Ciceruacchio e Don Pirlone/Capitolo I
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Capitolo Primo.
Importanza di un uomo o di un giornale in un dato momento storico. — Condizioni politiche e civili dello Stato romano dopo il trattato della Santa Alleanza. — Il governo reazionario di Leone XII. — Il pontificato di Gregorio XVI. — Le insurrezioni e il duplice intervento. — Svizzeri e centurioni. — Le congiure e i moti italiani del 1843, ’44 e ’45. — Morte e carattere di Gregorio XVI. — Gli Stati italiani al principiare del 1846. — Il reame napoletano. — La Toscana e il governo di Leopoldo II. — Il Ducato di Lucca e Lodovico di Borbone. — Modena e Francesco IV e V. — La duchessa Maria Luisa nel Ducato di Parma. — Il Piemonte e il re Carlo Alberto. — L’Austria e le Provincie lombardo-venete. — Le ansie patriottiche e l’ambiente morale, intellettuale e politico italiano sul principiar del 1846. — Vittorio Alfieri e la letteratura insurrezionale. — Concordia di intenti e discordia di mezzi. — Le ragioni storiche della discordia nei metodi. — Unitari e federalisti. — Monarchici e repubblicani. — Vincenzo Gioberti e la sua opera di redenzione. — Giuseppe Mazzini, i suoi ammiratori e i suoi detrattori. — Giudizi sull’uomo e sull’opera sua di rigenerazione. — Le correnti dell’opinione pubblica sul principiar del 1846. — Pio IX. — Indole, carattere, sentimenti e opinioni del cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti. — L’amnistia.
Allorché lo spirito umano, sospinto dalla ingenita sua tendenza ad avanzare costantemente sulla via di ogni intellettuale, morale, civile e sociale progresso, compie una delle sue evoluzioni, avvien quasi sempre che, alla effettuazione di quella data evoluzione, alla conquista di quella data nuova istituzione, frappongano ostacoli formidabili i pregiudizi, le tradizioni, le superstizioni e gli interessi di tutti coloro ai quali importa la conservazione del vecchio ordine di idee e di fatti, onde, quasi sempre, quella evoluzione deve, per necessità della logica storica, mutarsi e si muta in una rivoluzione. Allora i principii le idee, pel cui trionfo si combatte, e le passioni e le ire che i sviluppano in quella lotta fra il vecchio e il nuovo si personificano in qualche uomo, o per vigoria di fibra, o per gagliardia li carattere, o per altezza d’ingegno, o per copia di eloquenza, per militari virtù, o per tutte queste qualità riunite insieme, ragguardevole ed eminente.
E poiché, nei tempi moderni, una nuova potenza si è sviluppata nella vita civile dei popoli, la pubblica opinione, e questa si è manifestata e si manifesta per organo del giornalismo, cosi spesso è avvenuto ed avviene che, in un grande rivolgimento politico o sociale, tendente a trasportare nel campo dei fatti e a introdurre nella legislazione le idee e i principi!, già svoltisi nel campo speculativo e scientifico e nell’intimo delle coscienze, cosi è avvenuto ed avviene che gli sforzi, le commozioni, le peripezie della lotta, indispensabili a conseguire quel fine, si riconcentrino o si riepiloghino in un giornale, il quale diviene, per tal modo, il vessillifero di quella data evoluzione, reco delle passioni, dei sentimenti, delle collere che eccitano ed agitano gli spiriti contendenti, in quella battaglia dell’incivilimento.
A provare la verità del primo asserto, pur restringendomi nella storia degli ultimi cinque secoli - e senza parlare dei grandissimi come Lutero, Calvino, Ignazio de Loyola, Guglielmo d'Orange, Gustavo Adolfo, Armando Duplessis di Richelieu, Pietro il Grande, Voltaire, Federigo II, Giuseppe II, Giovanni Battista Vico, Beccaria, Rousseau, Washington, Mirabeau, Danton, Robespierre, o degli uomini di genio quali Enrico IV, Oliviero Cromwell e Napoleone Bonaparte - basterà ricordare nomi di uomini umili e modesti o di semplici e ingenue fanciulle, i quali si riconnettono e si confondono con qualche grande fatto, o con qualche sanguinoso e glorioso episodio di una grande evoluzione o rivoluzione storica, come, per esempio, Jacopo Arteveld, Cola di Rienzo, Caterina Benincasa, Bertrando Duguesclin, Michele di Lando, Giovanna d’Arco, Schanderbeg, Dracke, Masaniello, Algernon Sidney, Santerre, Marat, Carlotta Corday, Cathelineau, Kosciuscko.
E a dimostrare la verità del secondo asserto non farà d’uopo che rammentare cinque giornali: L’Ami du Peuple, Le Pére Duchesne, La Vieille Cordeliere e, posteriormente, Il Conciliatore di Milano e La Lanterne di Parigi.
Cosi, nella storia dei rivolgimenti italiani dal 1846 al 1870, la gloriosa epopea del nazionale risorgimento si personificò quasi nei nomi di Gioberti, di Mazzini, di Manin, di Vittorio Emanuele II, di Garibaldi e di Cavour, ed ebbe poi i suoi eroi minori in Ciro Menotti, nei Bandiera, in Mameli, in Manara, in Orsini, in Ciceruacchio, in Pisacane e in parecchi altri; e nella romana rivoluzione, nel 1848-49, un giornale politico di caricature, il Don Pirlone, ebbe l’abilità e la fortuna di riepilogare nelle sue pagine e nei suoi 234 numeri i desideri! generosi, i nobili ardimenti, le colpe involontarie, i gravi errori, le giovanili inconsideratezze di quell’epoca tempestosa e di quella convulsionaria, febbrile, eppure efficace, eppure gloriosa rivoluzione, la quale ebbe la più nobile sua intellettuale manifestazione in Giuseppe Mazzini, l’affermazione più alta del suo eroismo in Giuseppe Garibaldi, la sua più popolare e romana personificazione nella maschia e generosa figura di Ciceruacchio.
Ed è appunto perchè, fra Ciceruacchio e il Don Pirlone, si raccoglie e si, esplica, a giudizio mio, la parte importantissima che l’elemento propriamente romano sostenne nella rivoluzione ammirevole, per la quale il popolo italiano affermò in Roma, nel 1849, in mezzo alle più dure prove di abnegazione e di coraggio, con solenne e virile fermezza, i tre grandi principii della indipendenza nazionale, della unità della patria e delle civili libertà, proclamando dal Campidoglio, per voto della legittima rappresentanza popolare, la fine del potere temporale dei papi,’ è appunto perciò che ho impreso a tratteggiare i fatti del triennio, che dal giugno ’46 va al giugno ’49 e che in Roma si svolsero, con l’intento prefissomi di esaminarli in relazione più specialmente all’azione del tribuno popolare, all’opera del diffuso e iufluentissimo giornale umoristico.
Quali fossero le condizioni politiche e sociali dello Stato romano, dopo la restaurazione del Governo pontificio nel 1815, ormai tutti sanno.
L’edificio medioevale e feudale, scrollato in Europa, e specialmente in Italia, dal torrente impetuoso e fecondatore della rivoluzione francese e dall’impero napoleonico, fu, logicamente, per quanto era possibile, instaurato dalla violenta reazione della Santa Alleanza, dopo un quarto di secolo di asprissima e sanguinosissima lotta, trionfante, alla fine, della rivoluzione. I vincitori di Napoleone pensarono, e, naturalmente, nelle condizioni delle loro coscienze e nel giudizio loro dovevano pensare, che i popoli, vissuti per quasi venticinque anni, sotto la fascinatrice influenza delle idee nuove e in mezzo ai benefizi di ogni civile e razionale progresso, dovessero di nuovo adagiarsi tranquillamente sotto il dominio di vecchie e dispotiche legislazioni, di odiosi privilegi, di burbanzose intolleranze, d’insopportabili censure, esumate dal trattato di Vienna del 1815.
Quanto più violenta era stata razione della rivoluzione contro i secolari abusi e le antichissime nequizie, e altrettanto violenta doveva essere, necessariamente, o fu l’azione della vittoriosa reazione la quale si avvolgeva nel fastoso, ma ormai logoro e sdruscito paludamento della legittimità: i vincitori di Napoleone non potevano comprendere la legge storica, inesorabile, superiore a qualsiasi forza umana, che sospinge l’umanità sulla via del progresso intellettuale, morale e civile e che debbo addurla e l’adduce al massimo grado di perfezionamento, onde essa è suscettibile. Il diritto divino e il diritto storico, rappresentati a Vienna dagl’imperatori di Russia e d’Austria e dal re di Prussia, sopraffatti per mezzo secolo dal diritto popolare o moderno, si tennero da tanto di poter arrestare quella corrente di idee che noi chiamiamo civiltà o che essi dovevano logicamente considerare e chiamare demoniaco pervertimento.
E, se tutti i Governi d’Italia, posti sotto la tutela dell’impero austriaco, iniziarono e svolsero tale politica di reazione, più rigidamente di tutti a tale politica si attenne - non ostante le buone intenzioni, le illuminate cure e gli energici tentativi del sapiente e avveduto cardinale Ercole Consalvi - il governo pontifìcio, per l’indole e per le tradizioni sue chiesastiche, dogmatiche e settarie, intollerante di ogni benchè più mite e innocua libertà ed uguaglianza, tenero di ogni maniera di privilegi e ostile a qualsiasi più razionale e proficua innovazione.
Conseguenza della tirannide nuovamente inaugurata fu, per ciò che riguarda l’Italia, la compressione violenta delle due rivoluzioni napolitana e piemontese del 1820 e del 1821, rivoluzioni di carattere carbonaro e militare; e poscia la continua compressione dei potenti desiderii che agitavano il petto della parte più eletta degl’Italiani, amore d’indipendenza dallo straniero, brama di riforme liberali, anelito a ricomporre le sparse membra della patria ad unità nazionale, federale od unitaria che ne dovesse e ne potesse essere la forma.
Quindi, dopo la morte dei mite Pio VII, il pontificato ferocemente reazionario di Leone XII, il quale «tolse agli Ebrei ogni diritto di proprietà, obbligandoli a vendere in tempo determinato quello che possedevano; richiamò in vigore a carico dei medesimi molte insolenti discipline ed incivili usanze del medio evo, li fece rinchiudere nel ghetti con muraglie e con portoni, e li diede in balìa del Sant’Uffizio;… disciolse il magistrato che sovrintendeva alla vaccinazione e ne cassò i regolamenti; diede facoltà illimitate di istituire maggioraschi e fidecommissi;… ridusse i municipii in soggezione del Governo……»1 mirando a restaurare completamente l’ordinamento chierico-feudale del medio evo.
Conseguenza legittima della violentissima reazione onde furono improntati tutti gli atti del pontificato di Leone XII, che ebbe degno suo proconsole in Romagna il feroce cardinale Rivarola, fu l’esasperazione degli animi anche dei più miti fra i sudditi pontifici, onde i rancori e gli odii accumulati durante i cinque anni, quattro mesi e sedici giorni che egli regnò, prepararono quella rivoluzione, che non ebbe agio di svolgersi nei venti mesi del pontificato del pio, lacrimoso e inetto suo successore immediato Pio VIII, ma che irruppe sotto Gregorio XVI, allorchè, nelle giornate di luglio, l’insurrezione parigina, atterrata la dinastia legittima dei Borboni in Francia, le aveva sostituito la monarchia costituzionale degli Orleans.
Dopo un conclave durato cinquanta giorni, il cardinale Mauro Cappellari, dell’ordine dei Camaldolesi, fu eletto pontefice della chiesa di Roma con 32 voti su 45 votanti il 2 febbraio 1831. Egli ascendeva sulla cattedra di Pietro, mentre ancora trepidavano gli animi degli eminentissimi, raccolti in conclave, per la congiura liberale romana scoperta il 10 dicembre, mentre ancora durava nelle orecchie di lui e dei cardinali che lo avevano eletto reco della bomba sparata a piazza del Quirinale, ove era riunito il collegio cardinalizio, la notte del 16 gennaio 1831, e mentre gravi e funeste giungevano in Roma le prime novelle della rivoluzione avvenuta in Romagna il 4 febbraio e, in breve, propagatasi nelle Marche e nell’Umbria.
La storia di quei rivolgimenti è nota: i cittadini componenti il Governo provvisorio della provincia bolognese proclamarono l’8 febbraio, cessato di diritto e di fatto il potere temporale dei papi, decreto che fu solennemente confermato dall’Assemblea dei rappresentanti delle provincie insorte il 25 febbraio; avvegnachè quegli uomini onesti, e forse un po’ troppo ingenui, avessero fede profonda nelle pompose promesse, con arroganza fatte dal nuovo Governo francese, con codardia non mantenute, intorno al rispetto delle nazionalità e al principio di non intervento.
Frattanto il 12 febbraio un tentativo d’insurrezione, tosto soffocato, avveniva in Roma; e, mentre il generale Sercognani muoveva, con una colonna di circa 4000 insorgenti, sul finire dei febbraio, contro la capitale e, con lentezza di marcie e con insignificanti fazioni contro le truppe rimaste devote al Governo papale, perdeva un tempo prezioso e assaliva malamente Rieti l’8 marzo e ne era malamente ributtato, il generale Zucchi, con il suo piccolo esercito, costretto a sgomberare Bologna, assalita dagli Austriaci, si avviava insieme col Governo provvisorio verso Ancona; e, presso Rimini, tentava con i suoi 5000 uomini, la maggior parte inesperti volontari, opporre resistenza ai 15,000 nemici guidati dal generale Geppert, onde il 25 marzo si combattè e, per due ore, gl’Italiani, per la prima volta, dopo le guerre napoleoniche, tennero testa, in campo aperto, con qualche coraggio, a un ordinato esercito straniero.
La rivoluzione era vinta, e il 26 marzo i componenti il Governo provvisorio degl’insorti firmavano in Ancona una convenzione col cardinale Benvenuti, che era rimasto loro prigioniero, intanto che il ministro francese conte di Saint-Aulaire protestava il 27 marzo contro l’intervenzione austriaca.
Il cardinale Bernetti, segretario di Stato di Gregorio XVI, con editto del 2 aprile, annunciava ai popoli un’èra novella, e prometteva le invocate riforme, mentre si istituivano Commissioni speciali civili e militari per giudicare sommariamente i compromessi nella rivoluzione; e intanto che il Pontefice, con suo editto del 5 aprile, rifiutava di osservare la capitolazione, stipulata dal suo Legato a latere cardinale Benvenuti col Governo provvisorio degli insorti in Ancona.
Il 30 aprile un nuovo editto del cardinale Bernetti accordava una simulata amnistia ai ribelli, cedendo allo pressioni dei rappresentanti di Francia, Inghilterra, Austria, Prussia e Russia, i quali, il 10 maggio successivo, per ordine dei loro governi, presentavano a quello pontificio il famoso memorandum con cui consigliavano, per la quiete dello Stato, le riforme giudiziarie, economiche ed amministrative, che erano reclamate dai sudditi pontifici, dalle imperiose necessità della progredita civiltà europea consigliate ed imposte.
Con sottili accorgimenti, con lungo promettere e con attendere corto, il governo di Gregorio XVI eludeva le premure dei rappresentanti delle cinque potenze, e i continui reclami e le suppliche insistenti delle popolazioni, onde, poichè l’esercito austriaco ebbe sgombrato il 18 maggio la città di Ancona, e il 15 luglio tutta la Romagna, le popolazioni delle Legazioni nuovamente insorgevano, e, dopo tentativi di accomodamento andati a vuoto, le truppe pontificie, guidate dal colonnello Barbieri, forti di 4500 uomini e di 8 cannoni, invadevano le Romagne; e, dopo disfatti gl’insorti presso Cesena, in questa città ed a Forlì commettevano stragi efferate e scellerate rapine2.
Da allora nuova intervenzione austriaca nelle Ronagne e intervenzione francese in Ancona. Dal governo del cardinale Bernetti Gregorio XVI passò a quello del barnabita cardinale Lambruschini: dalla padella sulla brago; dall’arruolaraento dei reggimenti svizzeri e dalla istituzione dell’esecrabile ed esecrato corpo dei Centurioni3, sanfedisti reclutati fra la più rozza, ignorante e feroce plebaglia, alle nuove congiure, ai nuovi giudizi sommari di Commissioni speciali, alle nuove condanne, ai moti del 1843, 1844 e 1845. Il crescente disordine nel caos dell’amministrazione; le finanze sperperate; il pubblico erario, fra l’aumentare delle imposte più odiose, sempre esausto; le prigioni rigurgitanti di liberali; le vie dell’esilio piene dei lamenti e delle maledizioni di migliaia di profughi; la giustizia nome vano e ad essa sostituito il più sfacciato favoritismo, il più laido mercimonio, sotto l’impero di regolamenti e di costituzioni feudali e medioevali, contraddicentisi ed opposte fra di loro; l’istruzione popolare in balia dei gesuiti e de’ loro proseliti; proibita la stampa e la diffusione di libri e di giornali: combattuta la illuminazione a gas, le strade ferrate, gli asili infantili, le applicazioni di qualsiasi scoperta, o trovato della scienza … ecco quali furono le condizioni dello Stato romano durante il pontificato di Gregorio XVI. Questa pittura sembrerà tetra, le sue tinte appariranno troppo fosche e, forse, qualcuno sospetterà che qui l’esagerazione partigiana dello scrittore abbia caricato soverchiamente i colori … Perchè così non paia mi servirò delle parole o di uomini devoti al papato, o di uomini cosi imparziali da non poter essere sospettati di passione.
«Il consigliere De Brosses, il quale non voleva male al papa, scrisse nel 1770: il Governo papale, sebbene sia in fatto il peggiore di Europa, è però il più dolce,
«Il conte De Tournon, uomo dabbene, abile economista, conservatore di tutti i poteri esistenti e giudice favorevolmente provenuto per i papi, diceva, nel 1832: Dalla concentrazione di poteri di pontefice, di vescovo, di sovrano nasce, naturalmente, la più assoluta autorità sulle cose temporali; ma l’esercizio di questa autorità temperata dagli usi e dalle forme di governo, lo è davvantaggio dalle virtù dei pontefici i quali da moltissimi anni sonosi assisi sul seggio di san Pietro: di guisa che il più assoluto governo si esercita con la maggior dolcezza. Il Papa è sovrano elettivo, i suoi Stati sono patrimonio della cattolicità, avvegnachè siano il pegno dell’indipendenza del capo dei fedeli, ed il Papa regnante e supremo amministratore e curatore di questo dominio.
«Ultimamente il signor De Rayneval, l’ultimo dei meno felici apologisti del Papato, faceva, nel 1856, questa dichiarazione: Testé le antiche tradizioni della Corte di Roma erano fedelmente conservate. Ogni modificazione agli usi stabiliti, ogni immegliamento, anche materiale, era riguardalo di mal occhio e pareva pieno di perigli. Gli affari erano esclusivamente riservati ai prelati. Gl’impieghi superiori erano di diritto interdetti ai laici. In pratica i differenti poteri venivano sovente confusi. Il principio dell’infallibilità pontificia applicatasi alle quistioni amministrative. Erasi vestuta la decisione personale del sovrano riformare le sentenze dei Tribunali, anche in materie civili. Il cardinale segretario di Stato, vero primo ministro in tutta la estensione del termine, concentrava nelle sue mani tutti i poteri. Sotto la suprema sua direzione gli svariati rami di amministrazione erano affidati a commessi, anziché a ministri. Costoro non formavano un Consiglio, nè deliberavano in comune intorno alle bisogne dello Stato. Il maneggio della puhblica finanza si faceva in segreto profondo. Niuna notizia davasi alln Nazione dell’impiego dei suoi danari. Non solo il bilancio rimaneva avvolto nel mistero, ma spesso avvedevansi di non averne compilato veruno, nè assestati i conti. Finalmente le libertà municipali, le quali, più d’ogni altra, sono tenute in pregio dalle popolazioni italiane e soddisfano alle veraci loro aspirazioni, erano state sottomsse a restrizioni assai severe. A far tempo dal giorno in cui Pio IX è salito al trono, ecc. ecc.
«In tal modo il testè (naguère) del signor De Rayneval è data esatta: e significa, in moneta spicciola, innanzi all’elezione di Pio IX, od anche fino al 16 giugno 1846.
«In tal modo se il signor De Brosses fosse tornato a Roma nel 1846, vi avrebbe ritrovato, finanche per confessione del signor De Rayneval, il peggiore dei Governi d’Europa»4.
Il conte Pellegrino Rossi, inviato straordinario e ministro plenipotenziario del Re dei Francesi presso il pontefice Gregorio XVI, cosi scriveva, confidenzialmente, al signor Guizot, presidente del Consiglio, il 27 aprile 1845:
«Le cose sono sempre in uno stato deplorabile, e non v’è punto a sperar miglioramento in questo momento. Ben lungi dal pensare a secolarizzare l’amministrazione civile, il Papa non vuole impiegare, anche fra i prelati, che quelli che si son fatti preti. A ciò si aggiunga la 7nancanza di qualsiasi scuola e di qualsiasi carriera regolare. Un prelato è abile a tutto… Quanto alle finanze, questa è una piaga di cui nessuno si dissimula la gravità … Questa situazione si complica pei gesuiti. Essi sono qui mischiati in tutto: essi esercitano influenza in ogni campo e sono, dovunque, oggetto di timori o di speranze… Per regolarsi non bisogna obliare che qui nulla di importante si fa o si ottiene che per influenze diverse e indirette. Qui opinioni, convinzioni, determinazioni non scendono dall’alto al basso, ma risalgono dal basso all’alto. Colui che, per una ragione o per un’altra, piace ai subalterni non tarda molto a piacere ai padroni. Colui che non si rivolge che ai superiori si trova ben presto isolato e impotente.
«Le influenze subalterne e potentissime sono di tre specie: il chiericato, il foro e gli uomini d’affari, in cui son compresi gli uomini di finanza e certi contabili, razza particolare a Roma e che esercita tanta più influenza in quanto essa sola conosce e fa gli affari di tutti. Se una verità giunge a penetrare nelle sacristie, negli studi e nelle computisterie nulla le resisterà, e viceversa»5.
E, a proposito del moto di Rimini del 1815, il 28 settembre, cosi il Rossi, dopo aver reso conto dei torbidi romagnoli, scriveva al Guizot: «C’è un rimedio? Sì, e facilissimo, con un po’ d’intelligenza e di coraggio. Senza dir nulla ad alcuno io ho fatto i miei studi e le mie osservazioni. Se voi sapeste come sarebbe agevole dare soddisfazione a queste provincie senza nulla capovolgere, senza snaturar nulla, senza nulla introdurre qui d’incompatibile con ciò che è essenziale di mantenere! Tutta la parte sana e rispettabile di queste popolazioni non domanda che un po’ d’ordine e di buon senso nell’amministrazione. Si governi ragionevolmente e nel momnento stesso i demagoghi saranno qui, come lo sono altrove, isolati e impotenti»6.
Il conte Rossi vedeva troppo rosee le nubi dello Stato romano e, fino da allora, si avvolgeva in grandissime illusioni, nelle quali continuò a cullarsi anche in seguito e di cui ebbe amaro e fatale per lui il disinganno, ma nondimeno dimostrava quanto disordinato, insensatoed irragionevole egli stimasse il Governo pontificio nel 1845.
Dopo aver descritte le brutture del Governo teocratico, il pessimo di tutti i governi, il conte Terenzio Mamiani della Rovere7 così continua; «Ma a far capo dall’ultimo scorcio del secolo decimottavo in fino al presente anno 1859, le faccende di quello Stato mutarono sostanzialmente e senza rimedio,. L’animo dei popoli s’è oggi talmente alienato dal governo ecclesiastico che, parlandosi dei paesi retti da gente nostrale e non forestiera, siamo costretti ad affermare nessun reggimento politico essere più detestato o spregiato in Europa. Dalla ristaurazione in poi, cioè dal 1814, quattro volte quelle Provincie sono insorte… Di esse quattro sollevazioni tre furono soffocate da un poderoso intervenimento di truppe straniere, le quali - notò già alcuno - non hanno nelle provincie romane stanziato meno di ventunanno, tuttochè interrottamente».
Il 1º giugno 1846 il pontefice Gregorio XVI, abbandonato da tutti i familiari, anche dal suo diletto aiutante di camera e favorito Gaetanino, privo di bevande e di nutrimento, a un’ora pomeridiana, cessava di vivere per sfinimento senile, accresciuto dall’inedia, dopo un regno di quindici anni, tre mesi e ventinove giorni, fra i motteggi di Pasquino, le maledizioni dei liberali e la indifferenza apatica e quasi ostile della plebe di Roma8.
D’ingegno pronto, dotto in dogmatica e in teologia, entrato giovanetto nell’ordine dei Camaldolesi, dopo aver disfogata la vigoria polemica del suo intelletto nel libro intitolato: Il trionfo della Santa Sede, dettato e pubblicato nel 1799 in mezzo al turbine rivoluzionario, in difesa della Chiesa contro le usurpazioni napoleoniche, il P. Mauro Cappellari, nel silenzio e nella solitudine della vita claustrale, la naturale indolenza e timidità dell’animo suo, aveva man mano, inconsapevolmente, sviluppate, onde era cresciuto in quel pauroso egoismo che gli fu, poi, di guida nel pontificato. Il sentimento religioso, cosi profondo in lui, gli diede, allorché fu eletto papa, la piena consapevolezza dei suoi doveri di capo della Chiesa cattolica, anzi egli fini per esagerarsela, ed è da ascriversi, probabilmente, almeno in parte, alla preoccupazione di poter ledere in qualche guisa i diritti della Chiesa e la intangibilità dei dogmi, la sua ostinata reluttauza a qualsiasi concessione di innovazione politica ai suoi sudditi. Il pontefice sopraffaceva in lui il principe. Forse egli aveva più di una volta affrontato, in mente sua, o nei segreti colloqui col Bernetti, o col Lambruschini, il problema delle riforme; forse aveva intraveduto la necessità di risolverlo, ma un po’ per iscrupolo fratesco di offendere gl’interessi della Chiesa, un po’ per l’indole sua neghittosa, egli preferì dondolarsi, immobile ed inerte, fra le figaresche blandizie del suo favorito cameriere e la barnabitica inesorabilità del suo segretario di Stato, brancolando nello statu quo, fermo a seguire la politica del carpe diem, risoluto ad allontanare da sè ogni grossa cura, ogni grave responsabilità, deciso a voler chiudere gli occhi tanto sui disordini amministrativi e sulle finanziarie dilapidazioni, quanto sul periglioso ondulamento del suo principato politico, corroso e minato nelle fondamenta, irremovibile nel turarsi le orecchie por non udire nè i reclami dei sudditi, nè gli alti lamenti dei prigionieri e degli esuli, saldo nel proposito di lasciare la soluzione dell’arduo problema alle cure del suo successore, beandosi nell’egoistico compiacimento di mormorare, fra un calice di Orvieto e un bicchiere di Bordeaux, l’antifona per lui, non meno che per Luigi XV di Francia, tanto comoda: après mai le déluge.
E cosi lasciava in eredità, a colui che verrebbe eletto a succedergli, rancori accumulati, odi moltiplicati. Stato più assai di prima disordinato e più che mai bisognoso di complete e radicali riforme, non reclamate soltanto dalla grande maggioranza de’ sudditi, ma dalla grande maggioranza altresì degl’Italiani e delle genti civili di Europa.
Se però tali erano le condizioni delle cose e degli animi nello Stato romano, non migliori o di poco differenti erano quelle di quasi tutti gli altri Stati d’Italia, sui quali la reazionaria onnipotenza austriaca, per mezzo della tenebrosa politica del principe Clemente di Metternich, allungava, un po’ con le lusinghe un po’ col timore, un po’ più, un po’ meno, gli artigli dell’aquila bicipite.
Peggiore, per molti riguardi, del pontificio e per la crassa e medioevale ignoranza in cui erano da esso tenute le popolazioni rurali e le plebi cittadine fanatiche, neghittose, abbrutite, e per la più frequente e più sanguinaria atrocità delle repressioni e per la immobilità degli ordinamenti, era il Governo napoletano, largo, a suo modo, di benefizi verso la capitale, non curante delle Provincie; ringhioso e mordente ai Calabresi; ipocritamente detestatore dei Siciliani.
Il re Ferdinando II, sospettoso, fraudolento, ignorante, superstizioso, plebeo negli atti e nelle parole, per istinto, per educazione nemico di ogni libertà, pauroso dell’Austria, ammiratore del principe di Metternich, avverso ad una federazione nazionale, nella quale non aveva nulla da guadagnare, avversissimo all’unità, per la quale egli tutto rischiava di perdere. A lui fieramente ostili i nove decimi delle popolazioni siculo, ostile parte della nobiltà napoletana, ostile il ceto medio, i grandi possidenti, i commercianti, i dotti, i giureconsulti delle Provincie di qua dal Faro, favorevole a lui il fiacco e demoralizzato esercito e la plebe di Napoli, fedelissimi e devoti i reggimenti svizzeri: onde «i patiboli, le torture, i birri e gli svizzeri erano le sole armi che puntellavano il Governo»9.
Mite e benigno, forse un po’ neghittoso e indolente, era il reggimento della Toscana, dove il granduca Leopoldo II, equanime, dabbene, sobrio, temperante, piccolo di mente e minuzioso era riguardato con benevolenza e quasi amato da gran parte delle popolazioni, perchè la paterna benignità del Governo, lo studiato sonnecchiar della polizia, la libertà concessa ai fiorenti studi, la dolcezza e giustizia delle leggi, quasi tutte razionali e moderne, facevano del bel paese traversato dall’Arno, fin dall’anno 1815, quasi un’oasi, quasi un roseto in paragone dei roveti, più o meno pieni di triboli, degli altri Stati italiani. A Pisa, a Livorno, a Siena serpeggiavano caldi sentimenti di avversione all’Austria e desideri ardenti di più larghe e libero istituzioni, specie fra la gioventù, onde, sul finir del ’15, succeduto al Ministero di don Neri Corsini quello del Baldasseroni, più all’Austria e a’ gesuiti inchinevole, l’affetto verso il principe si andava intiepidendo, ma, ad ogni modo, «chi volesse riferire le lodi tributate al Governo toscano d’allora da uomini liberi e di alto animo, e non in iscritture pubbliche da parere sospette, ma ne’ carteggi familiari riempirebbe volumi»10.
Non dissimili dalle toscane erano le condizioni del Ducato di Lucca; ma là il principe, bisbetico e volubile, libertino e scialacquatore, per velleità di rendersi singolare più che per liberali convincimenti, propenso, da tempo, a concedere ai lucchesi riforme e franchigie, se la Corte di Vienna e Metternich glielo avessero consentito, gravava i sudditi con maggiori tributi e con governo oscillante, capriccioso e disordinato. Oltre di che a Lucca «la parte clericale aveva più autorità e più poteva; ed i disordini e le scioperatezze della Corte eran cagione di altri inali ignoti affatto ai Toscani»11.
Nel Ducato di Modena nel gennaio del ’46 era morto, fra le maledizioni dei sudditi e fra l’esecrazione di tutti gl’Italiani, Francesco IV, un piccolo Tiberio e un piccolo Cesare Borgia del secolo xix, ambiziosissimo, diffidente, tenebroso, sleale, ferocissimo prototipo della reazione sanfedistica, sanguinario e crudele, il quale dal 1822 in poi nel suo piccolo Stato «aveva sottoposti a processo per causa politica trecentoquarantacinque cittadini, e condannati erano stati duecentonovantatre, dei quali cinquantasei alla morte, eseguita contro quattro soli, trentatre alla galera a tempo, ottanta alla reclusione, cinquantotto alla carcere. Statistica miseranda della storia modenese, la quale sembrerebbe incredibile ai tempi della odierna civiltà, se non fosse sintomo di uno stato violento di cose in Italia, dove l’Austria contrastava ai principi il diritto di fare ai popoli il maggior bene, e lasciava loro pienissima licenza del maggior male»12.
All’estinto tiranno era successo il figlio Francesco V, debole e inetto giovine, il quale aveva iniziato il suo regno con qualche indizio di meno tirannico reggimento, con la rimozione del Sejano di suo padre, Girolamo Riccini, «ma uomini e cose rimasero gli stessi, e Modena cittadella del sanfedismo e lo spirito di Francesco IV e del Canossa continuarono ad aggirarsi per la reggia estense e ad inspirarne il consiglio»13.
Meno feroce del Governo estense era quello dell’arciduchessa Maria Luisa, vedova di Napoleone I, nei Ducati di Parma e Piacenza, ma ugualmente inviso ai popoli, perchè palesemente foggiato all’austriaca e in tutto ligio alla casa d’Asburgo, come di necessità doveva essere; e se meno fiere furono in quel Ducato le repressioni, perchè maggiore era l’indulgenza del Governo verso i reati politici, non per questo è men vero che «la duchessa quanto più invecchiava più intristia; preti e frati, favoriti e cortigiani opprimevano e smungevano lo Stato, del quale eran veri sovrani gli Austriaci e i padri gesuiti, signori feudali una mano di nobili ignorantissimi, vanitosi, superbi e bigotti»14.
In Piemonte, dove Carlo Alberto, nobile, dignitoso, chiuso sempre in sè stesso, con l’animo sempre avvolto in un eterno dissidio fra la fede e lo scetticismo, fra un alto ideale politico e gli isterismi di un medioevale misticismo, guardingo e sospettoso dell’Austria e della Santa Alleanza, sotto l’influenza dei gesuiti e del fiero e convinto sanfedista conte Solaro della Margherita, e, nondimeno, occhieggiante, di nascosto, i Balbo, i D’Azeglio, gli Alfieri ed altri liberali, ora soggetto agl’impulsi subitanei del patriottismo, ora infrenato da scrupoli e da scoramenti inesplicabili, aveva regnato, fin qui, indipendente sì, ma assoluto e severo verso le novità e i novatori e nelle repressioni del ’33 rigidissimo, in Piemonte cominciava, fra il ’44 e il ’45, ad alitare più vigoroso, fra le fortissime popolazioni, il soffio delle riforme e della libertà, talchè se ne risentiva l’alito vivificatore nella reggia. Ad ogni modo potentissima era divenuta e concorde l’opinione pubblica nel Regno subalpino, e, da Genova a Susa, muoveva e cresceva un fermento grandissimo; e in molte guise manifestavasi l’anelito degli animi dei Liguri e dei Piemontesi verso l’indipendenza nazionale, la libertà e la grandezza d’Italia.
Nella Lombardia e nel Veneto, non ostante una buona e ordinata amministrazione, e una certa larghezza tollerante negli studi, e non ostante l’agiatezza goduta dalle popolazioni e proveniente, specialmente in Lombardia, dalla fiorente agricoltura e dalle sviluppate industrie, tenace era e profondo, e quasi unanime l’odio contro il dominio austriaco, e perchè sospettosa e infesta ne era la polizia, e perchè crudelissime erano state e crudeli erano di quel Governo le repressioni contro i rei di amor di patria, e, infine e sopra tutto, perchè dominio straniero.
«Coll’annessione effettuata al corpo dell’Austria di cinque milioni d’Italiani, i quali, per quanto siano docili, governabili e disciplinabili, non diverranno mai Austriaci, nè quasi Austriaci, entrò nelle viscere di quell’impero un sesto o settimo elemento dissolvente. Egli è possibile che il boemo, il galliziano, l’ungaro, il madgiaro, l’illirico, dopo un lungo correre di secoli, si pieghino a germanizzarsi, ma l’italiano giammai; la natura e l’inoltrata civiltà lo vietano invincibilmente. Trent’anni di consorzio politico coll’Austria sono decorsi per Venezia, secoli interi per la Lombardia, eppure non ebbe luogo la fusione delle due nazionalità, ma nemmeno quell’attrito morale e sociale, che può qualche volta tenerne le veci… Forse potrà l’elemento polacco nei secoli avvenire accostarsi al russo-slavo, il portoghese allo spagnuolo, l’irlandese all’inglese, ma l’italiano sarà sempre italiano, perchè la sua nazionalità astratta, morale, letteraria e religiosa è temperata e fusa da venticinque secoli d’una esistenza incancellabile negli annali suoi e in quelli dell’universo intero»15.
Cosi, sapientemente giudicava nel 1846, il Durando i rapporti fra Austriaci e Italiani nel lombardo-veneto e, con maggiore specializzazione di considerazioni, non dissimilmente da lui, li giudicava il Cattaneo, qualche anno appresso, quando affermava: «Nelle guerre napoleoniche, il Governo austriaco si compose ognor più a dittatoria rigidezza; mentre con là perdita delle più remote appendici, e coll’usurpazione di Salisburgo, di Trento, della Venezia, della Valtellina erasi meglio spianato il campo a materiale imita. Per farsi strettamente una l’Austria doveva preferire una lingua fra dieci: elevare a dominio una minoranza; configgere sul letto di Procuste tutte le altre nazioni. Da quel momento ella s’avvinse a una catena di inique necessità che la tifassero di grado in grado agli eccidi della Galizia e ai patiboli dell’Ungheria. In cospetto ai quali è poco il dire che ella tolse alle provincie italiane le armi, la bandiera, il pubblico onore e la privata sicurezza. Ogni passo che ella faceva dietro il sogno dell’unità addolorava e inimicava un ordine di cittadini: destava in tutti il fremito del sangue italiano… Intanto nel Governo austriaco l’odio contro la nazionalità italiana si faceva più aspro e cavilloso. Gli spiaceva perfino il nome d" Italia: lo voleva dissimulato nei libri, cancellato nelle carte. E al contrario lo scolpiva vieppiù nelle menti; lo chiamava sulle labbra: se lo vedeva scritto da mani notturne sulle muraglie delle città. Una indomita riluttanza serrava sempre più il fascio dei popoli italiani; era come la polve di platino che s’incorpora sotto il martello, Nondimeno tanto mite era la natura dei popoli Lombardo—Veneti, che, in trent’anni, non si levarono nè una volta sola a tumulto. E davano soldati e danaro al sovrano, e guadagni sempre più sfacciati a’ suoi satelliti e banchieri; e pagavano quella brutta servitù ben più caro che ai loro vicini non costasse l’onore e la sicurtà»16.
Per il che al principio del 1846 un’ansia indefinibile, una febbrile ed incerta aspettazione, un anelito confuso, indeterminato ma universale ad un rinnovamento politico e civile si effondeva dal petto di tutti gli Italiani, appena mezzanamente colti ed intelligenti: qualche gran fatto doveva avvenire, qualche grande movimento stava per succedere, perchè in quell’eccitamento nervoso dell’universale, tutti intendevano che le cose non potevano durare più oltre in quello stato di malessere morale e materiale di tutta la nazione.
Un grande movimento intellettuale era venuto lentamente, inavvertitamente, ma assiduamente preparandogli animi degli Italiani a quel quasi inconsapevole affratellamento, a quella confusa concordia di propositi e di aspirazioni; e le congiure ognor soffocate, i moti rivoluzionari sempre repressi, avevano, da trentanni agguerrite le nuove generazioni alle lotte e alle sventure; e le reazioni feroci e le repressioni sanguinose e l’esempio quotidiano delle morti impavidamente affrontate per amor di patria, o sui campi di battaglia, o sui patiboli e quello delle prigionie fortissimamente sostenute e degli esigli dignitosamente tollerati da migliaia e migliaia di uomini, il fiore dell’intelligenza, il nerbo della coscienza della nazione, avevano esaltato la fantasia, acceso il sentimento, ritemprato gagliardamente il carattere degli Italiani.
In mezzo al diffondersi degli scritti del Foscolo, del Leopardi, del Pellico, del Manzoni, del Berchet, del Botta, del Colletta, dei Giordani, del Romagnosi, del Niccolini, le tragedie dell’Alfieri delle quali, siccome quelle che eran classiche e trattavan di Greci e di Romani, gli Austriaci e i loro proconsoli avevan poi dovuto consentire la rappresentazione sui teatri italiani, le tragedie dell’Alfieri recitate, lette e rilette e imparate a memoria, avevano raggiunto il fine, per cui il gagliardissimo e italianissimo autore le aveva scritte: il popolo intese presto chi fossero Egisto, Appio, Creonte, Nerone e gli altri tiranni, chi si nascondesse sotto i personaggi di Bruto, di Virginio, di Timoleone: in quelle tirannidi vide le italiche tirannidi, in quegli oppressi vide sè stesso, in quei propugnatori di libertà e gì’ invocati suoi liberatori, che venivan prendendo forma reale e nome moderno, man mano che i moti patriottici si venivano svolgendo, e che quindi si personificavano in Guglielmo Pepe, in Santorre Santarrosa, in Federigo Confalonieri e poi in Ciro Menotti, in Attilio ed Emilio Bandiera; in quegli oppressori il popolo italiano intravedeva i del Carretto, i Canossa, Francesco IV, i Lambruschinì, i Bolza esecrati, e, plaudendo ai liberi e forti e fischiando le bieche figure degli scellerati, si venne rapidamente destando e meglio comprese la sua miseria e la sua ignominia e senti accendersi in petto il desiderio feroce dell’insurrezione, della redenzione e della vendetta. In Saul e in Achimelec il popolo ravvisava le due tirannidi civile e religiosa, nella tragedia disgiunte, ma nel campo della realtà storica contemporanea, congiunte nell’interesse del trono e dell’altare ai danni dei popoli e della libertà: onde i versi dell’Astigiano - cosi miserevolmente oggi riguardati dai tedescuzzi annacquatelli della critica nuovissima - come fiamme divoratrici e risanatrici si diffusero, per un trentennio, da un capo all’altro della penisola a cooperare efficacemente alla missione redentrice a cui la grande anima del loro autore li aveva destinati.
E il movimento delle idee cresceva e si estendeva e si insinuava ovunque - nonostante le vigili censure e le pavide polizie - e prendeva cento nuovi aspetti e si affermava in cento diverso manifestazioni.
Dalla battaglia di Benevento e dall’Assedio di Firenze del Guerrazzi al Marco Visconti del Grossi o alla Disfida di Barletta del D’Azeglio; dal Giovanni da Procida dall’Arnaldo da Brescia del Niccolini alla Vestale dello Sterbini e alla Guisemberga da Spoleto del Checchetelli; dal Veltro allegorico di Dante del Troya ai Fattori dell’incivilimento del Romagnosi; dalla Teoria delle leggi di sicurezza sociale del Carmignani alla Guida dell’educatore del Lambruschini; dalla Teorica del sovrannaturale e dal Primato morale e civile degl’Italiani del Gioberti all’Amor patrio di Dante e al Dramma storico del Mazzini: dalle Speranze d’Italia del Balbo alla Nazionalità italiana del Durando; dai versi mistici e fatidici di Gabriele Rossetti a quelli molli e musicali di Agostino Cagnoli; dal Rinnovamento della filosofia italiana di Terenzio Mamiani al Giannetto di Alessandro Parravicini; dalla leggiadra e fustigatrice satira di Giuseppe Giusti ai flagellatorii sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli, ogni manifestazione dell’ingegno italiano porta l’impronta - consapevoli o inconsapevoli che ne fossero gli autori - di quella patriottica preoccupazione, di quelle liberali aspirazioni. Non ve ne è una nella quale, o per diritto o per rovescio, non entri o l’Italia, la patria, o le innovazioni, o le riforme, o il progresso, o l’antica sapienza, o l’antica civiltà, o l’antica grandezza dei Latini e degli Italici, non ve ne ha una in cui direttamente o indirettamente non si alluda al risveglio, al riscatto, o alla resurrezione, o alla redenzione, o al risorgimento, o al rinnovamento della nazione17.
Ecco come e perchè quella specie di unanimità di sentimenti, di aspirazioni, di speranze e di desiderii si era costituita, ecco perchè verso la metà del 1846, tutti gl’Italiani sentivano che qualche gran fatto stava per accadere: in mezzo alle più fitte tenebre si intuiva, più che non si intravedesse, l’aurora, ma donde verrebbe la luce? Ma in qual modo? Ma per opera di chi? Ecco ciò che nessuno, forse, avrebbe saputo dire al 1º maggio di quell’anno; e ciò, sopratutto, perchè, se concordia v’era nel fine, discordia v’era nei mezzi; molteplici, diversi, e sovente opposti essendo i metodi, che, già da molto tempo, si vagheggiavano, si studiavano e si proponevano a raggiungere quell’unico fine.
E la concordia nei mezzi non poteva esserci, a quei dì, per due potentissime cause, delle quali quella discordia era la logica e legittima conseguenza; cosa questa alla quale si ostinano a non voler por mente molti di quei moderati, che presero parte a quelle vicende e vollero scriverne le storie, e molti di coloro che, anche ora, di quei moti e di quelle vicende del nostro nazionale risorgimento, dettano narrazioni, riempiendole di se e dì ma di cui la Istoria non può ammettere e non ammette vadano attorno infarcite le sue pagine.
E la prima ragione di quella discordia, circa i mezzi da adoperarsi per raggiungere il fine, in cui tutti erano concordi, era questa: che le divisioni politiche d’Italia erano secolari ed erano state determinate, non soltanto da interessi dinastici, ma anche da interessi regionali o municipali, come li chiama il Gioberti18, i quali interessi dovevano quindi, ad insaputa, talvolta, anche di coloro stessi che proponevano i metodi da adoperare per raggiungere il gran fine, influire e prevalere nella determinazione di quei metodi, onde, ad esempio, un metodo che più e meglio rispondeva agli interessi dei Napoletani doveva avere numerosissimi seguaci e fautori nelle provincie meridionali - dove quel metodo doveva necessariamente sembrare il più razionale e il più logico - e scarsi nelle altre provincie, e viceversa, un metodo diverso e più in armonia cogli interessi dei Toscani doveva trovare maggiori proseliti in Toscana e cosi, via via, di ogni altra regione discorrendo.
L’altra ragione, che si opponeva alla concordia dei mezzi, si è questa: che il fine comune era una proposizione complessa, suddivisa in tre proposizioni, indipendenza dallo straniero, libere istituzioni e unità nazionale; onde appare ovvio che dissenso dovesse esservi circa i modi di conseguire quel triplice fine; ed è naturale che i Lombardo-Veneti, su cui più direttamente e più odiosamente gravava il giogo straniero, dovessero anzitutto desiderare la indipendenza dallo straniero, mentre più facilmente erano e dovevano essere inchinevoli a desiderare che l’inizio dell’impresa dovessero essere le riforme liberali, le popolazioni napoletane nella loro maggioranza, e specialmente le siciliane, le quali ad esser separate dall’altra parte del reame e ad esser costituite in siculo regno separato, sopra ogni cosa, agognavano. Ed è, giunti che essi siano dinanzi a questi fatti, che il querulo Balbo, l’insidioso Cantù e una frotta di scrittori, assai inferiori a quei due illustri, e sciorinatori di storie a metodo subiettivo, si domandano, più o meno commossi, più meno pallidi e sconvolti: ma come mai?… ma perchè non si posero d’accordo?… ma possibile, gran Dio, che non si mettessero d’accordo, mentre era tanto facile… e, sopratutto, tanto necessario … perchè noi potessimo concludere la nostra storia, come una commedia della vecchia scuola, a lieto fine?! E li, eccoli venir fuori con la loro famosa falange di se e di ma… se il Borbone fosse stato un galantuomo, se fosse stato mite, se avesse dato la costituzione un anno prima, se i Siciliani fossero stayi meno municipalisti o regionalisti … e cosi, a furia di mutare la situazione reale della scacchiera storica, cambiando, cervelloticamente, gli alfieri in torri, e i cavalli in pedine, a furia di sostituire a quella reale situazione fantastiche combinazioni, riescono alla conclusione di poter piangere e declamare sui fatti e di poter maledire ed imprecare sui loro autori, cioè sui nostri padri, perchè non intuirono e non indovinarono e non posero in atto la tardiva sapienza dei narratori piagnoni, postumi, e cosi a buon mercato, avveduti e cauti suggeritori.
Ma, invece, pur troppo, la storia, guidata dalle sue leggi logiche, e perciò inflessibili, cammina per la sua via, segue inesorabilmente le sue premesse e le querimonie subiettive dei postumi sapienti non ode, e quindi è che la realtà legittima delle cose in Italia era quale fu e quale doveva essere, per tradizioni, per pregiudizi, per interessi e per condizioni intellettuali, morali e materiali - che sono i veri fattori della storia - e quindi è che la grande maggioranza dei Siciliani preferiva, sopra ogni altra cosa, il regno siculo separato, per concorrere, poi, alla cacciata dello straniero, questo s’intende; la grande maggioranza dei Lombardo-Veneti si sarebbe acconciata col diavolo pur di riuscire all’immediata espulsione dello straniero, mentre la maggioranza dei Toscani desiderava, anzitutto, ordinamenti costituzionali, salvo a gettarsi poscia addosso ai Croati.
E io ho parlato di grandi maggioranze; perchè poi in ogni regione e in ogni città vi erano le piccole minoranze, le quali poi si trovavano d’accordo con grandi maggioranze di altre regioni.
Quindi, mentre tutto il grande partito nazionale italiano era concorde, come dissi, nel volere un rinnovamento del presente dolorosissimo stato di cose, quanta e quale diversità di propositi e di metodi per raggiungere quell’altissimo fine!
In tutte le provincie, abbastanza numerosi, sebbene dove più e dove meno, i federalisti, che sognavano una lega o confederazione dei vari Stati italiani; ma anche essi divisi, perchè molti, seguaci del Gioberti, del Tommaseo e di altri neo-guelfi, vagheggiavano a presidente di quella confederazione il Papa se la fortuna volesse finalmente che fosse eletto un Papa italiano e liberale! -; altri ne desideravano capo, col Durando e col D'Azeglio, il Re subalpino; altri, pochi, col Balbo volevano che il Papa fosse il Fabio Massimo di questa Italia fantastica e Carlo Alberto il Claudio Marcello contro l’Annibale austriaco; altri, infine, volevano la lega federale, ma, seguendo il Cattaneo, il Ferrari e l’Anelli, la volevano repubblicana; e questi erano i meno.
Numerosissimo, in tutta Italia, dove con maggiore, dove con minor numero di proseliti, il partito unitario, avverso, quindi, per necessità, al potere temporale dei papi: il quale poi suddividevasi nel monarchico, che affissava i suoi sguardi e le sue speranze in Carlo Alberto, ed era numerosissimo in Lombardia e nei Ducati, e nel repubblicano, che seguiva, come profeta e come apostolo, il Mazzini, ed era composto di tutti i superstiti del carbonarismo e delle sètte affini e derivate, e delle molte decine di migliaia di giovani ascritti alla Giovine Italia, Questo. partito, numerosissimo nella Liguria, nelle Romagne, nelle Marche, nell’Umbria, aveva abbastanza largo seguito nelle provincic meridionali e nelle venete, e proseliti sparpagliati un po’ da per tutto. L’idea, quindi, del nazionale riscatto, diffusa e radicata, ormai, nell’animo della grande maggiorità degl’italiani intelligenti, pensanti e conscienti, splendeva in lontananza, laggiù, all’estremo limite dell’orizzonte, quasi nascosta fra rosee nebbie, e che ciascuno perciò poteva vedere e vedeva, più o meno limpida, più meno chiara o determinata, secondo la maggiore o minore perfezione della propria vista; ma circa al modo di raggiungere quel faro lontano, circa al modo di sprigionarne il calore e la luce, molteplici ed opposti erano i metodi e discordi i pensamenti e i giudizi; di che non sono da imputarsi gl’Italiani, per le ragioni già dette: quella discordia, come già dimostrai, era la logica e necessaria conseguenza dell’ambiente, dei casi e dei tempi, in cui quella idea era venuta sorgendo e in cui, dal 1815 al 1846, si eran venuti maturando, svolgendo, diffondendo i sentimenti, i desideri, le speranze che da quella idea derivavano e che di quella idea intendevano all’attuazione.
Ed era naturale, quindi, che questa idea di unità, d’indipendenza, di libertà, sotto influssi cosi fatti e in tali condizioni climatologiche sviluppata e cresciuta, dovesse risentire e risentisse gli effetti di quegli influssi e di quelle condizioni, e si mostrasse quale si mostrò, pianta in efflorescenza, i cui frutti, ben lungi dall’apparire prossimi alla maturazione, si palesarono appena appena in embrione, all’occhio sperimentato del naturalista, in mezzo al calice dei fiori, che quella pianta veniva producendo.
Fra tutti coloro che, alla rigenerazione e alla redenzione d’Italia, avevan consacrato intera l’anima loro, il loro ingegno e i loro studi - ed eran molti a quei dì - due, sul finir del ’45 e sul principiar del ’46, primeggiavano; e intorno alla vita, ai pensieri e alle opere di essi parecchi nuovi documenti ho io raccolto che, in altro libro, spero di poter presto produrre dinanzi al pubblico 19. Oggi i limiti, entro i quali ù circoscritto il mio tema, non mi consentono di dilungarmi, quanto quei due sommi meriterebbero e quanto io desidererei, su di ognuno di essi: onde sommariamente, e solo per quèl tanto che l’uno e l’altro hanno relazione con questo libro, ne farò cenno.
Già Vincenzo Gioberti, nato a Torino nel 1801, esule, perchè incolpato di appartenere alla Giovine Italia, nel 1833, aveva levato alta fama di sè con la pubblicazione della sua Teorica del sovrannaturale, insurrezione contro la filosofia materialistica, e della Introduzione allo studio della filosofia, in cui quella insurrezione si confermava e si allargava, con grande lucidità di dettato e con stringatezza formidabile di ragionamento: e nell’uno e nell’altro libro aveva trovato modo di esplicare l’adorazione sua per l’Italia e l’ammirazione che egli nutriva per la storia e per la civiltà di essa, e aveva pronosticato alla propria patria la prossima resurrezione e uno splendido avvenire. E aveva continuato nella sua duplice missione di rinnovatore filosofico e politico nelle ulteriori sue opere Del bello, un sapiente trattato di estetica, con profonda dottrina critica e con sottilissimo acume dettato, e Degli errori filosofici di Antonio Rosmini.
Ma il suo Primato morale e civile degl’Italiani è opera che solamente il più caldo, il più generoso, il più santo amore di patria poteva inspirare. «In questo libro singolare per il titolo, più singolare ancora per le cose contenute, l’esule prete intonava su terra straniera l’inno del risorgimento italiano. Benchè scritto in prosa, esso si può tuttavia qualificare come inno, tanto è vivo il linguaggio che l’autore adopera e tanto poetici l sentimenti da quello espressi» 20.
L’affetto ardentissimo, che l’autore nutre per la sua diletta Italia, lo induce a adoperare tutti i suoi seri e amplissimi studi sull’antica e sulla moderna civiltà alla dimostrazione di una tesi, che all’autore sembra verissima e incontrastabile; gl’Italiani e nell’antica e nella medioevale e nella moderna storia, e per eccellenza di ingegno e per valore di trovati e per sapienza d’insegnamenti, essere stati, e avere in sè capacità di essere per l’avvenire, i maestri e gli antesignani della umanità sulle vie della civiltà e del progresso. Quando anche in questa affermazione fosse pure stato alcun che di esagerazione - ed effettivamente c’era - essa non mancava d’esser vera in buona parte e là, dove tale non era, pel calore, per l’eloquenza, quasi inspirata, del dottissimo autore vera quasi evidentemente appariva: opera santa di rivendicazione della dignità morale, della grandezza intellettuale, dello splendore storico di un popolo, che fu due volte insegnatore e guida a tutti gli altri e che tre secoli di sventure, di divisioni e di servaggio avevano gettato nel fondo di un letamaio, ove, Giobbe derelitto, era esposto agli scherni dei suoi servi di ieri l’altro, dei suoi discepoli di ieri, i quali, obliosi del passato, tronfii del presente, la terra abitata da quel popolo espressione geografica e terra de’ morti appellavano.
Il Primato del Gioberti - oggi poco letto e poco curato e che tornerà, io lo credo fermamente, nel dovuto onore fra i libri indispensabili al nazionale insegnamento - qual pur esso si sia, e con tutte le esagerazioni e gli errori che in sé racchiude, è proprio il grido della coscienza di un popolo che, virtualmente è già rigenerato e risorto e il quale, volgendo gli occhi della mente e del cuore al gloriosissimo suo passato, è pronto a frangere i ceppi della servitù, per avviarsi, fidente nelle sue forze, verso un glorioso avvenire.
E siccome il Gioberti è cristiano, è cattolico, è credente profondamente convinto, cosi egli vede una delle più fulgide glorie italiane nel Papato: quindi nel Papato spera e a lui affida l’opera della rigenerazione civile d’Italia. Utopia e visione di un’anima santamente entusiasta, che avranno, fra breve, una solenne smentita dai fatti e svaniranno, e si dilegueranno da quella stessa mente che le aveva concepite: ma utopia e visione alte e generose, le quali, nel loro stesso vanire, recheranno agl’Italiani grandissimo beneficio, illuminandoli sulla vera indole del Papato, istituzione essenzialmente dogmatica e perciò incompatibile con la scienza, istituzione essenzialmente universale e perciò non suscettibile di impronta italiana e di affetto nazionale.
E il Gioberti, convinto di tutto ciò dalla dura esperienza dei fatti, con esempio rarissimo ed ammirevole fra i creatori di sistemi e di dottrine, si disdisse, si corresse e additò agi’ Italiani la nuova via da seguire nel Rinnovamento, profetando, nel 1851, la fine del potere temporale, l’unità nazionale con Roma capitale e sede, al tempo stesso, del capo dello Stato e del capo del Cattolicismo21.
E se mi sono alquanto soffermato sugli scritti del Gioberti egli è perchè essi ebbero un ascendente irresistibile nei rivolgimenti italiani del 1847-48-49; e perchè quegli scritti han tale e tanto valore, tale e tanta importanza nella loro intrinseca essenza e nella loro splendida forma da rendere chi li dettò, non soltanto capace e degno di onorare col suo nome la regione italiana in cui egli nacque, ma degno e capace di onorare la intera nazione e l’età che fu sua.
Nè meno entusiasta del Gioberti era Giuseppe Mazzini, nato a Genova nel 1808; anzi, poichè il piemontese fu seguace del ligure e ascritto alle file della Giovine Italia, che questi aveva istituita, è oggimai provato che, nei primi suoi anni, il Gioberti sognò egli pure una repubblica teocratica o una teocrazia repubblicana e fantasticò di una democrazia pura emancipatrice d’Italia22.
Intorno al Mazzini emisero giudizi pur troppo miseri, gretti, parziali, passionati anche parecchi storici togati, e che la pretesero a liberali, del nostro risorgimento. Non mi preoccupo delle calunnie, delle insinuazioni, dei vituperi onde cercò di avvolgere il nome intemerato di Giuseppe Mazzini, la sua vita illibata, il suo apostolato patriottico di oltre quarantanni, i suoi scritti e le sue opere la falange degli scrittori servi del Papato o a lui devoti; se i libelli, a cui diedero il nome usurpato e deturpato di storie i D’Arlincourt, i Balleydier, i Balan, i Marocco, i Croce, i Gigliucci, i De Bréval, i De Saint-AIbin, i D’IdevilIe, i Lubienscky, gli Spada, i Chatelineau-Joly ed altri siffatti, avessero da servire dì guida air ignorante per conoscere il Mazzini e per giudicare di lui e dell’opera sua, certo il povero Mazzini sarebbe perduto nella memoria degli uomini, i quali non potrebbero rannodare il nome di esso che a quello dei malfattori più celebri. Ma queste storie non contano per nulla in fatto di giudizi, perchè la prevenzione, l’ira, l’odio che da quelle pagine, senza mistero alcuno, tralucono non solo tolgono a quei giudizi ogni fede, anche presso l’inesperto o l’indòtto, ma tanto e così evidentemente sono passionati che anche l’inesperto e l’indòtto è tratto a pensare che gatta là sotto ci covi.
Ma ciò che addolora lo studioso spassionato ed imparziale è il vedere che, acciecati dalla passione di parte, anche storici e scrittori di valore, e, dirò così, togati, appartenenti al partito moderato, quali il Farini, il Gualterio, il Minghetti, il Bianchi Giovini, il D’Azeglio e lo stesso Gioberti (così aspro, così parziale, così ingiusto e passionato nei giudizi sui suoi contemporanei) abbiano recato sul grande genovese sentenze così erronee, menzognere ed inique da fornire amplissima materia all’insulso e scellerato libello di Giulio De Bréval23, nel quale, costui, in appoggio dei suoi vituperi, cita, appiè di ogni pagina, il Farini, appunto, il Gualterio, il Bianchi-Giovini, il D’Azeglio e il Gioberti24.
Eppure, oggi, la storia vera ed imparziale giudica ben altrimenti questo grande uomo, il quale, per la elevatezza delle sue concezioni, per lo splendore dell’affascinante eloquenza, per la profondità tenacissima dei convincimenti, fu vero tipo di apostolo del patrio risorgimento.
Ingegno fervido e potente, nudrito di molteplici e seri studi, ardente spiritualista, suffuso di una nube di misticismo - che si palesa anche nel suo stile, caldo, robusto, entusiasta, talora un po’ retorico, qua e là un po’ turgido, un po’ asmatico -, Giuseppe Mazzini ebbe un unico intendimento, una sola idealità, all’attuazione della quale consacrò tutto sé stesso dal 1831 in poi: porre a fondamento dell’ordinamento sociale due concetti, espressi, nella sua famosa formula: Dio e Popolo; concetti che egli armonizzava sopra un cardine morale, il dovere, dal quale soltanto scaturisce il diritto. Quindi, per l’Italia, l’unità nazionale da conseguirsi con la democrazia e per la democrazia, con due mezzi: pensiero ed azione, vai quanto dire con la educazione dei giovani per prepararli alla lotta delle armi e al sacrificio di sé stessi.
Tali le massime fondamentali della vasta associazione nazionale la Giovine Italia, associazione non tenebrosa, senza riti, senza emblemi, senza caratteri e senza apparati menfitici e misteriosi, nella quale presto si raccolsero gli sfiduciati profughi dell’esaurito Carbonarismo e delle moltissime altre sètte che da questo derivavano: associazione nella quale furono, più o meno lungamente, ascritti quasi tutti coloro che ebbero una qualsiasi parte nei rivolgimenti pei quali, dal 1833 al 1870, fu ricostituita l’unità nazionale; associazione che, se non produsse risultati direttamente e immediatamente utili nel campo della azione, produsse benefizi infinitamente maggiori, incalcolabili nel campo dell’educazione, perchè - è inutile il dimenarsi, il negare, il torcere il grifo - perché preparò e maturò in parecchie centinaia di migliaia di cittadini la piena coscienza della esistenza di una infelicissima patria alla quale occorreva dare, a costo dei più duri sacrifizi, a costo della vita, l’indipendenza, l’unità, la libertà.
E dissi se anche indirettamente e immediatamente non giovò con l’azione, perché quantunque le numerosissime congiure e i moti di Savoia del 1833, di Bologna del 1843, di Calabria del 1844 e di Rimini del 1845 fallissero, pure anche quelle congiure scoperte e conchiuse con fucilazioni, impiccagioni, carceri ed esilii, anche quei moti compressi e finiti nello stesso modo, giovarono alla causa nazionale, moltiplicando da un lato le sevizie dei governanti, dall’altro l'odio dei governati, e fecero comprendere all’Europa l'esistenza, di una quistione italiana e imposero alla diplomazia di studiarne la soluzione; insomma l’opera del Mazzini preparò l’ambiente in cui si sarebbero poi svolti gli avvenimenti del triennio 1846-1849 e i successivi.
Io non riferirò i tanti giudizi favorevolissimi al Mazzini che intorno a lui pronunciarono il Blanc, il Garnier-Pagés, il Ledru-Rollin, il Rey, il Mignet, il F’iathe, il Bertolini, il Saffi, il Mario, il Gabussi, il Rusconi, il Finto, il La Farina, il Belviglierì, l’Anelli, il Cattaneo, il Vecchi, il Guerzoni, Biagio Miraglia da Strongoli, che lo paragona, con parola eloquente, al Mosò degl’Italiani nell’esodo dolorosissimo che essi dovettero percorrere per giungere a riconquistare un posto onorevole fra le nazioni europee, ma riferirò soltanto poche linee di uno scrittore francese molto imparziale ed onesto25, il giudizio di un grande sociologo italiano e quello di una quaderna di padri gesuiti i quali scrissero, a otto mani, una storia, che è una vera requisitoria contro la rivoluzione stessa.
«Nato a Genova nel 1808, Giuseppe Mazzini sembrò aver ricevuto di buon’ora dalla natura tulle le doti che seducono. Per una specie d’istinto egli le completò, anziché alterarle, come tanti altri. Pallido e grave, con la testa poeticamente incorniciata nei neri e abbondanti capelli, egli ostentava un atteggiamento severo, che non era smentito nè dalle sue parole, né dalla sua vita di una purezza inattaccabile. Sdegnoso di volgari piaceri, egli viveva solo, o con qualche amico, attratto dalla dolcezza e dall’accessibilità del suo carattere, dalla finezza e superiorità del suo spirito, dalla bellezza e dagli alti insegnamenti della sua conversazione. Attivo, laborioso, energico, ostinato, esso appariva a tutti quelli che lo avvicinavano uno di quegli uomini che escono dalla comune e che trasformano i loro amici e compagni in fanatici ammiratori. Sono i suoi avversari che hanno dipinto cosi Mazzini, e uno di essi aggiunge: la maggior parte di coloro che hanno avvicinato Mazzini, sono stati soggiogati: quelli che resistono non si dividono da lai senza commozione e senza ricordi 26.
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«L’affettazione era rimarchevole nel suo pensiero, nella sua parola, come anche nel suo esteriore: egli aveva una tendenza notevole al paradosso, alle idee fantastiche, al misticismo; egli esagerava i suoi più riposti sentimenti aveva una grande confidenza in sè stesso, che poi divenne orgoglio ma i suoi difetti stessi piacevano» 27.
A questo giudizio sull’uomo voglio aggiungerne uno sull’opera e sull’apostolato del Mazzini, giudizio dovuto al sagace intelletto e alla profonda dottrina di un socialista monarchico, l’illustre Pietro Ellero, il quale, parlando del Mazzini, scrive: «Laonde, come che egli appartenesse alla scuola letteraria ultramontana, falsa e vacua detta dei romantici, e sì lunga parte di vita trascorresse su suolo inglese, ne fosse affatto immune da non so quale mistico velo, era nelle cose civili inspirato da wn pensiero puramente classico e intuitivamente romano. L’Italia e la sua capitale eterna avevano, secondo lui, la missione provvidenziale di dare nuova unità alle genti, e di redimerle colla nativa idealità, mercè un terzo morale primato. Di modo che quello che fecero già Roma pagana col diritto e Roma cristiana col dovere, farebbe una terza Roma, quella del popolo italiano, col diritto e col dovere congiungendo il cielo e la terra. E per muovere cotanta forza non poggiava se non sul popolo stesso, e sulla fede di questo in tale missione: all’adempimento della quale non dalla cupidigia, ma dall’annegazione sarebbe un dì acceso. La democrazia quindi cui egli vagheggiava, ben diversa dalla francese (la quale fermatasi alla ricognizione de’ diritti, non potea condurre che all’egoismo individuale e nazionale), dovea per contrario fondarsi sulla ricognizione de’ doveri. E però reputava giusto che la rivoluzione futura facesse pe’ proletari quello che le passate pe’ borghesi, da lui pur detestati; ma le dottrine del comunismo e del socialismo ripudiando, e la democrazia communistica e socialistica insieme con esse. La quale in sostanza, proceduta da Helvetius, Volney, Bentham, e da altri tali moralisti borghesi, non professava altra morale, che quella della materia (Sistemi e democrazia e gli altri Scritti di Giuseppe Mazzini). Fin da quando l’Italia, or son più di tre secoli, disperando di Dio e della virtù e viste fallire le ultime prove de’ veleni e de’ pugnali, delle frodi e de’ tradimenti per respinger la servitù, vi si era col capo chino e torvo sottomessa, non erasi udita voce più nobile ed elevata. E l’udirla e il seguirla fu segno che l’ora estrema della servitù straniera non avrebbe per noi tardato. Conciossiachè, mentre altrove muggirà la rabbia dei materiali interessi, e le stesse plebi oppresse non isperavano che nella superstizione sansimoniana o in altre tali imposture promettitrici di vantaggi e di piaceri a josa, si sacrarono qui angeliche legioni d’adolescenti al dolore e alla morte, nel nome di Dio e della virtù. La spedizione di Savoia (1833), quella de’ fratelli Bandiera (1843) ed altre tali imprese, seguite da supplizi crudeli, non parvero per verità a’ soliti uomini avveduti che ecatombi: ma assai più di fortunate battaglie valevano. E, non foss’altro, come il grido della scolta avvenne di tratto in tratto, nel profondo della notte, ch’ella vigila, cosi l’eco de’ colpi iterati del piombo, che spezzava i santi petti de’ nostri martiri, attestava di tratto in tratto all’ Europa lo spasimo d’Italia. E si era cosi veduto fra noi il più alto portento, a cui possa giungere l’umano eroismo; se è vero che il votarsi nell’aurora della giovinezza e della speranza a trar la vita in catene o a perderla sotto la scure del carnefice, com£ malfattori infami, sia ben maggiore virtù che il perderla sul campo o in altre inclite gesta»28.
Gli autori della Rivoluzione italiana al giudizio degl’imparziali completano, con una imparzialità strana, e che sarebbe desiderabile avessero adoperata in tutto il libro, la pittura dell’indole, del carattere, dell’intelletto del Mazzini, scrivendo: «Pronto d’ingegno, spedito e franco nel dire, efficace in persuadere, forte nel muovere, seppe conciliarsi la stima e la benevolenza di tutti i fuorusciti italiani, ne’ quali s’imbattè nei suoi frequenti viaggi. Tatti restavano presi di lai e l’ammiravano: ed egli con un fare manieroso s’insinuava negli animi, con un parlar vigoroso e risolato metteva in corpo spiriti generosi e disponevali a superare senza tema qaalunque cimento, quand’anche fosse uopo mettere a repentaglio la vita. … …
Non inorpellò con ispeciosi vocaboli le sue dottrine; ma dichiarò sempre di volerla affatto finita co’ Principi, col Papato, con la Chiesa: nè mai ristarebbe dal promuovere con ogni mezzo possibile il conseguimento del suo fine. Molto meno poi si potè mai inchinare a giurar con finte lacrime agli occhi fedeltà a chi egli aveva giurato la rovina . . . Mazzini non degnò mai in basso, e tenne in questo punto incorrotto il suo onore
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Ciò che aveva in cuore, ebbe pur sulla lingua; e quanto covava nell’animo addimostrò eziandio ab extrinseco, negli atti, nelle parole, ne’ portamenti.
«Ora e sempre fu il suo motto prediletto che mantenne non solamente nell’impronta de’ suoi sigilli, ma eziandio a fatti: così che il Mazzini del 1850 è sempre quel desso del 1831. Indole e carattere che non ebbero certamente, nè seppero imitare molti de’ suoi seguaci, gittatisi alle finzioni, agli inganni, alle ipocrisie. Così potessi lodarlo rispetto alla causa e al fine, che per fede, per coscienza, per convincimento debbo necessariamente riprovare e condannare, perchè in tutto perverso e irreligioso. Aggiungo infine che Mazzini, a preferenza di tutti gli altri settarii, è stato sempre il più logico nelle sue conseguenze»29.
Neppure egli - mi piace affermarlo in omaggio alla verità andò esente, come tutti i fondatori di sètte politiche e religiose, da errori, da rigidi esclusivismi e da intolleranze, ma l’amor patrio potè in lui sempre più dell’amore della propria dottrina.
Forse anche il Mazzini fu in parte, ma in parte soltanto, visionario e idealista, ma anche per lui c’è l’assoluzione che deriva dalla santità del fine cui quelle idealità erano rivolte, e che attraverso a quelle visioni egli intravedeva e vagheggiava: ad ogni modo è indubitato che il Mazzini fu e resta - non ostante la mediocrità di cui l’avevano gratificato il Farini, il D’Azeglio, il Bianchi-Giovini, il Gualterio ed il Gioberti - una delle più alte e onorande personalità della storia dell’italiano risorgimento.
I giobertiani, dunque, e i mazziniani erano, nel 1846, fra i tanti manipoli in cui si suddividevano i liberali italiani, i due partiti più numerosi, più ordinati e più forti della penisola, in ogni più riposto angolo della quale essi avevan seguaci, devoti alle idee e alle dottrine de’ loro maestri. Giobertiani e mazziniani formavano, a quei dì, le due grandi correnti del liberalismo italiano, e nel bacino dell’una e dell’altra esistevano correnti minori, più o meno affini all’una o all’altra, le quali, a un dato momento, diverrebbero, per necessità, affluenti o dell’una o dell’altra, secondo le maggiori o minori afflnità che, con l’una o con l’altra, avevano; cosi la corrente veneziana del Manin, la genovese del Campanella e dell’Avezzana, la lombarda del Cattaneo e dell’Anelli, la toscana del Guerrazzi e del Montanelli, la romana dello Sterbini e del Canino, la napoletana del Saliceti, affluirebbero, a mano a mano, in seguito, nella grande corrente delle idee mazziniane, mentre le correnti piemontesi del Balbo, del D’Azeglio e del Durando, e più tardi anche le democratiche del Rattazzi, del Sineo e del Valerio; le lombarde del Casati, del Litta, del Porro, del Giulini; la toscana del Capponi, del Salvagnoli, del Giusti; la romagnola del Minghetti, del Farini, dell’Audinot, e la romana dell’Orioli e del Lunati finirebbero per confondere le loro acque con quelle della poderosa corrente giobertiana.
Tali erano le condizioni degli Stati e delle popolazioni d’Italia, questa la situazione delle sètte e dei partiti, cosi fatto l’ambiente, e in tal guisa stavano le cose, quando il 16 giugno 1846, dopo tre soli giorni di conclave, i cardinali di santa romana Chiesa, eleggevano, con trentasei suffragi, su quarantanove votanti, a successore di Gregorio XVI il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, vescovo d’Imola, il quale assunse il nome di Pio IX.
Uno degli storici della romana rivoluzione acutamente osserva, che «l'ultima rivoluzione italiana è stata iniziata a Roma dal sacro collegio il giorno in cui i cardinali, riuniti in conclave, hanno elevato Pio IX sul trono pontificio»30. E un altro scrittore, giustamente, nota che si era detto «essere l’esaltazione di Pio IX al pontificato un fatto provvidenziale; ma nel regolare le faccende umane - egli prosegue - la Provvidenza interviene meno assai di quel che si crede. Noi siamo tutti, senza saperlo, modificati dall’ambiente nel quale viviamo: ed il sacro collegio, nello scegliere il Mastai, cedette all’imperio segreto e irresistibile delle nuove idee. I cardinali avevano fra mano l’uomo che più si confaceva alle circostanze: lo presero e fecero bene»31.
E, se a queste osservazioni dei due primi, aggiuugansi quelle complessive e sintetiche di un terzo autorevolissimo, sebbene fieramente rivoluzionario scrittore, si avrà un concetto esatto dell’opera di Pio IX per ciò che riguarda il patrio risorgimento. «Pio IX fu fatto da altri - conclude, dopo sensate e robuste considerazioni, il Cattaneo - e si disfece da sè. Pio IX era una favola immaginata per insegnare al popolo una verità: Pio IX era una poesia»32.
Io ho veduto centosettantotto ritratti e dipinture di Pio IX, a cominciare da quelle datene nel 1840 fino alle più recenti, e dico centosettantotto, perchè non tengo conto di altri ottantasei ritratti o contenuti in taluno dei minori giornali del triennio ’46-’49, in foglietti volanti e opuscoletti anonimi, o nella collezione del periodico la Civiltà Cattolica, o in certe più recenti pubblicazioni, che avrebbero la pretensione di chiamarsi storie, e che non sono che miserabili compilazioni. E avendone veduto centosettantotto non presumo di aver veduto tutti i ritratti di Pio IX; possono esisterne ancora altri, delineati da uomini di vaglia, e da me non conosciuti. Do in nota per ordine alfabetico i nomi dei centosettantotto autori di quelle dipinture33. Molti di questi ritratti si rassomigliano assai fra di loro; ma dai meno benevoli e reverenti quali, ad esempio, quelli dell’About, del Ricciardi, del Rusconi ai più affettuosi ed adulatori, come son quelli del Chatelineau-Joly, De Saint-Albin e del Croce, vi è tale differenza di linee e di colorito che il personaggio ritratto non par più quasi il medesimo.
In mezzo a tanta varietà di rappresentazioni di questa grande figura della storia moderna, sarà consentito anche a me di delineare il ritratto di Pio IX, con imparzialità, senza ouìbra di passione, valendomi non soltanto delle dipinture di coloro che mi hanno preceduto, ma anche dalle osservazioni derivanti dalle posteriori azioni dell’uomo, del principe e del pontefice.
Il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, nato a Senigallia il 13 maggio 1792, da una famiglia di nobili, nè antichi, né insigni, aveva 54 anni allorché fu elevato all’altissima dignità pontificia. D’ingegno svegliato, di fantasia, non direi calda, ma esagitabile, di animo impressionevole, subitaneo, inchinevole alle cose belle, buone e generose, ma instabile e mutevolissimo, il cardinal Mastai era scarso di studi, povero di idee, e, in queste condizioni dell’ingegno e dello spirito, egli mancava assolutamente di fermezza di principi, di serietà e profondità di convincimenti, e in lui non era quindi - e non poteva essere - saldezza di carattere. Bello della persona, dal volto aperto e simpatico, signorile nei modi, facondo parlatore, dalla voce sonora, armoniosa e insinuante, il nuovo Pontefice di questi suoi pregi reali, e di quelli immaginati e attribuitigli dalla adulazione allettatrice, femminilmente invaniva, e alle lusinghevoli carezze della lingua cortigianesca sempre aperto e pronto avea l’orecchio. E, come in tutti gl’intelletti mediocri e in tutti i caratteri deboli suole avvenire, il nuovo Pontefice più assai che di sentimento religioso, di pregiudizi paurosi e di superstizioni infantili aveva l’animo ingombro: onde sul suo cuore due modi vi avea di far presa: col solleticarne la vanità e con l’eccitarvi lo scrupolo. Nella prima sua giovinezza, per le impressioni guerresche ricevute dal 1792 al 1815, vagheggiò l’idea di ascriversi al corpo delle guardie nobili, e mentre si dava bel tempo in Roma, frequentando le signorili conversazioni, corteggiava le belle dame, e si palesò pronto a far sua sposa la figlia di un dabbene curiale, Teodora Valle, con la quale mantenne poi sempre amichevole relazione, anche dopo che essa fu divenuta la signora Gabet34.
Ma il giovine conte Mastai era affetto di un male epilettico del quale migliorò assai col trascorrer degli anni - onde non potè essere ascritto al corpo delle guardie nobili, e lo spirito debole di lui, abbattuto dal subitaneo crollo che quella esclusione portava alle sue mondane illusioni, con impeto irreflessivo si dette alla Chiesa. L’abate Mastai fu ordinato prete nel 1819, indi fu preposto all’istituto di Tata Giovanni, poi fu mandato nel 1823 al Chili a latere di monsignor Muzzi, delegato alle missioni apostoliche.
Tornato dal Chili, riprese la direzione dell’ospizio di Tata Giovanni, indi dal cardinale Annibale Della Genga, suo protettore, divenuto poi Leone XII, fu trasferito a sopraintendere al più ampio istituto di San Michele a Ripa, e, poco stante, nel 1827, fu nominato arcivescovo di Spoleto, ove rimase fino al 1832, anno nel quale Gregorio XVI lo inviò vescovo ad Imola, per innalzarlo poi alla porpora cardinalizia nel 1839.
Ad Imola, adunque, prima come monsignore, poi come cardinale, rimase vescovo il Mastai quattordici anni, e cioè dal 1832 al 1846, anno in cui fu elevato al pontificato.
Durante la quieta e lunga dimora in Imola, il cardinale Mastai Ferretti ebbe agio di osservare gli efferati diportamenti dei centurioni e delle sètte, ed ebbe occasione di leggere e di meditare il Primato morale e civile degl’Italiani del Gioberti e le Speranze d’Italia, del conte Cesare Balbo, e Gli ultimi casi di Romagna, pubblicati, nel 1845, dal marchese Massimo D'Azeglio35, e, come quegli che accensibile avea la fantasia e l’animo proclive alle belle e generose idee, si invaghì delle teorie del Gioberti e del Balbo, cosi che col conte e con la contessa Pasolini, ai quali era legato da intima amicizia, non nascondeva le mutate disposizioni dell’animo suo - una volta, quando era arcivescovo di Spoleto, fanatico per le idee reazionarie del suo protettore Leone XII, del quale, nel 1829, pubblicò per le stampe un Elogio - e apertamente favellava della necessità di accordare ai popoli le desiderate riforme, onde, una «era, diceva: «Io non so comprendere l’attitudine riottosa del nostro Governo, il quale mortifica con le persecuzioni la gioventù che spira l’alito del proprio secolo. Vi vorrebbe sì poco a contentarla e a farsene amare; e neanche valgo ad immaginare la sua contrarietà alle stilarle ferivate, alla illuminazione a gas, ai ponti sospesi, ai congressi scientifici; la teologia non si oppone che io sappia all’incremento delle scienze, arti, industrie. . . ma già. . . io non intendo un ette in politica e forse sbaglio»36.
Nelle quali parole, a chi bene le esamini, apparisce evidente come non chiaro fosse il concetto liberale nell’intelletto del cardinale Mastai, e come non profonda, per conseguenza, fosse nell’animo suo la persuasione della bontà e utilità di tale concetto. Basterà, allorchè egli sarà Pontefice, allorchè egli si sarà identificato nella istituzione Papato, basterà che i cardinali, i vescovi, i gesuiti, rappresentanti di quella istituzione, suscitino qualche scrupolo nel debole e mobile animo suo, basterà che gli susurrino all’orecchio che papato e libertà sono inconciliabili, che il papato italiano non può essere perchè è cattolico, cioè universale, perchè le dottrine giobertiane, le quali alla prima impressione a lui sembravano eccellenti, divengan tosto diaboliche e sian da lui rifiutate e reiette.
Come si vede, adunque, il successore di Gregorio XVI era nel momento in cui fu eletto - l’uomo del suo tempo, l’uomo adatto alla situazione.
E tale egli si manifestò, fin dai primi atti del suo pontificato. Le deputazioni, che accorrevano a Roma, dalle provincie,. per rivolgere indirizzi di felicitazione, al nuovo Pontefice, presentavano altresì indirizzi invocanti amnistia e riforme. E il giorno 16 luglio 1846, un mese appunto dopo la sua elezione^ Pio IX largiva l’editto del perdono a tutti i condannati alla prigionia e all’esilio per colpe politiche: onde, dimostrazioni entusiastiche di gioia irruppero dall’animo commosso delle popolazioni: e quelle grida festanti, quegli applausi calorosi,, unanimi, mentre inebriavano colui cui erano tributati, il quale, per l’indole sua vanitosa, era accessibilissimo alla lusinghiera dolcezza delle lodi, inebriavano altresì le popolazioni che glieli tributavano, e specialmente la romana; e, checchè ne dicano alcuni storici papalini, specie lo Spada, quegli applausi e quelle lodi furono spontanee e sincere, non soltanto perchè lo editto del perdono restituiva a oltre mille famiglie- i loro cari, o prigioni, fuggiaschi37, ma, precipuamente, proprio perchè quell’editto era considerato da tutti come l’inizio di un’era novelia di riforme38, rispondenti alle esigenze degli spinti, i quali - come sopra si è dimostrato - erano universalmente preparati a un rinnovamento morale, politico e civile.
- ↑ L. C. Farini, Lo Stato Romano dal 1815 al 1850, Firenze, Le Monnier, 1853, vol. I, lib. I, cap. II. Cf. con Teodoro Flathe, Il periodo della restaurazione e della rivoluzione 1815-1851, versione italiana, Milano, dott. Leonardo Vallardi edit., 1889, lib. II, cap. IV, pag. 555.; con Enrico von Sybel, La politica clericale nel secolo xix, Roma, tipografia Barbèra, 1874, II, pagina 54.; con David Silvagni, La Corte e la Società Romana nei secoli xviii e xix, Roma, Forzani e C. tipoggrafi del Senato, 1885, vol. III, cap. III, pag. 117; con Rodolphe Rey, Histoire de la renaissance politique de l’Italie, Paris, Michel Lèvy et frères, 1864, lib. I, cap. VI, pagg. 96-97; con G. G. Gervinus, Histoire du dix-neuvième siecle depuis les traitès de Vienne, traduit de l’allemand par L-F. Minssen, Paris, Librairie Internationale, A. Lacroix, Verboeckhoven et C’«, èditeurs, 1866, vol. XVII, parte VIII, § 4, pagg. 215 a 235; con Giuseppe Montanelli, Memorie sull’Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850, Torino, Società editrice italiana, 1853, vol. I, cap. XXXII; con Thomas Henry Dyer, The History of Modern Europe, London, John Murray, 1864, vol. IV, lib. VIII, pag. 578; con Hermann Reuchlin, Geschichte Italiens, Leipzig, Berlag von S. Hirtzel, 1859, vol. I, cap. VII, pagg. 219 e 220; con Marco Minghetti, Miei ricordi, Torino, L. Roux e C. editori, 1888, vol. I, cap. I, pag. 7; con Garnier-Pagès, Histoire de la Rèvolution du 1848, Paris, Pagnerre, libraire-èditeur, 1861, tom. I: Europe, I Italie, chap. I, § 1, pagg. 5 a 8; con Vincenzo Gioberti, Del rinnovamento civile d’Italia, Parigi e Torino, a spese di Giuseppe Bocca, editore, 1851, vol. I, lib. I, cap. II, pagg. 43 a 47; con Nicomede Bianchi, Storia documentata dalla diplomazia europea in Italia dal 1814 al 186i, Torino, dall’Unione tipografico-editrice, 1865, vol. II, cap. VII, § 2, pagg. 190 e 191; oltre che con gli storici Gualterio, Ranalli, Poggi, Anelli, La Farina, Bertolini, Belvigliebi, Bersezio, Oriani, Vecchi, Torre, Saffi, Nisco, Ricotti, Tabarrini, e con gli scrittori delle cose italiane Blanchi-Giovini, Carlo Maria Curci, D’Azeglio, Gabussi, Guerrazzi, Leopardi, Livbrani, Mamiani, De Boni, Massari, Mazzini, Montanelli, Orsini, Pallavicino, Pepe, Perfetti, Ricciardi, Settembrini, Zanoni, ecc., ecc. Perfino il Cantù biasima quasi severamente il governo di Leone XII (C. Cantù, Storta universale 9ª edizione torinese, Torino, Unione tipografico-editrice, 1866, vol. VI, Racconto, lib. XVIII, cap. XXIII. Cf. con l’altra opera dello stesso autore; Storia di cento anni (1750-1850), Torino, Unione tipograflco-editrice, 1866, vol. IV, § 69, pag. 48, dove l’illustro autore conferma, ricopiandolo, tale quale, dalla Storia universale, lo stesso giudizio.
- ↑ A confermare la verità dogli eccessi commessi dalle truppe pontificie a Cesena ed a Forlì nel gennaio 1832, eccessi spesso negati da alcuni storici, riporto fra 1 documenti (Doc. n. 1) la narrazione di un testimone oculare, cioè del marchese Filippo Caucci-Molara, tenente di fanteria delle truppe pontificie, estratto dalle Memorie della sua vita, inedite, pag. 11, 12 e 13. E per queste stragi, oltre quasi tutti gli storici italiani, Gualterio, Farixi, Ranalli, Anelli, La Farina, D’Azeglio, Poggi, Belviglieri, Bianchi N., Bertolini, ecc., vedansi Louis Blanc, Histoire de dix ans 1830-1840, Bruxelles, Société typographique belge, 1850, tom. III, chap. IV, p. 145 et suiv.; Garnier-Pagès, op. cit. tom. I, chap. I, § 4; Capefigue, L’Europe depuis l’avénement de Louis-Philippe, Bruxelles, Meline, Caus et C.ie, 1845, tom. IX, chap. 52; Teodoro Flathe, op. cit., lib. II, cap. IV. pag. 391; H. Reuchlin, op. cit., vol. I, cap. VIII, pag. 238; T. H. Dyer, op. cit., vol. IV, lib. VIII, pag. 605; Giorgio Weber, Compendio di Storia universale, Milano, Guigoni, 1835, parte IV, § 565. Il Cantù, nella Storia universale (ediz. citata, vol. VI, lib. XVIII, cap. XXIV) scrive: «Però tenevasi ancora in arme la guardia urbana (in Romagna) per tutela della quiete pubblica; e fu mandata una deputazione di onorevoli cittadini a chieder miglioramenti, cui il paese pareva maturo. Non che ascoltarla, aggravansi le imposte per pagare la guerra e un corpo di Svizzeri; e mentre crescono i lamenti e fioccano le petizioni, Roma fa un prestito, leva corpi di volontari, cerniti come può, e vuol disciogliere la guardia urbana. Ne fremeva dunque il popolo, e le riazioni cominciavano; onde il card. Albani, commissario straordinario, informò i rappresentanti delle Potenze qualmente le truppe papali s’accingeano a disarmare le legazioni. Tutte, eccetto l’Inghilterra, assentono: ma quest’atto non passa senza opposizione interna; avvisaglie in molti luoghi, a Cesena giusta giornata; e l’Austria ne prende motivo di invadere nuovamente il paese», ecc., ecc. E delle stragi di Cesena e di Forlì, mentendo alla verità storica, tace. E di tale menzogna fa, a metà, ammenda nella Storia dei cento anni (ediz. citata, voi. IV, § 70, pag. 59) dove, ripetendo, parola per parola, cioè ricopiando dalla Storia universale - essendo abituale sua industria, per cupidigia di guadagno, pubblicare, sotto diversi titoli, libri contenenti la medesima materia già pubblicata e venduta prima - aggiunge una frase, come il lettore potrà scorgere, dalla quale si può intuire che stragi e rapine poterono esser commesse, perchè nei soldati pontifici si riconosce la capacità a delinquere. Ecco il frammento: «Però tenevasi ancora in arme la guardia urbana per tutela della quiete pubblica; e fu mandata una deputazione di onorevoli cittadini a chiedere i miglioramenti a cui il paese pareva maturo. Non che ascoltarli, si aggravano le imposte per pacare la guerra e un corpo di Svizzeri; e mentre crescono i lamenti e fioccano le petizioni, Roma fa un prestito, vuol disciogliere le guardie urbane, leva corpi di volontari, cerniti come può e che diventano tiranni, ladri e atroci. Ne fremeva adunque il popolo, e le riazioni cominciavano; onde il cardinale Albani, commissario straordinario, informò i rappresentanti delle Potenze, qualmente le truppe papali si accingeano a disarmare le legazioni. Tutte, eccetto l’Inghilterra, assentono: ma quest’atto non passa senza opposizione inferita; avvisaglie in molti luoghi: a Cesena giusta giornata; e l’Austria ne prende motivo di invadere nuovamente il paese», ecc., ecc.
La prima menzogna storica ribadisce, con loiolesche insinuazioni cercando dimostrare non accertate le stragi e le rapine di Cesena e di Forlì l’illustre scrittore nell’opera: L’Indipendenza italiana; cronistoria di Cesare Cantù (Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1873) dove (vol. II, capitolo XXX, pagg. 278-279) i fatti son narrati cosi: «Nelle legazioni fu ripristinata la guardia civica; con promessa che truppe non v’entrerebbero. Intanto bisognava gravar le imposte per le straordinarie spese, saldare Svizzeri per la sicurezza, sorvegliare non solo i rivoltosi, ma anche i moderati che domandavano riforme; anzi di questi prendeasi maggior paura, come quelli contro di cui non poteasi nè applicare i castighi, nè invocare gli Austriaci. Cosi almeno pareva a chi guardava dal di fuori, e con le simpatie che propendono sempre verso gli oppositori; ma forse il Governo conosceva meglio la vera situazione; giacché in fatto il paese non tardò a ribollire; la guardia urbana si fece deliberatrice; si stesero petizioni con le quali mandossi una deputazione a Roma chiedendo le franchigie, alle quali asserivasi maturo il paese. Non vi si diè retta; anzi si sciolse la guardia urbana; sostituendovi reggimenti svizzeri e corpi di volontari, cerniti nel modo che si sogliono quelle bande sotto qualsiasi Governo. Allora la resistenza diviene aperta, e a Cesena e a Forlì si trascorre al sangue; si ripiglia la coccarda nazionale: si prendono le armi, si resiste ai soldati, che rimasti superiori, commettono le atrocità che sempre i vinti imputano ai vincitori, anche quando non sono così accertate come sventuratamente qui».
Quanto loiolescamente e pietosamente bugiardo sia il velo che l’illustro Cantù cerca di gettare su quelle vergogne e sceleraggini di Santa Chiesa non è chi non veda, sol che si ripensi alla concordia di oltre sessanta storici, fra cui molti non italiani e molti uomini insigni per ingegno e per carattere si italiani che stranieri, e sol che si voglia leggere il racconto di un valoroso soldato e degnissimo gentiluomo quale il marchese colonnello Caucci-Molara.
Quanto alle tre narrazioni osserverò soltanto che in tutte tre l’illustro storico lombardo commise un grosso strafalcione ponendo l’arruolamento degli Svizzeri e dei Centurioni (avvenuto dal luglio al settembre 1832) come precedente alle stragi di Cesena e di Forlì (avvenute nel gennaio 1832); ne commise dei più piccoli che, per brevità, ometto di rilevare. - ↑ F. A. Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani, 3ª edizione, Napoli, Angelo Mirelli, 1861, vol. I, cap. X, pag. 94 e segg.; e fra i documenti uniti il 115, il 116 e il 117; Filippo Perfetti, Ricordi di Roma, Firenze, G. Barbèra, editore 1861, pag. 39 e segg.; Luigi Anelli, Storia d’Italia dal 1814 al 1863.^, Milano, dott. Fr. Vallardi, 1864, vol. I, cap. VII, pag. 240 a 242; Carlo Belviglieri, Storia d’Italia dal 1804 al 1866, Milano, Corona e Calmi editori, 1876, vol. II, lib. IX, pag. 114 e 115; Giuseppe La Farina, Storia d’Italia dal 1815 al 1850, Torino, Società editrice italiana, 1860, vol. I, lib. II, cap. XIV, pag. 443 e segg.; Enrico Poggi, Storia d’Italia dal 1814 all’8 agosto 1846, Firenze, G. Barbèra, 1883, vol. I, lib. III, cap. II; Garnier-Pagès, op. cit., tom. 1, § 1, pag. 11; O. D’Haussonville, Histoire de la politique extérieure du Goucernement français 1830-1848, Paris, Michel Levy frères, 1850, tom. II, § 22, pag. 187; Monsignor Francesco Liverani, La Dottrina cattolica e la Rivoluzione italiana, Firenze, Le Monnier, 1862, capitolo VII, pag. 59; T. H. Dyer, The History of Modem Europe, London, John Murray, 1864, vol. IV, lib. VIII, pagg. 606 e 607; H. Reuchlin, op. cit, vol. I, cap. VIII, pag. 240; N. Bianchi, op. cit., vol. III, cap. IV, § 1, pagg. 149 e 150; R. Rey, op. cit., liv. II, chap. I.
Perfino il parziale storico Francesco Gigliucci Memorie storiche della Rivoluzione romana, Roma, tipografìa de’ Fratelli Palletta, 1852, vol. II, lib. VI, pag. 352 e segg.), quantunque tutto inteso a dimostrare il candore e l’innocenza dei Centurioni, finisce per produrre parecchi documenti uliiciali, circolari e dispacci della Segreteria di Stato, dai quali risulta, contrariamente ai desideri e alle intenzioni dell’autore, che i Centurioni commettevano arbitri o disordini che quelle circolari e quei dispacci miravano a reprimere. - ↑ Edmondo About, Il Governo pontificio o la questione romana, versione libera consentita dall’autore, Italia, a spese dell’editore, cap. IX, in principio. Cf. con Massimo D’Azeglio, Ultimi casi di Romagna.
- ↑ Comte Henry D’Ideville, Le comte Pellegrino Rossi, sa vie, son œuvre, sa mort 1787-1848, Paris, Calman Lévy, éditeur, 1887, lib. IV, pag. 106 et suiv.
- ↑ Op. cit, liv. IV, pag. 128 e 129. Cf. con Massimo D'Azeglio, Degli ultimi casi di Romagna, Italia, 1846, specialmente a pag. 49, 53, 57 o 85 e segr.; Gino Capponi, Sulle attuali condizioni della Romagna nella Gazzetta Italiana del 25 ottobre 1845; F. A. Gualterio, op. cit., vol. I, cap. XVIII, XIX XX; L. C. Farini, op. cit, lib. I, cap. XI; Teodoro Flathe, op. cit., lib. II, cap. II, § IV, pag. 691.
- ↑ Terenzio Mamiani, Di un Nuovo Diritto Europeo, Torino, tipografia di Gerolamo Marzorati, 1859, cap. XIII, pag. 209 e 210.
- ↑ Oltre gli storici Gualterio, Farini, Ranalli, Pepe, Gabussi, Vecchi, Leopardi, La Farina, Poggi, Anelli, Belviglieri, Guerzoni, Bertolini, ecc., ecc., vedi Filippo De Boni, La congiura di Roma e Pio IX, Losanna, S. Bonamici e Compagni, tipografi-editori, 1847, parte II, cap. XIV, pag. 145 e 146; O. D’Haussonville, op. cit., tom. II, § 22, pag. 187; Elias Regnault, Histoire de huit ans 1840-1848 (suite à l’Histoire de dix ans par M. Louis Blanc), Paris, Pagnèrre, libraire-éditeur, 1852, tom. III, chapitre XII, pag". 309; Luigi Torelli, Ricordi intorno alle cinque giornate di Milano, Milano, Ulrico Hoepli, editore-libraio, 1876, cap. XVI, pag. 224; Enrico von Sybel, op. cit. III, pag. 66; Ernest Hamel, Histoire du Règne de Louis- Philippe, Paris, Jouvet et C, éditeurs, 1889, tom. II, chap. XVIII, pag. 20.5; A. Alison, The History of Europe, Edinburgh, W. Blackwood, 1855, vol. VII, cap. XLIV, § 10 H. Reuchlin, op cit., voi. I, cap. XIII; M. Mignet, Portraits et notices historiques et littéraires, Paris» Didier, libraire-éditeur, 1852, pag. 199; Alfredo Oriani. La lotta politica in Italia, Torino-Roma, L. Roux e C, editori, 1892, lib. V, cap. I, pag. 898; e V. Gioberti il quale, in una sua lettera al Mazzini, in data 25 settembre 1834, scriveva: «Gregorio, immemore del sacerdozio e dell’evangelio, ha tolto ad imitare anzi Caifa che Cristo e i suoi antecessori…»; G. Massari, Ricordi biografici e carteggio di V. Gioberti, Torino, tip. Botta, voL I, cap. XX, pag. 345.
- ↑ F. A. Gualterio, op. cit, vol. IV, cap. XLVI, pag. 84. Si veda, con quale arte, nella sua Cronistoria della indipendenza italiana (vol. II, capitolo XXXIII) il Cantù cerchi di porre in bella luce quel po’ di bene che poteva resultare dal reggimento civile napoletano - bene che era in parte da attribuirsi ai re Giuseppe Buonaparte e Gioacchino Murat - e come si sforzi a nascondere, a tacere, o ad attenuare tutto ciò di incivile, di medioevale, di reazionario e di anti-nazionale che vi avevano operato e vi operavano i Borboni dal 1815 al 1845, mentendo in tal guisa, per furiosa bile di parte, alla verità storica solennemente affermata dal Colletta, dal Rossetti, dal Pepe, dal Ricciardi, dal Dragonetti, dal Settembrini, dal Leopardi, dal Gualterio, dal Nisco, dal Garnier-Pagès e da cinquanta altri storici nostrani e forestieri e, ultimamente, con soda critica e corredo di studi amplissimi dall’illustre prof. Francesco Bertolini, Storia del risorgimento italiano, Milano, Fratelli Treves editori, 1889, cap. II (specialmente a pagg. 63 e 64); cap. IV, da pag. 149 a 156 e cap. VI, da pag. 204 a 208 dove è riferito, fra altri, un severo giudizio sul governo di Ferdinando II di fonte non sospetta, perché è del conte Solaro della Margherita, socio in fede politica e religiosa dell’illustre Cesare Cantù e tolto dalla Storia della diplomazia europea in Italia del Bianchi.
- ↑ Ferdinando Martini, nel Proemio alle Memorie inedite di Giuseppe Giusti, Milano, Fratelli Treves, editori, 1890, § 8, pag. xvi.
- ↑ Giuseppe La Farina, op, cit., vol. I, lib. II, cap. XXVIII, pag. 617.
- ↑ E. Poggi, op. cit., vol. II, lib. IV, cap. II, pag. 82.
- ↑ C. Belviglieri, op cit., vol. II, lib. X, pag. 269.
- ↑ Giuseppe La Farina, op. cit., vol. II, lib. II, cap. XXVIII, pag. 618.
- ↑ Giacomo Durando, Della nazionalità italiana. Losanna, S. Bonamici e C., 1846, cap. XVI, pag. 262.
- ↑ Carlo Cattaneo, Scritti politici ed Epistolario, pubblicati da Gabriele Rosa e Jessie White Mario (1836-1848). Firenze, tipografia di E. Barbèra, 1892, nelle Considerazioni in fine al primo volume dell’Archivio triennale, pag. 238-89.
Consulta, pel dominio austriaco in Italia, dopo il trattato di Vienna, fra i moltissimi altri, Cormenin, L’Indipendenza italiana. Discorso tradotto da Giuseppe Massari, Firenze, Felice Le Monnier, febbraio 1848, pag. 19 e seg.; M. D'Azeglio, I lutti di Lombardia. Firenze, Felice Le Monnier, 1848, pag. 20 e seg., 51 e seg. e documenti annessi; Filippo De Boni, op. cit., cap. VII, § 23, pag. 314 e seg.; Louis Blanc, op. cit., vol. II, cap. I, pag. 21 e 22; Vincenzo Gioberti, op. cit. vol. I, cap. VIII, pag. 249; G. La Farina, op. cit., vol. I, lib. II. cap. XXIII, pag. 548 e seg.; F. A. Gualterio, op. cit, vol. II, cap. XXXII, pag. 142 e seg.; L. Anelli, op. cit, vol. II, cap. I, pag. 42 e seg.; Giuseppe Ricciardi, Cenni storici intorno ai casi d’Italia del 1848-49. Napoli, dalla stamperia Del Vaglio, 1869, cap. VI, pag. 68 e seg.; C. Belviglieri, op. cit., vol. II, lib. XIII, pag. 360 e seg.; Carlo Maria Curci, Il Vaticano Regio, tarlo superstite della Chiesa cattolica. Firenze-Roma, fratelli Bencini, editori, 1883 (il quale chiama pessimo e babelico l’impero austriaco come fu ricostituito dal trattato di Vienna), cap. II, § 9, pag. 54; Dott. Carlo Casati, Nuove rivelazioni sui fatti di Milano nel 1847-1848 tratte da documenti inediti. Milano, Ulrico Hoepli, editore-libraio, 1885, voL I, cap. III, pag. 51 e seg.; G. G. Gervinus, op. cit., tom. XVII, part. VIII, §§ 3 e 4, da pag. 202 a 806; Ernest Daudet, Histoire de la Restauration 1814-1830, Paris, librairie Hachette et C.ie, 1882, lib. I. § 5, pag. 55. - ↑ Cf. Garnier-Pagés, op. cit., tom. I, liv. I, chap. Ier, § 7, pag. 15 e seg.; G. Ricciardi, op. cit, cap. I, pag. 3 e seg.; G. G. Gervinus, op. cit., vol. V, part. III, § 4, pag. 144 e seg.
- ↑ V. Gioberti, op. cit., vol. I, lib. I, cap. VIII, pag. 250 e cap. IX, pagine 289 a 302.
- ↑ Tratterò diffusamente, se la vita mi dura, del Gioberti e del Mazzini nella Storia della rivoluzione romana, dal 1846 al 1849, sopra documenti nuovi, da parecchi anni di studi preparata e ormai quasi compiuta.
- ↑ Domenico Berti, Di Vincenzo Gioberti riformatore politico e ministro con sue lettere inedite, Firenze, P. Barbèra, editore, 1881, § 16, pag. 31 e 32. Cf. con Garnier-Pagés, op. cit., tom. I, liv. I, cap. I, § 8, pag. 16.
- ↑ Il Berti (op. cit., § 7, pag. 15), nota questo mutar di partiti e i dissidi e i contrasti che si riscontrano nella vita e nelle opero del Gioberti, e nota che mutazioni e dissidi sono in lui determinati dal desiderio di conseguire il nobile e altissimo fine. E l’illustre uomo nota giustamente. Ma io mi permetterò di aggiungere che il Gioberti non si ostina, come il Guizot e gli altri dottrinari, a piegare, contorcere e raggomitolare i fatti della storia per farli entrare nel casellario delle loro preconcette dottrine e per sforzarli a documentare la pretesa esattezza dei loro prestabiliti sistemi, ma, ammaestrato dai fatti, coraggiosamente strappa da sè il velo delle illusioni, così azzurre, così rosee, così stupende, così sublimi che egli stesso si era intrecciato, con tanta fatica, attorno alla fronte, nel suo Primato, ingenuamente confessa il suo errore e subito, nel Rinnovamento, traendo, con intuizione profondissima e quasi divinatoria, dai fatti, allora allora occorsi, una nuova e più esatta e più vera dottrina da sostituire alla parte erronea ed utopistica delle sue dottrine precedenti, dopo aver detto che l’Italia risorgerebbe avente duce e guida il Papato, lealmente dice agli Italiani: Ho errato: voi risorgerete, avendo avverso il Papato, e sulle ruine del Papato temporale, ad unità di nazione, sotto il vessillo di Vittorio Emanuele II.
- ↑ Domenico Berti, op. cit., § 8, pag. 16, ove, in nota, egli riporta un frammento di lettera del conte Santorre Santarosa del 1833 al conte Camillo di Cavour, in cui dipinge repubblicano il Gioberti. Cf. Giuseppe Massari, Ricordi biografici e carteggio di V. Gioberti, già citati, vol. I, cap. XX, pag: 343 e seguenti.
- ↑ Mazzini giudicato da sè stesso e dai suoi, opera di Giulio De Bréval, italianizzata da Francesco Giuntini, Firenze, a spese del traduttore, pei tipi di Simone Coen, 1853.
- ↑ E, senza dubbio, il De Bréval, avrebbe citato anche il Minghetti se quei tre malaugurati volumi dei Ricordi fossero stati, a quel tempo, pubblicati; nei quali la grettezza dei giudizi, la meschinità dei concetti, le passioni le più volgari si infiltrano frequentemente e rimpiccioliscono e offuscano alquanto la figura dell’illustre uomo che, per l’equanimità de’ suoi splendidi discorsi, pei modi squisiti di vero gentiluomo, aveva lasciato in tutti la convinzione della mitezza e serenità dell’anima sua.
- ↑ F. I. Perrens (Deux ans de révolution en Italie, Paris, librairie de L. Hachette et Cie, 1857, § I, pag. 5 e 6). Egli, nell’Avant-propos, pag. v, scrive queste parole d’oro, il cui giustissimo concetto non tennero presente, come avrebbero dovuto, il Gualterio, il Farini o lo stesso Gioberti: «Au lieu de donner son opinion que personne ne demande, l’historien ne ferait-il pas mieux do fournir aux autres tous les éléments pour former la leur? C’est à quoi j’ai cru devoir me borner dans ce livre. À chacun sa tache: aux contemporains de racconter, à la postérité de juger.
- ↑ L’autore di questo volume vide una sola volta il Mazzini, nel settembre del 1870; e bastò il colloquio di un quarto d’ora perchè eg:li rimanesse affascinato dalla parola calda, eloquente, appassionata, dallo sguardo ardente, invasore, conquistatore, dalla ferrea stretta di mano di quell’uomo
- ↑ F. J. Perrens, op. cit., I, pag. 4 e 5.
- ↑ Pietro Ellero, La tirannide borghese, 2ª edizione. Bologna, Niccola Zanichelli, 1879, cap. LXX, pag. 123 a l25.
- ↑ La rivoluzione romana al giudizio degl’imparziali, per cura della società dei compilatori della biblioteca cattolica (D'Amelio A., Garavini G., Placente G. e Sanseverino G.), Napoli, coi tipi di Vincenzo Manfredi, 1852. lib. II, cap. V, pag. 133, 134 e 135.
- ↑ F. J. Perrens, op. cit., I, pag. 3.
- ↑ Cormenin, op. cit., Prologo, pag. 8.
- ↑ Cattaneo, vol. cit., Considerazioni al secondo volume dell’Archivio triennale, pag. 373. Mi riservo di dimostrare in seguito come sia storicamente erroneo affermare: Pio IX si disfece da sè.
- ↑ About, Alison, Anelli, Arrivabene, Audisio, Balan, Balmos, Balbo, Balleydier, Beaumont-Vassy, Beghelli, Belviglieri, Bersezio, Berti, Bertolini, Bianchi C, Bianchi N., Bianchi-Giovini, Bonghi, Bosio, Bresciani, Brofferio, Champagny, Calvet-Roguiat, Cantù, Capetigue, Cappelletti, Capponi, Carrane, Cardinali, Casati, Castagnola, Cattaneo, Chatelineau-Joly, Cibrario, Costa di Beauregard, Colombo, Conti, Coppi, Cormenin, Correnti, Croce, Curci, D’Amelio, D’Arlincourt, D’Hauleville, Depasse, De Asis, D’Haussonville, Dall’Ongaro, Dandolo, D’Azeglio, De Boni, Do Broglio, De Castro, De Michelis, Del Vecchio, D’Ideville, De Rorai. Do Saint-Albin, D’Ayala, Dyer, Ellero, Farini, Fernandez de Cordova, Ferrero, Flathe, Fiorentino, Gabussi, Gaiani, Gaillard, Gallenga, Galletti, Garnier-Pagés, Garibaldi, Gavazzi, Gazzola, Gennarelli, Gifgli, Gioberti, Giusti, Goddard, Grandoni, Gualdi, Gualterio, Gurrzoni, Guizot, La Farina, Lamartine, Le Musson, Lenormant, Leopfifdi, Leroy-Beaulien, Liverani, Lubionscky, Mamiani, Manno, Mariani, Mario, Marchetti, Martini, Masi, Massarani, Massari, Mastcheg, Mauro, Mazzini, Metternich, Mignet, Minghetti, Miraglia, Montalembert, Montanelli, Montazio, Montecchi, Muzzarelli, Nisco, Oriani, Orsini. Ottolenghi, Pace, Pallavicino, Pandullo, Panadcjs y Poblet, Pasolini, Pepe, Perfetti, Petruccelli della Gattina, Perrens, Pianciani, Pieraerts, Pinto, Pisacane, Pompili-Olivieri, Poggi Porro, Ranalli, Régnault, Reuchlin, Rey, Riccardi, Ricciardi, Ricotti, Rosmini, Rossi, Roux, Rusconi, Ruth, Saffi, Scalchi, Schmidt, Schönahls, Settembrini, Silvagni, Sineo, Solaro della Margherita, Spada, Bpaur, Sterbini, Tabarrini, Tivaroni, Tommaseo, Tommnasoni, Torelli, Torre, Valeriani, Valmy, Vannucci, Vecchi, Veuillot, Ventura, Webb Probyn, White Mario, Willisen, Zannoni, Zeller, Zini, Zobi.
- ↑ D. Silvagni, op. cit, vol. III, cap. XIV, pag. 541 e seg.
- ↑ Giuseppe Pasolini, Memorie raccolte da suo figlio, Imola, tipografia Ignazio Galeati e figlio, 1880, cap. II, pag. 53 e seg.
- ↑ Giuseppe Pasolini, op. cit., ibid.
- ↑ Achille Gennarelli, Il Governo pontificio e io Stato romano, documenti, ecc., Prato, tip. Alberghetti, 1860. Nel vol. II, in appendice dà l’elenco degli amnistiati, che, secondo i documenti da lui rinvenuti nel 1860, nelle quattro Legazioni, ascesero, in tutto, a 851, e cioè: 394 detenuti e 476 emigrati; gli esclusi, perchè o sacerdoti o già impiegati civili e militari furono 55. Però io credo che il calcolo del Gennarelli vada completato con altri documenti esistenti negli Archivi di Roma e che egli non potè avere sott’occhio nel 18G0, quando diè fuori l’importante sua pubblicazione: il credo perciò che il numero degli amnistiati, in tutto lo Stato, oltrepassi e numero di 1000.
- ↑ Il Gualterio (op. cit, vol. V, cap. III, da puh. 41 a 53), non solo afferma che come atto d’inizio di tutto un sistema di riforme era applaudita spontaneamente — e smentisce solennemente ogni carattere artificioso in quegli applausi — l’amnistia, ma afferma che come tale quell’atto era anche considerato nella intenzione del Pontefice. Cf. con La Farina, op. cit., vol. II, lib. III, cap. II, pag. 19; e C. Belviglieri, op. cit., vol. II, lib. XII, pag. 284. C. Rusconi, La repubblica romana dei 1849, 3ª edizione, Roma, Capaccini e Ripamonti editori, 1879. Introduzione, pag. 4; Federico Torre. Memorie storiche sull’intervento francese in Roma nel 1849, Torino, tip. Italiana di Savoiardo e Bosco, 1853, lib. I, pag. 7; E. Poggi, op. cit. vol. II, lib. V, cap. IV; Carlo Tivaroni, L’Italia durante i! dominio austriaco, Torino-Roma, L. Roux e C. editori, 1893, tomo II, Italia centrale, parte VII, cap. V, pag. 268; H. Reuchlin, op. cit., vol. I, cap. 1; R. Rey, op. cit., liv. III, chap. I.