Chi l'ha detto?/Parte seconda/80b
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b) Italia.
Ab Jove principium: cominciamo questa rassegna dal duce supremo del nostro Esercito, da colui al quale lo Statuto - non ancora modificato su questo punto - dava la grave e dolorosa responsabilità di dichiarare la guerra, il Re nostro, Vittorio Emanuele III. Della sua mirabile condotta in questo conflitto tutti parlarono: aneddoti su di lui, frasi da lui dette, furono raccolte da molti e specialmente in un bel volumetto di Bruno Astori e Pirro Rost, Il Re alla guerra (Firenze, Bemporad, 1918), ma poco vi sì troverà che faccia al nostro caso.
Quando, appena dichiarata la guerra all’Austria il 23 maggio 1915, il Re partì per il fronte per assumere il comando supremo delle forze mobilitate, dal Gran Quartiere Generale rivolse ai soldati di terra e di mare il 26 maggio un proclama nel quale fra altre cose è detto: «.... Soldati, a voi la gloria di piantare il Tricolore d’Italia su
1810. I termini sacri che natura pose a confine della Patria nostra,
a voi la gloria di compiere, finalmente, l’opera con tanto eroismo iniziata». La bella frase del proclama reale fu ripetuta nella epigrafe messa in testa ai vari elenchi ufficiali di ricompense al valor militare ai morti in combattimento o in seguito a ferite, pubblicati in parecchie dispense del bollettino ufficiale del Ministero della Guerra: «Per rivendicare “i termini sacri che natura pose a confine della Patria” affrontarono impavidi morte gloriosa»: e fu ricordata dal Re medesimo nel telegramma di risposta al Sindaco della capitale che gli aveva rivolto il solito telegramma augurale il 20 settembre 1920, cinquantesimo anniversario della redenzione di Roma: «.... Vogliono i destini d’Italia che al compiersi del cinquantenario si celebrino, conquistati per virtù di popolo e di esercito eroici, gli inviolabili termini segnati dalla natura e dalla storia».
Il vibrante proclama diretto dal Re alla nazione dopo le tristi giornate di Caporetto, dato dal Quartiere Generale il 10 di novembre 1917 e che reca le firme del Sovrano e di tutto il ministero Orlando, contiene due frasi, l’una di seguito all’altra, divenute meritamente famose:
1811. Cittadini e soldati, siate un esercito solo!
1812. Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è tradimento, ogni recriminazione è tradimento.
E anche del nostro Re la seguente:1813. Frères, ne cessez jamais de vous aimer. 1
Quando, dopo la conclusione degli armistizi, egli fu a Parigi col Principe Ereditario, intervenne il 20 dicembre 1918 ad un ricevimento dato in suo onore all’Hôtel de Ville; e al saluto portatogli dal presidente del Consiglio municipale Mithouard e dal prefetto della Senna Autrand, rispose con un caldo e commosso discorso, en français impéccable, finendo con queste parole: «Laissez-moi terminer en évoquant la mémoire impérissable de nos morts glorieux et cette jeunesse qui a donné sa vie au nom de l’idéal radieux, de ces morts qui, de leurs tombeaux, à tout jamais honorés, nous disent à nous Français et Italiens qui n’avons pas partagé leur sort: Frères, ne cessez jamais de vous aimer» (Cerfberr, Paris pendant la guerre, Paris 1919, pag. 103).
Dell’on. Antonio Salandra, presidente del Consiglio nel periodo della neutralità e della preparazione e nel primo anno della nostra guerra, resteranno tre frasi. La prima è quella del
1814. Sacro egoismo.
Il 18 ottobre 1914 l’on. Salandra, alla Consulta, prendendo possesso dell’ufficio di ministro degli Esteri, interinalmente assunto, dopo la morte del march. di San Giuliano, rivolte ai funzionari di quel ministero brevi parole di commemorazione del defunto ministro, proseguì: «Le direttive della nostra politica internazionale saranno domani quelle che erano ieri. A proseguire in esse occorre incrollabile fermezza d’animo, serena visione dei reali interessi del paese, maturità di riflessione, che non escluda, al bisogno, prontezza d’azione; occorre ardimento, non di parole, ma di opere; occorre animo scevro da ogni preconcetto, da ogni pregiudizio, da ogni sentimento che non sia quello della illimitata ed esclusiva devozione alla Patria nostra, del sacro egoismo per l’Italia». Il discorso fu comunicato all’agenzia Stefani e da questa immediatamente reso pubblico; e la frase del sacro egoismo acquistò, forse per un certo suo sapore di paradosso, una grande notorietà e fu ripetutamente citata. Contro alcune false e maliziose interpretazioni di essa protestò lo stesso on. Salandra chiarendone il vero significato in una lettera scritta al direttore del Messaggero di Roma, e pubblicato da questo giornale il 9 gennaio 1919, e lo stesso giorno anche dal Corriere della Sera di Milano, e poi da altri giornali.
L’on. Ettore Ciccotti, commentando nel Messaggero di Roma del 1919, — in un articolo della serie già ricordata su le frasi celebri della guerra - questa del Salandra, annota: «Fors’anche, la sua, era una non felice reminiscenza tedesca; giacché — non so se l’on. Salandra lo abbia ben presente - quella frase, di cui qualcuno ha voluto cercare la traccia in un discorso di Salisbury, è di schietta marca tedesca e riflesso di educazione tedesca. E infatti il berlinese Guglielmo Jordan, che, parlando nel Parlamento della Confederazione, nella chiesa di San Paolo, a Francoforte, il 24 luglio 1848, fece appello, contro le voci di resurrezione della Polonia, all’egoismo nazionale tedesco: “È ben tempo - egli disse - di uscire da quell’abnegazione da sognatori, in cui ci sdilinquivamo per tutte le nazionalità, mentre noi stessi si languiva in una vergognosa servitù, calpestati da tutto il mondo, per assorgere ad un sano egoismo nazionale, se si deve pronunziare una volta appunto la parola che mette il benessere e l’onore della patria sopra a tutte le questioni”. E poco dopo (3 dicembre 1850) il principe di Bismarck, rendendo, come era suo costume, anche più brutale quell’affermazione, che pure si poteva comprendere nel senso e nella forma usata dal Jordan, diceva: “Il solo sano fondamento di un grande stato - e in ciò questo si distingue essenzialmente da un piccolo stato - è l’egoismo statale, non il romanticismo; e non è degno di un grande stato contendere per una questione che non rientra nel suo particolare interesse”. E di un egoismo nazionale avevano parlato poco prima Ludwig Borne e Carlo Grun, quando rinfacciava a un socialista che in lui l’egoismo nazionale diveniva egoismo sociale». Le parole precise di Bismarck che furono in quel tempo riesumate anche nei giornali tedeschi, sono le seguenti: «Die einzige gesunde Grundlage eines grossen Staates, und dadurch unterscheidet er sich wesentlich von einem kleinen Staate, ist der staatliche Egoismus und nicht die Romantik, und es ist eines grossen Staates nicht würdig, für eine Sache zu streiten, die nicht seinem eigenen Interesse angehört». I giornali tedeschi nel riferire questa fonte commentavano ironicamente che Bismarck nella sua brutale franchezza, non si era sognato di chiamare sacro il suo egoismo!
La seconda frase storica dell’on. Salandra è quella delle:
1815. Giuste aspirazioni.
nel discorso da lui pronunciato alla Camera dei Deputati il 3 dicembre 1914, annunziando le dimissioni del precedente gabinetto pure da lui presieduto e comunicando la costituzione del nuovo di cui esponeva il programma: «Nelle terre e nei mari dell’Antico Continente, la cui configurazione politica si va forse trasformando, l’Italia ha vitali interessi da tutelare, giuste aspirazioni da affermare e sostenere, una situazione di grande potenza da mantenere intatta, non solo, ma che da possibili ingrandimenti di altri stati non sia relativamente diminuita» (Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Legisl. XXIV, Discussioni, vol. VI, pag. 5533). E finalmente è ancora dell’on. Salandra la frase
1816. La nostra guerra è santa.
Nel fiero, elevato discorso che il presidente del Consiglio pronunziò in Campidoglio il 2 giugno 1915, intervenendo alla seduta del Comitato romano per la mobilitazione civile, e col quale degnamente rispose alle ingiuriose ciance di Bethmann-Hollweg, egli disse, in principio: « .... giusta è la causa che ci ha mossi e la nostra guerra è una guerra santa». E poichè tutto il discorso si aggirò su questi due punti, la giustizia della nostra causa, la santità della nostra guerra, il discorso stesso prese il titolo anche più incisivo: La nostra guerra è santa, e con tale titolo è, fra le moltissime edizioni che ne furono fatte in Italia e fuori, in quella che si può dire la edizione ufficiale, stampata a Roma, dalla Tipografia del Senato. In questa edizione la frase citata è a pag. 4. Un eloquente commento del discorso Salandra fu fatto dal prof. Giovanni Vidari, della Università di Torino, in una conferenza tenuta una settimana dopo, il 9 giugno, alla Società di Coltura di Torino: «E come ha parlato, che cosa ha detto Antonio Salandra? O meglio, che cosa significa il suo discorso? Che la nostra guerra è santa? che è voluta da Dio, benedetta da Dio? Lo sapevamo; oramai lo aveva chiarito anche alle menti più tarde o più ottuse o più pavide o più interessate o più preoccupate quel documento nitido, diritto, preciso, che è la nota diplomatica, integrata dal Libro Verde, del ministro Sonnino, l’uomo dalla intemerata coscienza e dalla forte coltura, ecc.» (v. in Conferenze e Prolusioni, a. VIII, n. 15, Roma, 1° agosto 1915, pag. 294).
A queste frasi Salandriane, dette durante la guerra e che ad si riferiscono, si potrebbero aggiungerne altre due non meno note, pronunciate nel periodo della nostra neutralità, cioè prima dello scoppiare della nostra guerra e che con essa non hanno attinenza alcuna nell’argomento, tranne una certa allusione metaforica nella seconda. Mi sia però concesso di ugualmente qui ricordarle tutt’e due. Sono due frasi che resteranno nel nostro linguaggio parlamentare, l’
1817. Assalto alla diligenza
e l’
1818. Automobile blindata.
Isidoro Reggio nel vol. IV della Storia della grande guerra d’Italia (L’incubo: i pericoli della neutralità, Milano, s. a., a pag. 79). a proposito delle irrequiete fazioni politiche che tentavano di profittare delle difficoltà esterne, per la crisi del grande conflitto, e interne di ogni genere - era di quei giorni il disastroso terremoto del 13 gennaio 1915 che aveva devastato la Marsica - fra le quali si dibatteva il ministero Salandra e di dargli, poco patriotticamente, lo sgambetto, scrive: «In quell’occasione l’on. Salandra, discorrendo con alcuni deputati, ricordò che certe mosse di tal genere erano state qualificate come assalti alla diligenza e soggiunse che in quel caso i grassatori avrebbero trovato davanti a sè un’automobile blindata.... L’episodio mise a rumore il mondo parlamentare.... L’on. Comandini, ch’era stato presente, allorché il presidente del Consiglio aveva pronunciato la frase divenuta famosa ne dava la seguente versione: “L’on Salandra, dopo aver accennato all’attacco alla diligenza, soggiunse in tono tra ironico e scherzoso, un tantino mordace: Ma si deve tener presente che le diligenze non ci sono più: adesso ci sono le automobili e poichè siamo in tempo di guerra, le automobili sono blindate e sono fornite di mitragliatrici. Se si vorrà dunque dare l’assalto - conchiuse l’on. Salandra sorridendo - è naturale che si sparerà anche dall’automobile’’. - L’on. Soleri che pure era presente, riferì la frase allo stesso modo, aggiungendo: “Fu risposto che la politica era estranea al passo dei deputati e che a suo tempo l’opera del Governo sarebbe stata liberamente discussa nella lode e nel biasimo che meritava”. - Certo è che a Montecitorio non si parlava di altro: ed era nell’impressione generale che assalto alla diligenza e automobile blindata sarebbero andati ormai a far parte dell’archivio delle frasi parlamentari storiche....».
Anche l’on. Vittorio Emanuele Orlando ha al suo attivo alcune frasi famose, dette, la prima mentre era ancora ministro guardasigilli nel ministero presieduto dal Salandra e le altre quando era presidente del Consiglio in successione del venerando Boselli. La prima è la frase notissima, che ben fa riscontro all’ antipenultima testè citata dell’on. Salandra, la
1819. Guerra giusta e necessaria.
che si trova nel discorso pronunciato a Palermo il 21 novembre 1915: «In questa guerra che noi accettammo, non perchè breve, facile e sicura, ma perchè, sapendola invece terribile e lunga, era guerra giusta e necessaria, qualche cosa è avvenuto onde il pensiero si esalta e il cuore si gonfia di commozione. Pensate: tutti gl’Italiani per tutta l’Italia!» (V. E. Orlando, Discorsi per la guerra, Roma 1919, Biblioteca dell’«Eloquenza», pag. 30). La frase, altamente significativa, fu assunta come titolo del discorso, il quale appunto con tale titolo fu subito stampato nella Collana Colitti di Conferenze e Discorsi, n. 3 (Campobasso, 1915). Il concetto della «guerra giusta e necessaria», fu ribadito nel discorso dell’on. Salandra, detto alla Camera dei Deputati nel dicembre successivo: «Lo svolgersi degli eventi, fausti ed infausti, ci ha sempre più persuasi della necessità e della giustizia della nostra guerra, senza la quale saremmo rimasti irremissibilmente menomati negli interessi, e, quel che è peggio, nella dignità, nell’ onore della Nazione».
Delle frasi dette dall’Orlando capo del governo, la più nota è:
1820. Resistere! resistere! resistere!
parole ch’egli pronunziò alla Camera il 22 dicembre 1917 facendo le prime dichiarazioni del Governo dopo la ritirata alla Piave: «La voce dei morti e la volontà dei vivi, il senso dell’onore e la ragione dell’ utilità, concordemente, solennemente ci rivolgono adunque un ammonimento solo, ci additano una sola via di salvezza: resistere! resistere! resistere!» (Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, Sess. 1913-17, vol. XIV, pag. 15454).Il virile appello ebbe in tutta Italia larga eco e unanime consenso, se ne trasse il titolo di parecchie pubblicazioni di propaganda e lo spunto per conferenze, discorsi, ecc. che ne accrebbero la popolarità. Ne citerò soltanto uno. Alla festa del giuramento degli Allievi della Scuola di Parma, il 2 giugno 1918, il vescovo della città mons. Guido Maria Conforti pronunziò un patriotico discorso che suscitò grande plauso ed ebbe larga diffusione in tutto il paese: «Andate con la benedizione di Dio; ricordatevi che la causa per la quale siete chiamati a combattere, è giusta e santa; ricordate che la vostra parola d’ordine deve essere Resistere Resistere Resistere.»
1821. L’Italia conosce la fame: non conosce il disonore.
sono parole dello stesso Orlando al popolo di Roma, accorso alla stazione a salutarlo con immensa, indimenticabile dimostrazione, il 26 aprile 1919, quando egli con tutta la delegazione italiana si ritirò dalla Conferenza della Pace dopo l’inqualificabile messaggio di Wilson: «Dobbiamo considerare il peggio. Non voglio la risposta oggi. Noi possiamo, dopo quattro anni di inenarrabili privazioni e sacrifici, per cui nessun altro paese ci supera, trovarci di nuovo dinanzi a sacrifici (Sì, sì, Applausi). In questo momento l’Italia è più grande, è più pronta di prima: è grande come nel maggio 1915. Vi domando però che la decisione sia maturata. Non è solo il rifornimento che manca. Ma l’Italia conosce la fame: non conosce il disonore». Le concitate parole del ministro furono riportate, con lievi varianti, dalla stampa quotidiana della sera e della mattina appresso: si veda particolarmente il Messaggero di Roma. n. 113, del 27 aprile, e si veda pure, da chi lo desidera, il sanguinoso commento a queste parole dell’Orlando nel proclama di Gabriele d’Annunzio: Italia o morte, degli settembre 1919. La figura principale nella storia della nostra guerra è quella del Capo dello Stato Maggiore, impropriamente detto Generalissimo, poichè il comando supremo delle forze di terra e di mare è statutariamente devoluto al Re. Tale carica fu, come tutti sanno, da prima coperta dal Ten. Generale Carlo Cadorna. Un energico telegramma di lui del 14 settembre 1917, in risposta ad altro telegramma delle associazioni liberali e interventiste milanesi, avvertiva: «....Siamo in un’ora decisiva. Ancora una volta ripeto: “Ogni viltà convien che qui sia morta” [frase dantesca, già da noi ricordata al n. 1199].... Si fondano tutte le classi e tutti i partiti che sinceramente amano la Patria in un solo impeto di orgoglio e di fede, per ripetere come nelle giornate memorabili del maggio 1915 al nemico che ascolta in agguato:
1822. L’Italia non conosce che la via dell’onore!».
Il nome del Cadorna divenne popolarissimo anche in grazia dei quotidiani comunicati dello Stato Maggiore sulle operazioni di guerra, comunicati come s’intende non compilati da lui (c’era al Comando Supremo un ufficio apposito diretto dal maggio 1915 al maggio 1917 dal Colonnello di S. M. Francesco Foschini, quindi sino alla fine della guerra dal Colonnello di S. M. Domenico Siciliani) ma da lui ispirati e riveduti: e per questo, nei vari testi a stampa, vi si legge in fine la formula tipica della burocrazia militare, Firmato Cadorna. Pare che sia assolutamente autentico il caso (che poi fece il giro della stampa nazionale e intesista) di un brav’uomo della Venezia che in omaggio al Cadorna pretendeva di dare a un suo rampollo il nome di Firmato ch’egli in buona fede credeva fosse il nome di battesimo del generale.
In questi comunicati, sui primi tempi, per espresso volere del Generalissimo, non era mai stato fatto il nome di nessuna unità che si fosse specialmente distinta: ma tale silenzio, serbato per circa sei mesi, fu rotto il 15 novembre 1915, nel qual giorno il Bollettino n. 173, dopo aver parlato del violento e ininterrotto fuoco nemico sulla disputata e famosa trincea delle Frasche sul Carso, aggiungeva: «Gli intrepidi Sardi della Brigata Sassari resistettero però saldamente sulle conquistate posizioni e con ammirevole slancio espugnarono altro vicino e importante trinceramento detto dei Razzi». D’allora nessuno contese più ai valorosi Sardi l’epiteto di cui il capo li aveva meritamente fregiati:
1823. Intrepidi Sardi.
Ho detto che i vari bollettini della guerra non erano solitamente del Cadorna: pur troppo deve ritenersi in gran parte scritto da lui insieme al sottocapo di S. M. generale Carlo Porro, il terribile bollettino del 28 ottobre ’17, dopo Caporetto, di cui la frase più saliente è quella che denuncia
1824. ....La deficiente resistenza di taluni reparti....
Il bollettino n. 887 datato del 28 ottobre 1917, a ore 13, dopo che la 12a divisione germanica aveva sfondato il nostro fronte a Caporetto (24 ottobre) e incalzando le nostre truppe in ritirata si era già impadronita di Cividale (27 ottobre), così rivelava la dolorosa verità fino allora occultata al paese: «La mancata resistenza di reparti della 2a armata, vilmente ritiratisi senza combattere e ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia. Gli sforzi valorosi delle altre truppe non sono riusciti ad impedire all’avversario di penetrare nel sacro suolo della patria». Il bollettino, di cui un primo testo era stato compilato dallo speciale ufficio del Comando Supremo, ma che fu totalmente rifatto dal Generalissimo che ne assunse la responsabilità e dal Sottocapo, a Treviso, dove il Cadorna si era trasferito da Udine con l’Ufficia Operazioni sin dal pomeriggio del 27, fu di là diramati grande ritardo, perciò la Stazione radiotelegrafica di Coltano lo trasmise all’estero appena lo ricevette da Treviso, senza attendere, come doveva, che le fosse confermato da Roma; ma qui il governo, nel riceverne comunicazione, preoccupato della gravissima ripercussione morale che esso poteva avere nel paese, prima di comunicarlo alla Agenzia Stefani, ne modificò il primo periodo nella forma seguente: «La violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di taluni reparti della 2a armata hanno permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra, ecc. ecc.»: ma all’estero, come si è detto, fu pubblicato il testo primitivo. Pochi giorni dopo si facevano circolare nelle principali città d’Italia, stampati alla macchia o dattilografati, dei foglietti che contenevano un preteso testo del comunicato che si diceva anteriore all’autentico, e che segnalava anche i nomi di alcune brigate la cui condotta era stata riprovevole — e i nomi delle brigate erano variati abilmente da un luogo all’altro - e invocava la maledizione della patria e di Dio sui traditori. Ne do il testo, sopprimendo i nomi che del resto, come ho detto, non erano sempre gli stessi: «Sotto l’impeto nemico e più ancora per l’ignobile tradimento di alcuni reparti della seconda Armata e precisamente delle brigate.... (4 nomi), il nemico ha potuto penetrare nel sacro suolo della Patria. Che Dio e la Patria le maledica! Addito all’estremo disprezzo del mondo intero le brigate.... (altri due nomi) che ignominiosamente e volontariamente hanno ceduto le armi che furono ad esse affidate pel bene della Patria». Un comunicato ufficiale del governo dichiarava che quel preteso bollettino era apocrifo e ciò fu confermato anche dalle indagini della Commissione d’Inchiesta su Caporetto: si trattava evidentemente di una oscura manovra di agenti nemici o di disfattisti che l’autorità non riuscì a identificare. Si noti che esso fu largamente diffuso fra le nostre truppe al fronte e nelle città costiere a mezzo di aeroplani e idroplani nemici. La storia del comunicato Cadorna è stata fatta nella relazione della citata Commissione d’Inchiesta, intitolata Dall’Isonzo al Piave; 24 ottobre 9 novembre 1917 (vol. II, pag. 545-549, Roma 1919); e, con qualche particolare poco noto, dal generale Ettore Viganò nel volume: La nostra guerra (Firenze 1920, pag. 374), dove fra altre cose è detto che la modificazione alla prima redazione del comunicato «fu fatta, appena arrivò il telegramma a Roma, dal senatore [Vittorio] Scialoja (che era allora ministro senza portafoglio, incaricato della propaganda) perche non arrivasse ai giornali nella spaventosa dizione originale».
Ben altra intonazione troviamo in un ordine del giorno del Cadorna stesso, e di cui la paternità fu ben rivendicata da lui, che vi espresse «la fede mai smentita nei destini d’Italia e nell’esercito, dal cui eroismo tali destini dipendevano». Il 7 novembre 1917, due giorni prima che il Cadorna lasciasse il comando, quando già l’esercito occupava le nuove linee di difesa sulla Piave, egli lanciò un ordine del giorno che così finisce: «Sappia ogni comandante, sappia ogni soldato qual’è questo sacro dovere: lottare, vincere, non retrocedere di un passo. - Noi siamo inflessibilmente decisi: sulle nuove posizioni raggiunte, dal Piave allo Stelvio, si difende l’onore e la vita d’Italia. Sappia ogni combattente qual’è il grido e il comando che viene dalla coscienza di tutto il popolo italiano:
1825. Morire, non ripiegare».
Il testo di questo ordine del giorno fu riprodotto con profonde alterazioni in diversi libri, ma fu ristabilito dal Cadorna nella sua opera: La guerra alla fronte italiana, vol. II. (Milano, 1921, a pag. 249).
Largo compenso a queste pagine dolorose trovò la patria un anno dopo nei bollettini che di giorno in giorno registravano il succedersi dei fausti avvenimenti nella grande battaglia di Vittorio Veneto per culminare nell’ultimo, il bollettino n. 1268, detto il «Bollettino della Vittoria» o anche - non immeritamente - «Bollettino napoleonico». Il bollettino, che ha la data del 4 novembre 1918, ore 13, ed è firmato Generale [Armando] Diaz. nuovo capo dello Stato Maggiore, ma che fu dettato come i precedenti dal colonnello Domenico Siciliani, ebbe una larghissima diffusione: fu riprodotto in tutti i modi, in edizioni speciali di lusso, in manifesti, in incisioni, in cartoline (ve ne sono delle centinaia) e anche in lapidi monumentali apposte a perpetua memoria su pubblici edifici in quasi tutte le città d’Italia e in moltissimi comuni minori. Esso è giustamente scolpito nella memoria di tutti gli Italiani che con orgoglio ricordano specialmente l’ultimo periodo di esso:
1826. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.
Non lasceremo il general Diaz senza ricordare ch’egli stesso assegnò alle varie armate da lui condotte alla vittoria, i soprannomi con i quali divennero famose: ne rivendicò la paternità in un’intervista col Giornale d’Italia (vedi num. del 4 novembre 1920): «Io ho voluto che la I Armata si chiamasse la Gagliarda; la III Armata, l’Invitta; la IV Armata (l’“Armata del Grappa”), la Tenace; la VI Armata (l’“Armata degli Altipiani”), la Prode; la VII Armata, la Costante; l’ VIII Armata, la Valorosissima; la IX Armata, la Fida; la X Armata, l’Audace; la XII Armata, la Ferrea; il Corpo di Cavalleria, Vigile e Fiero; i Carabinieri, Fedeli e Saldi».
Ricco materiale alla nostra raccolta darà Gabriele d’Annunzio al cui nome già molte volte fatto in questo libro, nulla occorre oggi di aggiungere. Delle molte frasi che di lui dovremo qui registrare (e molte più per brevità se ne omettono) una risale agli ultimi giorni della nostra neutralità:
1827. O beati quelli che più hanno, perchè più potranno dare, più potranno ardere.
che è nella perorazione finale del discorso per la Sagra dei Mille, pronunziato allo Scoglio di Quarto per la inaugurazione del monumento commemorativo della leggendaria impresa (scolpito dallo scultore Baroni) il 5 maggio 19 15 (Gabriele d’Annunzio, Per la grande Italia, orazioni e messaggi. Milano, 1915, pag. 32).
1828. Eja! eja! eja! alalà!
è il grido di guerra degli aviatori, da lui suggerito. Echeggiò già nell’agosto 1917, nella festa del «nastro azzurro» per la distribuzione delle medaglie al valore agli aviatori, consegnate solennemente la domenica 22 agosto in un campo d’aviazione della zona di guerra: il discorso in cui D’Annunzio lanciò il grido, comparve nei vari giornali politici del 24, ma il grido fu frainteso e malamente riportato da tutti. Nella prima forma esso però era alquanto diverso. Infatti la rivista milanese Il Secolo Illustrato, nel num. del 15 settembre 1917 (a. V, n. 18, pag. 648) dà la fotografia di una bandiera nazionale sulla quale, di pugno del D’Annunzio, è scritto: Heu! Heu! Heu! Alala! - 7. VIII. 1917. Gabriele d’Annunzio, e sotto alla figura la seguente didascalia: «La bandiera di battaglia donata da Gabriele d’Annunzio agli equipaggi dei raids su Pola ai quali egli pure prese parte. Su! bianco del tricolore il Poeta di suo pugno ha vergato il nuovo grido di guerra.» Al grido dannunziano dette la consacrazione ufficiale il generale ing. L. A. Maggiorato, capo dei servizi aeronautici, nelle parole che il 18 ottobre successivo rivolse a salutare nell’estrema Puglia i volatori in procinto di partire per bombardare la nascosta Cartaro. Lo stesso D’Annunzio lo ripetè nella Canzone del Quarnaro, composta per celebrare l’impresa navale di Buccari (notte sull’11 febbraio 1918), stampata nel volumetto: G. d’Annunzio, La Beffa di Buccari con aggiunti la Canzone del Quarnaro, il Catalogo dei Trenta di Buccari, ecc. (Milano, 1918), la quale comincia:
Siamo trenta d’una sorte,
E trentuno con la morte.
Eia, l’ultima! Alalà!
mentre ogni strofa ha per ritornello:
Eia, carne del Carnaro!
Alalà!
o altri versi simili. Ma qui l’eia è gridato una volta sola: il triplice eia con l’alalà che è il grido genuino degli aviatori nacque più tardi e si ritrova come chiusa delle parole dette da G. d’Annunzio al banchetto che a lui e ai compagni reduci dall’audace volo su Vienna offrì al campo il Duca d’Aosta l’11 agosto 1918 (furono stampate nel Corriere della Sera molto tempo dopo e ristampate nell’Antologia della nostra guerra di C. Culcasi. Milano-Roma-Napoli 1920. a pag. 486-490: però anche qui l’eia è ripetuto due volte sole) e in quelle dette da lui medesimo alla mensa degli aviatori nel campo di Centocelle il 12 maggio 1919 (stampate nel volume: Contro uno e contro tutti, Roma, 1919, pag. 97-105).
Le due parole eia ed alalà parvero strane e novissime ai lettori della Canzone del Quarnaro. Ma il prof. Giuseppe Lesca in un articoletto (Per «eia alalà» ed altre voci marziali) già comparso nel Giornale d’Italia del 1° novembre 1917 e poi molto ampliato e riprodotto, col titolo: I ritornelli, o gridi marziali, nella «Canzone del Quarnaro» nella rivista milanese I Libri del Giorno, n. 4, luglio 1918. pag. 175, opportunamente ricorda che eia o alalà era interiezione comune ai greci e ai latini: Eia! vigila! gridarono per avviso e risveglio le scolte modenesi, come attesta un noto carme latino dell’agosto 899 (cfr. Bertoni, il ritmo delle scolte modenesi, Modena 1909) quando vegliavano alla difesa della città contro gli Ungari invasori (si veda a proposito di questo richiamo il Corriere della Sera, di Milano, del 30 ottobre 1917). Eja risuonò sul labbro dei Crociati; Eja, o guerrieri! il nostro inno ripeta: Eja; che unito ad outre o ultro diventò più fortemente outreja! o ultreja!; e ultreja insegnò l’arcivescovo Anselmo alla parte più eletta della gioventù lombarda, come si sa da Landolfo, incitata a crociarsi e a pugnare valorosamente. Ma eja fu anche usato dai fiorentini contemporanei del Boccaccio e del Sacchetti, se di questo si legge nella nov. 146: Eja, questo è pure il più bel frodo che si vedesse mai; e di quello in una nota novella (Decamerone, giorn. VIII, nov. 6a): Eja, Calandrino, che vuol dir questo? - Più fortuna, nell’Eliade ebbe alalà (questa la forma dorica, mentre attica fu alalè); e alalà gridarono certamente anche militi romani, essendo la voce registrata da lessicografi come acclamatio militaris ante pugnam. I lettori di poesia l’hanno sentita nel Carducci (Ninna-nanna di Carlo V in Rime nuove) con lieve modificazione:
Hallali, hallali, gente d’Habsburgo!
Ad una caccia eterna io con te surgo.
ed il Carducci avvertì trattarsi d’un grido di caccia francese, accolto, se non vogliamo dire già in uso, anche nelle nobili caccie nostre; e l’avranno poi ritrovato nel Pascoli come nello stesso D’Annunzio. Sono infatti del primo, nei Poemi conviviali, i due versi
Ti getto allora un alalà di guerra.
E mise allora un alalà di guerra.
e nella Fedra dannunziana:
Alternando l’imeneo
Con l’alala di guerra.
Duri dunque la fortuna dei due antichissimi gridi, sia come grido di guerra, sia presso i giovani cultori di ogni forma di sport, a sostituire il barbarissimo e ridicolo: Hip! hip! hip! hurrah!, di cui la prima voce non significa nulla se non un richiamo di scuderia, l’hurrah o urrà è voce esotica, con cui tedeschi, inglesi, francesi, senza ricordo della mistica origine, ripetono il cosacco gurai che equivale Al paradiso! - Si avverta che della collezione iniziata dalla Libreria della Fionda a Roma col titolo I fasti d’Icaro e che dovrebbe contenere scritti del D’Annunzio di argomento aviatorio, è annunziato un X fascicolo che sarà intitolato: Eia, eia, eia! alalà! Storia di un grido. - Come curiosità avvertirò pure che un recente volume del generale Von Lettow-Vorbeck sulla guerra nell’Africa Orientale tedesca (Leipzig, 1919), della quale egli fu maxima ars, è intitolato: Heia Safari!
1829. Vittoria nostra, non sarai mutilata.
è il titolo di una prosa ritmica di Gabriele d’Annunzio pubblicata per il primo anniversario di Caporetto nel Corriere della Sera del 24 ottobre 1918; ed è ripetuta nel versetto 63: «Vittoria nostra non sarai mutilata. Nessuno può frangerti i ginocchi nè tarparti le penne. Dove corri? dove sali?».
1830. Ti con nu, nu con ti.2
Perasto, piccolo porto della Dalmazia, nelle Bocche di Cattaro, di contro alle Catene, oggi abitata quasi solo da croati, fu già famosa per la sua fedeltà a Venezia, che le valse il privilegio di fornire la guardia al Gonfalone di San Marco: a Lepanto i quindici eletti a custodire lo stendardo su la nave Capitana erano tutti Dalmati di Perasto, e otto di essi morirono con le armi in pugno. Quando il governo repubblicano cadde nel 1797, Perasto, prima di aprire le porte agli austriaci, volle seppellire sotto l’aitar maggiore della sua chiesa il gonfalone vermiglio con solenne cerimonia alla quale assisterono tutti i cittadini vestiti a lutto e il capo della comunità, il vecchio conte Giuseppe Viscovich salutò le insegne con un discorso che ancor oggi non si può leggere senza commozione: «.... Per 377 ani [cioè dal 1420, data della presa di Cattaro] le nostre sostanze, el nostro sangue, le nostre vite le xe stae sempre per ti, O San Marco; e felicissimi sempre se avemo reputà ti con nu, nu con ti, e sempre co ti sul mar nu semo stai illustri e virtuosi. Nessun con ti ne ha visto scappar, nessuno con ti ne ha visto vinti o paurosi». Il discorso del buon vecchio ci è conservato da parecchi storici, come il Moschini, Della letteratura veneziana del secolo XVIII, to. I, pag. 241, n. 1; Dandolo G., La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquanta anni, to. I, p. 25; Erber T., Storia della Dalmazia dal 1797 al 1814, to. I, p. 76; Tamaro, La Vénétie Julienne et la Dalmatie, to. III, p. 332.
Gabriele d’Annunzio ne rinfrescò la memoria nella sua Lettera ai Dalmati (Venezia, 1919) che suscitò tanto clamore: e delle parole Ti con nu nu con ti fece il motto dell’impresa per la Squadriglia aerea di San Marco, da lui comandata: l’impresa in un bel legno inciso da Adolfo de Carolis o de Karolis orna il frontespizio della citata Lettera ai Dalmati e dell’altro opuscolo polemico che a questa fa seguito: Aveux d’un ingrat (Paris, 1919). Ma qui affrettiamoci a dire che copiosissima è la serie dei motti o imprese dannunziane relative alla presente guerra. Il Poeta sempre si dilettò molto di nuovi motti, latini o volgari e qualcuno è già registrato nei precedenti capitoli, ma infinito è il numero di quelli ch’egli mise fuori nelle molte cose da lui scritte o dette o che applicò a imprese simboliche nei libri, nella corrispondenza, su bandiere o altri oggetti. Io non pretenderò davvero di raccoglierli tutti, ma mi contenterò di spigolarne alcuni che ebbero maggior fortuna. Prescindendo da quelli anteriori alla guerra e dei quali mantenne l’uso nei primi tempi, come il Per non dormire che è una delle sue più antiche divise (già dei tempi della Capponcina), furono poi tra le sue preferite quella bellissima O spezzar o giugnere, che è spiegata dall’impresa dell’arderò che tende l’arco, di cui Adolfo de Carolis fece un bel legno per la carta da lettere del Comandante e l’altra Io ho quel che ho donato, di cui lo stesso D’Annunzio rivelava l’origine in una lettera ad Alessandra Porro, la soave fidanzata di quell’eroe purissimo che si chiamò Falciai Paulucci di Càlboli: «Penso per Lei quel meraviglioso motto italiano del 400, ch’ebbi la ventura di scoprire inciso in una pietra di focolare: I’ho quel che ho donato» (Toeplitz, F. Paulucci di Càlboli nelle lettere ad Alessandra, Milano, 1920, p. 221). Altri legni dello stesso valentissimo silografo De Carolis furono; preparati per la carta della Prima Squadriglia Navale (S. A.) col motto - formato delle stesse iniziali - Semper Adamas ovvero Sufficit Animus. Analoga origine ha uno dei motti creati per la temeraria impresa di Buccari:
1831. Memento Audere Semper.
Infatti nel volume già citato La Beffa di Buccari cosi il Poeta narra (pag. 25-26): «Non torneremo indietro. Memento Audere Semper leggo su la tavoletta che sta dietro la ruota del timone: il motto composto poco fa, le tre parole dalle tre iniziali che distinguono il nostro Corpo [MAS]. Il timoniere ha trovato subito il modo di scriverle in belle maiuscole, tenendo con una mano la ruota e con l’altra la matita. Ricordati di osar sempre». Altra parola famosa di Buccari è:
1832. Osare l’inosabile.
che fu scritta nei cartelli manoscritti chiusi nelle bottiglie lanciate nelle acque di Buccari: «.... i marinai d’Italia, che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre a osare l’inosabile». Nel citato volume La Beffa di Buccari c’è il fac-simile di questi cartelli nell’autografo del Poeta. Altro bel motto dannunziano, ma di origine più tarda, è quello che dice:
1833. Ardisco non ordisco.
L'Imaginifico ne fece il titolo dello squillante discorso ch’egli avrebbe dovuto pronunziare all’Augusteo di Roma il 24 maggio 1919, se il governo non l’avesse vietato, discorso che era un riero atto di accusa contro il ministro Orlando. La impresa di Ronchi e le successive vicende della italianissima Fiume, la città olocausta, com’egli la chiamò, dette occasione ad altri motti e il D’Annunzio cominciò ad applicare ai nuovi casi due antiche sentenze (già ricordate nel presente volume ai num. 344 e 1480), cioè l’Hic manebimus optime del legionario romano e il dantesco Cosa fatta capo ha. Il primo che il D’Annunzio tradusse: Qui molto bene resteremo, figura anche nel recente francobollo con la testa di Gabriele disegnata da G. Marussig e nella medaglia commemorativa dell’impresa di Ronchi. Di altri 4 francobolli, anteriormente a questi, erano stati preparati i disegni, uno per ogni diverso valore, con la data del XII settembre MCMXIX e la scritta Fiume d’Italia, da Adolfo de Carolis, ma non furono mai emessi e i disegni utilizzati altrimenti: e in due di essi, quello col nodo gordiano tagliato con la spada e quello del giuramento dei pugnali, tolta la indicazione del valore che era per il primo di 5 cent., pel secondo di 25, fu sostituito il citato motto: Cosa fatta capo ha.
Molto spesso anche ricorre nei discorsi e nelle varie pubblicazioni del D’Annunzio il motto Indeficienter dello stemma di Fiume, già concesso a questa città dall’imperatore Leopoldo I nel 1659: motto allusivo all’urna che getta onda perenne, che sta nello stemma medesimo (L’urna inesausta è il titolo di un discorso del D’Annunzio del 20 dicembre 1919). Poi, quando la reggenza del Carnaro ebbe il nuovo stemma, ideato dal D’Annunzio e inaugurato il 12 settembre 1920, cioè il gonfalone vermiglio con la Grande Orsa e la figura del serpente che si morde la coda (sul simbolismo di questo stemma si veda il curioso articolo di W. Deonna, Le drapeau de la «Régence du Carnaro» nella Revue de l’histoire des religions, to. LXXXII, 1920, pag. 79-84), il Comandante volle apporvi il motto:
1834. Quis contra nos?3
tratto dalla Bibbia: Si Deus pro nobis, quis contra nos?, già da noi registrato al n. 1433 e spesso ripetuto nei suoi discorsi. Registriamo pure benchè meno noto il Ferrum est quod amat, testo di altro discorso di lui pronunziato al Consiglio Nazionale di Fiume il 24 gennaio 1920 quando la città deliberò di resistere con le armi a ogni tentativo di violenza: e finalmente, chiedendo venia ai lettori per la parola poco parlamentare, il famoso:
1835. Me ne frego.
Tutti sanno che questo poco pulito intercalare è particolarmente comune nella parlata dei romani i quali se ne vantano come di frase caratteristica della loro olimpica indifferenza e superiorità: «Noi Romani l’aria der me ne frego l’avemo imparata a Cristo» è proverbio conservatoci dal compianto Giggi Zanazzo nella sua raccolta di Proverbi romaneschi (Roma, Perino, 1886). Non sdegnò di valersene Gabriele d’Annunzio il quale in uno dei molti suoi concitati proclami intitolato Il Sacco di Fiume, con la data degli 11 gennaio 1920, dice: «Me ne frego è scritto nel centro del gagliardetto azzurro che l’altra notte consegnai ai serventi delle mie mitragliatrici blindate, tra i pinastri selvaggi della collina, al lume delle torce e delle stelle, mentre la piccola schiera dei volontari dalmati cantava il vecchio canto del Quarantotto, grande come il tuono dell’organo nelle navate di Sebenico o di Spalato. Il motto è crudo. Ma a Fiume la mia gente non ha paura di nulla, neppure delle parole».
Ci fu chi raccolse la frase sboccata e la ricambiò al condottiero e fu il generale Enrico Caviglia che aveva il comando in capo delle truppe della Venezia Giulia. Quando accadde l’increscioso incidente del generale Nigra catturato dai soldati fiumani (26 gennaio 1920), il Caviglia emanò un ordine del giorno alle truppe con la data di Trieste, 31 gennaio 1920, scritto con quel suo stile singolare, di soldato e di ligure: «Vi sono delle circostanze nelle quali bisogna avere pazienza, e questa è una di quelle: Voi lo capite. Certo sarebbe molto comodo per me dire usando il linguaggio per altri divenuto abituale: “Io me ne frego, io mi chiamo Caviglia” e pestare sodo. Ma ora bisogna avere pazienza. La pazienza è una virtù difficile da acquistarsi; ma noi soldati l’abbiamo imparata sin dall’infanzia per le dure necessità della vita e l’abbiamo esercitata nelle nostre vecchie trincee durante la lunga guerra da noi vinta. Voi sapete che parlo poco, ma che mantengo le promesse: ebbene, metteremo a posto tutto».
Questa è la prima volta, e me ne duole, che viene fatto in queste pagine il nome di Enrico Caviglia, il valoroso generale della Bainsizza e della Sernaglia, alla cui geniale manovra è dovuto in gran parte il trionfo di Vittorio Veneto (si veda l’opuscolo polemico del Caviglia medesimo. Vittorio Veneto, Milano «L’Eroica», 1920): assai più spesso avrei voluto farlo. «Se fossero riuniti - non so siano ancora - (scrive il prof. Ermenegildo Pistelli in un articolo dedicato al Caviglia nel Marzocco del 7 novembre 1920) questi Bollettini, Proclami, Ordini del giorno, Istruzioni, che Caviglia diresse alle sue truppe, quando comandò l’Ottava Armata, e trovassero lettori attenti, forte chi parla con aria di compatimento della mentalità dei generali sentirebbe di dover fare un’eccezione di più». E molte sarebbero le frasi degnissime di essere registrate in questo capitolo, se appunto la poca conoscenza che se ne ha fuori dell’ambiente militare non avesse impedito che diventassero popolari.
Non minore è la fama, sia come condottiero, sia come efficace e singolarissimo oratore, del generale Gaet. Ettore Giardino, il comandante dell’Armata del Grappa. È sua la tipica frase
1836. Ricordare la guerra.
che è il titolo di un discorso tenuto da lui a Milano nel Salone del Conservatorio il 19 marzo 1919 per invito del Comitato «Onoriamo l’Esercito», e si trova anche ripetuta di frequente nel testo del discorso. Ma fu lui il primo a dirla? Un giornale milanese del tempo affermava che era «il motto famoso dell’ammiraglio Makaroff» ma su questo non ho maggiori notizie. Anche del generale Giardino si hanno mirabili proclami, non tanto facilmente dimenticati: varrebbe per tutti quello del 18 giugno 1918 in cui il generale si rivolge «Ai miei soldatini dell’Armata del Grappa» e dopo averli lodati per la battaglia del 15 in cui essi avevano «compiuto azioni da grandi soldati» e avevano «riportato sul nemico una bella e grande vittoria, per il nemico sanguinosa», esalta il fatto che il servizio d’ordine stabilito a tergo delle nostre linee non aveva avuto «durante l’infuriare delle artiglierie e delle fanterie nemiche nella lunga battaglia.... da prendere e da ricondurre neppure un uomo in tutta l’armata»; e conclude: «Figli miei! Io non posso che dirvi: bravi! e rilasciarvi questo diploma d’onore. Ma vi addito tutti all’ammira/ione ed all’amore della Patria!». Del resto tutti belli questi ordini del giorno del generale Giardino. Eccone uno dei giorni indimenticabili di Vittorio Veneto, del 30 ottobre 1918, alla fine della sesta giornata di combattimenti, quando il nemico per parare i furiosi assalti dell’armata del Grappa dovè fare accorrere le riserve, indebolendo gli altri settori: «Comprendete ora, soldati del Grappa, quello che avete fatto in questi giorni col vostro valore e col vostro sangue? Il vostro generale ve ne ringrazia e vi dice ancora una volta: bravi! Ma il vostro generale, sicuro di voi, vi dice anche: Attenti e pronti ancora, soldati del Grappa! viene l’ora di fare ancor meglio: di dare al nemico l’ultimo colpo!». Ed eccone un altro di due giorni dopo, 1° novembre, dopo una intiera settimana di lotta titanica, continua, fra le nebbie e le intemperie, coronata finalmente dalla vittoria: «Ed ora, siete stanchi, soldatini miei? Non importa. Non c’è tempo. Niente può fermare il volo che l’Aquila del Grappa ha spiccato dalla sua cima fatidica! Avanti ancora, soldati miei! avanti oltre il vecchio confine iniquo! avanti verso i giusti confini della Patria! avanti sempre finchè il nemico della Patria non sia morto!».
1837. Di qui non si passa.
è motto tradizionale degli Alpini benchè non risalga alla loro fondazione. E noto che le nostre compagnie alpine — che furono le prime create in Europa, imitate assai più tardi dalla Francia - furono istituite nel 1872 per iniziativa del generale (allora capitano) Perrucchetti. Fu il generale Luigi Pelloux, primo Ispettore Generale degli Alpini che ad un banchetto dato agli ufficiali di quest’arma convenuti in Roma nel novembre 1888 per partecipare alla rivista di Centocelle in onore dell’imperatore Guglielmo II di Germania, brindando alla prosperità dell’arma, disse: «Sono orgoglioso di comandare gente votata, occorrendo, alla morte per l’indipendenza e la gloria della nostra patria. Il motto de’ miei alpini per me si riduce in queste poche parole: Di qui non si passa», ed esse da allora divennero il vangelo dei difensori delle Alpi (Sticca, Non si passa! Vita e vicende degli Alpini, Torino 1900, pag. 40). E naturale che il motto ricevesse larga applicazione in questa guerra che fu essenzialmente guerra di montagna: ma il suo periodo più glorioso fu quando fu applicato al Grappa eroicamente difeso dalla 4a Armata. Se infatti passiamo la interessante raccolta della Trincea, organo della 4a Armata, che fu uno dei più noti e dei meglio redatti, sia per la parte letteraria si per l’artistica, fra i molti giornali italiani del fronte, fondato il 16 gennaio 1918 e diretto dal capitano Eugenio Gandolfi, con la cooperazione di Mario Mariani e Salvatore Gotta vediamo che già nei primi numeri la testata aveva per sottotitolo: «Quarta Armata: non si passa» e poi «Armata del Grappa: non si passa» e ancora «Armata del Grappa: non si passa!... passeremo noi!». E passarono infatti, ma intanto le parole gloriose divennero il grido di tutto l’esercito sulla Piave, trasformato talora in Non passeranno, evidentemente sotto l’influenza del grido francese: Ils ne passeront pas. Molti ordini del giorno documentano questa trasformazione. Un ordine del giorno del generale Diaz del 3 aprile 1918 additava all’esercito l’eroica resistenza delle armate francesi e inglesi alla furiosa offensiva germanica di quei giorni e concludeva: «Siano queste epiche gesta nuova ragione di fede sicura, nuovo argomento di serena certezza: ovunque combattono gli eserciti dei popoli liberi, una voce concorde ripeta al nemico: di qui non si passa». E il generale L. Montuori, comandante della 6a Armata, l’Armata degli Altipiani, finiva un ordine del giorno del 16 giugno 1918: «Saluto con riconoscenza i nostri eroici caduti e con saldo cuore invito l’Armata a ripetere alto il grido che oggi risuona concorde dai confini del Belgio all’Adriatico: Non si passa». E finalmente, due giorni dopo, mentre più infieriva la battaglia della Piave, il bollettino Diaz del 18 giugno diceva: «Il contegno delle truppe nostre e alleate nella battaglia è ammirevole. Dallo Stelvio al mare, ognuno ha compreso che il nemico non deve assolutamente passare: ciascuno dei nostri bravi che difendono il Grappa, ha sentito che ogni palmo dello storico monte, è sacro alla Patria». Anche una nota scrittrice inglese, vecchia e fida amica dell’Italia, Catherine Mary Phillimore, ad una sua poesia inglese scritta e pubblicata nei tristi giorni in cui più incombeva il pericolo sopra Venezia, dava il tìtolo in italiano: Non passeranno. Ho accennato alla versione francese: Ils ne passeront pas. Pare che lo dicesse il gen. H. Ph. Pétain in un ordine del giorno dei primi tempi della battaglia di Verdun, che non ho veduto: conosco invece quest’altro del generale Nivelle che combatteva sotto i suoi ordini, con la data del 23 giugno 1916, dopo il fallito attacco dei tedeschi contro Nouville: «Les Allemands lancent sur notre front des attaques furieuses et désespérées dans l’espoir d’arriver aux portes de Verdun avant d’être attaqués eux-mêmes par les forces réunies des arméea alliées. Vous ne les laisserez pas passer, mes camarades». Il motto tradizionale degli alpini mi consente di ricordare che queste belle truppe di montagna sono sempre state giustamente ammirate e invidiate all’Italia. Una nota scrittrice austriaca e descrittrice della nostra guerra, parlando della conquista del Monte Nero, magnifico fatto d’armi del 16 giugno 1915, scriveva: «Wenn hier von diesem glänzenden Angriffe gesprochen wird, der in unserer Kriegsgeschichte rückhaltlos als Erfolg des Feindes gebucht wird, dann fügt jeder rasch hinzu: Hut ab vor den Alpini. Das war ein Meisterstück» (cioè, Quando qui si parla di questo splendido attacco che nella nostra storia della guerra viene annoverato senza restrizioni come un successo del nemico, ognuno aggiunge subito: Giù il cappello davanti agli alpini: questo è stato un colpo da maestro. - Alice Schalek, Am Isonzo: März bis Juli 1916, Wien, Seidel u. Sohn, I916, pag. 225). L’attacco del Monte Nero (nome errato ma ormai consacrato nella nostra storia militare: il nome slavo è Krn, che si pronunzia chern e ha significato incerto, «monte a branche, o monte mozzo», e fu confuso con l’altra parola slava crn che si pronunzia cern e vuol dire «nero») fu un colpo di mano abilmente organizzato e meravigliosamente eseguito da sei compagnie di alpini: guidava l’attacco un valoroso, il capitano Vincenzo Arbarello, di Torino, di a. 45, già decorato di due medaglie d’argento, fatto cavaliere dell’ordine militare di Savoia per la bella azione del Monte Nero, poi morto miseramente sotto una valanga il 2 aprile 1917; prima di morire, aveva lasciato scritto con mano tremante in un biglietto: «Credevo morire diversamente: ho cercato di aiutare il mio tenente Botasso (perito con lui) in tutti i modi ma inutilmente: muoio asfissiato nel nome d’Italia» (vedi la monografia dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore, La conquista del Monte Nero, Roma. 1921).
1838. Ora o mai più.
Il dott. Ettore Tolomei, coraggioso e infaticabile assertore della italianità delle terre atesine e specialmente dell’Alto Adige, scrisse nel settembre 1914 un opuscolo che uscì a Roma anonimo e senza note tipografiche col titolo Per i confini della Patria, che era un vero appello alle armi. La stampa fu fatta nell’ottobre, sotto gli auspici della «Dante Alighieri» e l’opuscolo ebbe diffusione larghissima, fu anche distribuito il 3 novembre 1914 a tutti i deputati in occasione della riapertura della Camera e perciò porta sulla copertina appunto quella data. Nel testo ricorrono più volte quelle parole: «Ora, però, è giunto il momento supremo. La resistenza, eroica [dei fratelli irredenti nella lotta per la difesa dell'italianità], a questo prossimo fine è venuta. Dai monti di Trento e dai lidi di Trieste giunge il disperato grido: — Ora o mai più!» (pag. 10); e verso la fine (pag. 31): «Ora o mai più. Noi sentiamo la necessità assoluta d’impadronirci di quelle terre, e le avremo». Il patriottico grido fu raccolto dai propagandisti dell’intervento e principalmente da quella nobilissima figura, già sacra al martirio, che fu Cesare Battisti il quale lo ripeteva di continuo in quel suo giro di conferenze che fece in Italia nei primi mesi del 1915. Fu anche ripetuto, con lieve variante, dall’on. Ferdinando Martini, nel discorso detto a Firenze, nella Sala dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, il 20 gennaio 1916 - egli era allora ministro delle Colonie nel gabinetto Salandra -: «Allora era da fare l’Italia, oggi è da compierla: oggi o mai». È però da ricordarsi che già prima dell’apparizione in luce dell’opuscolo del Tolomei, Romeo Battistig cominciava il 24 ottobre 1914 a Udine la pubblicazione di un settimanale interventista col titolo: «Ora o Mai! giornale di tutti gli italiani » — tanto quel grido era nel cuore di tutti. Questo Battistig che fu una delle prime vittime della guerra, poichè subito dopo la dichiarazione di guerra spintosi audacemente in bicicletta sino al ponte di Sagrado, cadde ferito a morte, fu detto nei giornali del tempo essere il primo irredento morto al campo: ma la notizia era inesatta, poiché il Battistig, figlio di un profugo di Gorizia rifugiato a Udine, era nato a Udine e colà aveva vissuto, educato nella religione dell’irredentismo da Giusto Moratti, triestino, uno dei 70 di Villa Glori.
1839. ....Venne il dì nostro
(O milanesi), e vincere bisogna.
sono le parole di Alberto da Giussano nel chiudere il Parlamento, nel solo frammento edito della Canzone di Legnano di Giosue Carducci (v. 122-123). Ma durante la guerra furono di frequente ripetute, in specie dopo le tristi giornate di Caporetto, quando più occorreva tener sollevati gli animi ed ispirar loro la fede e la volontà tenace della resistenza: e furono usate - intiere o ridotte al solo emistichio.... e vincere bisogna - come titolo a varie pubblicazioni di propaganda. Una di esse, forse la più nota perchè diffusa largamente nelle varie edizioni nelle quali fu stampata, è quella edita dal Credito Italiano nel febbraio 1917 per la propaganda del IV Prestito Nazionale di guerra. Alla Scuola di Parma (Scuola d’Applicazione di Fanteria), sulla facciata del nuovo salone per la mensa degli allievi fu messa una statua di Alberto da Giussano che ha sul piedistallo le parole del Carducci: dopo Vittorio Veneto fu pensato di mettere nel muro, sopra la testa della statua, un’altra lapidetta con questa epigrafe:
3 novembre 1918
venne il dì nostro
e vinto abbiamo
gloriosamente vinto.
Non è, come epigrafe, molto bella: ma l’intenzione patriottica fa scusare anche questo.
Accanto alle frasi incitatrici finora raccolte, ci sono quelle ispirate dal pacifismo, dal neutralismo, dal disfattismo: sono il rovescio della medaglia, dove si avrebbe torto a voler sempre ricercare delle biasimevoli intenzioni, che molte erano indubbiamente dettate da sentimenti rispettabilissimi. Per ragione di data non si può negare la precedenza al famoso:
1840. Parecchio.
È una parola sola ma venne assunta come simbolo del programma antinterventista e pacifista. Giovanni Giolitti scrisse da Cavour il 24 gennaio 1915 all’on. Camillo Peano, già suo capo di gabinetto, una lettera nella quale chiariva i rapporti avuti col principe di Bülow ed esponeva il suo pensiero sulla situazione: la lettera fu pubblicata nella Tribuna del 1° febbraio. In essa era contenuto il seguente periodo: «Potrebbe essere, e non apparirebbe improbabile, che nelle attuali condizioni dell’Europa, parecchio possa ottenersi senza una guerra; ma su di ciò chi non è al governo non ha elementi per un giudizio completo.»
Di pia e nobilissima sollecitudine sono espressione le frasi del Sommo Pontefice, la prima delle quali è
1841. Pace giusta e durevole (o duratura.)
È possibile che il primo a usare questa frase, almeno in forma ufficiale, sia stato Benedetto XV. nel discorso in risposta agli auguri di Natale che il Sacro Collegio dei Cardinali gli presentava il 24 dicembre 1916: «.... quella pace giusta e durevole che deve metter fine agli orrori della presente guerra» (ved. il testo ufficiale ne La Civiltà Cattolica, 1917, vol. I, pag. 11). Egli stesso v’insisteva nella lettera Aux chefs des peuples belligérants del 1° agosto 1917 nella quale invitava i governi a mettersi d’accordo sui punti che sembravano dover essere les bases d’une paix juste et durable («i capisaldi di una pace giusta e duratura» dice la versione italiana ufficiale, pubblicata insieme al testo francese negli Acta Apostolicæ Sedis, del 1° settembre 1917, pag. 418 e 422). Però bisogna dire che di una paix durable si parla già nel Manifesto della 2a Conferenza Internazionale Socialista di Zimmerwald del 1° maggio 1916 e le due parole vi sono virgolate, segno che già dovevano essere conosciute e citate.
D’altra parte il concetto fu subito accolto e fatto suo dal Presidente Tomaso Woodrow Wilson in un messaggio indirizzato al Senato Americano il 22 gennaio 1917 sopra una Lega internazionale per la Pace: «Is a present war a struggle for a just and secure peace or only for a new balance of power?» (War Addresses of Woodrow Wilson, with an introduction and notes by A. R. Leonard, Boston, Ginn & Co., 1918, pag. 6). Nello stesso discorso Wilson usò anche un’altra frase, la pace senza vittoria, la quale fu vivamente biasimata tanto in America quanto in Inghilterra, e che egli stesso non avrebbe ripetuto qualche mese dopo; il testo è: «They imply first of all that it must be a peace without victory» (ivi, pag. 7).
1842. Inutile strage.
altra frase del Pontefice Benedetto XV: è nella lettera già ricordata di sopra ch’egli diresse il 1° agosto 1917 ai capi dei popoli belligeranti, col titolo: «Quarto ineunte bellorum anno, nova pontificis summi ad moderatores populorum belligerantium adhortatio. qua certæ quajdam considerationes suggeruntur, componendis discidiis et paci restituendæ idonea». La lettera fu pubblicata nel suo testo ufficiale, che è in francese, e quindi nella versione italiana, nella quale fu comunicata alla stampa, negli Acta Apostolicæ Sedis, fasc. del settembre 1917. pag. 417 e segg.: «Aussi, en Vous les présentant, à Vous qui dirigez à cette heure tragique les destinées des nations belligérantes. Nous sommes animés d’une douce espérance, celle de les voir acceptées et de voir ainsi se terminer au plus tôt la lutte terrible, qui apparaît de plus en plus comme un massacre inutile». E nella versione italiana il massacre inutile diventò inutile strage. Mi viene additata una possibile fonte della frase in un discorso di Terenzio Mamiami nella prima tornata dei Consigli Deliberanti il 9 giugno 1848: «Testimonio essendo il Pontefice [della insurrezione dell’Italia contro l'Austria] e d’altra parte abborrendo egli, pel suo ministero santissimo, dalle guerre e dal sangue ha pensato.... d’interporsi fra i combattenti, e di fare intendere ai nemici della nostra comune patria, quanto crudele ed inutile impresa riesca ormai quella di contendere agli italiani le naturali frontiere....». Si allude alla nota lettera di Pio IX all’imperatore d’Austria del 3 maggio 1848. La derivazione potrà essere dubbia, tuttavia il raffronto delle due frasi si presta a molte singolari considerazioni. Come fossero interpretate in certi ambienti le parole di Benedetto XV non fa bisogno di qui ricordare; ma conviene lealmente riconoscere che una dichiarazione ufficiale comparsa nell’Osservatore Romano del 4 settembre deplorava le «ingiustificate ed eccessive interpretazioni» della nota pontificia, biasimando specialmente l’articolo pubblicato dal cattolico Corriere del Friuli del 17 agosto, col titolo La risposta alle trincee e ordinando che quel giornale cessasse affatto le sue pubblicazioni. Già l’autorità militare l’aveva sospeso per 15 giorni e ne aveva internato il direttore don Gabriele Pagani che fu poi sottoposto a processo ma assolto, poichè resultò che l’articolo stesso, veramente deplorevole, era «dovuto - come affermò un degno sacerdote alla Commissione d’Inchiesta per Caporetto (Relaz. cit., vol. II, pag. 501; - alla stupidità di un redattore e non al direttore il quale è un prete bergamasco altamente patriottico». Vanno anche raccolte alcune frasi di socialisti a cominciare dai due famosi aggettivi:
1843. Idiota e nefando.
Nella tornata della Camera del 7 marzo 1916, l’on. Filippo Turati, in una dichiarazione di voto fatta a nome suo e dei colleghi di gruppo, rilevando l’accusa fatta e alla Camera e nella stampa di ogni colore al partito socialista di voler sabotare la guerra (e più specificatamente ciò era stato detto dall’on. Bissolati e dall’on. Ettore Ciccotti) rispondeva: «Ora noi dobbiamo respingere energicamente, sebbene con la massima serenità, questo genere di accuse.... Se noi veramente ci occupassimo, in quest’ora grave, del piccolo giuoco parlamentare.... se ci divertissimo a seccare il prossimo per punzecchiare il Gabinetto, faremmo cosa semplicemente idiota. E se tentassimo, con manovre parlamentari, di danneggiare la nostra guerra, ciò sarebbe insieme idiota e nefando». Ma l’on. Bissolati nella seduta stessa ribatteva: «Quando noi pensiamo, caro Turati, che il vostro partito espelle dal suo seno coloro i quali si rendono colpevoli di appartenere ai Comitati di sussidio o ai Comitati di assistenza civile, e quando nelle vostre riunioni ufficiali e nelle vostre direzioni dite che è reato di violato socialismo anche il soccorrere i feriti e gli ammalati che tornano dalla fronte, voi incontrate responsabilità alle quali io non vorrò applicare i vostri aggettivi di idiote e nefande, ma mi limiterò a dire che, assumendole, voi interpretate assai male gli interessi della nazione, e interpretate assai male gli interessi stessi del socialismo» (Atti Parlam., Cainera dei Deputati, Legisl. XXIV, Discussioni, vol. VIII, pag. 9024, 9028).
Lo stesso on. Turati nell’anzidetta dichiarazione di voto (pag. 9025) aveva affermato: «Quanto alla guerra.... sentiamo il dovere elementare di non fare atto alcuno che possa indebolire il nostro paese». E il medesimo concetto sviluppò più ampiamente in un discorso fatto l’8 agosto 1916 alla Casa del Popolo di Milano per la commemorazione dei morti di parte socialista: «Proclamato l’ intervento, che non fu in poter nostro di deprecare, e impegnato - sia pure ad opera di un governo o debole o fazioso, e con metodi che non saranno mai stigmatizzati abbastanza quando l’ora del giudizio verrà - impegnato ad ogni modo il paese in un’avventura che può mettere a repentaglio l’indipendenza e l’unità; noi - proclamarono, ad una voce, la Direzione, il Gruppo parlamentare, la stampa - non «saboteremo» la vostra guerra, non indeboliremo, direttamente o indirettamente, con fatti positivi, la difesa nazionale; noi concorreremo anzi, volenterosi e senza infingimenti, a lenire, a confortare tutte le piaghe e i dolori che dal disastro scenderanno; ma nessuna corresponsabilità, nessuna complicità col Governo, colle classi dirigenti, coi partiti borghesi, che vollero o che consentirono questa situazione» (Turati, Nel secondo anniversario della loro (sic) guerra: i nostri morti, commemorazione alla «Casa del Popolo», Milano, 1916, a pag. 8). Questa tattica venne poi sintetizzata nella formula:
1844. Non approvare nè sabotare la guerra.
che pare fosse primitivamente detta da Costantino Lazzari nel Convegno Socialista di Bologna del 16 maggio 1915 (di cui la stampa non pubblicò che un brevissimo comunicato). Essa fu poi ribadita nel Convegno di Roma del febbraio 1917: ma una frazione forte (14.000 voti contro 17.000) fu ostile alla formula e ottenne che non comparisse nel resoconto del Congresso. Sulla storia di questa frase e sulle polemiche alle quali dette luogo si possono trovare delle notizie nel Resoconto stenografico del XV Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano (Roma, settembre 1918), Milano 1919, passim.
1845. Il prossimo inverno non più in trincea.
Alla Camera dei Deputati, nella tornata del 12 luglio 1917. discutendosi l’esercizio provvisorio dei bilanci, l’on. Claudio Treves così concluse il discorso col quale svolse un suo ordine del giorno auspicante alla pace: «Signori del mio Governo e di tutti i Governi d’Europa, udite la voce che sale da tutte le trincee in cui è squarciato il seno della madre terra; essa detta l’ultimatum della vita alla morte: il prossimo inverno non più in trincea». E il resoconto registra: « Vivissime approvazioni ed applausi all’estrema sinistra - Commenti prolungati dagli altri banchi - Congratulazioni» (Atti del Parlamento Italiano, Camera dei Deputati, Sessione 1913-17, vol. XIII, pag. 14367). Delle intenzioni di chi pronunciò questo discorso e la frase finale è inutile fare una indagine troppo sottile: sarebbe più utile ricercare come la intesero gli altri ed il commento che ne fu dato. Il discorso intiero fu ristampato a cura della Libreria editr. dell’Avanti! nei Documenti Socialisti intorno alla guerra (serie III n. 4) e la frase finale vi è stampata in grandi maiuscole.
Con questa preparazione ci avviammo a Caporetto. Mi piace di ricordare che pochi giorni prima, alla Camera dei Deputati, nella tornata del 18 ottobre 1917, discutendosi la proroga dell’esercizio provvisorio, mentre parlava sulla guerra l’on. Grosso-Campana (di parte giolittiana), questi fu ripetutamente interrotto dall’on. Leonida Bissolati, allora ministro senza portafoglio, che lo chiamò buffone e mentitore, e irritato dalle vivaci apostrofi dell’Estrema, esclamò fra i vivissimi applausi della maggioranza:
1846. Per difendere le spalle dell’esercito farei fuoco anche contro di voi!
Vedi: Atti del Parlamento Italiano, Camera dei Deputati, Sessione 1913-17, Discussioni, vol. XIV, pag. 14648.
«Il nostro soldato canta di frequente e volentieri. Nelle lunghe ore di attesa, che nella vita della guerra attuale sono così lunghe e frequenti, egli canta. È per lui un bisogno. È il mezzo con il quale manifesta i suoi sentimenti. E contro questo bisogno non sono soverchiamente efficaci nemmeno le proibizioni.... Mentre i pensieri scorrono in lui, e rievoca affetti e dolori, e gioie, spontaneamente esprime l’interno sentimento con il canto, e, se uno intona una strofa, altri gli fanno eco; così si improvvisano i cori. Questo avviene soprattutto durante i lavori, durante le marce, a romperne la monotonia, a rinfrancare le forze con il ritmo e con la gaiezza di una strofa musicale»: così Fra Agostino Gemelli, francescano, noto cultore degli studi psicologici e fisiologici e capitano medico nell’ultima guerra, comincia un suo pregevole studio su I canti del nostro soldato, documenti per la psicologia militare (Milano, 1917) che fu riprodotto nel volume dello stesso autore: Il nostro Soldato (Milano, 1917, pag. 191-213). Raccolte di canti dei nostri soldati ne furono fatte molte, ma quasi nessuna a scopo di studio: le più furono composte appunto per dare ai soldati stessi materia di canto e fra queste primeggia la raccolta dello Jahier che avrò occasione di ricordare più avanti e della quale si ha una seconda edizione stampata in Trento redenta pel capodanno 1919, che contiene soltanto una parte dei canti riuniti dallo Jahier, armonizzati da Vittorio Gui. In questa raccolta il maggior numero delle canzoni sono canzoni di amore e di nostalgia, ma non mancano i canti patriottici e politici. I preferiti dai nostri
soldati alla fronte erano l’Inno di Mameli (vedi num. 1166), l’Inno di Garibaldi (vedi num. 1167) e anche l’Inno di Oberdan, sul cui autore nulla più sono riuscito a sapere di quanto stampava l’Era nuova, di Trieste, del 25 marzo 1921, che lo diceva «composto da uno studente a Capodistria nel 1900, e dagli studenti di quella città portato in tutte le nostre terre, diffuso poi per tutta l’Italia e cantato di frequente dai nostri soldati nelle trincee, sollevando il più grande dispetto negli austriaci». Dell’inno al biondo martire triestino, le parole sono veramente una povera cosa:
1847.
Le bombe all’Orsini
Il pugnale alla mano
A morte l’austriaco Sovrano
E noi vogliamo la libertà.
Morte a Franz,
Viva Oberdan!
(specialmente popolari il 4° verso e il ritornello, nel quale il primo verso, dopo la morte del vecchio imperatore, fu cambiato in Morte a Carl), ma la musica fu giudicata da Ildebrando Pizzetti in un notevole studio su I canti di guerra del popolo italiano (ne La Lettura, 1° settembre 1915, pag. 769-776), «uno tra i più bei canti patriottici che io conosca» (ivi, pag. 774). Ed anche era molto cantata un’altra canzone di soggetto irredentista, di cui pure ignoro l’autore:
1848.
Col capestro d’Oberdan
Strozzerem l’imperatore,
O Trieste del mio core
Ti verremo a liberar!
Sulle balze del Trentino
Pianteremo il Tricolore
ecc. ecc.
Dei canti nati per questa guerra il Pizzetti, nello studio citato. ritiene che il più diffuso fosse l’Inno a Trento e Trieste, parole e musica di Fernando Agnoletti, di cui egli dice: «È uno che dell’arte musicale non conosce neppure gli elementi, e che certo non si era mai neppure sognato, sino a due mesi fa, di diventare un giorno un compositore: la musica del suo Inno egli dovette dettarla a un amico, battuta per battuta» (ivi, pag. 773). L’Inno comincia:
1849.
Si batterà la carica sull’Alpi,
Su, coi cannoni! - su, con le mani!
Le baionette nella schiena ai cani
Le pianteremo - senza pietà!
Ma a parer mio, assai più popolare - anche perchè cantata molto (qualcuno dice troppo) dopo che la guerra era finita - è la canzone degli Arditi, e specialmente il suo ritornello:
1850.
Giovinezza, giovinezza,
Primavera di bellezza, ecc.
Gli Arditi, com’è noto, furono creati nel giugno 1917 a imitazione delle Sturmtruppen dell’esercito germanico, per iniziativa del colonnello Bassi che ne fu il geniale organizzatore: il primo plotone fu formato a Pradis, presso Cormons e il 29 luglio 1917, a Sdricca di Manzano, fu in forma ufficiale consacrato il I Reparto d’Assalto. Della loro canzone non è facile ricostruire la storia: io mi ci sono molto affaticato ma non sono riuscito a chiarirla completamente. Diciamo subito che l’edizione ufficiale è la seguente: Il canto degli Arditi «Giovinezza Giovinezza Primavera di Bellezza» di G. Castaldo [nell’interno del fascicolo è scritto invece G. Castoldo]. Strofe di guerra raccolte e ridotte da Marcello Manni (Firenze, Manno Manni) - rileveremo più tardi le curiose imprecisioni di questo frontespizio, le quali del resto non meraviglieranno chi conosce la consueta strafalcioneria delle stampe musicali - e sentiamo ora quel che dice sulla storia di questo canto l’autore di uno dei migliori volumi che siano usciti sulle vicende e le gesta dei Battaglioni d’Assalto: Paolo Giudici, Fiamme nere. Note di gloria e di passione (Firenze, 1920, a pag. 48-49):
«Le “fiamme nere” ebbero sì dei poeti, ma non ebbero un poeta ufficiale, non ebbero un Mameli o un Mercantini. La nostra poesia fu quasi tutta popolare, anonima e, appunto perchè tale, fu più bella e sincera. Ci fu - è vero - il tentativo d’ avere un inno ufficiale, ma non riuscì. Nel settembre del 1917 fui proprio io incaricato di comporlo. Mi misi all’opera e l’inno fu fatto, letto ed acclamato dagli ufficiali, divulgato in molti esemplari, mandato a molti musicisti della penisola perchè venisse rivestito di note. Ma la musica si fece aspettare molto e quando una gentile signorina milanese la mandò, già un altro inno era cantato con entusiasmo nei campi di Manzano e consacrato ufficialmente per volontà di soldati. Eran versi di non so quale ardito, forse di parecchi, a cui ciascuno metteva qualcosa di suo: le note erano quelle famose di un inno alla Giovinezza del Gastaldo.
Del pugnale al fiero lampo
delle bombe al gran fragore
tutti, arditi, tutti al campo
o si vince oppur si muore.
. . . . . . . . . .
Quando poi dalla trincea
suona l’ora di battaglia,
sarà pria la fiamma nera,
che terribile si scaglia;
Col pugnale nella mano,
con la fede dentro il core
ei s’avanza e va lontano,
pien di gloria e di valor.
Inno che rivela di botto la mano inesperta del soldato, che non ha esitato a servirsi di vecchie reminiscenze e a prendere di peso il ritornello del Gastaldo:
Giovinezza, giovinezza
primavera di bellezza,
nella vita e nell'ebbrezza,
il tuo canto squillerà».
Nella stampa fiorentina ricordata di sopra i due ultimi sono invece:
Nel dolore e ne l’ebbrezza
Il tuo canto esulterà.
Il racconto del Giudici è interessante ma non è completo; e poichè la stampa fiorentina rivelava il nome dell’ignoto ardito autore del canto, di cui nel frontespizio della stampa medesima il signor Marcello Manni rivendicava la paternità, feci ricerca di questo signor Manni, figlio dell’editore di musica e già sottotenente degli arditi. Egli mi confermò di essere stato lui a adattare per uso dei nuovi reparti degli arditi un coro tratto da un’operetta, intitolata Festa di fiori, musica del maestro Blanc e parole del compianto Nino Oxilia, rappresentata a Torino prima della guerra; del coro la riduzione o trascrizione per banda era stata fatta da un G. Castaldi, e il coro portato al fronte dai volontari torinesi era rimasto con lievi varianti come canto reggimentale di vari reparti. In realtà un’operetta Festa di fiori, musica del giovane e valente maestro Giuseppe Blanc, fu data al teatro Alfieri di Torino il 19 novembre 1913 della compagnia Vannutelli e si trascinò per qualche sera su quelle scene: ho veduto il libretto che sul frontespizio appare opera di A. Carelli e J. Weiss ed è cosa assai sciatta e puerile e non degna del nome di Oxilia: in ogni modo non vi ho trovato il coro famoso ma soltanto questo, nell’atto I, che per il ritmo e per qualche riscontro di concetti richiama l’altro:
O felice giovinezza
Che sarai triste domani,
Oggi godi la bellezza
De’ tuoi rossi tulipani.
Come se questo non bastasse, ecco che l’Alpino, il giornale dell’Associazione Nazionale Alpini, nel numero del 5 aprile 1921, pubblica una dichiarazione ufficiale dell’Associazione medesima, nella quale rivendica solennemente agli alpini, anzichè agli arditi, la creazione del canto Giovinezza, giovinezza. Ne stralcio la parto sostanziale: «La verità è questa. La canzone, opera di un laureando dell’Ateneo Torinese, il signor Blanc di Torino, venne da lui cantata per la prima volta nel 1910 a Bardonecchia, dove si svolgeva un Corso Skiatori al quale partecipava un ufficiale poi ognuno dei Reggimenti Alpini, fra cui i viventi (allora sottotenenti, ora ufficiali superiori) Zamboni, Tessitore, Stampa, Carini, Bollea, ecc., che ne possono faro testimonianza. La canzone dello studente torinese piacque ai giovani ufficiali alpini, che, sciolto il Corso, la portarono e la popolarizzarono presso i rispettivi reggimenti. Notoriamente il Comandante del Corso, l’allora tenente Mautino, la portò al 5° Regg. Alpini, ove le fanfare del “Morbegno” e del “Vestone” la posero subito in repertorio. Nelle gare internazionali militari di ski in Francia, a Cauterets e a Lioran, i nostri alpini l’adottarono subito in forma quasi ufficiale. Questa, e non altra, l’origine di Giovinezza, giovinezza». Come si vede, il contrasto è piuttosto nelle circostanze accessorie che nelle principali, poichè quanto all’autore della musica, il comunicato conferma ch’esso è il maestro Blanc, e nulla dice dell’autore delle parole che però, dall’insieme del comunicato medesimo, si direbbero scritte dallo stesso autore della musica. In ogni modo, la piccola questione è tutt’altro che chiarita. Aggiungerò che di recente il sig. Vittorio Emanuele Bravetta ha composto un nuovo testo della popolarissima canzone, adattandolo alla musica il ritornello è:
Giovinezza, giovinezza,
Primavera di bellezza,
Il coraggio e la fortezza
Ci provengono da te.
e il testo comincia: «Luce, gloria, cielo azzurro....». La nuova canzone è edita da G. Gori a Torino. Ancor più curiosa è la storia dell’altra canzone che per qualche tempo fu quasi la nostra Marsigliese, nota per il verso:
1851. Monte Grappa tu sei la mia patria.
L'. on Vittorio Emanuele Orlando, presidente del Consiglio, nella seduta della Camera del 23 febbraio 1918, dava comunicazione di informazioni ricevute quel giorno medesimo dal Comando Supremo, desunte da interrogatori di un sottufficiale austriaco, di nazionalità boema, volontariamente presentatosi alle nostre linee del Monte Pertica e che recava notizie dello stato della popolazione de] paese di Fonzaso, nella provincia di Belluno allora invasa dal nemico: «La popolazione di Fonzaso, composta in gran parte di donne e di bambini, vive ritirata in silenzio, mantenendo un contegno dignitosa e fiero di fronte agli austriaci.... I ragazzi cantano una canzone col ritornello: Montegrappa tu sei la mia Patria! La canzone è proibita dalle autorità....». La comunicazione fece enorme impressione sull’assemblea e anche l’on. Turati credè necessario di spiegare e attenuare il voto negativo che nell’imminente votazione politica i socialisti avrebbero dato per necessità di partito, con queste parole: «Voi avete detto, onorevole Orlando: “Grappa è la nostra patria!” Orbene, ciò è per tutti noi, per tutta l’Assemblea!» (Atti Parlam., Camera dei Deputati, Sessione 1913-18, Discussioni, vol. XV, pag. 16094, 16095).
Ricordiamo qui subito che il Grappa più volte nominato in queste pagine è quel massiccio montuoso delle Prealpi Venete, tra la Brenta e la Piave, che culmina appunto nella tondeggiante vetta del monte Grappa, alta 1779 m. (v. Taramelli, Il massiccio del Grappa. Novara, De Agostini, 1918): fu il baluardo della resistenza che dopo la rotta di Caporetto arginò l’irrompere delle invadenti masse nemiche, resistenza affidata alla eroica IV Armata la quale, sgombrato il Cadore, qui si asserragliò nel novembre e dicembre 1917, e dopo aver convertito in quell’inverno memorabile il massiccio del monte in una ciclopica fortezza, con chilometri di gallerie scavate nella roccia, centinaia di cannoni postati in caverne, 150 km di trincee, strade camionabili, teleferiche, impianti idrici, ecc., ne fece il perno delle nostre vittorie del giugno e dell’ottobre 1918.
Ciò premesso, diciamo senz’altro che dev’essere accaduto un singolare equivoco Che ancora non sono riuscito a dilucidare. Non v’ha dubbio che le informazioni di cui l’on. Orlando si fece portavoce alla Camera, giunsero effettivamente al Comando Supremo, e furono comunicate a tutto l’esercito a cura del Servizio d’informazioni, ma è anche fuor di questione, per notizie da me assunte sui luoghi, che nè a Fonzaso, piccolo comune del Bellunese alle estreme falde settentrionali del Grappa, nè nei paesi vicini, nessuno conobbe mai questa canzone. Esiste, è vero, una notissima Canzone del Grappa, il cui ritornello è apposto:
Monte Grappa, tu sei la mia patria,
Sei la stella, che addita il cammino,
Sei la gloria, il volere, il destino,
Che all’Italia ci fa ritornar.
Ma la canzone, come si può facilmente desumere dal tosto che è troppo Letterario, non è nata spontanea nelle terre occupate: essa fu improvvisata, parole e musica, tre o quattro mesi dopo la seduta della Camera, dal tenente generale Emilio De Bono, allora comandante del IX Corpo d’Armata e cantata per la prima volta da un coro di soldati delle Brigate Basilicata e Bari, in presenza del Re, alla festa dell’Armata del Grappa il 24 agosto 1918, presso villa Dolfin a Rosà di Bassano, allora sede del Comando del Corpo. Il successo fu enorme: il generale Giardino la volle diffusa nella sua armata con questo vibrante proclama:
«Soldati miei!... Alle balze del Col Moschin echeggiò sommessa la voce gemente dei fratelli schiavi.
«I fratelli in armi vi protesero intenti l’orecchio e l’anima, e ne bevvero la parola e l’armonia, come baci di un’amante incatenata. Cosi ecco a voi, soldati del Grappa, la canzone d’amore e di fede, che a Fonzaso, a Feltre, a Belluno, sospira dolente tra le catene austriache.
«Ancora per poco, soldati del Grappa!...
«Imparatela tatti. Sentite che ardenti lacrime vi sono dentro! Sospiratela piano anche voi, nelle veglie sul monte, come un giuramento d’armi. Cantatela dolce nel raccoglimento serale delle vostre tende, come una canzone d’amore. Cantatela balda nelle vostre marcie, come una promessa di liberazione. Giorno verrà che vi chiamerò alla riscossa! Allora cambieremo la musica; e voi, questa dolente canzone, la farete ruggire come tempesta, sul viso e sul corpo dell’austriaco, fra il lampo delle vostre baionette. E sarà la liberazione e la vendetta! A voi!...
La canzone del Grappa divenne assai presto popolare in tutto l’esercito e nel paese; e portata dai nostri aviatori nelle terre invase vi fu accolta con entusiasmo. A Fonzaso stessa la cantavano pubblicamente negli ultimi giorni dell’occupazione, tanto che la polizia austriaca dovè proibirla con la minaccia di gravi punizioni, e quando il 1° novembre le truppe liberatrici e precisamente i fanti del 212° fanteria entrarono in paese, quelle buone popolazioni accolsero i fratelli al canto dell’inno nato oltre Piave. Dirò in altra occasione i particolari curiosi di questo episodio e finirò accennando ad un opuscolo di propaganda patriottica, stampato nei primi mesi del 1918, che contiene vari discorsi dell’on. Orlando e ha sul frontespizio in luogo del titolo, il verso Monte Grappa ecc. in facsimile della scrittura autografa del ministro e con la firma di lui.
Alle frasi degli uomini politici o militari giustizia vuole che si contrappongano quelle degli umili eroi, di coloro che realmente fecero la guerra e ne sostennero il terribile peso. Essi sono in gran parte contadini, poichè è certo che la campagna dette la percentuale più alta fra i combattenti e questo per ovvie ragioni, sia perchè le classi agricole rappresentano una fortissima parte della popolazione italiana (nel censimento del 1911 su 26 milioni di italiani sopra i 10 anni, gli agricoltori erano 9.026.076, più di un terzo), sia perchè le esenzioni per salute, o per le necessità della guerra dovevano fatalmente essere più numerose fra i borghesi e fra gli operai urbani. Fu dunque detto che la guerra, la fanno i contadini - chi lo disse? io non so chi fosse il primo ad esprimere in questa formula rigida una verità sentita da tutti, ma la frase fece il giro della stampa nel 1917 ed ebbe una interpretazione estensiva falsa ed ingiusta verso la borghesia italiana e contro la quale si ribellò con ragione Benedetto Croce con una lettera al Giornale d’Italia, stampata nel num. del 17 settembre 1917 e riprodotta in Pagine sparse del Croce medesimo, ser. II: Pagine sulla guerra, pag. 216.
Ma tornando alle frasi degli umili, è da avvertire che bisogna andare molto guardinghi nell’accoglierle. Troppe volte furono abbellite, talora create di sana pianta dalla fantasia dei gazzettieri e l’indagine su ciascuna di esse, dato che quasi sempre mancano le circostanze di fatto (nome delle persone, luogo e tempo del fatto) dalle quali le ricerche dovrebbero partire, presentava difficoltà enormi, spesso insuperabili, nel maggior numero dei casi sproporzionate alla importanza della cosa, poichè la celebrità di molte di queste frasi è transitoria e se oggi alcune di esse sono ancora vive nella memoria di noi che le leggemmo in ore di ansie indimenticabili, assai poche sono rimaste nell’uso vivo, condizione indispensabile perchè questo mio volume se ne occupi. Avvertirò che parecchie di queste risposte sono consegnate in quei volumi di aneddoti di guerra dei quali la nostra letteratura bellica non meno di quelle straniere, è piena, ma sono - in generale, come già ho accennato in principio di questo paragrafo - raccolte fatte di maniera, senza pretensioni critiche e con lo scopo tendenzioso, per quanto nobile, di elevare gli animi col racconto delle belle gesta. Ne citerò uno solo, migliore di altri, quello di Giuseppe de Rossi Gli aneddoti della nostra guerra (Bologna. Zanichelli, 1916). Tra le poche frasi eroiche che qui registrerò, va data la precedenza a una che è proprio delle prime ore delle ostilità:
1852. I l’uma fait pulissia.4
di cui la storia fu fatta in un comunicato ufficiale del governo, diramato dalla «Stefani» il 3 giugno 1915: «S. M. il Re, che percorre continuamente il fronte nelle varie zone, ha avuto occasione di apprendere, tra i molti altri, un bell’episodio delle nostre splendide truppe alpine. Si tratta di un’azione di valore compiuta da un plotone di alpini del battaglione “Dronero” al passo di Valle Inferno alla testata di Val Degano. Condotto dal sottotenente di complemento Pietro Ciocchino da Pinerolo, il plotone si lanciò di notte di propria iniziativa alla conquista di una trincea occupata da forze austriache superiori. Ferito gravemente al braccio sinistro il sottotenente Ciocchino non desisteva dall’incuorare i propri soldati dando loro mirabile esempio di sangue freddo e di coraggio. «Prese allora il comando un caporale maggiore, che venne ucciso. Un altro caporale maggiore, Antonio Vico, prese a sua volta il comando del plotone, e, sebbene ferito al braccio destro, lo guidò animosamente all’assalto. Penetrati con impeto nella trincea i bravi alpini uccisero venticinque austriaci ed altri ne fecero prigionieri. Pochi riuscirono a fuggire. «Il caporale maggiore Vico riassunse poi con questa frase in dialetto piemontese la brillante azione compiuta da lui e dai suoi camerati: “I l’uma fait pulissia”. «S. M. il Re di motu proprio volle conferire la medaglia di argento al valore militare al sottotenente Ciocchino e al caporal maggiore Vico. La medaglia al sottotenente Ciocchino fu personalnalmente consegnata dal Sovrano. Quella al caporale maggiore fu consegnata nell’ospedale in cui è degente da S. E. il tenente generale Porro il quale pronunciò nobili parole dando all’eroico militare il bacio che l’Esercito dà ai suoi figli valorosi». La data di questo bell’episodio di valore è stabilita dal secondo bollettino di guerra del generale Cadorna, del 25 maggio; che fra altre notizie dà la seguente: «Frontiera Carnia. - Notte 24 al 25 conquistato con attacco baionetta passo Val Inferno, testata Val Degano». G. d’Amato illustrò la scena in una composizione artistica pubblicata dall’Illustrazione Italiana del 20 giugno 1915, pag. 497: lo stesso giornale, nel numero successivo, pubblicava a pag. 528 il ritratto del Vico. La notizia delle due onorificenze al Ciochino o Ciocchino e al Vico comparve nel Bollettino ufficiale del Ministero della Guerra, disp. 29a, del 5 giugno 1915, pag. 1033. Altra frase la cui autenticità è indubbia, è quella del cieco Luigi Pompili. Essa è consacrata nella motivazione della medaglia d’argento, concessa di motu proprio del Re il 6 agosto 1915 (vedi disp. 51a del Bollettino ufficiale del Ministero della Guerra, del 14 agosto 1915): «Per gravissima ferita riportata in combattimento avendo perduto entrambi gli occhi, dichiarava semplicemente che non se ne doleva, perchè l’ultima cosa che i suoi occhi avevano veduto erano gli austriaci in fuga - 19 luglio 1915». Il Pompili, umile minatore, nato a Paliano nel circondario di Frosinone (Roma) nel 1891, soldato nel 94° reggimento fanteria (brigata Messina), fu ferito il 18 luglio 1915 al monte Selz; trasportato in un ospedaletto da campo presso Monfalcone, vi fu visitato il giorno dopo dal Re; e lasciamo qui la parola al Pompili stesso, che così narrava il fatto, di cui è giustamente fiero, a persona amica che lo interrogava a Paliano per mio incarico e scriveva sotto la dettatura di lui: «Fu il Re in persona che domandò al Pompili: “Di dove sei mio bravo militare? Ebbene ti duoli della tua sciagura?” -Ed il Pompili: “Io sono nativo di Paliano, e non mi dolgo della mia sciagura, Maestà, poichè
1853. L’ultima cosa che hanno visto i miei occhi, è stata quella di vedere gli austriaci in fuga.
Solo mi duole però, di non poter raggiungere i miei valorosi compagni per ritornare a combattere”. Ciò detto, il Re lo baciò ed abbracciò commosso». Al bravo Pompili il Re concesse subito il meritato segno d’onore; ma il Pompili per altri atti di valore si era già guadagnata un’altra medaglia, di bronzo, conferitagli con decreto luogotenenziale del 16 marzo 1916, con la seguente motivazione: «Volontario per il rastrellamento delle mine poste davanti le trincee nemiche, si spingeva innanzi due volte, animosamente, per disinipegnare il suo compito. Monfalcone, 23-24 giugno 1915». Del resto, dell’animo semplice e patriottico del Pompili, può anche far testimonianza questa ingenua letterina che subito dopo Vittorio Veneto egli scrisse spontaneamente al Direttore (cieco come lui) tenente Nicolodi della Casa di Convalescenza e di Lavoro per i militari ciechi, di Firenze, dove il Pompili era stato dopo la guarigione ricoverato per oltre un anno: «Paliano, 8. 11. 918. Egregio signor Direttore, Per la grande e gloriosa vittoria che abbiamo avuto, ho pensato a scrivere subito a Lei, facendole sapere qual gioia e consolazione ha provato il mio cuore: i miei occhi rimasti sul campo di battaglia mi è apparso come un’illucinazione (sic) mi pareva in quel monmento di vedere e di potere ancora io correre per riabbracciare i miei fratelli d’arme che mi hanno cosi saputo bene vendicare....». Il pensiero di abnegazione che ispirò le parole del Pompili, si ritrova in altre frasi numerosissime dette da altri valorosi soldati, ufficiali o fanti. Già a pag. 627 ricordammo le belle parole vergate in punto di morte dal cap. Arbarello; eccone per esempio altre di un eroico ufficiale, riportate dall’on. Luigi Gasparotto in principio di quel suo bellissimo Diario di un fante che è una delle cose migliori stampate per la nostra guerra (Milano, 1919). Nel vol. I, pag. 10, sotto la data del 30 luglio 1915, parlando dei replicati, infruttuosi, sanguinosi attacchi al monte Coston, sopra Arsiero, nell’altipiano vicentino, «Cinque compagnie del 71°e del 72° fanteria (brigata Puglie) hanno tentato di riprenderlo, ma, giunte sotto la parete calcarea che gira attorno alla cima come una fascia attorno al dorso di un uomo, sono state flagellate. I morti sono rimasti sul terreno, i vivi deferiti al tribunale di guerra. Eppure, si sono tutti battuti bene. Il tenente Buongermini, ferito quasi a morte, trovò la forza e la serenità di mandare al capitano Bergnia questo biglietto: Ho le gambe spersate ma sorrido. Ho fatto il mio dovere: viva l’Italia!». L’eroica fine del sottotenente Enrico Buongermini, di Lagonegro (Potenza), di cui l’on. Gasparotto ha voluto fissare la memoria, fu in realtà un poco diversa: e i particolari, anche più belli, furono narrati dal senatore G. De Lorenzo in una noterella Un fante comunicata al giornale di Napoli Il Mattino, del 15-16 luglio 1920: «.... Trasportato a braccio fuori del tiro del nemico, mentre in barella veniva avviato ad un posto di medicazione, incontrò il suo comandante dì brigata. Esultante di gioia gli gridò: ‘‘Signor Generale, venga a baciarmi,
1854. M’hanno rotto le gambe: evviva l’Italia!
Sublimi sarebbero pure, se esattamente riferite, le parole dette da un valoroso che cadde, non nella nostra guerra, ma in terra di Francia, parole che là furono divulgate e divennero notissime: ed io qui le riferisco perchè potrebbero costituire un esempio del come dalla forse non sempre involontaria deformazione della storia nasca la leggenda. Nel libro già ricordato dal Souchon, Les mots heroiques de la guerre è narrato (pag. 252), e il racconto è tolto di peso dal Journal Officiel dell’8 febbraio 1915 (pag. 652), che il luogotenente Durandi, uno dei garibaldini dell’Argonne, il 5 gennaio 1915 uscendo pel primo dalla trincea caricò il nemico gridando: En avant, fils de l’Italie!,
1855. Il est beau de mourir pour la France! 5
e fu ucciso. Ora Camillo Marabini - che fu amico e come fratello di Lamberto Duranti (non Durandi), giovane marchigiano (era nato ad Ancona nel 1890) di fede repubblicana, che passò la sua vita nelle organizzazioni e nei giornali del suo partito e aveva combattuto in Albania e in Grecia — parla diffusamente di lui nel volume: La rossa avanguardia dell’Argonna, diario di un garibaldino alla guerra franco-tedesca (Milano, 1915): ne dà copiosi cenni biografici (col ritratto), ne narra le ultime gesta, ne descrive gli ultimi momenti (pag. 132, 136, 171) con parole commosse d’amico: e benchè egli pure conosca le parole attribuite al suo Duranti dal Journal Officiel poichè a pag. 285 riporta testualmente la motivazione della citazione all’ordine del giorno, non le ripete nel racconto della fine eroica del valoroso giovine. Il Duranti cadde al Four de Paris la mattina del 5 gennaio: uscì dalla trincea dicendo: «Venite a vedere come muore un garibaldino», e si avanzò sparando la rivoltella; fu subito ferito al cuore e riportato in trincea morì dicendo: «Ah.... muoio.... muoio per la repubblica»: in quella stessa sanguinosa giornata cadeva Costante Garibaldi. Senza escludere in via assoluta la esattezza delle parole del Journal Officiel, è tuttavia molto probabile che le vere siano quelle riportate dall’amico Marabini, Anche in un bel sonetto di Emanuele Sella: L’Argonna, che fa parte del volume: L’Eterno Convito (Roma, Formiggini, 1920):
Con il sorriso sulle labbra muore
Duranti urlando: Italia!...
Come si vede, le risposte grandi, le frasi degne di passare alla storia non sono mancate in ogni classe, ma forse le più belle, ripeto, sono quelle degli umili anonimi. Bellissima, quasi sublime nella sua incosciente semplicità quella dell’ignoto «fante scalcinato» incontrato da Guelfo Civinini al fronte: è un povero contadino meridionale, che nulla sa della guerra che turbina attorno a Ìui, ignora anche i nomi del suo colonnello e del suo maggiore e allorchè l’ufficiale spazientito lo apostrofa: «Ma come, non sai nulla tu? — venne allora la risposta grande. Il fante abbozzò nel viso giallognolo un sorriso umile, e rispose quietamente: Signor tenende.... Nuie tante cose nun ’e sapimmo.... Nuie simmo ca’ per l’avanzata.» (G. Civinini, Il Fante, nel Corriere della Sera, ottobre 1916; e anche in G. Prezzolini, Tutta la guerra, Firenze 1918, pag. 228). Bella anche la risposta data al generale Enrico Caviglia da un ignoto soldato di vedetta sulla Piave nel triste novembre 1917 e che due anni dopo il generale narrava, con l’arte semplice ed efficace dell’uomo d’azione, nel discorso da lui fatto a Milano il 4 novembre 1919 per la prima celebrazione della vittoria: «La prima luce dell’alba inargentava lo specchio d’acqua del fiume.... Mi ero avvicinato alla vedetta: Niente di nuovo? — Niente di nuovo. — Che cosa ne pensi di questa situazione? — È una vergogna. Noi dovremmo essere sull’Isonzo. Voi vecchi non avete fatto il vostro dovere! — Mi aveva preso per un suo compagno più anziano. Feci un rapido esame di coscienza, per assicurarmi di aver fatto quanto dovevo, e mi sentii tranquillo: addolorato, ma con la coscienza sicura. — Io sono il tuo comandante di Corpo d’Armata, e posso assicurarti che ho fatto il mio dovere, e che, come sempre, posso tener alta la testa e il muso duro. Tuttavia ciò che mi hai detto mi ha fatto piacere. Sta di buon animo: non passerà un anno che noi ritorneremo sull’Isonzo. Di che classe sei? — Del ’99. — Di che paese? — Di Brescia. — Buon giorno, piccolo» (Caviglia, Vittorio Veneto. Milano, «L’Eroica», 1920, a pag. 51-52).
Del resto, di sentimenti alti e gentili fra gli umili non davano prova soltanto quelli che erano al fronte. Sarebbe difficile di trovare qualcosa di più nobile delle semplici parole di un’oscura popolana rimasta dopo la ritirata sulla Piave a Fontanelle, paese del territorio invaso la quale, con un biglietto che con grande fatica riuscì a far pervenire al marito soldato al di qua del sacro fiume, gli annunciava: «Il giorno 26 febbraio ho dato alla luce una bambina e le ho messo nome Vittoria». L’episodio è narrato in un ordine del giorno del generale De Albertis, comandante del XXIX corpo d’armata, del 23 luglio 1918.
Belle anche qualcuna fra le molte iscrizioni parietali graffiti della guerra, tutte anonimissime, ma di cui certe hanno conquistato la celebrità. Per esempio quella di cui narrerò la storia, con le parole di Gabriele d’Annunzio che ne ravvivò il ricordo, poichè già i giornali del tempo ne avevano parlato. «L’Associazione del Fante Italiano aveva chiesto al Comandante un motto per la sua bandiera. Il Comandante rispose con questo scritto breve e vigoroso:
1856. Non vogliamo encomi!
Il fante simbolico avri il suo trofeo su la groppa brulla dell’Ermada o sul calvario maledetto del San Michele, mentre il fante contadino seguiterà a curvarsi sulla terra non sua e a rosicchiare il non suo tozzo, dopo aver tenuto nel fango marcio della trincea pei tre anni le gambe gonfie e dopo aver per tre anni ingoiato il rancio freddo tra un servizio e un assalto. — Già nel tavolato di una baracca un veterano con le tasche piene di petardi e di sipe, dopo la discorsa di un generale sedentario scrisse col gesso la sentenza in suo latino: ‘‘Non voglamo ingomii”. È il più fiero motto del fante italiano. Ecco orgogliosamente tradotto nel latino di Roma: Per se fulget. Fiume d’Italia, ferragosto 1920. Gabriele D’Annunzio». La Testa di Ferro, giornale del Fiumanesimo, n. 25, Milano, 29 agosto 1920).
Bellissime sarebbero pure queste altre, se si potesse dare assicurazione della loro spontaneità. Le ricordo perchè sono state immortalate in una pubblicazione ufficialissima, nel vol. XIV de La Guerra, Delle raccolte del Reparto Fotografico del Comando Supremo del R. Esercito. In questo volume, dedicato a La battaglia dall’Astico al Piave, 15-25 giugno 1918 (Milano, Treves, ottobre 1918) le pag. 848 e 849 riproducono delle «Iscrizioni di nostri soldati sulle case di Sant’Andrea di Piave» e sulle mura diroccate dal cannone si leggono, graffite dai nostri fanti, le iscrizioni:
1857. È meglio vivere un giorno da leone che cent’anni da pecora.
1858. Tutti eroi! o il Piave o tutti accoppati!
La figura che riproduce questa seconda iscrizione parietale fu anche messa sulla copertina della relazione ufficiale su La Battaglia del Piave pubblicata dal Comando Supremo (Roma, tip. Cuggiani, 1920). Ma sono autentiche? Ci fu chi mi disse di no, ed io non oso pronunziarmi. Queste iscrizioni si leggevano ancora sui ruderi del paese in rovina, quando due anni dopo si inaugurò a Fagarè il 23 maggio 1920 il monumento ai caduti nell’eroica resistenza sulla Piave: così affermava una corrispondenza al Gazzettino di Venezia del 21 maggio 1920.
A questa stessa famiglia appartiene il famoso
1859. Canta che ti passa.
Piero Jahier che tanto bene ha fatto al fronte con la sua propaganda sana e gentile, pubblicava, come già fu detto, a Piovene, dal febbraio al novembre 1918, l’Astico, che fra tutti i giornali dei combattenti, nati dopo Caporetto per ispirazione degli alti Comandi, sovrasta tutti gli altri per elevatezza morale e rappresenta un tentativo felice di educare i soldati a nobili sentimenti civili. Fra le varie iniziative prese da barba Piero — tale era l’affettuoso pseudonimo dello Jahier — è da segnalarsi una raccolta di canti di soldati, in tutti i dialetti, pubblicati in piccola parte sul giornale, e poi raccolti in numero assai maggiore in un volumetto che ebbe due edizioni. La prima, uscita nell’agosto, ha il seguente titolo: Canti di soldato, raccolti da barba Piero pubblicati da L’Astico giornale delle trincee (Zona di fuoco, tip. de l’Astico, Estate 1918) ed è preceduta da una «spiegazione» che non può leggersi senza un senso di commozione e un’epigrafe che commenta le ragioni della pubblicazione: «Questa raccolta non è dedicata ai soldati che si fabbricano una chitarra colle latte da petrolio o un violino colle casse da aranci nè ai mitraglieri che cantano colle mitraglie a spalla ma al fante più scalcinato e ammutolito nella trincea più battuta e gli porta il buon consiglio che un fante compagno aveva graffiato nella parete di una dolina: Canta che ti passa».
Chi non conosce quella sciocchezzola petrolinesca, non senza arguzia:
1860. I casi sono due.
Circolò al fronte in copie manoscritte o dattilografate fra il marzo e l’aprile del 1917: ma la prima volta che la vidi a stampa fu in un giornale italiano.... della Nuova Orleans, L’Italo-Americano! Evidentemente era stata mandata per lettera da un «americano» al fronte, cioè da uno dei nostri emigranti tornati in patria per la guerra. Qualche tempo dopo la rilessi nell’Asino di Roma, che la dava come una novità: e finalmente si diffuse con le cartoline, forma caratteristica di divulgazione assunta in questa guerra dalla letteratura popolare: sul quale argomento mi permetto di rimandare a uno scritto su Le Cartoline illustrate di guerra, comparso in due numeri del periodico milanese Il Risorgimento Grafico (fasc. di luglio e agosto 1920), dove io vado pubblicando una serie di articoli sulle Curiosità bibliografiche della Guerra.
Ma tornando ai Casi che sono due, di chi è? Ne ho veduta una copia dattilografata con la firma e la data: Giorgio Zangarini, 31 maggio 1917, ma non saprei quale valore dare a quest’attribuzione. Altri mi assicura che lo scherzo è nato sui palcoscenici dei caffè-concerti, per opera di qualcuno dei nostri artisti di varietà che interpretano macchiette militari: ma anche su ciò non saprei dare informazioni precise.
A completare il discorso, non dovrei tacere dei neologismi della guerra, molti dei quali costituiscono vere frasi fatte. Ma pur troppo anche di quest’ultime, dovrei contentarmi di registrarle, poichè per loro ancor più che per le altre è difficile, e nel maggior numero dei casi impossibile, di risalire alle fonti. Dirò pure che la più gran parte di questi neologismi sono di origine francese (e qualcuno sarà registrato più avanti). Fra quelli d’indubbia origine nostra ricorderò le
1861. Radiose giornate di maggio.
da cui qualcuno (credo il pubblicista Bergeret, cioè Ettore Marrone) trasse l’ironico appellativo di radiosomaggista; e il
1862. Fronte interno.
1863. Union sacrée. 6
1864. Le front unique. 7
1865. Le plan incliné. 8
Ora però siamo scivolati nel campo dell’argot di guerra, che esce dalle nostre indagini e che è stato ampiamente studiato, pochissimo a dir vero l’italiano (non trovo da ricordare che alcune pagine, buone come sempre, di Fra Agostino Gemelli nel volume Il nostro Soldato, pag. 188-190, un articolo di Giuseppe Prezzolini, Gergo di guerra, nel Resto del Carlino, di Bologna, del 5 giugno 1918 e un Vocabolario di trincea, tentativo interessante ma nulla di più, pubblicato da Piero Jahier in parecchi numeri dell’Astico, giornale delle trincee che si stampava a Piòvene, già ricordato poco sopra), un po’ di più il germanico, moltissimo il francese, sul quale sono comparsi una colluvie di libri, opuscoli, articoli di riviste e di giornali, nella maggior parte opera di dilettanti della filologia spicciola. Forse uno solo di questi libri ha vero valore scientifico, il volume di A. Dauzat, L’argot de la guerre (Paris, Colin. 1918): molto meno il libro di I. Sainéant, L’argot des tranchées (Paris, De Boccard, 1915), in cui c’è qualcosa da prendere, e molto da gettare; molto serio e interessante l’articolo di R. Gauthiot, pubblicato dopo la morte dell’autore nel Bulletin de la Société de Linguistique; buono anche, per metodo e per abbondanza, il volume dell’Esnault, Le poilu tel qu’il se parle (Paris, Editions Bossard, 1919).