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lettera confutatoria 297


Ho preteso di scemare la vostra miseria, né ho la vostra ambizione per credere di farvi un onore in ciò che v’ho progettato, siccome non ho la viltá di non ridere e di non beffare le vostre asinesche espressioni petulanti.

Io vi progettai di far stampare un prologhetto in versi, che giustificava voi e me sulle sparse dicerie, e di farlo donare quella sera a tutti gli spettatori ch’entravano nel teatro; prologhetto ch’io lessi anche a voi e al Maffei, e voi altamente con una sublime increanza rifiutaste cotesto prologo chiamandolo «acqua ed acqua».

Voi asserite nella stessa pagina 41 ch’io vi aveva detto «di far recitare tra il secondo e il terzo atto della commedia quel prologo». — Mentite. Io v’ho detto di farlo stampare e donare. Ma cosa da voi assolutamente rifiutata come «acqua ed acqua», con tutti gli altri progetti ch’io credei buoni, non doveva essere né donata in istampa né recitata da’ comici, per obbedire a’ vostri increati solenni rifiuti.

Voi dite nella pagina stessa che nel prologo «di circa una ventina di versi» io diceva «essere quella commedia un puro tradotto da un originale spagnolo». — Mentite. A me non uscí mai dalla bocca né dalla penna che quella commedia fosse una pura traduzione. Ho detta e scritta sempre la veritá, cioè ch’era tratta da un’antica commedia spagnola di Tirso da Molina. Dal termine «tradotta» al termine «tratta» v’è quella lontananza che voi, discepolo del grand’uomo Natale dalle Laste come vi vantate, siete in debito di sapere. Se la testimonianza del Maffei, ch’io dissi sempre «tratta» e non «tradotta», non basta, leggete il mio prologo e il mio memoriale storico presentato agl’inquisitori di Stato, dove non si dicono bugie e dove le vostre bugie furono rispinte. Quelle due carte sono fedelmente stampate nelle mie Memorie, e potrete vedere ch’io dissi e scrissi perpetuamente «tratta» e non «tradotta», anzi troverete espresso ch’io ridussi l’argomento spagnolo al gusto de’ nostri teatri.

Si legge in quella vostra medesima pagina 41 che io vi dissi che «v’ingannavate nel credere che stesse nel mio arbitrio il