Memorie inutili/Appendice/II

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II

CARLO GOZZI

alle sue «memorie»

Dilette Memorie mie, se voglio dar retta a ciò che vedo succedere, non ho preso un granchio a intitolarvi: Memorie inutili.

Voi non contenete che delle veritá opponenti a delle menzogne, e v’è chi vuole veritá la menzogna e menzogna la veritá con una forza alla quale non potete né dovete opporvi.

All’apparire d’una ristampa in Venezia in quest’anno 1797 della biliosa Narrazione detta «apologetica» dell’infelice Pietro Antonio Gratarol, dilaniatrice la vostra fama onorata, valendomi io d’una opportuna libertá data alle stampe, ho pubblicato un mio Manifesto uscito da’ torchi di Carlo Palese sino dal giorno primo del luglio trascorso, in cui prometteva di esporvi sotto agli occhi della mia nazione, perché quella ingenuitá che v’accompagna e ch’è il solo merito vostro vi espurgasse dalla calunnia e da’ titoli infami co’ quali foste indegnamente trattate dal povero Gratarol ingannato, sedotto, infiammato il cerebro e a torto furioso contro voi.

Ebbi sincera contentezza nel leggere un decreto pubblicato il dí ventinove dell’agosto scaduto, che non solo abilitava la memoria di quell’esule sfortunato defunto, ma rimetteva in grado di ricuperare dalle ingiuste disposizioni del fisco alcune sostanze le di lui oppresse cugine. Quel decreto a me caro nacque sulla base di certa relazione ch’è pur stampata preliminarmente in fronte di quello.

Non spetta a me l’esaminare se le cose esposte in quella relazione, le quali non attaccano voi, Memorie mie, sieno vere e giuste in tutte le parti loro. Saranno giuste e vere per avventura e non saranno un composto ingegnoso di alcune fantasie [p. 252 modifica]riscaldate, bistorte ed avide di tuonare delle invettive per delle mal concepite passioni. Ciò voglio io credere con fermezza.

Ma perdonate, care le mie Memorie, se nel trascorrere la lettura di quella relazione, fondamento d’una matura deliberazione della giustizia, vinto dal mio naturale risibile, non potei trattenere le risa nel leggere questo periodo che vi comprende:

«Le furie persecutrici d’una donna orgogliosa, il talento e la passione d’un autore assai celebre lo resero, con orrore de’ buoni, oggetto di scherno e di ludibrio comune su di una scena prostituita per opera d’un mimo vile ed infame».

Se dopo il mio Manifesto da me pubblicato il dí primo luglio 1797, che vi annunziava promettendo la vostra difesa, si potesse il dí ventinove agosto 1797 sorpassare, involgervi con una mirabile, determinata e franca pertinacia negli errori delle memorie altrui, pronunziare questo periodo e farlo stampare in fronte ad un decreto della giustizia, lo lascio considerare agli animi giusti.

Credeva che la libertá medesima che ha un accusatore d’accusare potesse esser reciproca nell’accusato per difendersi dalle accuse; e se il sopra ricopiato periodo non è figlio legittimo della violenza e di quella oligarchia contro cui tanto si strilla, anderò volontario a chiudermi tra le mura dell’ospedale de’ pazzi a San Servolo. Gli affettati titoli che mi si dánno in quel periodo, di «autore assai celebre» e «d’uomo di talento», per poter medicare l’acerbezza della brutale «passione» che mi si vuole a forza attribuire e per autenticare in me ostinatamente degli errori ne’ quali non sono trascorso giammai, sono da me solennemente rifiutati. Il titolo di «autore assai celebre» non mi si perviene, e il titolo d’«uomo di talento» è a me d’accusa maggiore, perocché abbiamo oggidí pur troppo lo specchio sotto agli occhi d’uomini pessimi appunto per essere uomini di talento e che sarebbero meno dannosi all’umanitá se fossero scimuniti. Io non dirò d’avere e di non avere talento, ma dirò d’esser certissimo ch’io non fui, non sono e non sarò giammai cattivo, come alcuni uomini che usano diabolicamente d’un dono di talento che Dio ha loro concesso. [p. 253 modifica]

Dilette Memorie mie, scusate le risa che mi smucciarono per una sorpresa, leggendo un periodo che dinota una faceta, falsa, intrepida fissazione a vostro pregiudizio.

Ciò che ha frenate alquanto le mie risa e commosse il mio spirito fu il leggere sopra a quel periodo queste due parole: «Widiman relatore». La soavitá, la probitá, la prudenza, la urbanitá, la giustizia, a me e a ciascheduno palesi del Widiman, marcato per «relatore», massime dopo la pubblicazione del mio Manifesto due mesi prima, non pronunziarono assolutamente un periodo com’è stampato, che riconferma per veritá le esagerate invettive bugiarde, calunniose e infamatrici, lanciate da Stockholm da un commiserabile raggirato da’ propri errori, disperato, furente e ramingo, a denigrazione della fama d’un suddito ognor fedele, mansueto, onorato e incapace d’usare, non che un’insidia ad un uomo ben nato, il menomo sgarbo alla piú vile persona del volgo.

No certamente: il Widiman non è capace di volere, con una soverchieria confermata e ribadita con falsitá nell’opinione degli uomini, una macchia al buon nome d’un suo concittadino, che fruí della grazia pregiabile del di lui padre e che guardò con occhio ognor rispettoso non meno la di lui persona che tutte quelle della di lui famiglia umanissima.

De’ fanatici impuntigliati amanti e sostenitori delle bestialitá, vaghi di frugare nelle fogne per innalzare del puzzo e infettar l’aere delle cittá, avranno condotta la mano d’un eroe redattore o quella d’un avido stampatore per far apparire che il Widiman abbia detto ciò che non ha pronunziato e per volermi tenere con sopraffazione involto e accomunato in una spregevole azione, colla quale non ebbi giammai né relazione né consentimento né parte.

Chi chiedesse a cotesti profondi pensatori fanatici, che vogliono rispettate l’ombre de’ morti senza rispettare dal canto loro né morti né vivi, donde abbiano rilevato ch’io abbia posto sopra una scena l’infelice Pietro Antonio Gratarol, altro non risponderanno se non che: — Noi lo sappiamo dalla Narrazione apologetica stampata in Stockholm e da noi fatta ripubblicare [p. 254 modifica]per la felicitá di Venezia; narrazione di quel grand’uomo letteratone a null’altro simile e nondimeno nostro similissimo e confratello; libro quintessenza di veritá, libro testo ed unica nostra guida, libro angelico da noi idolatrato e tenuto ne’ nostri seni legato in velluto cremisi. Getta dunque la penna e soffri, anzi adora le nostre urbanissime impertinenze.

Costoro non vorrebbero esser creduti bestie, e però non camminano in su quattro zampe. Non si degnano d’esser uomini, e però non camminano in su due piedi, come gli uomini fecero e fanno sino dalla creazione d’Adamo. Pretendono di passare per enti novelli ed originali, e perciò camminano colle mani a terra e co’ piedi inalberati per l’aria.

Questo rovesciamento d’appoggio de’ loro cervelli e delle loro viste cagiona in essi anche un naturale rovesciamento di pensare, di vedere e di ragionare, che gli rende veramente nuovi oggetti strani ed originali. Vedono il male per bene, il bene per male; la giustizia per ingiustizia, la ingiustizia per giustizia; la discrezione per indiscretezza, la indiscretezza per discrezione; la menzogna per veritá, la veritá per menzogna; le regole per irregolaritá, le irregolaritá per regole; la innocenza per reitá, la reitá per innocenza oppressa; il torto per ragione, la ragione per torto; la pazzia per saviezza, la saviezza per follia; e va’ discorrendo.

Tali mostri novelli predicanosi filosofi, animati dal rovesciamento del loro pensare e delle viste loro, sbalordiscono i mortali colle urla orrende delle lor false proposizioni, de’ loro stravolti progetti, de’ loro sconvolgitori sistemi e con un rovesciato vorticoso linguaggio ch’essi battezzano per energico. Ecco tutta la loro originalitá.

Leggesi nell’articolo 48 alla pagina 100 della Narrazione del miserando Gratarol stampata in Stockholm, ch’egli aveva enunziato in alcune gazzette la pubblicazione del di lui volume col fiele d’una iraconda velenosa Apologia; e leggonsi in quella pagina le seguenti parole: «Quanti consigli, quanti riflessi, quante preghiere acciò mancassi di parola al pubblico!».

Sapete voi, Memorie mie, da chi uscissero i «consigli», i «riflessi», le «preghiere» diretti al povero Gratarol acceso il [p. 255 modifica]cervello, perch’egli non pubblicasse il libro de’ suoi libelli? Erano d’uomini giudiziosi, che camminavano su due piedi come gli uomini veri, che conoscevano l’indole del lor governo e de’ cuori della lor patria, che amavano il Gratarol, che bramavano di rivederlo, i quali prevedevano che senza quella audace pubblicazione, figlia dell’ira cieca, della imprudenza e dell’orgoglio, avrebbe potuto ancora rientrare nella pubblica grazia, ottener degli uffizi dovuti alla di lui onoratezza e attivitá e morire nel seno de’ suoi congiunti e della sua patria tranquillamente.

Leggesi pure nel medesimo articolo 48 nella stessa pagina 100 del detto libro che, in sull’avviso foriere della di lui opera insigne da lui dato al pubblico, alcuni, creduti amici da quel furibondo, gli fecero giugnere queste esclamazioni d’un giubilo forsennato: — Bravo amico! fai bene; ti si conviene di farlo.

Cotesti da lui chiamati «amici meridionali» e da lui considerati veri amici furono di quegli enti novelli che camminano colle mani per terra e colle gambe all’aria, come anche quel meschino camminava per sua sciagura; i quali vedono, pensano e consigliano al rovescio e che, dileggiando tutti i loro concittadini i quali si reggono e camminano co’ piedi, adulano e fomentano l’irascibile di tutti i seguaci della loro originalitá.

Ora non è maraviglia, Memorie mie, che uno strano libro consigliato da questi tali nuovi uomini sia da lor sostenuto a diritto ed a torto, colla violenza e co’ sutterfugi in tutte le sue parti, e se cercano con tutto lo sforzo loro di render vane tutte le impuntabili veritá che contenete, onde si verifichi a gloria della ingiustizia loro il titolo, ch’io v’ho posto per umiltá, di Memorie inutili.

Essi non si vergognano di scrivere intrepidamente le Memorie ultime di Pietro Antonio Gratarol coi documenti della di lui morte per servire di supplemento alla «Narrazione apologetica » del medesimo autore, nel qual opuscolo si legge il doloroso funesto fine avvenuto nell’isola del Madagascar di quell’esule fuggitivo, da me piú che dagli editori delle Memorie ultime compianto, carico di debiti di somme considerabili di zecchini verso a de’ liberali inglesi; e fine doloroso e funesto [p. 256 modifica]avvenuto per gli entusiasti ambulanti co’ piedi all’aria che ognora adularono le di lui leggerezze, e che alla di lui minacciata Narrazione libellatrice, vendicativa finale della lunga serie delle di lui imprudenze, consigliarono, al contrario dei buoni prudenti amici, ululando: — Bravo amico! fai bene, ti si conviene di farlo, — troncando cosí a loro medesimi la speranza per sempre di rivedere, abbracciare e baciare un amico da lor amato d’un amore infinitamente peggiore dell’odio.

Io non so ben bene, Memorie mie, se queste stravaganze naschino dal camminare, dal pensare e dal vedere a rovescio; da una frenesia, dal fanatismo, da un mal animo o da una mira di fetentissimo mercimonio librario.

Ho scritta una Lettera confutatoria sin dal giorno venticinque d’ottobre dell’anno 1780 sopra a quanto il mal consigliato Gratarol procelloso nell’ira ha proccurato di far credere al mondo di me nella sua Narrazione, colla deliziosa immagine d’infamarvi, stimolato da’ consigli di alcuni prudenti, ch’egli ha considerati di lui «amici meridionali».

La discrezione che si deve usare verso ad un uomo sventurato, che fatalmente non è piú tra i vivi, m’aveva fatto risolvere a strappar questa Lettera confutatoria dal volume di voi, Memorie mie, e di tenerla chiusa ed inedita; ma la indiscrezione insistente nell’ingiuria che mi si fa col volere ostilmente sostenere ch’io ho esposto alle pubbliche risa sopra una scena nella mia commedia intitolata: Le droghe d’amore, per una puerile mia passione, quel commiserabile ora defunto, mi fa risolvere a pubblicare anche quella lettera in vostra compagnia. Sia giudicata la indiscretezza dalla parte dov’ella alberga.

Mi lusingo che se il povero Gratarol vivesse, com’io vorrei, e leggesse il mio Manifesto, le mie Memorie e la mia Lettera confutatoria, egli diverrebbe molto piú discreto verso me che non sono i fanatici suoi «amici meridionali». Non mi lusingo giá che le medesime letture instillino discrezione e purghino le teste d’alcune serpi vaghe di ravvivare e disotterrare delle immondezze sepolte e scordate, colla deliziosa immagine di usare un’eroica azione. [p. 257 modifica]

Mi crederei fortunato se mi riuscisse di raddrizzare de’ sbilanciati cervelli, che vorrebbero capivolgere la intera mappa mondiale a seconda delle loro idee guercie, disordinate e sconvolte.

Per quanto questi cagnolini s’affaccendino per oscurarvi, per non lasciarvi leggere e perché siate inutili com’io v’ho intitolate, care Memorie mie, siate tranquille. I giusti saggi vi leggeranno, e la vostra semplicitá e candidezza fará loro conoscere chiaramente la menzognera insidia pertinace de’ turgidi raggiratori rovesciatori de’ cervelli, della soda morale e delle massime salubri delle famiglie, delle societá e de’ popoli.

Difendiamo gli animi nostri dallo sdegno, dal livore e dal desiderio di vendette. Preghiamo Dio di voler raddrizzare i rovesciati cervelli che ci molestano. Perdoniamo ed amiamo tutti, e spassiamosi cantarellando sul chitarrino l’ottava dell’antico poeta toscano Antonio Alamanni:

     Mentr’io mi stava solo e scioperato
aspettando alla ragna i beccafichi,
la cagion del lor nome ho ritrovato
esser solo il beccar che fan de’ fichi.
Noi che gli becchiam lor quando han beccato,
possiam chiamarsi beccabeccafichi.
Or se chi becca è ribeccato poi,
guardiani che un altro non ribecchi noi.