Storia della rivoluzione di Roma (vol. I)/Discorso preliminare

Discorso preliminare

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Ai lettori Lettera di Giuseppe Spada

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DISCORSO PRELIMINARE




La storia viene considerata come maestra degli uomini. Solo allora però eglino si terranno veramente guidati ed ammaestrati dalla medesima, quando essa rifulga e per la verità dei racconti, e per l’imparzialità dei giudizìi.

Benchè quella di cui intraprendiamo la trattazione abbracci il breve periodo interceduto dalla morte di Gregorio XVI, il 1 giugno 1846, al ripristinamento del governo pontificio, il 15 luglio 1849, pure nondimeno è a ritenersi d’Anna grandissima importanza, imperocchè la rivoluzione romana, che ne forma il subbietto, ebbe per iscopo precipuo, se ben si considera, la trasformazione sociale per quanto si attiene a politica, la riforma, e se possibile fosse, la distruzione completa del cattolicismo, perciò che alla religione si riferisce.

E siccome il cattolicismo ha innumerevoli seguaci nelle cinque parti in che si divide la terra, le cose di Roma, che del cattolicismo è la sede, non possono non attirare, di necessità, l’interesse del mondo intero. Ora chi non intende di quale alto rilievo sieno i nostri scritti? È ben d’uopo adunque ch’essi innanzi tratto si mostrino ricchi di quelle doti, che sole possono guadagnare ed eccitare un preponderante interesse, ed una ragionata fiducia.

Parecchie storie che a quell’epoca si riferiscono furono già pubblicate, e fra queste primeggiano per rinomanza quelle del Farini, del Gualterio, del Ranalli. [p. 14 modifica]

Non entreremo a designarne i meriti, o rilevarne i difetti, ma i due primi essendo uomini di partito, il terzo avendo scritto sulla fede delle informazioni ricevute in Toscana, ove risiedeva e pubblicava il suo lavoro, mancano talvolta, o d’imparzialità nei giudizii, o di verità nella esposizione dei fatti.

Abbiamo pure quelle di un Biagio Miraglia, di un Federico Torre, di un Augusto Vecchi, di un Benedetto Grandoni, e quella di Carlo Rusconi, i quali figurarono tutti quale più, quale meno in Roma sotto il governo repubblicano, e quindi è chiaro con quale spirito furono scritte.

Abbiamo inoltre quella del legittimista Balleydier, il quale ignaro affatto della nostra favella, e assente da Roma quando si svolsero gli avvenimenti di cui trattò, dovette necessariamente comporre ancor esso la sua storia sulle altrui informazioni. Esiste ancora quella del conte Lubienski polacco, pubblicata in Parigi, la quale ha del merito per la esattezza delle informazioni, essendosi il Lubienski trovato in Roma in quei tempi.

Per le quali cose, niuno al certo vorrà tacciarci di rivalità o millanteria se osiamo apertamente dire, che le storie suddette, benchè non prive di molte notizie interessanti, perdono il loro conto all’apparire della presente. Imperocchè, meglio informati noi, e per rapporti sociali, e per il maggior tempo decorso, e per le molteplici memorie pubblicate da altri, e per indipendenza di posizione, e sopratutto per ricchezza di materiali, in che niuno potè mai contrastarci il primato, avemmo il vantaggio di narrare la verità delle cose, testimoniandola coi documenti ai quali di tratto in tratto riportiamo i nostri lettori1.

La lettura dei nostri scritti proverà luminosamente, che i fatti i quali si svolsero dal 1846 al 1849, furono [p. 15 modifica]un tessuto non interrotto d’inganni e d’insidie dei rivoluzionarii italiani contro il papato e l’ordine sociale esistente in Roma. Ci svelerà gl’iterati sforzi di quel partito ostile al papato stesso, che, con deliberato proposito di rovesciarlo, si apprese al temperamento non già di usare violenza, si bene di onorarlo, estollerlo, glorificarlo, e amicarselo, a fine di carpirne a poco a poco il potere, e quindi abbatterlo apertamente, e sostituirsi in sua vece.

Nel 1846 difatti non si leggeranno che applausi, dimostrazioni, poesie, musiche, fiori, e luminarie. Era la cosi detta luna di miele, erano le blandizie di una giovane, quanto avvenente, altrettanto sleale, cui non era altro studio, tranne quello d’ingannare l’oggetto delle sue predilezioni. E ciò, con tale istudiato raffinamento e stomachevoli esagerazioni, che l’uomo cui voleva sedurre, posto in grado di scoprire l’iniqua trama, dovette rompere colla seduttrice ogni possibilità d’accordo. La giovane Italia che evidentemente sosteneva la parte di seduttrice; divenuta trionfante per l’atto del perdono, nulla lasciò intentato per volgerlo al suo profitto. Da ciò venne scaturendo in seguito quel movimento festoso, quell’agitazione che fu detta amorosa, e che caratterizzò precipuamente gli anni 1846 e 1847.

Dalla lettura di queste storie dovranno emergere tali utili verità, che non andranno al certo perdute per chi verrà dopo di noi. Apparirà che un pontefice dotato dei più retti e nobili sentimenti, e animato dalle più lodevoli e generose intenzioni, fu mandato da Dio per tentare l’esperimento (a disinganno degli uomini) di ammansire la rivoluzione italiana colla dolcezza e con l’amore. Quindi è ch’egli alzando la mano del perdono sui rivoltosi, gli strinse al seno con l’amplesso di padre; e stimando nel suo bel cuore che il sentimento della riconoscenza e della gratitudine fosse per renderli a lui fedeli, chiamonne taluni persino al disimpegno di pubblici ed importanti incarichi. Volendo inoltre che i fatti succedessero alle [p. 16 modifica]speranze, pose ogni studio, e poco indugiò nell’introdurre tutti quei miglioramenti, e concedere quelle utili instituzioni, che fossero compatibili colla integrità del pontificato romano e del temporale dominio, e che in altri tempi, gli stessi potentati di Europa avevan creduto di consigliare.

L’inganno però si venne quasi subito appalesando. Gli onesti trepidarono e si ammutolirono, i protervi allietaronsene, e presero la prevalenza; la stampa europea esaltò i perdonati, e ne venne encomiando le gesta. Esaltò il pontefice, e lo designò come il modello e il campione fra i regnanti, l’uomo non solo di moda e di circostanza, ma l’uomo provvidenziale. E queste lodi esagerate, sì agli uni come all’altro, queste speranze entusiastiche, e questi delirî irrefrenabili attecchirono siffattamente, e così universalmente si diffusero, che popoli e sovrani, ducati, regni ed imperi ne furono commossi e sentirono a grado a grado insinuarsi, e svilupparsi la perturbazione anche nelle viscere loro. Terribile è vero, e lacrimevole ne’ suoi effetti riuscì lo esperimento, ma pure valse a stabilire due gran veri, il primo, la forza e la potenza morale del papato, il secondo, che l’uomo beneficato, se non è animato da principî religiosi, rare volte mantiene la fede, e professa la riconoscenza.

Gli avvenimenti di cui fummo testimoni, posero in sodo il principio, che la rivoluzione non si conquide colle blandizie, e che nè per diversità di tempi o di luoghi, sia che irrompa all’ostro, o all’occaso, o nelle gelide regioni del settentrione, o nelle ridenti plaghe meridionali, è mai da sperarsi di vincerla, se pure le si conceda por intero ciò che essa domanda. La rivoluziono per se stessa e per propria indole, non fa che ricevute in acconto, ma di saldo giammai.

Ciò non esclude che molto coso debbano e possano farsi. E siccome, variando i tempi, noi vediamo che non solamente vengono cambiandosi i costumi, ma le condizioni eziandio morali e materiali che li producono, e che [p. 17 modifica]derivano dall’organamento interno degli stati, dalle loro relazioni esterne, dal loro grado di cultura, dalle industrie dai commerci, e dalle arti e mestieri, cui si dedicano le popolazioni; e siccome il mondo tende a ingentilirsi e migliorarsi materialmente, la cultura a diffondersi, e gli uomini a tenere in maggior conto la propria dignità, così è divenuto incontestabilmente più difficile di poterli governare con successo. Sono quindi da encomiarsi, e prenunziarsi assai come savi e antiveggenti quei governi, che sapendosi mettere al livello delle difficoltà, e direm pure dell’altezza dei tempi, sanno scartare opportunamente certe inutili anticaglie, e per isventare chetamente e provvidamente le minacciate rivoluzioni sanno seguire con occhio vigile queste trasformazioni che vengono costantemente operandosi, e s’inducono a concedere spontaneamente quelle riforme ed introdurre quei miglioramenti, che tendere possono al ben essere di tutte le classi, e soprattutto delle moltitudini, perchè più bisognose di aita e soccorso.

L’altro più efficace espediente poi, per fare stare quieti i popoli, è quello di dare loro buon esempio colla probità non a parole soltanto, ma coi fatti.

Ritornando in sul discorso della rivoluzione, di cui Roma fu la sede ed il centro diffonditore, diremo ch’essa presentò per verità tali apparenze, e fu così artificiosamente preordinata, che chiunque vi si sarebbe ingannato, perchè, mentre era rivoluzione in tutta l’ampiezza del significato, ebbe non pertanto aspetto di festa. Per festa la presero i Romani, per festa i popoli di estranei paesi, e queste feste succedentisi l’una all’altra, che formarono una festa e un tripudio continuato, erano sempre promosse e organate dai più caldi rivoluzionari, e ad esse associavansi con alacrità i Romani, vuoi attivamente prendendovi parte alcuni di essi, vuoi passivamente intervenendovi soltanto per osservarle.

Stando così le cose, e quantunque l’autorità avesse incominciato ad entrare in sospetto dell’inganno ordito, che [p. 18 modifica]a tristi conseguenze doveva condurre, nonostante come poteva impedire ciò che stavasi compiendo? Essa però non mancò al suo mandato. Parlò vario volte, pregò, esortò a voler desistere, ma la sua voce non venne ascoltata. E come poteva combattere con fucili e cannoni chi veniva coi canti e coi suoni, coi fiori e colle poesie a festeggiare il sovrano?

La rivoluzione che in Roma effettuavasi era parificabile ad un iniquo assassino, che celava sotto le sue vesti un forbito pugnale; ma come riconoscerlo e schermirsene, so presentavasi sotto l’aspetto d’una gentile matrona, col sorriso sul labbro e nella mano un mazzolino di fiori?

E noi appunto pel desiderio di sceverare il vero dal falso, e la realtà dall’apparenza, c’inducemmo ad intraprendere questo lavoro. Tale fu lo scopo ed il fine che ci siamo proposti, a raggiungere il quale ponemmo ogni studio, e ci dedicammo alle più minute investigazioni. E siccome di tutto si hanno ora le prove nelle mani, non riescirà difficile a chi voglia per poco addentrarsi nello studio delle cose occorse, convincersene siffattamente da equivalere ad una geometrica dimostrazione.

Ci convenne pertanto passare tutto in rassegna; e raccogliere le più minute particolarità per istudiare lo spirito ed i procedimenti della rivoluzione italiana, della quale, come dicemmo, Roma era divenuta il centro animatore; nel che fare, dovemmo esaminare tutti gli scritti che il movimento iniziato abbondantemente ci sopperiva. Senza queste premesse, sembrerebbe inesplicabile come per narrare i fatti accaduti in tre anni soltanto, fosse stato d’uopo di riempire tre volumi, a quanti appunto ammontano i nostri scritti.

Trattandosi di storia contemporanea sentimmo bene che qualche suscettibilità individuale avria potuto preferirci la oscurità che lascia le cose nel mistero, alla luce che tutto discuopre e palesa. Non pertanto non ci ristemmo dal dire ciò che c’incombeva, considerando che l’interesse [p. 19 modifica]dell’universale è da anteporre le mille volte a quello delle singolarità. E siccome ritenemmo che dovesse risultarne un bene grandissimo, nutriamo la speranza altresì che la rettitudine delle nostre intenzioni ci procurerà quella vènia che imploriamo per esserci sobbarcati con debolissime forze a reggere sì grave peso.

Forse in progresso di tempo verranno in luce altre memorie, che meglio faranno conoscere alcuni punti di storia, e gli occulti motori loro. Ciò prevediamo e ne proviamo compiacenza; nè in grazia di questo prevedimento credemmo di sospendere la nostra pubblicazione, imperocchè sarà sempre vero che avremo aperto la strada ad altri lavori, i quali raggiungano quella perfezione che non era a sperarsi da noi.

Circa poi alle cause della rivoluzione romana di cui trattiamo, andrebbe grandemente errato chi credesse di rinvenirle unicamente sia nell’amore di libertà (e quando diciamo libertà, intendiamo quella di tipo francese), sia nello sdegno dei popoli per la supposta mala amministrazione del governo, sia pel desiderio di civili riforme.

Queste cose da molti vagamente bucinavansi, e da altri più positivamente desideravansi, ma questi eran pochi. In genere però una discreta libertà piace a tutti, a tutti piace la eguaglianza civile avanti la legge; e quanto più una società è avanzata, tanto meno comporta servilmente gli altrui soprusi, le arroganze aristocratiche, e le sopraffazioni dei potenti e dei superbi ignoranti. Un’amministrazione trascurata, mentre pur troppo nei tempi decorsi passava inosservata, risveglia in oggi, anche più del dovere, le dicerie e i motteggi delle moltitudini; ed il vedere migliorato oggi quello che ieri ritenevasi per difettoso, è un sentimento ormai generalizzato fra gli uomini; ciò non ostante, noi, cui piace chiamare le cose coi nomi loro, e non ingannare (siccome molti fanno) i lettori, diremo essere da ritenersi che queste aspirazioni non furono causa impellente al movimento, sibbene concomitante a predisporlo.

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Noi riteniamo invece che oltre alle molle occulte messe in giuoco talvolta da qualche potenza, cui poteva andare a grado di fomentare perturbazioni nel continente, una delle cause potentissime rinvengasi non solo nelle teorie messe in voga e male definite dagli scrittori, sui diritti dei popoli, col lasciare in disparte la definizione dei loro doveri, ma altresì nella maggior libertà che gli uomini son venuti man mano facendo della loro ragione, e che ne ha spinti molti non solo a ripudiare per sè il perno salutare dell’autorità, ma ad affrancare coi loro scritti dai ceppi morali le presenti e le future generazioni.

Queste ci sembrano le vere cause, cui in molti casi sono da attribuirsi le rivoluzioni; ma ad esse sono da aggiungere le sette, le quali alla lor volta furono talora promotrici di rimescolamenti, e talora furono strumenti utili nelle mani di potenti ambiziosi, che seppero volgerne a proprio profitto la influenza. Queste sette che noi chiameremo col Montanelli Consorterie politiche, è ormai constatato che non solo negli stati pontifici, ma in Italia, in Europa, e nel mondo tutto agiscono nell’ombra incessantemente, e guadagnan sempre nuovi proseliti in guisa da estendere smisuratamente la loro sfera di azione e di predominio.

Egli è a riflettersi inoltre che, prescindendo dai tentativi dei Cola di Rienzo, dei Stefano Porcari, e dei Crescenzi, nei bassi tempi, tendenti a sottrarre Roma dal dominio temporale dei papi, va germogliando in Italia il mal seme che vi gittarono alcuni liberi pensatori, fra i quali citeremo un Giordano Bruno, un fra Tommaso Campanella, un Pomponazio, un Pomponio Leto, un Cardano, un Cremonino, un Andrea Cisalpino, ed altri scrittori e cattedratici seguaci di Aristotile, e di Platone, quando il Peripatismo ed il Platonismo, corrotto dagli Averroisti, invadevan le scuole d’Italia; cosicchè, anche in fatto di libero pensare, l’Italia non solo non fu a niuna seconda, ma prima assai dei Francesi era stata cultrice delle lettere, e diffonditrice dello spirito filosofico. Noi non approviamo il modo di [p. 21 modifica]pensare di questi scrittori, ma diciamo ciò, perchè è giusto di mettere in chiaro questa gran verità, cioè, che i primi liberi pensatori furono Italiani, e che i Francesi, anche in questo, furono nostri scolari e non maestri, come se ne vantano.

Nè a ben riflettere, sono al postutto da sorprenderci siffatte contrarietà. Ci sorprenderebbe anzi se non si fossero incontrate; imperocchè converrebbe supporre che l'Italia sola fosse sottratta alle leggi generali, di cui la storia ci mostra lo sviluppo. Non vediamo noi forse nel mondo intero e in tutte l’epoche subire le monarchie incessanti vicissitudini, le cui sorgenti rinvengonsi nello spirito irrequieto dei popoli? E come stato sarebbe altrimenti in Italia, ove il papa, uno de’ suoi principali sovrani, porta un carattere unico al mondo, tutto speciale ed estraneo alle regole abituali della sovranità?

Esso ad un tempo pontefice e re, ereditario ed elegibile, quasi assoluto e spesse volte di origine plebea, al disopra, sotto certi rispetti, ai re della terra, e intitolantesi servo dei servi di Dio. Ed è egli meraviglia se queste qualifiche, apparentemente contradittorie, abbiano eccitato delle teste immaginose ed ardenti ad avversare il papato, e che a queste abbian fatto corona quegli spiriti superficiali, che ignari della pratica degli affari, delle condizioni essenziali del governo, e delle vere molle della politica, si arrestano ad osservare soltanto i contorni esterni delle cose che colpiscono i loro sguardi?

Egli è viceversa a restare colpiti ed edificati piuttosto nell’osservare, che, mentre tante monarchie furono in preda, durante lunghi anni, alle fazioni, alle perturbazioni, alle guerre civili, ed alle invasioni straniere, che finirono col farle soccombere, i papi soli abbiano assistito e veduto passare impavidi questi movimenti convulsivi, propri delle società umane. I papi no, non ne andarono esenti, perchè il fondatore della Chiesa non promise ch’essa vivrebbe in pace, ma che sopravviverebbe sempre; ed è perciò [p. 22 modifica]che la barca di Pietro collutta colle tempeste, ma non va al fondo giammai.

Oltre a ciò il desiderio di affrancamento dalla dominazione straniera che ora, e forse non a torto, invade in modo più pronunziato le menti degl’Italiani, fu spesse volte accompagnato da quello di sottrarsi dalla dominazione papale, quasi che essa fosse causa ed inciampo al conseguimento di questi patriottici desideri.

Di ciò avemmo un saggio in una celebre terzina di Dante Alighieri, 2 in alcuni passaggi del Macchiavelli e del Guicciardini, nelle robuste poesie dell’Alfieri, nelle saporite rime degli Animali parlanti del Casti, ed in altri non pochi scrittori, che sarebbe troppo lungo accennare. Ciò spiega perchè idee siffatte allignassero sempre di preferenza fra i cultori delle lettere, e della poesia.

È questa una piaga quasi diremmo insanabile, che ha invaso il corpo sociale della nostra penisola, alla quale molti danni inferì, e molti inferirà successivamente. E se dicemmo insanabile, egli è perchè quantunque cento e cento voci sorgano giornalmente, e migliaia di scritti si pubblichino in difesa del papato, pure è sempre a temersi che faccian più danno quelle parole che sfuggirono agli scrittori summenzionati, stante la loro celebrità, di quello che non sia a sperarsi di vantaggio da quella coorte immensa di chiari ingegni, che fra gl’Italiani, e fra gli esteri sostennero la tesi contraria, e con evidentissime prove dimostrarono. E bene a ragione il fecero, perchè appoggiandosi a documenti e monumenti storici preziosissimi, seppero non solamente difendere gagliardamente il papato, ma riuscirono a dimostrare con fatti irrecusabili, essere esso la sola grandezza superstite d’Italia, e ad esso andare noi debitori dello sviluppo delle scienze, delle lettere, e delle arti, che per irradiazione si diffusero sul globo, e quel [p. 23 modifica]che più monta, dei sentimenti di carità universale, di giustizia, e di beneficenza in grazia dei quali l’Europa, non solo, ma il mondo tutto, possiede l’attuale suo incivilimento.

Ma gl’Italiani in genere, ed i Romani in ispecie van debitori di altro vantaggio segnalatissimo verso il papato; imperocchè senza di esso l’Italia da lunga pezza avrebbe perduta interamente la sua indipendenza, e sarebbe divenuta preda dei cupidi suoi protettori, sia Francesi, sia Tedeschi, sia Spagnuoli, che hanno sempre più, o meno, se non mirato a dominarla, ad ingerirsi nelle cose sue.

Lasciando in disparte i secoli anteriori al medio evo, i quali ci provano che i popoli del nord hanno sempre fatto all’amore coll’Italia per conquistarla e piantarvi lor sede; e venendo ai tempi a noi vicini, ci si para d’innanzi l’imperatore Carlo V, che nel suo desiderio di fondare una monarchia universale, permise il sacco di Roma nell’anno 1527, sacco che venne eseguito con modi sì barbari e disumani, da disgradarne quelli degli stessi Unni, dei Goti, e dei Vandali.3 Trasfondevansi poscia gli ambiziosi desiderî di Carlo V nel suo figlio Filippo II, che forse avrebbe tentato di realizzarli, se non avesse incontrato quel petto di bronzo e quell’anima fiera che Dio ci diè in Sisto V, al quale riuscì di sventare i progetti del sire di Spagna. Dopo di ciò, Austria, Francia, e Spagna vagheggiarono sempre mire ambiziose sull’Italia, e se le compressero in petto, non si deve che, o al rispetto, o al timore del papa. Al principio di questo secolo venne conquistata l’Italia dalle armi francesi, e l’Austria spiava forse il momento in cui la vagheggiata conquista fosse sfuggita dalle mani dei Francesi, per farla sua, e senza la disfatta di Marengo, che venne a sventare i suoi progetti, chi sa se Pio VII sarebbe riuscito a prendere possesso dei pontifici domini, dopo la sua elezione. [p. 24 modifica]

Al congresso di Vienna del 1815, l’Austria contrastava le Legazioni; e le nordiche potenze, conoscendo le sue cupidigie, e temendo che non volesse stendersi troppo in Italia, favorirono la completa restaurazione del papa. Ciò non ostante l’Austria si riservò il lato sinistro del Po, e la cittadella di Ferrara, ad onta dei richiami, e delle proteste del cardinal Consalvi.

Comunque si voglia, salvo piccola sottrazione, il papa riebbe il suo, e la Provvidenza dette tal piega alle cose umane, che le stesse potenze accattoliche furono propizie sostenitrici della cattolica Roma.

Questi fatti recenti eclissano le rimembranza della Lega Lombarda, dell’eroica fermezza di Alessandro III, e del patriottismo di Giulio II, e dimostrano fino all’ultima evidenza, che il papato fu in ogni tempo l’usbergo morale, e lo scoglio insuperabile che preservarono l’Italia dalla dominazione straniera permanente e completa, e che impedirono ch’essa divenisse tutta intiera sommessa a qualcuno dei potentati, i quali agognavano al suo conquisto per signoreggiarla.

Sofferse è vero l’Italia le incursioni dei barbari, le escursioni dei Normanni e dei Saraceni; le discese degli Spagnoli, dei Francesi e dei Teutoni, ma l’Italia conservò il suo nome, la sua lingua, la sua autonomia; e la sede di Pietro, sostituita a quella dei Romani, imperatori del mondo, stette e starà, e così proverà a tutti che ad essa si debbe la sola protezione efficace, il solo baluardo invincibile, la gloria più incontestabile della nostra cotanto invidiata penisola.

Risulterà quindi dal complesso del nostro lavoro:

1.° Ciò che fece la rivoluzione italiana, e i suoi seguaci per ingannare Pio IX e i Romani;

2.° Ciò che fecero il pontefice e i suoi ministri in principio, per ammansirli e guidarli finchè li credettero innocui;

3.° Ciò che fecero per combatterli quando li [p. 25 modifica]credettero danuosi. Ed iu questo, e nelle prove di fermezza date dal papa dopo smascherata la rivoluzione, esso non apparisce grande soltanto, ma sublime;

4.° Che se sofferse il papato negli anni di cui discorriamo, altri potentati non andarono immuni dalla procella, che ne minacciò alcuni, ed altri sommerse, e forse chi sa che non vi desser causa, coll’aver favorito soverchiamente nei loro stati lo spirito filosofico, la diffusione di libri corrompitori, e avversato troppo apertamente, fin dallo scorcio del secolo passato, le salutari influenze, ed i savi consigli della corte di Roma.

Di cotal guisa apparirà stabilito sopra solide basi il convincimento, che nè bravura d’uomini, nè perfezionamento d’istituzioni, nè antivedimenti di vanagloriosa diplomcia, a salvare bastano la società da urti violenti, ove faccia difetto il principio religioso. Ed a tale effetto, indirizzandoci noi a quei giovani che ammiratori poco riflessivi della romana gentilesca grandezza, sperano di vederla risorta, direm loro, che se furono grandi gli antichi Romani, e se pervennero a stabilire il più vasto impero del mondo, dettero ad esso la religione per base, quel solo dono del cielo, che l’umana società cementa, consolida, conforta e sostiene.

E direm loro ancora, che rimirino nell’età moderna e riconoscano se è vero o no, che stante il rilasciamento nell’idee religiose, tutti i governi sono costretti di reggersi coll’aumentare la vigilanza e il sospetto, moltiplicare i macchinismi della polizia, ed alimentare quella piaga sociale, ohe corrode gli stati tutti del continente, vogliam dire le innumerevoli soldatesche.

Procurammo per quanto ci fu possibile di essere imparziali nei nostri giudizi. Non lodammo il potere, quando ci parve che commettesse qualche tratto d’imprevidenza; disapprovammo l’inerzia della polizia; non risparmiammo parole di biasimo contro gl’impiegati governativi; non fummo larghi di lodi alla romana aristocrazia, perchè non ci parve [p. 26 modifica]rispondere sempre all’altezza della sua posizione; tartassammo ancora quella piccola parte del clero che si ringalluzziva al sentire, che il Gioberti piacevasi di maltrattare i Gesuiti; lodammo il popolo romano, perchè ad onta degli innumerevoli incitamenti ricevuti, ci parve sempre il popolo più incivilito del mondo; e se ci pronunziammo contro i repubblicani, ei fu perchè nelle condizioni presenti della società, di repubblica il mondo non vuol saperne, e perchè in oggi la riteniamo contraria a civiltà, e adiutrice, e fomentatrice di tirannia; encomiammo i difensori di Roma per la loro attività e valore; e fra i vari municipi che avemmo, quello solo repubblicano attirò le nostre lodi, perchè, sotto alcuni rispetti, seppe meritarsele.

Se dicemmo però che riteniamo la repubblica contraria a civiltà, ciò non deve prendersi in senso assoluto, perchè la storia ci somministra esempi in contrario. E prima di tutto ci si parano d’innanzi le repubbliche della Grecia, e i nomi di Pericle e di Alcibiade, e quella dei Romani fra i quali i soli nomi di Cesare, di Pompeo e di Cicerone, sono la più fulgida illustrazione del secolo in cui vissero. Che se poi volgiamo lo sguardo alle repubbliche italiane del medio evo, troviamo che repubblica e civiltà poterono andare insieme congiunte.

E nei tempi moderni, il grado di proprietà, di possanza, di progresso a cui pervennero gli Stati Uniti di America, e la superiorità che procacciaronsi nell’industria, nei commerci e nella navigazione vengono a convalidare gli esempi della Grecia, di Roma e delle repubbliche italiane. Se non che in merito agli Stati Uniti di America quantunque presentino un esempio di grandezza è di prosperità, che colpisce di stupore e di ammirazione, e ciò pel solo periodo di poco più di un mezzo secolo, pure questo stato è ancor troppo giovane, per dare di sè confortevoli garanzie di stabilità. Noi scriviamo le presenti carte nell’anno 1859; ma chi ci dice se le istituzioni morali di quello stato, non portino in se un germe corroditore? [p. 27 modifica]Chi ci assicura che quel governo, pieno di vita e di energia, ma fondato esclusivamente sull’utilismo e sugli interessi materiali, possa andare esente da dissidi e da guerre intestine, che ne vengano lacerando, o per lo meno alterando sostanzialmente l’organismo? In fine sarà dell’America ciò che la Provvidenza vorrà che sia.

Ma noi siamo nel continente europeo, ove stante gli usi introdotti, i costumi prevalenti, M lusso generalizzato, l’amore degli agi della vita, e vorremmo pur dire il sensualismo smodato che ammorba la società, e l’individuale egoismo, che invade tutto le classi, ciò che fu possibile in altri tempi ora noi sarebbe, e la sostituzione delle repubbliche alle monarchie attirerebbe seco guerre civili interminabili e disastrosissime, e farebbe sottentrare non solo alla civiltà la barbarie, ma aprirebbe il varco, come sempre, agli ambiziosi conquistatori, che alle arti di civiltà e di progresso sostituirebbero l’impero tirannico della forza brutale.

Fummo è vero severi nell’appuntare i procedimenti della rivoluzione italiana, non già per lo scopo che proponevasi, ma pei mezzi sleali, di cui si servì per ingannare e compromette il papa, rappresentandolo come il motore della rivoluzione, mentre non lo era, e volendone fare un principe bellicoso, un nuovo Giulio II. Ma come non essere severo contro una sì inqualificabile mostruosità? Come non pronunziarsi contro desideri così temerari e sconnessi? E più sconnesso non potremmo immaginarne di quello, di pretendere che il papa si erigesse in campione di guerra, in fomentatore di ruine, di stragi, e di sangue, esso che fu posto da Dio per sostenere la santità del diritto e della giustizia, per propugnare e diffondere le sane dottrine, l’uomo che in primo grado simboleggia la pace fra gli uomini e fra le nazioni, il nemico e l’avversatore dei tiranni, e il protettore dei deboli e e degli oppressi!

La Provvidenza però ha coordinato le cose in modo, [p. 28 modifica]ed ha impresso tracce così visibili della sua protezione, che tutto porta non che a sperare, a somministrarci la confortevole certezza che Roma ed il papato, quantunque da quando in quando inquietati e bersagliati, finiranno coli’ essere sempre rispettati e sostenuti, non solo dalle potenze mondiali, ma dalla volontà operosa di tutti i cattolici dell’universo. Si conserverà così stabilmente quel primato morale, e quell’inalterabilità di principi che furono l’opera dei secoli, ed il compimento delle viste della Provvidenza stessa, a tutela dell’ordine sociale e dell’umano incivilimento.










Note

  1. Vedasi a tal effetto la lettera che intitolai ai miei concittadini e che divisai di pubblicare in merito alla mia raccolta, la quale lettera è rimasta inedita, ma che noi crediamo di pubblicare adesso; essa farà seguito al presente Discorso preliminare.
  2. Vedi Dante, Purgatorio, canto XVI. Vedi pure nel canto XIX, la terzina (verso 115) che incomincia:

    Ahi Costantin, ec. ec.

  3. Vedi Robertson, Vita di Carlo V, vol. II, pagine 286, edizione di Londra, in-4, dell’Anno 1769.