia e una rispettabile magistratura, che dopo un replicato esame del mio dramma altro non aveva trovato se non che voi eravate un fanatico sognatore.
Il chieder giustizia coll’esposizione della veritá dell’ingiuria che v’era fatta doveva trovare giustizia.
Il chieder vendetta per una mente offuscata, con una semina di calunniose menzogne contro chi non aveva colpa, era un tentare la giustizia a commettere delle ingiustizie; ed è cosa strana il trovare nel fine del vostro memoriale la protesta d’aver esposta al tribunale supremo «la pura e verace storia de’ fatti», mentre il nerbo e la sostanza del vostro memoriale formano una delazione bugiarda e vendicativa.
Il fatto della vostra prostituzione sopra una scena era vero e «noto a un intero popolo», come strillate nella vostra declamazione, posta alla pagina 32, sul rifiuto d’un memoriale piantato sopra una falsa base. Al popolo però non potevano esser noti gli aneddoti che non esistevano, ma che voi prestando orecchio ad un’attrice avete colla vostra immaginazione da acceso visionario creati e animati. Ciò che generalmente e sostanzialmente si diceva dal popolo era che voi eravate esposto in una commedia in sulla scena e che la collera vi aveva fatto girare il cervello e divenire frenetico. Io non aveva che la colpa innocente d’essere autore d’una commedia che colle vostre follie faceste degenerare e divenire una satira personale.
Assicuratevi, Pietro Antonio, che se ad ogni commedia si trovasse un credulo sospettoso e furente vostro pari, tutte le commedie del mondo diverrebbero satire personali.
Né certamente si può condannare la voce del popolo, voce di Dio, che affermava essere voi caduto in una frenesia, perocché appena rifiutata dal tribunale supremo la vostra denunzia contro me, correste invasato e da vero frenetico nel grembo della solita amica attrice, molla principale della vostra miseria, coll’ingegnoso suggerimento che una di lei finta caduta da una scala fosse sostituita alla supplica delatoria dagl’inquisitori di Stato rifiutata.
Un tale argutissimo strattagemma, parto della vostra mente rovesciata, eseguito da «eroina», come dite voi, dalla attrice alleata, alla quinta recita della commedia (recita che doveva per le mie preghiere esser l’ultima), e strattagemma eseguito la sera a teatro pieno di spettatori sul punto dell’alzare il sipario; non abbiate rossore, caro amico, a concedere che un solo frenetico poteva far usare un tal strattagemma puramente per far accrescere e raddoppiare il vostro martirio.
Perocché era naturale il pubblico tumulto avvenuto in un teatro calcato; era naturale un ricorso a’ capi dell’Eccelso del patrizio padrone del teatro per lo scandalo e per il pericolo cagionato, ricorso fatto colle fedi giurate de’ chirurghi, che la attrice vostra amica, che voi sacrificaste da buon amico, era sanissima e che la caduta non era che un vostro suggerimento; era naturale che voi diveniste l’argomento di tutte le lingue; era naturale la mortificazione alla povera comica d’un ordine de’ capi dell’Eccelso ch’ella fosse condotta da un fante al suo dovere in teatro; ed era naturale la soggezione in me di tre tribunali de’ piú temuti, concitati da’ vostri capigiri ond’io dovessi chiudermi ne’ miei panni e rimanere tacito e inoperoso per voi e per me sul fatto del proseguimento delle recite d’una commedia, ch’era piú odiosa a me che a voi e sopra alla quale m’era stata levata ogni facoltá.
Per tutti i passi che faceste e per tutti i strattagemmi che usaste col vostro acume maraviglioso, per troncarvi una reale sciagura da voi tessuta, io non saprei assomigliarvi che a quel balordo ch’essendo sopra un cavallo ostinato nel corso, pretendeva di fermarlo colle urla, col crollare della briglia e colle picchiate dello scudiscio.
Rinunzio all’amicizia di tutti gli uomini e di tutte le donne, se si trova un uomo o una donna d’onore che approvi il «colloquio» che cercaste d’avere con me col mezzo d’un comune amico in quella circostanza nella mia propria casa, sotto aspetto d’urbana amicizia, caldo caldo dall’esser stato al tribunale supremo a tentare la mia rovina con una falsa delazione riguardo a me, ch’era stata dalla clemenza di quel tribunale rispinta, e caldo caldo dall’aver fatto cadere fintamente da una scala la affascinata vostra amica, cozzatore co’ tribunali e col pubblico a volere da me, con un giro di parole inutili e con una stomachevole soverchieria, ciò ch’era reso omai impossibile dal canto mio.
Voi narrate che in quel «colloquio», estorto insidiosamente con me e nel mio proprio albergo, m’avete detto che voi non eravate «capace d’usare soverchierie a nessuno»; ma confessate che l’esservi introdotto nella mia propria abitazione in aspetto d’amicizia, colla scorta d’un comune amico onorato, in quelle circostanze, a voler da me un impossibile con de’ falsi argomenti, con della insistenza minaccevole, fu una vostra puzzolentissima soverchieria. Il darvi il titolo di «frenetico» è un darvi assolutamente il titolo meno offensivo di tutti que’ titoli che meritereste.
La storia ingenua di quel «colloquio», ch’ebbe testimonio l’onorato signor Carlo Maffei, è da me estesa con accuratezza nelle Memorie della mia vita. Voi non aveste per estendere quel «colloquio» nella Narrazione da voi scritta altri testimoni che voi, la vostra fantasia sconvolta, l’ira e l’ardente desiderio di screditarmi con un racconto menzognero e parabolano.
Io non fo confutazioni al «colloquio» da voi narrato, perocché la veritá della mia Narrazione di quello, ch’ebbe un ottimo testimonio nel Maffei, lo contraddice abbastanza; e non c’è via di mezzo: o sono io o siete voi uno storico bugiardo.
Non so tuttavia trattenermi di non dare una solenne mentita ad alcune coserelle, che da verace mentitore vi divertiste a riferire in quel «colloquio» a senno vostro narrato; e verbigrazia, leggesi nella pagina 41 del vostro letamaio di maldicenze, che parlando di me non vi vergognate a scrivere: «Egli ebbe l’impudenza di propormi che se poi gli dava libertá di spargere ch’io ero stato da lui a pregarlo per la sospensione (s’intenda della commedia), in tal caso averebbe sperato di riuscire che non si facesse neppure l’unica recita del venerdí. Impostore! superbo! a me proporre una viltá quale saria stata questa per ogni conto! sino a questo segno tentare di portare il trionfo d’una iniqua vendetta!»; — con quanto segue di immaginario, di petulante, di mendace e di braveggiatore ridicolo, in quella pagina e nella pagina susseguente.
Ringraziatemi, Pietro Antonio, se a questo passo costringo la mia penna a dirvi soltanto: — Frenetico! inventore! mentitore! millantatore!
Vi sará lettore imbecille a segno di credere ch’io abbia fatta a voi la proposizione che con la vostra lorda franchezza narrate? proposizione non solo bugiarda e inventata da un forsennato volonteroso di screditarmi, ma che non ha un granello di verisimiglianza. Per provare ch’ella è una menzognera vostra invenzione dovrebbe bastare la testimonianza del Maffei, che fate parlare a vostro modo col vostro merdoso inchiostro. Non v’arrischiate a scrivere delle bugie né de’ falsi argomenti con me, perocché non troverete il vostro conto giammai. Serbateli a’ vostri balocchi e alle vostre beile.
Non ebb’io forse la delicatezza di proibire risolutamente al Maffei, da voi sedotto a proccurarvi un colloquio con me, di condurvi alla mia abitazione, perché, veduto da alcuno, le genti non credessero mai che vi foste avvilito a venir a chiedere grazie da me, esibendo io di venire alla casa Maffei o alla vostra casa medesima?
Di tutto ciò il Maffei può fare testimonianza, e voi medesimo nella vostra pagina 38 narrate: «Nella sera il signor Maffei venne a dirmi che il conte era per incontrare con massimo piacere l’occasione ch’io gli offeriva di vedersi meco, e che non restava se non che io prescrivessi l’ora del giorno dopo, perché ambidue sarebbero unitamente venuti alla mia casa. Per gareggiare in cortesia rispondo all’amico che la mattina appresso mi sarei trovato da lui, per passare noi stessi alla casa del conte Gozzi per prevenirlo; e cosí fu».
Voi confessate ch’io voleva venir da voi e che voi veniste da me. La mia delicatezza addotta al Maffei riguardo a voi m’aveva fatto cosí disporre.
Qual diavolo v’ha suggerito di narrare ch’io v’ho proposto che «se mi davate licenza di spargere ch’eravate stato da me a pregarmi per la sospensione della commedia, in tal caso», eccetera? Voi non avete piantata questa sozza proposizione che per poter gridare da mal nobile padovano: «Impostore! superbo! a me proporre una viltá, quale saria stata questa per ogni conto! sino a questo segno tentar di portare il trionfo d’una iniqua vendetta!». — Parmi di vedervi gonfiare le gote e ingrassare a queste invettive.
Infelice vaneggiatore! mentitore! Dovevate anche narrare ch’io aveva ordinato al Maffei costantemente che se mai rilevasse da voi che cercavate un «colloquio» per chiedere a me la sospensione delle recite della commedia, tagliasse affatto lo stabilimento di colloqui, perch’io non aveva piú nessuna facoltá sopra un’opera non piú mia, ma ridotta de’ tribunali e del pubblico.
Tuttavia, perché voglio credere che quell’ottimo uomo per troppa bontá di cuore v’abbia taciuto questo mio ordine risoluto ed essenziale, voglio anche perdonare al vostro silenzio su questo punto.
Voi dunque per «gareggiare di cortesia» rinunziaste alla mia risoluta volontá del mio venire alla casa vostra, e rinunziaste la proibizione da me fatta al Maffei di condurvi alla mia abitazione per un mio sentimento di delicatezza a riguardo vostro; ma voi per «gareggiare di cortesia» voleste venire al mio asilo di pace a usarmi una fracidissima soperchieria, che nel vostro vocabolario si chiama «cortesia».
Ma rispondete, caro il mio spiritato: — V’è alcuna dramma di probabilitá ch’io abbia chiesta a voi licenza di poter «spargere che eravate stato da me a pregarmi per la sospensione della commedia»?
Voi non avete scritta assolutamente questa laida menzogna che per poter scrivere dopo, con laidezza piú grande verso di me: «Impostore! superbo! sino a questo segno tentar di portare il trionfo d’una iniqua vendetta!», e per aggiungere e spedire poscia le vostre braverie in iscritto dal settentrione che si leggono nella pagina 42.
Chi non vede che s’anche fossi di quell’animo tristo che colla vostra malnata fissazione cercate di farmi credere, e avessi avuto nel capo il sognato da voi sciocco e vendicativo trionfo che riferite, averei potuto spargere ch’eravate stato da me a pregarmi per la sospensione della commedia, e che per far ciò non aveva bisogno di chiedere permissione a voi?
Permettete ch’io possa dire «impostore», «inventore infelice» e «mentitore» a voi senza il menomo rimorso. Vi giuro che non ho mai conosciuto schiccheratore di narrazioni, che narri le cose a rovescio con maggior audacia e con una piú rara increanza di voi.
In quel colloquio m’avete confessato, non volendo, che avevate fatti de’ ricorsi a’ tribunali perché fosse sospesa la commedia e che vi «furono chiuse le porte in faccia per ogni dove». Il Maffei è testimonio anche di questa veritá.
Ma perché questa veritá si opponeva troppo alla ciarlataneria de’ vostri intempestivi e falsi argomenti, per provarmi ciaramellando ch’io «poteva» e «doveva» fermare la commedia, scrivete poi da mentitore legittimo, nella pagina 40 della vostra Narrazione putrida, del «colloquio»: — «Finalmente, senza mai aver toccato il crudele rifiuto de’ miei ricorsi, conchiusi», ecc. — Senza mai aver toccato? Vi sta troppo a cuore di far credere per veritá questa fracida bugia.
Io vi feci il progetto che, ritornata in iscena in obbedienza de’ tribunali la commedia il venerdí, averei proccurato che le recite non oltrepassassero, e d’essere con voi in un palchetto quella sera in vista del pubblico per rovesciare le opinioni maligne, a vostro ed a mio vantaggio; veritá che confessate anche voi nella pagina 41, insultando poi la mia ragionevole esibizione progettata, con una dileggiatrice ironia da superbo asinello, nella pagina stessa con queste parole: «Cospetto! non averei mai piú ricevuto un onore sí grande!».
Ho preteso di scemare la vostra miseria, né ho la vostra ambizione per credere di farvi un onore in ciò che v’ho progettato, siccome non ho la viltá di non ridere e di non beffare le vostre asinesche espressioni petulanti.
Io vi progettai di far stampare un prologhetto in versi, che giustificava voi e me sulle sparse dicerie, e di farlo donare quella sera a tutti gli spettatori ch’entravano nel teatro; prologhetto ch’io lessi anche a voi e al Maffei, e voi altamente con una sublime increanza rifiutaste cotesto prologo chiamandolo «acqua ed acqua».
Voi asserite nella stessa pagina 41 ch’io vi aveva detto «di far recitare tra il secondo e il terzo atto della commedia quel prologo». — Mentite. Io v’ho detto di farlo stampare e donare. Ma cosa da voi assolutamente rifiutata come «acqua ed acqua», con tutti gli altri progetti ch’io credei buoni, non doveva essere né donata in istampa né recitata da’ comici, per obbedire a’ vostri increati solenni rifiuti.
Voi dite nella pagina stessa che nel prologo «di circa una ventina di versi» io diceva «essere quella commedia un puro tradotto da un originale spagnolo». — Mentite. A me non uscí mai dalla bocca né dalla penna che quella commedia fosse una pura traduzione. Ho detta e scritta sempre la veritá, cioè ch’era tratta da un’antica commedia spagnola di Tirso da Molina. Dal termine «tradotta» al termine «tratta» v’è quella lontananza che voi, discepolo del grand’uomo Natale dalle Laste come vi vantate, siete in debito di sapere. Se la testimonianza del Maffei, ch’io dissi sempre «tratta» e non «tradotta», non basta, leggete il mio prologo e il mio memoriale storico presentato agl’inquisitori di Stato, dove non si dicono bugie e dove le vostre bugie furono rispinte. Quelle due carte sono fedelmente stampate nelle mie Memorie, e potrete vedere ch’io dissi e scrissi perpetuamente «tratta» e non «tradotta», anzi troverete espresso ch’io ridussi l’argomento spagnolo al gusto de’ nostri teatri.
Si legge in quella vostra medesima pagina 41 che io vi dissi che «v’ingannavate nel credere che stesse nel mio arbitrio il far che piú non si rappresentasse la commedia». Quindi alla sfuggita chiudete tra due parentesi la menzogna a voi necessaria: «senza mai dirmi un perché». — Mentite.
Tutti i «perché» maiuscoli del mio arbitrio perduto, che si leggono nelle mie Memorie, gli aveva detti al Maffei allorquando venne a proccurarvi il «colloquio» con me, anzi protestandogli che se mai rilevasse che la vostra intenzione fosse di chiedere a me la sospensione della commedia, io non voleva assolutamente «colloqui» con voi. Il Maffei è onest’uomo né può negare questa veritá.
A chi mai volete far credere quel vostro «senza dirmi un perché»? La vostra richiesta sopraffattrice mi costrinse anzi a replicare in faccia a voi e in faccia al Maffei non solo i «perché» ch’io aveva addotti a quello prima del «colloquio», cioè degli ordini avuti dal ministro revisore del magistrato sopra la bestemmia, dell’ordine che aveva un fante de’ capi dell’Eccelso di condurre la attrice vostra alleata dalla finta caduta al di lei dovere; ma aggiunsi l’altro: perché mi confessaste nel «colloquio» che «avevate fatti de’ ricorsi e che v’erano state chiuse le porte in faccia per ogni dove», indovinando io che avevate fatto il vostro ricorso agl’inquisitori di Stato con inutilitá.
Non mi negate, Pietro Antonio, che tutti i miei efficaci «perché» furono da voi beffeggiati e derisi, esclamando «ch’erano coglionerie indegne d’esser dette da me e d’essere ascoltate da voi». Il Maffei è buon testimonio.
È notabile la maraviglia vostra sopra a cosa ch’io aveva detta al Maffei e aveva detta a voi, come di cosa a voi ignotissima e che notate nel fondo della vostra pagina 43, cioè che «un fante de’ capi del Consiglio de’ dieci era stato a precettare la Ricci d’ordine del tribunale di non fingere altrimenti l’ammalata e di portarsi a recitare quella medesima sera».
Da che nascono i vostri stupori, il dí diciotto di gennaio, d’un ordine che sapevate dalla mia voce sino dal di sedici del detto mese? Ma se volessi opporre a tutte le menzogne che si chiamano una mentita, contenute nell’innesto di carote nel vostro narrare il «colloquio» da voi cercato con me, averei bisogno d’un abachista.
Confessate, caro amico, che in quel «colloquio» da voi proccurato con me da vero soverchiatore e nella mia propria abitazione, per «gareggiare di cortesia» nel modo che si può vedere, altro non cercaste che di volere fuori di circostanza da me cosa impossibile o di formarvi un piano a una scena vendicatrice di quel ridicolo in cui da voi medesimo v’eravate posto, usando un altro de’ vostri animaleschi strattagemmi e una schifa solennitá, sperando di rendermi odioso alla mia patria e di farmi perdere tutti gli amici miei.
A dir ciò non credo giá d’ingannarmi, leggendo nella vostra pagina 37 che avete cuore di rimproverare e insultare l’onesto e innocente Maffei, perché dopo il vostro strano insidioso «colloquio» è resistito mio buon amico per giustizia e non s’è dichiarato per voi contro me; il che avrebbe fatto quell’uomo di probitá, se nel «colloquio» per cui lo seduceste ad esser mezzo sacrificandolo, le vostre richieste avessero avuto la base di quella «convenienza», di quella «onestá» e di quella «giustizia» che decantate.
Che la vostra maliziosa e sciocca volontá abbia puramente cercato un «colloquio» con me per tentare d’aprirvi una via di screditarmi nella mia patria e di rendermi odioso a’ miei stessi amici, si può rilevare nella pagina 42 delle celeberrime vostre detrazioni.
Piantando voi una falsitá per una veritá di fatto e come s’io non vi avessi dimostrato chiaramente il mio arbitrio perduto sulla commedia e la impossibilitá di poterla io sospendere, con una franchezza e una inciviltá portentose, superando voi quel ribrezzo che l’uomo giusto deve sentire, scriveste le seguenti parole: «Confesso il vero che a fronte della ferma ostinazione (cioè impossibilitá) del mal conte (obbligato, mal nobile padovano!) sulla recita del venerdí, non sapeva determinarmi ad una certezza che se le desse poi luogo dopo un maggior riflesso alle irrefragabili mie dimostrazioni (e pur via colle aeree e false e non irrefragabili ma infrante vostre dimostrazioni), come quelle che ponevano l’ipocrisia a sicuro cimento d’apparir denudata in faccia a tutto il paese».
Datemi alquanto di respiro, e vi proverò che per ogni conto l’ipocrita siete voi e non lo son io. Degnatevi di volgere la sublimitá del guardo vostro sulle umili veritá delle Memorie della mia vita, e condannate poscia me, se vi dá l’animo, del proseguimento della replica delle Droghe d’amore dopo la recita indispensabile del venerdí; replica ch’io sulle promesse altrui promisi a voi che non seguirebbe. Se aveste avuta la urbanitá di cercare la ragione d’un tal disordine, avereste rinvenuto che della altrui parola mancata l’offesa era piú mia che vostra.
M’averei forse fatta mantenere quella parola ed era risolutissimo di volerla mantenuta.
I testimoni patrizio Paolo Balbi e Raffael Todeschini furono presenti alla mia determinata risoluzione; ma il villano infamatorio traditore forsennato sollecito viglietto che m’inviaste e che faceste spargere in copia per la cittá, con uno de’ vostri omogenei perspicaci animaleschi soliti strattagemmi, viglietto che certamente non sembra uscito dall’albergo d’un uomo civile né dalla penna di Pietro Antonio Gratarol nobile padovano, ma piuttosto uscito da una taverna e dalla penna d’un facchino ubriaco, doveva ben essere sufficiente a farmi desistere dal cercare che la commedia non corresse sino al giorno del giudizio universale.
È un bel leggere nella pagina 44 della vostra Narrazione questa braveria da voi scritta in Stockholm: «Conte, voi dovete la vita a qualche angelo tutelare che benedimmi, acciò potessi frenare il cieco impeto d’uno sdegno per altro giusto, il quale, guardi Iddio, non represso, ben vi faceva quella notte severamente pagare il fio». — Di che, signor Pietro Antonio? Di que’ torti che la vostra frasca riscaldata fantasia s’era creati per dar retta da maturo e grave secretario d’un senato a’ motteggi insidiosi d’una scenica attrice vostra amante con me irritata? Dio voglia che quell’angelo tutelare, al quale voi dite ch’io ho l’obbligo della vita perché ha benedetto e frenato il vostro furore, benedica i passi vostri e il vostro cervello, onde possiate indirizzarvi a buon cammino e discernere la veritá.
Nella pagina 49 delle vostre bugie, che voi decantate nella pagina 52 per veritá «corpo ed anima delle vostre narrazioni», e che veramente riguardo a me non sono che corpo ed anima della menzogna, è pur delizioso il leggere: «Mi venía detto, né so se fosse vero, che il conte dopo il mio biglietto viveva con una grandissima apprensione, temendo di venir salutato da parte mia come meritava», — con quanto segue di turpissimi millantatori sicarieschi riflessi leggiadri, indegni dell’animo d’un nobile padovano.
Chi mai ha consolata la vostra boria vigliacca narrandovi la grand’«apprensione» in cui «viveva» io delle vostre assassine azioni? Scommetterei che la relazione fu della attrice vostra amante, unica fonte della lunga filza de’ vostri «seppi», «seppi» e «seppi» a me relativi ed unico movente alle vostre stolide violenti direzioni.
A tutte le vostre lorde plebee millanterie da smargiasso ridicolo, oltre all’essere rintuzzate dalie veritá delle mie Memorie, risponderò soltanto colla confessione che fate voi medesimo nella vostra pagina 56 della terribile paladinesca condotta da voi tenuta dopo aver scritto e promulgato l’infame vostro viglietto. Eccola: «Erano omai nove giorni che senza essere ammalato non usciva di casa: bisognava che ne sortissi per non ammalarmi».
La vostra natura, superba, petulante, proditoria, timida e vile ad un tratto, doveva scrivere e aggredirmi col mezzo d’un povero servitore con un viglietto infamatorio sigillato, e far poscia spargere quel viglietto in copia per la cittá dalle mani altrui, perché i prudenti e saggi «amici vostri meridionali» esaltassero la vostra prodezza.
Ma usata una cosí bella decorosa prodezza, conveniva che la vostra natura, superba, petulante, proditoria, timida e vile ad un tratto, si chiudesse in casa per «nove giorni» senza uscire nemmeno colla punta del naso. Se paternamente non foste stato obbligato a scrivermi un viglietto di ritrattazione, e se un tribunale supremo, che metteva in soggezione voi e me, non fosse frapposto tra le vostre follie e la mia sofferenza, credo che sareste ancora chiuso in casa a far capolino e a ricevere gli applausi da’ vostri «amici meridionali» sul portentoso vostro coraggio. Non credo di riflettere male sulla vostra natura, perocché si vede che siete corso tante migliaia di leghe e a chiudervi nella stamperia del cavalier Fouct sino in Stockholm per recenni addosso de’ sozzi libelli con tutte quelle ragioni che si leggono nelle candide Memorie della mia vita.
È certo che dopo la vostra ritrattazione di cui parlerò, io bramoso della vostra cordialitá mi sono incontrato faccia a faccia con voi in Venezia ed in Padova ben trenta volte, e salva la cavalleresca vostra increanza di non movere il cappello dalla vostra grillaia, non scòrsi in voi il menomo segno d’animo guerriero. Eravate allora giá determinato ad una fuga criminosa e mal consigliata. Era quello il momento di sfogare fronte a fronte una valorosa brutalitá e poscia d’andarvene, se vi restavano le gambe. Il vostro cuore di lepre affida ne’ sutterfugi e nella cloaca del vostro calamaio soltanto.
Non crediate però ch’io vi faccia il torto di non considerarvi capace d’una soperchieria a tradimento. Ho troppi segni da dover rispettare la vostra eroica capacitá su questo punto.
Quanto alla ritrattazione ordinatavi dalla giustizia de’ saggi padri nostri, vi protesto ch’io l’ho ricevuta col cuore evangelico e obbediente al testo: «Diligile inimicos vestros» dal canto mio.
Vi sperai ravveduto e giudicai che i vapori del vostro cervello si fossero diradati.
M’ingannava, perocché rinnegate da spiritoso anticristiano e da pertinace nel vostro errore quella giusta ritrattazione, adducendo che da una forza superiore non potevate sottrarvi dal scriverla.
Come! Un uomo terribile come siete voi, che ha giurato di non «curare punto la propria esistenza», che tuona nella pagina 100 d’una sua Narrazione a suo modo: — «Questo mio petto bersaglio di velenosi dardi non s’apre alla viltá, téma non lo punge, del ben oprar non si pente, nella difesa dell’onor non si stanca», — discende poscia per timore a smentir se medesimo con una ritrattazione?
Voi, uomo dragone, non dovevate rispondere al grave ministro che venne a darvi l’ordine cattolico per parte degl’inquisitori di Stato di ritrattarvi delle infamitá che avevate scritte e propalate contro me: — Il tribunale supremo può disporre della mia vita. Non curo punto la mia esistenza. Ho scritto delle veritá. Del ben oprar non mi pento. Non smentisco me medesimo con ritrattazioni. Questo mio petto non s’apre alla viltá, téma non lo punge?
Che sarebbe avvenuto a quella «esistenza» che non curate, se con un atto di sommessione, dovuto verso al tribunale che vi commetteva di ritrattarvi, aveste risposto per tal modo, usando della vostra libertá? La morte vostra? Nol credo. Ma se giá voi non curate un pistacchio la vostra «esistenza»!
Tra gli scherzetti scipiti che si leggono nella vostra pagina 50, tra il desiderio di non accrescere ostacoli a que’ pubblici sovvenimenti che bramavate per portarvi a quella residenza a cui aspiravate, e tra una paura tanto contraria alla fierezza dell’eroico animo vostro e del vostro petto, «che non s’apre alla viltá, che del ben oprar non si pente e che téma non punge», la vostra mano medesima, non condotta dalla «forza sovrana», scrisse, firmò e spedi la ritrattazione.
Ora se il timore d’una «forza sovrana» indusse voi a ritrattarvi, perché poscia, in disperazione di non poter ottenere quanto desideravate per la residenza, fuggito e ricoverato nel settentrione, avete cuore di aspramente rimproverare nella pagina 108 il vostro congiunto Contarini col titolo di «pusillanime coniglio», se buon suddito, nel seno della sua patria, avverso alla vostra fuga imprudentissima e criminosa, preso dal vostro stesso timore d’una «forza sovrana», per non essere condannato d’aver relazione colle vostre bestialitá, depose il plico sigillato delle diciannove vostre lettere, da voi a lui spedite da consegnare a parecchie persone, a’ piedi del Principe suo?
Non nego però ch’egli potesse piuttosto ardere il plico che presentarlo, siccome non lodo que’ vostri «amici meridionali» de’ quali voi benedite «le mani e la voce» nella pagina 100, perché al vostro manifesto che prometteva la sfacciata laidezza della da voi detta Narrazione apologetica, pronunziarono e vi scrissero: — Bravo amico! Fai bene. Ti si conviene di farlo. — Bravi amici veramente saggi e cordiali d’un infelice orgoglioso frenetico ramingo. Voi siete portenti d’amicizia per animare un amico a compiere di rovinarsi per sempre e a perdere ogni speranza di ritornare nel grembo del suo Principe, de’ suoi parenti e tra le vostre braccia.
Conoscete, caro Pietro Antonio, in questa mia esclamazione ch’io vi sono piú amico de’ vostri «amici meridionali», che v’adularono e animarono a scrivere e a pubblicare la vostra pazza Narrazione apologetica.
Poiché voi vi siete estremamente affaticato a dipingermi ipocrita, concedetemi che amichevolmente possa aprirvi gli occhi e farvi conoscere che siete voi un ipocrita e ch’io non lo sono.
L’uomo che per un istinto naturale sente la simpatia inestinguibile per le donne, e talora accecato dall’attrazione reciproca cade in qualche errore all’umanitá remissibile, errore ch’egli confessa esser errore, ma che cerca di tenere celato nel buio, non per se medesimo ma per non cagionare dello scandalo nelle famiglie e nel pubblico e per un dovuto riguardo all’onore, al decoro e a’ disordini ne’ quali potrebbe esporre una tenera amica egualmente accecata e caduta nell’errore medesimo, è l’uomo prudente e cristiano e non l’uomo ipocrita.
Egli è ben vero che nemmeno puossi chiamare «ipocrita» l’uomo immerso ognora pubblicamente nella voluttá della concupiscenza, in trasporto generalmente per il bel sesso, vago della novitá degli oggetti muliebri, che studia accuratamente l’arte e gli aiuti della seduzione, che predica la libertá, che fuga i riguardi necessari come pregiudizi, che con l’insidia dell’adulazione e de’ sofismi distrae le femmine dai doveri famigliari, dall’affetto a’ mariti e verso la loro prole innocente, che fomenta i loro deboli cervelli all’appariscenza, alle mode incostanti, a’ modelli, a’ colori, al lusso sterminatore, al gareggiare ne’ circoli colle lor simili nella leggerezza detta «buon gusto», che cagiona delle dissensioni nelle famiglie, che dá il nome leggiadro di «galanteria» all’adulterio e infine che innalza il vessillo del vizio sulla sconfitta della virtú.
A un tal uomo, a cui certamente non si può dare il nome d’«ipocrita», lascio a voi, signor Pietro Antonio, l’arbitrio di dar quel nome che se gli conviene.
Se però l’uomo che sostiene possibilmente la virtú per debito di religione, per utilitá d’una sana morale, per mantenere in vigore la necessaria subordinazione ne’ popoli e per utile delle societá, si merita il nome d’«ipocrita» soltanto perch’egli è uomo, non vi offendete ch’io consideri bestia perniciosissima al genere umano l’uomo che non si può chiamare «ipocrita» per la sola ragione che, levando egli il guinzaglio alle umane passioni, innalza il vessillo del vizio sulla sconfitta della virtú.
Ma voi, misero effemminatuzzo occupato il cervello dalle leggerezze e dalle frasche di Cupido, vi chiudete a credere e a chiamare «ipocrita» l’uomo che sostiene la virtú perch’egli condotto da una simpatia naturale ha dell’affetto per qualche femmina? V’ingannate. Estendiamo alquanto piú la denominazione d’«ipocrita», com’è dovere; e conoscerete che voi siete un ipocrita e ch’io non lo sono.
L’ipocrita veramente è quello che per delle mire di giugnere ad una meta che s’è prefissa, qualunque sia questa meta, costringe il di lui esterno a comparire diverso dall’interno suo.
Ora s’io non volli mai cariche, né mai onori, non mai lucri, se fui pago del mio proprio stato, se vissi sempre a me medesimo alienissimo dal coltivare possenti, se non fui giammai spigolistro, se mi sono spassato ognora a favellare ed a scrivere libero scherzevolmente facendo l’osservatore, se non fui schizzinoso nelle mie pratiche generali, se soprattutto sferzai l’ipocrisia e gl’ipocriti, se non ho mire di giugnere ad alcuna meta; come mai, Pietro Antonio, ammaestrato dall’unico libro d’una attrice scenica vostra amante e con me irritata, vi sforzate da classico uomo leggero e pettegolo di porre a me le vesti indosso e la maschera sulla faccia dell’ipocrita?
Leggete le ingenue Memorie della mia vita, rileggete gli scritti miei, che infingendo dite d’aver letti con tanto piacere; mi troverete interamente svelato e senza maschera alcuna: formatemi un rigoroso processo a delle fonti piú pure e piú sincere, e scoprirete l’uomo che originalmente ho qui sopra dipinto.
Se dunque un tal uomo che a niente aspira non veste i panni giammai dell’ipocrisia, vediamo se voi per avventura vi siete coperto di quelle vesti.
V’è una setta che per universale parere è setta d’occulta fissata istituzione di progetti esecrandi sulla augusta religione, sulla armonia delle subordinazioni conformata nell’universo, progetti tenuti nel buio da orribili giuramenti e progetti ch’io non dirò; e nondimeno cotesta setta sostiene un esterno di affabilitá, si predica una societá d’indifferente saporito divertimento e si predica amica, consorella ed amante di tutto il genere umano. Ipocrisia infernale di terribile conseguenza.
Vi ricordo che vi vantaste pubblicamente membro considerabile seguace d’una tal setta; ch’io non fui, non sono, non sarò mai seguace d’alcuna setta rivoltosa, e che non mi studio di tener celato il mio interno giammai, perché veramente non sono ipocrita.
Potrei provare che il vostro interno ambizioso, aspiratore a folgoreggiare nel fasto e ne’ gradi sublimi, ma leggero, iracondo, superbo, puntiglioso, acceso e mal atto a’ gravi maneggi, fu coperto da un esterno di fiorellini superfiziali, vale a dire di qualche estero linguaggio apparato, d’una vivace prontezza di chiacchierare, di una facilitá diuretica di schiccherare sopra a de’ fogli de’ periodi alla vostra foggia; esterno ipocrita favorevole ad una impostura abbagliatrice e incantatrice i sciocchi, gl’ignoranti e le femmine.
Tralascio questa prova giá conosciuta da’ piú maturi, piú saggi e piú giusti ragionatori che voi non siete, e mi ristringo a provare in voi l’ipocrisia colle vostre confessioni medesime.
Non confessaste voi nel carpito «colloquio» a me ed al Maffei d’aver fatta la corte a delle dame principali che avevano facoltá sul cuore de’ Grandi, da’ quali dipendevano i soccorsi che bramavate e gli uffizi luminosi a’ quali aspiravate; ed anzi non scrivete voi nella vostra Narrazione, senza rossore, che faceste la corte ad alcuna di quelle per «tre anni di nauseante coltura»? Ecco l’ipocrita vero.
E nella pagina 57 della vostra Narrazione non si legge forse che «vinto voi dalla piacevole immaginazione di presto uscire per lungo tempo d’un paese in cui non vi potevate piú vedere », usaste l’arte di cambiar sistema di contegno, di vestiti e di vita per spuntare di poter partire verso il grandioso uffizio a cui aspiravate di residente alla regia corte di Napoli? «V’allontanaste dalle pubbliche societá. Non piú gale, non piú lusso, non piú casini, non piú conviti, non piú stravizi, non piú botteghe di caffè. Ritirato nel vostro albergo, vestiste sempre a nero, benché di carnovale», eccetera.
«La volpe andava tardi a Loreto», caro amico, e se questa non è la figura originale dell’ipocrita, smentitemi.
Le vostre eterne frivolezze di costume da voi vantate, la lunga serie delle vostre seduzioni muliebri, le vostre «galanterie», il vostro bamboleggiare nelle frasche erano troppo noti e mal sofferti dagli assennati, ed eravate troppo conosciuto piú per ministro del tempio di Venere che per ministro del grave senato d’una repubblica, perché l’improvvisa metamorfosi vostra non fosse conosciuta ipocrisia. Lasciatemi replicare il proverbio: «La volpe andava assai tardi a Loreto».
Non istupisco però che voi proccuriate con quanto vigore avete nelle vene di predicare in me l’ipocrisia per screditarmi agli occhi del mondo.
Tutti gli uomini che, per quanto possono, sostengono la religione, la subordinazione a’ governi, la rassegnazione, la morigeratezza, il riguardo, la modestia, la rattenutezza, il freno delle passioni e la virtú, non sono prudenti, ma sono ipocriti agli occhi de’ vostri pari.
Voi vi vantate membro d’una setta che s’è prefissa di rovesciare tutte le regole stabilite dall’esperienza e da’ saggi, sull’umanitá incostante, inquieta e molesta, e setta che s’è ostinata a seminare una mèsse di morale a rovescio; mèsse di confusione, di trambusto, d’angustie e d’incendio a tutti gli Stati e a tutte le famiglie de’ miseri mortali; e però tutti coloro che si oppongono alle vostre mire animalescamente diaboliche di rovesciamenti e d’innovazioni brutali, secondo voi non sono che ipocriti.
Ululando dal canto vostro e dipingendo come pregiudizi con de’ sofismi tutte le regole fondamentali concatenate e consolidate da’ prudenti per il minor male del genere umano, tentando di sbarbicare accaniti le radici del bene, proccurate di piantare e di far germogliare quel male con cui sperate d’immortalarvi come l’incendiario del tempio di Diana.
V’ingannate, il mio Pietro Antonio! Le vostre missioni e le missioni della vostra setta contagiosa potranno accrescervi qualche numero di proseliti, perocché gli uomini e le femmine hanno il germe d’una inclinazione alla libertá di pensare, d’operare e allo sfogo delle passioni. Siate però certo a mortificazione vostra e della vostra setta, che sino al dí del giudizio i vostri proseliti maschi, che voi chiamate «filosofi spregiudicati», saranno considerati e chiamati solennemente dalla vasta massa universale degli uomini «guastatori di cerebri, miscredenti, antimorali», ironicamente «spiriti forti» e veridicamente «fanatici e bruti da fuggirsi»; e che i vostri proseliti femmine saranno detti dalla generalitá de’ viventi con una ironia dileggiatrice «femmine del bon ton» e «filosofe spregiudicate», ma essenzialmente, solennemente e veridicamente saranno sempre giudicate e chiamate dalla generalitá de’ mortali «femmine di perduto onore, sfrenate, matte e bagascie».
Il bello sará, Pietro Antonio mio, l’udire che se queste femmine vostre proseliti contrasteranno irritate l’una con l’altra, si tratteranno co’ sopra accennati titoli per vilipendersi, perocché il male non cambia mai di natura ed è conosciuto da tutti. Ciò sia detto a gloria della generalitá, prossimo mio; ed a rossore de’ pochi proseliti vostri, maschi e femmine, per lor sciagura non piú suscettibili di rossore, e prossimo vostro.
Ma ritornando in sul proposito della vostra apologetica Narrazione vi protesto ch’io v’ho sempre considerato ingegnoso, non però a segno d’inventare e d’accozzare tante menzogne e tante villane ingiurie contro di me senza ch’io v’abbia dato il menomo argomento dal canto mio.
Leggo nelle pagine 15 e 16 di quel libro che «vi sareste trattenuto di visitare la Ricci, s’io vi avessi fatto intendere con civiltá d’aver dispiacere; ma che sapeste tante cose indegne da me usate per allontanarvi, che vi dichiaraste competitore di visite». Che effemminata puerilitá!
Ma perché, caro amico, in sui primi spruzzi di velenoso sospetto istillati in voi da quella attrice, non faceste voi intendere a me «con civiltá» il vostro sospetto, senza usare delle mosse imprudenti che dessero corpo ad un’illusione e stuzzicassero il pizzicore ne’ vostri nimici di vedervi posto in ridicolo? Quali sono, di grazia, le cose indegne che sapeste da me usate per allontanarvi dalla vostra novella amica? Quelle che di giorno in giorno raccoglieste frascheggiando dalla voce medesima, che vi aveva fatto credere ch’io aveva posto il vostro carattere nella mia commedia.
Lascio giudice tutto il mondo se per aver dato qualche consiglio non mai a voi offensivo ad una donna mia comare, che da piú di cinqu’anni aveva salvata dalle persecuzioni de’ suoi oppressori, che aveva sostenuta, innalzata, migliorata nel di lei stato e posta in decoro secondo la di lei condizione; se per salvarla dal flagello delle esose detrazioni sull’onor suo, de’ suoi compagni, che offendevano anche me, sull’aspetto di mercenaria galante in cui per la di lei debolezza voi l’avevate posta, forse senza avvedervi, colla vostra introduzione co’ «diavoloni» ad una pratica con lei famigliare e confidenziale, potete dire d’aver sapute «tante cose indegne da me usate per allontanarvi», da dovervi dichiarare competitore di visite? Puntiglio in vero necessario, anzi indispensabile alla gravitá e circospezione d’un secretario del senato, eletto ministro ad una corte reale per una repubblica.
Nelle pagine medesime 15 e 16 voi scrivete con franchezza che «nell’aprile 1776 la compagnia comica partí da Venezia e che il poeta (che son io) rimase a covare le sue vendette». Quali vendette in una commedia ch’io aveva scritta sino ad oltre la metá dell’ultimo atto nel dicembre 1775, e quali vendette se vedendo inutile qualche mio amichevole, moderato, onesto consiglio, per salvar me e per salvare la povera attrice affascinata da’ libelli, ad onta delle di lei insistenti circuizioni a me fatte per indurmi a servire d’ombrello alle di lei imprudenze, sino da’ primi giorni del febbraio anteriore al vostro «aprile» io m’era da lei allontanato, lasciandola liberamente in balía della vostra «competenza di visite» e de’ suoi e de’ vostri «permessi piaceri»? L’avida vostra sete di screditarmi ingiustamente v’acceca, per modo che non aveste riguardo a narrare nella pagina 43 della vostra putredine, in sul proposito dell’esser io andato da una dama per cercare di favorirvi nella vostra miseria di prostituzione, come potrete rilevare dalla veritá delle mie Memorie: «Sett’anni erano che, non so se volontario o proscritto, il conte non s’era avvicinato alla dama», eccetera.
Che sett’anni? che proscritto? Voi siete un insetto che fa degenerare il zucchero in arsenico. Io non fui giammai proscritto che dalla vostra perversa natura e dalla vostra maligna, bugiarda, vile e brighellesca immaginazione. Voi premiate con tali mendaci e infami riferte chi fu da una dama vostra nimica, «che ha giurato d’esservi fatale», per disarmarla, per porre in opra le piú ferventi preghiere e per aderire alle vostre premure?
Ma s’io volessi riandare e confutare tutte le menzogne che beveste alle vostre torbide fonti e a voi suggerite dal vostro cervelletto bollente, e rabbiosamente scompisciate contro me dalla vostra vena fracida e perenne sui fogli della vostra Narrazione, averei troppo lunga faccenda. La disfida che m’avete fatta di scrivere non ammette tardanze, e i vostri «amici meridionali» avrebbero da attender troppo lungo tempo a spedirvi a Stockolm, come avete ordinato, questa mia lettera, onde poter voi «ridurla», confidando nel vostro intelletto celeste, «in feccia etereogenea, putrida e puzzolente», di che v’impegnate nella vostra pagina 52.
Prego cotesto vostro intelletto celeste a usarmi la clemenza di leggere le Memorie della mia vita, piena quanto ella è lunga di veritá, «corpo ed anima» di ciò che contengono. Imparate a conoscermi, informatevi del vero a fonti piú limpide di quelle alle quali vi dissetaste, e poscia lordate quanti fogli volete contro di me a piacer vostro, se vi dá il cuore.
Tre cose mi fecero ridere nel leggere la vostra Narrazione. L’una è che, rabbioso e abbandonato voi al dolce piacere del soave raglio del dir male, senza avvedervi di abbassare la vostra grand’anima e di avvilire la vostra penna sublime, vi lasciaste trasportare a scrivere delle feroci e fulminanti invettive insino ad un Truffaldino. Vi confesso che a quel passo a me parve di leggere una scena del signor Fiorindo collerico col suo servo Truffaldino.
L’altra è la previsione e l’idea che vi formate nella pagina 51, ch’io prenderò la penna per rispondere alla vostra Narrazione: «perocché — dite voi parlando con me — io credo che non abbiate altri affari se non che star seduto a scrivere o visitare qualche comare».
Questa vostra faceta supposizione, che fa conoscere sempre maggiormente che vi siete posto a schiccherare de’ quinterni d’ingiurie da bordello contro me senza conoscermi e col solo fondamento delle vostre indovinazioni da strologo della piazza, mi fece ridere.
Se vi degnerete di leggere le Memorie della mia vita, rileverete che le mie occupazioni principali pesantissime sono ben altro che starmi sedendo a scrivere per diletto e di far visite a qualche comare.
Quantunque io non abbia né moglie né figli e sia padrone di me medesimo, troverete che i momenti del mio scrivere sollazzevole e delle mie pratiche di ricreazione non sono da me còlti che per una distrazione dalle penose fatiche e dagli afflittivi molesti pensieri che m’occuparono e mi occupano per la mia diramata famiglia; e se siete in grado di guarire per qualche momento dalla furiosa animalesca pazzia e d’essere ragionevole per un lucido intervallo, comprenderete che se i pensieri vostri principali fossero stati come i principali pensieri miei, riguardo alle vostre ispezioni, alla vostra famiglia ed a’ vostri congiunti, non vi trovereste ora nelle stufe settentrionali della stamperia del cavalier Fouct a bestemmiare pagine vendicative e brutali, senza dar retta a’ consigli né al sincero dolore de’ vostri amici veraci, e benedicendo que’ fanatici che gridavano o vi scrivevano: «Bravo amico! fai bene. Ti si conviene di farlo».
La terza lettura che mi fece ridere è quella seria, tremenda minaccia che mi fate nella pagina 53 per questo modo: «Per ultimo ricordo vi avverto: pensateci bene pria di negarmi qualunque picciolo de’ miei cenni sui vostri amori. S’essi hanno fatto perdere il giudizio a voi, non fate che lo perda io a convincervi maggiormente». — Chi non doveva ridere nel leggere che voi supponete per cosa certa d’aver ancora del giudizio da perdere?
Credetemi, signor Pietro Antonio, che quando averete provato ch’io abbia avuto dell’amore per una giovane che aveva del merito, avrete provato soltanto ch’io non sono un pilastro e che sono un uomo.
L’assunto vostro è di provare che per una mia debolezza di gelosia vendicativa abbia io esposto voi alle pubbliche risa in un teatro nella mia commedia: Le droghe d’amore la qual proposizione non sará mai che una schifa bugia voluta sostenere dal vostro ingiusto livore e dal vostro anticattolico desiderio di screditarmi.
Concludete che due femmine, l’una delle quali v’ha giurato «d’esservi fatale», l’altra inviperita con me per quelle irragionevoli ragioni che potete leggere nelle mie Memorie, che v’ha intabaccato e auzzato contro di me, i vostri timori di meritarvi ciò che v’è avvenuto, le vostre mosse imprudenti e fanciullesche e la brutale venalitá d’un capocomico, di troppo protetta, che seppe cogliere un momento lordamente per lui fortunato, fecero divenire la mia commedia, per vostro danno e per mio sommo rammarico, una satira personale senza il menomo fondamento.
Perdoniamo a tutti, caro il mio Pietro Antonio, amiamo tutti, cerchiamo con ciò la calma degli animi nostri e di far uso migliore delle nostre penne.
Proccurate di espurgare il vostro cervello sovvertito dalle letture de’ dicentisi moderni filosofi, ch’hanno omai sconvolto e fatto cambiar aspetto a tutte le cose con de’ sofismi ciarlataneschi.
Quando sentirete rinascere in voi la stima e la venerazione verso san Pavolo, grand’uomo, gran santo e gran filosofo da costoro sprezzato, e sentirete nascere in voi il disprezzo e l’abborrimento per Epicuro da costoro esaltato, sará quello il segno propizio della guarigione del vostro cervello, e l’animo vostro procelloso e insolente diverrá tranquillo ed urbano.
Quanto a’ titoli che m’avete inviati nella vostra Narrazione, di «mal conte», di «mal cavaliere», di «indegno», di «impostore », di «mancatore», di «mentitore», di «falso filosofo», di «ipocrita», di «caupone», e s’altri ve n’ha di consimili l’avvinazzato vostro volume rabbioso di a me diretti, gli ho tutti raccolti, intrecciati, ed ho formato d’essi una ghirlandetta. Ella non istá bene sopra al mio capo. La consegno a’ vostri «amici meridionali» perché la spediscano a voi coll’indirizzo che avete dato loro, non giá perché adorniate il vostro cranio fumante, abborrendo io d’imitare le vostre villane indiscretezze, ma perché la posiate sulla fronte di qualche animale sopra cui ella calzi bene.
Dal canto mio vi giuro che desidero cordialmente di sentire verificate le espressioni della vostra pagina 82: «Cercherò in altro cielo l’antico onore e nuova pace e fortuna»; — e se mai mi verrá la notizia che siete salito ad essere imperatore del Mogol, sará indicibile la mia esultanza.
Non so nascondervi tuttavia che riflettendo all’indole vostra arrischiata, presuntuosa, ostinata, imprudente e superba, temo con mio dolore che vogliate terminare i giorni vostri come il Rodomonte dell’Ariosto:
Bestemmiando fuggí l’alma sdegnosa, |
A dispetto vostro io voglio essere
- Di voi, signor Pietro Antonio
il migliore de’ vostri «amici meridionali» Carlo Gozzi. |