Chi l'ha detto?/Parte seconda/80c

Parte seconda - § c) « Les Italiens ne se battent pas! »

../80b ../80d IncludiIntestazione 2 aprile 2022 75% Da definire

Parte seconda - § c) « Les Italiens ne se battent pas! »
Parte seconda - 80b Parte seconda - 80d
[p. 654 modifica]

c) “ Les Italiens ne se battent pas! ”


Le molte frasi eroiche, del vero eroismo semplice e consapevole, che ci sono passate davanti e nelle quali mi sono indugiato volentieri, sono la migliore risposta a una frase ingiuriosa, antica, e che ho voluto registrare qui anzichè in altra parte del volume (come era nelle precedenti edizioni), appunto perchè dopo Caporetto, molti stranieri e anche molti italiani la ripeterono. Tutti capiscono che intendo parlare del famoso:

1866.   Les Italiens ne se battent pas 1

Era tradizione abbastanza diffusa che questa frase insolente fosse stata detta dal generale Christophe de La Moricière, contro cui Arn. Fusinato lanciò nel 1860 una vivace poesia intitolata Al Rev. Padre La moricière generale dell’Ordine..., e pubblicata coi tipi clandestini del Comitato nazionale veneto. Vedasi la strofa seguente (figura il generale che arringa i soldati):


                             — Che val se irrompono
                                   Da tutti i lati
                                   Quanti ha l’Italia
                                   Armi ed armati?
                                   Fuoco alla miccia,
                                   Avanti! Urrah!
                                   Les Italiens
                                   Ne se battent pas.

L’on. Filippo Meda, già ministro delle Finanze, in un articolo La paternità di una frase, pubblicato nella Nuova Antologia, fasc. del 1° luglio 1918, pag. 85-90 (riprodotto ne La Perseveranza di Milano, dell’11 luglio successivo), dopo aver rilevato che io non aveva nelle precedenti edizioni di quest’opera addotto prova [p. 655 modifica]alcuna di quest’attribuzione e che la strofa del Fusinato in fondo non provava nulla perchè nel discorso imaginato dal poeta poteva trovar luogo una frase detta da altri ma che rispecchiava i sentimenti veri o attribuiti del generale, mostrava ritenere ch’dovesse invece ascriversi al Thiers sulla fede di Ernesto Teodoro Moneta il quale nella relazione letta il 10 marzo 1912 alla assemblea generale della Unione lombarda per la pace e pubblicata poi in tre successivi numeri della Vita internazionale, ebbe a dire cosi: «E fu ad Ivrea dove si ebbe la più grave ripercussione della rotta di Novara.... e fu là che qualche giorno dopo lessi sui giornali le parole pronunciate da Thiers dalla tribuna francese: Les italiens ne se battent pas, parole che furono per me amarissime».

Il ricordo così preciso del Moneta parve, non senza ragione, all’on. Meda molto significativo ed egli fece per poterlo meglio confermare delle ricerche che a poco approdarono: egli trovò invece altre assegnazioni della triste frase, all’Oudinot, al Leblanc, ma dei particolari di queste ipotesi e delle varie autorità sulle quali si appoggiano faccio grazia al lettore rimandandolo all’articolo dell’ on. Meda. La discussione da lui sollevata non si fermò li; lo stesso Meda riassunse la questione, con qualche ritocco, in un articolo intitolato dalla frase famosa in Vita e Pensiero, di Milano, fasec. 56, del 20 agosto 1918, pag. 345-354: intanto il signor A. M. (cioè il dott. Antonio Monti) ancora nella Nuova. Antologia (fasc. 1118, del 16 agosto 1918, pag. 403-404) sosteneva che la paternità della frase fosse del generale Chrzanowski e l’on. Meda replicava nella rivista medesima (fasc. 1119, del 1° settembre 1918, pag. 98) combattendo tale attribuzione per tornare una terza volta sull’argomento nel fasc. del 1° ottobre, pag. 308-309. In quest’ ultimo scritto egli riprendeva la mia prima congettura, poiché varie testimonianze prodotte nella discussione mettevano fuori di dubbio che la frase fosse detta da Lamoricière, ma non dal Lamoricière di Castelfidardo, comandante dell’esercito pontificio, bensì dal Lamoricière repubblicano, ex-ministro della guerra nel 1849. vicepresidente dell’Assemblea Nazionale; e fra queste testimonianze la più conclusiva e quella di Francesco dall’Ongaro nel suo Almanacco di Giano, del 1849-50 a pag. 71:«La Repubblica romana ha salvato l’onor militare d’Italia compromesso sui campi di Novara e ricacciato in gola ala generale Lamoricière [p. 656 modifica]l’obbrobrioso cartello che ci scagliava dalla tribuna francese dicendo: gli Italiani non si battono»; e ancora a pag. 103: «I francesi furono assaliti nove volte alla bajonetta ed altrettante avevan mostrate le reni a quegli italiani che il generale Lamoricière aveva detto alla bigoncia francese che non si battono». È dunque chiaro che il Lamoricière disse questa disgraziata frase dalla tribuna parlamentare: ma quando? L’on. Meda ritiene che possa essere stata detta nella seduta del 16 aprile 1849 in cui si discusse d’urgenza la domanda di crediti presentata dal Governo per la spedizione di Civitavecchia, ma nel resoconto ufficiale la frase non c’ è. È possibile che fosse detta, nel calore della discussione, in risposta a qualche interruzione, e poi soppressa nel resoconto ufficiale.

Tuttavia la discussione sul vero autore della frase troppo famosa perde gran parte della sua importanza dinanzi alla constatazione che essa, sia di Lamoricière o di Thiers o di chiunque altro, ebbe successo, perchè come accade in questi casi, dette forma incisiva e per così dire mnemonica a un giudizio che con parole più o meno mutate era costante negli stranieri i quali ritennero sempre gl’Italiani disadatti alle armi. Quanto fosse calunniosa questa diceria, quali ne fossero le origini, come quella parvenza di vero che qualche fatto sembrava darle dovesse in gran parte attribuirsi, non a mancanza di coraggio individuale negli italiani il quale è stato ed è fuori di discussione, ma a deficienza di solidità e disciplina degli eserciti, virtù le quali presuppongono una coscienza nazionale e una tradizione militare, non è qui il caso di discutere. Ma non sarà inutile il raccogliere qui dei precedenti storici che costituiranno un materiale non disprezzabile per lo studio da farsi; e poichè è nello spirito della presente compilazione che l’autore di essa parli il meno possibile e lasci parlare gli altri, comincerò dal riferire come esordio riassuntivo il parere lucido e sereno di Benedetto Croce (La guerra italiana, l’esercito e il socialismo, articolo destinato al Giornale d'Italia nel settembre 1917, non più pubblicato per i sopraggiunti eventi e comparso poi nel volume del Croce medesimo: Pagine della guerra, Napoli, 1919, pag. 220-229). «Chi ha ricercato le storie d’Italia senza appagarsi della superficiale e convenzionale cognizione che se ne somministra nelle scuole, non ignora che una delle taccie più antiche e persistenti, anzi la principale e quasi unica taccia, data agli Italiani dagli altri [p. 657 modifica]popoli d’Europa, e specie dai francesi e dai tedeschi, era quella d’“imbelli”. Questo giudizio si formò sopratutto sul cadere del secolo decimoquinto, per effetto della resistenza nulla o fiacca opposta agli stranieri, nelle loro calate nel nostro paese, che divenne il loro campo di battaglia; ma se ne trovano i segni precursori nel medioevo, quando, tra l’altro, era divulgato in Europa l’apologo del “Lombardo e la lumaca”, e i duri e ferrei feudatari d’oltr’Alpe spregiavano gli italiani borghesi, “che cinsero pur ieri - Ai lor mal pingui ventri l’acciar de’ cavalieri”. Nè esso poteva essere cancellato dallo spettacolo che generalmente offrirono gli Italiani nella nuova calata francese, non più regia ma repubblicana, sul finire del settecento e nelle vicende della restaurazione; e di poco fu modificato dalle guerre, non sempre concordi, tenaci o fortunate, del nostro Risorgimento».

Al quadro, così ben segnato nelle grandi linee dal sen. Croce, facile sarebbe di aggiungere i particolari. Che le fonti del disprezzo degli stranieri per le armi italiane, si abbiano a cercare in quello dei barbari verso i romani o latini vinti, è indubitato. Eloquentissime le parole di Liudprando, vescovo di Cremona nel X secolo, longobardo di schiatta, che al principe Niceforo Foca, diceva: «Quos (Romanos) nos, longobardi scilicet, Saxones, Franci, Lotharingi, Bajoarii, Suevi, Burgundiones, tanto dedignamur, ut inimico nostro commoti nil aliud contumeliarum nisi Romane! dicamus, hoc solo nomine quidquid ignobilitatis, quidquid timidi- tatis, quidquid avaritiæ, quidquid luxuriæ, quidquid mendacii, imo quidquid vitiorum est comprehendentes» (Legatio Liutpramii ad Nicephorum Phocam, in Muratori, Rer. Italic. Script., to. II, pag. 481. - Vedi anche un articolo di Pio Rajna, Stulti sunt Romani: sapienti sunt Pajòari, nel Marzocco di Firenze, 21 aprile 1918).

In Francia, fra le varie accusa che si facevano ai Lombardi, primeggiava quella della pusillanimità, e là si formò la storiella burlesca del duello sostenuto da uno di essi, armato di tutto punto, contro una chiocciola, il terribile mostro che con le corna protese, con la corazza di cui era cinto, pareva cercare la pugna. Le origini di questa faceta novelletta (da cui nacque anche il motto proverbiale Assaillir la limace, comune nell’antico francese) furono ricercate dal compianto Francesco Novati (Il lombardo e la lumaca, [p. 658 modifica]nel Giornale storico della letteratura italiana, XXII, 1893, pag. 335-353, e poi nel volume di studi dello stesso Novati, Attraverso il medioevo, Bari, 1905, pag. 117-151). Secondo l’illustre medievalista essa ebbe origini goliardiche e già sui primi del secolo XII era tradizionale fra le gaie torme degli studenti brulicanti lungo le rive della Senna. Fu diffusa specialmente ad opera dei giullari e passò quindi nella letteratura dotta e fu anche narrata in una breve elegia latina De lombardo et lumaca che in qualche manoscritto va nientedimeno che sotto il nome di Ovidio e che in ogni modo non è priva di garbo e di spirito comico nella rappresentazione del Lombardo avido di gloria e della fida consorte trepidante per lui, per sè, per i teneri figliuoletti! Il Novati crede ch’essa appartenga alla seconda metà del secolo XII. È da notarsi che talora in luogo della lumaca fu messa la testuggine ma il fondo della novella resta sempre il medesimo. Così, ad esempio, Giovanni da Salisbury (Johannes Sarisberiensis) scrive nel Polycraticus, sive De nugis curialium et vestigiis philosophorum, dedicato nel 1159 al Cancelliere Becket : «Aemilianos et Ligures Galli derident, dicentes eos testamenta conficere, viciniam convocare, armorum implorare praesidia, sì finibus eorum testudo immineat, quam oporteat oppugnari: quod ex eo componitur, quod eos numquam cuiuscumque certaminis invenit imparatos» (lib. I, cap. IV, in Maxima Biblioth. Veterum Patrum, to. XXIII, Lugd. 1677, pag. 247. G): e qui lo scrittore vuole con la benevola interpretazione attenuare l’amarezza del sarcasmo, fin d’ allora tradizionale. Più tardi la beffa fu ripetuta, non più a carico dei soli Lombardi o degli Emiliani 0 dei Liguri, ma degli Italiani in genere. Da Odofredo, il grande giureconsulto dello Studio Bolognese, sappiamo che a’ suoi tempi (verso il 1230) gli scolari francesi solevano, per ingiuriare un italiano, dipingere sui muri la lumaca o l’orso (altra allusione di cui neppure il Novati afferra il significato); e ancora sui primi del secolo XIV Giovanni Villani narrava: «È da notare una favola che si dice e dipigne in Francia per dispetto degli Italiani. E’ dicono ch’ e’ Lombardi hanno paura della limaccia, cioè la lumaca» (Istorie fiorentine, lib. IX, cap. CVIII). Vittorio Rossi ha raccolto nell’Emporium (vol. XXII, n. 129, settembre 1905, pag. 195-200) alcune antiche rappresentazioni figurate di questo burlesco duello del Lombardo con la lumaca. [p. 659 modifica]

In pieno Rinascimento abbiamo la polemica sollevata dalle ingiurie dell’umanista Desiderio Erasmo da Rotterdam che pure in Italia aveva trovato accoglienze liete, onori e aiuti di ogni maniera. Negli Adagia (che sono un rifacimento completo degli Adagiorum collectanea di lui medesimo e dei quali la prima edizione è dell’Aldo, del 1508) sotto il proverbio Myconius calvus, accennando a chi disse per ironia cresputo ad Apollodoro che era affatto calvo, trovò arguto di soggiungere: «Veluti si quis Scytham dicat eruditum, Italum bellacem, negociatorem integrum, militem pium, aut Poenum fidum», cioè: Come se desse dell’erudito a uno Scita, del bellicoso a un Italiano, dell’onesto a un mercante, del devoto a un soldato, o del leale a un cartaginese. Contro questo sciocco sarcasmo dell’

1867.   Italus bellax. 2

si rivoltarono gl’italiani, massime a Roma dove l’Erasmo si era fatto molti nemici fra gli umanisti e i filologi e Pietro Cursio, letterato romano (di Carpineto), lo attaccava fieramente con un opuscolo, oggi rarissimo (non conosco che l’esemplare della Bibl. Universitaria di Bologna) intitolato: Defensio pro Italia ad Erasmum Roterodamum e stampato dal Blado, tipografo Camerale, nel 1535, scrittura un po’ gonfia e da retore che si diffonde a narrare i fasti militari degli italiani nel quattrocento. Lo scritto del Cursio era preannunziato all’Erasmo da un amico suo, Francesco Rupilio, con sprezzanti parole in una lettera scrittagli da Roma il 29 marzo 1535 (ved. Des. Erasmi Opera omnia, to. III pars posterior, Lugd. Bat., 1703, col. 1763); e l’Erasmo stesso vi accennava in una lettera da Friburgo del 21 maggio 1535 al portoghese Damiano di Goa: «Itali passim in me debacchantur maledicis libellis. Romæ excusa est Defensio Italiæ adversus Erasmm, dicata Paulo III. Rixa nata e duobus verbis meis non intellectis. Ea sunt in proverbio, Myconius calvus, Veluti si quis Scytham dicat eruditum, Italum bellacem. Hoc interpretantur, quasi notarim Italos quod sint imbelles, quum his verbis Italia laudata sit, non vituperata. Edere, bibere, loqui, verba sunt media,
[p. 660 modifica]

edacem, bibacem ac loquacem esse, sonant in Vitium. Ita bellacem esse, non est laudis, sed vituperii etc.» (Des. Erasmi Opera omnia, ed. cit., to. III pars posterior, col. 1501). Erasmo poi rispose pubblicamente con altra scrittura intitolata: Responsio ad Petri Cursii Defensionem e stampata pure dal Blado: in essa egli insiste nella sua tesi che bellax vuol dire attaccabrighe, litigioso, ecc. e protesta del suo affetto per l’Italia: scuse magre, poiché, pur ammessa per vera la discutibile interpretazione data da Erasmo alle sue parole, l’additare come esempio di cosa impossibile un Italiano litigioso, ne rinforzava l’ironia. Nelle edizioni posteriori degli Adagia le parole ingiuriose contro l’Italia sono soppresse.

Acutamente osserva il Croce nel saggio su Lo spirito militare e la religiosità spagnuoola (nel volume: La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, Bari, 1917, pag. 197 e segg.) che nel Cinquecento gl’italiani «assuefatti (come scrive il Guicciardini) per molti anni più alle imagini della guerra che alla guerra vera», furono spinti ad emulare gli stranieri e a far onore al nome nazionale. «Certamente, al tempo della guerra di Spagna e Francia in Italia gli stranieri non risparmiavano frizzi e disprezzi agli italiani; e francesi e spagnuoli affermavano “gl’italiani col loro saper lettere aver mostrato poco valor nell’arme da un tempo in qua”, come dice il Castiglione, il quale non ricusa di riconoscere che la cosa era “più che vera”, sebbene procuri temperarla osservando che “la colpa d’alcuni pochi ha dato, oltre al gran danno, perpetuo biasimo a tutti gli altri” (Cortegiano, I, 43). Insolentissìmi erano, secondo lor natura, i francesi; ma anche gli spagnuoli, più gravi e prudenti, talora facevano sentire il peso del loro orgoglio: forse più di tutti quello spagnuolo rifatto che era il marchese di Pescara.... Al Gran Capitano [Consalvo di Cordova] si attribuiva l’aforisma: España las armas y Italia la pluma» (op. cit., pag. 201). Eppure proprio in quel tempo gl’italiani affermavano dinanzi agli stranieri il valore italiano con le loro compagnie di uomini d’arme che sotto capitani italiani combattevano negli eserciti spagnuoli emulandone le imprese guerresche: e il Croce si compiace a riportarne numerosi esempi ed attestazioni.

Alla fine del secolo XVIII le mutate condizioni politiche prepararono il risveglio del sentimento nazionale, e quando riparti di truppe italiane, ben inquadrate, ben condotte, seguirono il genio [p. 661 modifica] di Napoleone nelle sue campagne trionfali, gl’italiani, anche sotto la spinta dell’emulazione, fecero prodigi di valore, in specie nelle campagne di Spagna e di Russia. Nella campagna del 1811 in Spagna la divisione italiana comandata prima dal generale Peyri, poi dal generale Palombini, si coperse di gloria. Dopo la caduta di Tarragona, dove il granatiere Bianchini il 18 giugno volle salir primo all’assalto e cadde sulla breccia crivellato di ferite, i marescialli Macdonald e Suchet chiesero ciascuno per sè la divisione italiana. Napoleone, in un giorno solenne di udienza in uno degli ultimi giorni di agosto di quello stesso anno, rivolto ad Aldini, a Marescalchi e a Tassoni che assistevano, disse loro: «Due miei marescialli gareggiano per ritenere sotto i proprii ordini la divisione italiana; io la lascio a Suchet che ha molto più grandi cose a fare che Macdonald. Gl’Italiani torneranno un giorno a divenire i primi soldati d’Europa. Dite al Vicerè che sono molto contento del mio bravo esercito italiano» (De Laugier, Fasti e vicende dei popoli italiani dal 1801 al 1815, to. X, Firenze, 1836, pag. 43 - Aless. Zanoli, Sulla milizia cisalpino-italiana, cenni storico-statistici dal 1796 al 1814, vol. II, Milano, 1845, pag. 145). Altri riportano le parole di Napoleone in quest’altra forma che è la più nota:

1868.   Gli Italiani saranno un giorno i primi soldati d’Europa.

Si ricordi anche la frase di Garibaldi (già citata al num. 946): La pianta uomo in Italia non nasce seconda a nessuno.

Del resto Napoleone ch’era buon giudice in fatto di valore militare, e aveva avuto campo di vedere che gl’italiani, ben guidati, si battevano e si battevano bene, in parecchie altre occasioni affermò sinceramente qual conto facesse delle truppe italiane. Il generale Zucchi nelle sue Memorie, pubblicate per cura di Nicomede Bianchi (Milano, 1861), narra che verso la fine dell’infelice campagna del 1813, il 22 settembre, sulle alture di Weissig, l’imperatore gli disse: «Zucchi, io sono contento di voi; vi ho già nominato generale di divisione. Sono anche contento degl’Italiani: ovunque si trovano, essi si distinguono sempre» (pag. 63); e più oltre (pag. 66) lo stesso Zucchi afferma avergli il generale [p. 662 modifica] Menadier raccontato che a Dresda l’Imperatore s’era espresso così: «I fratelli minori - eravamo noi italiani -. hanno quasi superato in valore i fratelli maggiori». E il capitano Bertolini ricorda che in quella stessa campagna, passando in rivista il IV corpo a Torgau, Napoleone diceva al generale Fontanelli: «Con cento mila uomini pari ai vostri, Eugenio sarebbe già sul Danubio» (Bart. Bertolini, Il valore vinto dagli elementi, vol. II, Milano, 1869, pag. 347).

Di questo risveglio della coscienza nazionale e, per conseguenza, di una maggiore sensibilità del paese di fronte al dispregio o peggio ancora alle contumelie degli oltramontani, sono documento i molti libri pubblicati in Italia nella prima metà dell’Ottocento, i quali ricordano ed esaltano la parte presa dagli Italiani nelle guerre europee, e rivendicano i fasti militari delle truppe italiane, massime nelle campagne napoleoniche. Tali quelli del Vacani, del Colletta, del De Laugier, del Lombroso, di Guglielmo Pepe e di altri parecchi, indicati e analizzati dal Croce ne La Storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri, cap. IV (ne La Critica, vol. XIII, 1915, pag. 407 e segg.).

A questi libri va aggiunto, come degno per la sua singolarità di speciale menzione, un raro opuscolo polemico: Difesa dell’onore dell’armi italiane oltraggiato dal signor di Balzac nelle sue Scene della Vita Parigina ecc. (Milano, Pogliani, 1837), scritto dal milanese Antonio Lissoni che fu ufficiale nell’esercito Napoleonico e combattè in Spagna. L’opuscolo, pubblicato durante il soggiorni) di Balzac in Italia, voleva essere una protesta contro il romanziere francese, il quale in un suo racconto Les Marana (stamp. prima nelle Scènes de la Vie Parisienne, poi negli Études philosophiques del Balzac) introduce come protagonista una spregevole figura di avventuriero millantatore e codardo, certo capitano Montefiore, e seguendo l’andazzo troppo comune negli scrittori stranieri lo finge italiano e appartenente a quel 6° reggimento di linea, tutto d’italiani, che prese parte all’espugnazione di Tarragona e che «acquit- sono parole del Balzac medesimo - une grande réputation de valeur sur la scène militaire et la plus detestable de toutes dans la vie privée ». Si veda: G. Gigli, Balzac in Italia (Milano, 1920, a pag. 71).

Altro di questi libri (già ricordato più sopra) tu scritto dal famoso cav. Bartolomeo Bertolini, veterano della campagna di Russia, da lui narrata nell’opera Il valore vinto dagli elementi [p. 663 modifica] (Milano, 1869) della quale è particolarmente singolare l’Appendice (a pag. 279-360 del vol. II) intitolata: «Rivendicazione della gloria militare italiana oscurata e negletta dagli autori francesi, ossia riepilogo dei principali fatti d’arme vinti o sostenuti dal valore degli Italiani». Lo spirito col quale è vergata quest’Appendice, resulta dalle enfatiche parole della chiusa (pag. 360): «Che ne dite, scrittori di Francia? Questa è storia, e non vuote parole: voltatela pure a vostro vantaggio facendovi belli delle nostre glorie, tacendole vilmente per noi, anzi calunniandole, ma non potrete mai rendere menzogna la verità; che se voi ricusate a renderci la meritata giustizia, noi questa giustizia la attendiamo dai posteri, i quali mentre ce la renderanno, si faranno accusatori della vostra ingratitudine». Il Bertolini, trentino, morì a Trieste nel 1871; e nel 1912, per cura di uno speciale comitato e col favore del municipio triestino, gli fu eretto, nel cimitero di Sant’Anna, un monumento funerario che volle essere al tempo stesso un’esaltazione della epopea napoleonica e una manifestazione d’italianità (vedi nella rivista Italia!, a. II, 1913, vol. II, pag. 452).

Mentre tali erano le disposizioni degli spiriti in Italia, sopravvennero le guerre del nostro Risorgimento, ma conviene dire ch’esse non mutarono troppo il giudizio degli stranieri sul nostro conto, poichè se non mancarono i tratti di valore, massime nell’eroico contegno dei nostri martiri, non sempre a questo corrispose la condotta delle truppe in campagna, per ragioni diverse, non tutte imputabili al paese. Sta in fatto che se le fortune d’Italia ci condussero all’indipendenza e alla unità, lo sforzo fatto dalla nazione nelle cinque guerre dell’indipendenza fu inferiore all’aspettativa e non avrebbe forse raggiunto il risultato senza gli aiuti delle armi straniere. È d’uopo ricordare che tutte queste guerre, dal 1848 al 1870, non sono costate in complesso che 6226 morti e 19.981 feriti? Uno dei più poderosi pensatori dell’Italia contemporanea Alfredo Orfani, così riassumeva serenamente lo spirito nazionale di quel tempo, in quella che è la sua maggiore opera storico-politica. La lotta politica in Italia (Torino, L. Roux e C., 1892, p. 370-371: lib. IV. cap. 5): «Questa dolorosa contraddizione fra tanto bollore di frasi e tanta freddezza di atti, tra la falange sacra degli scrittori e dei cospiratori che gettavano ogni fiore della loro anima sull’altare della patria per purificarlo dal contatto dei carnefici, e [p. 664 modifica] il popolo che non dava un grido nemmeno quando i martiri penzolavano dalle forche o i ribelli si presentavano audacemente armati alle porte della città urlando: rivoluzione! impressionavano sinistramente gli stranieri, attirando sull’Italia dispregi, che il genio e l’orgoglio di pochi grandi non bastavano a respingere. E l’Europa si ricordava che la Spagna sola era bastata contro Napoleone vincitore dell’Europa, che la Russia si era bruciata volontariamente perchè il suo invincibile invasore perisse per mancanza di ricovero, che la Grecia piccola come un villaggio e non più numerosa aveva resistito per cinque o sei anni a tutto l’impero turco: ricordava le lotte non antiche di Fiandra e la recente vittoria del Belgio, l’eroica caparbietà della Polonia, nella quale ogni insurrezione vampeggiava in guerra e ogni guerra s’insanguinava di battaglie senza paura e senza pietà; e, ascoltando i garriti d’Italia e vedendola sempre così inerte, sorrideva d’insultante compassione».

Pur troppo nemmeno mancarono, nelle varie guerre d’indipendenza, dolorosi episodi che presso giudici mal disposti parevano legittimare il dispregio e l’ingiuria che fin d’allora non mancarono. Nel triste anno 1821, quando la rivoluzione napoletana si era suicidata vergognosamente a Rieti e ad Antrodoco e quella piemontese era finita ingloriosamente dopo lo scontro di Novara dove le truppe dei generali Ferrero e San Marzano furono troppo facilmente sbaragliate e disperse dagli Austriaci, il generale austriaco conte Ferdinand von Bubna non si peritò di dire (Annuario Statistico Italiano pel 1864, Milano, 1864):

1869.   Un’altra volta verrò con un esercito di donne a sedare le insurrezioni italiane.

Nei Documenti della Guerra Santa d’Italia raccolti da Gabriele Camozzi (vol. I, fase. I, Capolago, tip. Elvetica, 1849, a pag. 130) è narrato che nel colloquio avuto il 26 marzo 1849, tre giorni dopo la battaglia di Novara, da Filippo Caronti col generale Adalberto Chrzanowski, questi lo informò di aver concluso un armistizio onorevole; e dinanzi allo stupore di lui, insistè: «Oui. très honorable, avec

1870.   Une armée qui ne se bat pas. 3

[p. 665 modifica]

Nè soltanto col Caronti lo Chrzanowski si espresse in quei termini, ma anche col march. Giorgio Pallavicino, il quale in una lettera a Mad. Cornu del 24 aprile 1849 (nelle Memorie dello stesso Pallavicino pubblicate dalla moglie, vol. II, Torino, 1886, pag. 98) scriveva che il generale polacco, del quale egli era un grande amico ed estimatore, gli aveva detto con le lacrime agli occhi: «Avec des généraux qui n’obéissent pas et des soldats qui refusent de se battre, c’est un bien vilain métier que celui du général en chef».

E il generale Nicola Carlo Oudinot, mentre a Civitavecchia negoziava coi rappresentanti della repubblica romana: «È voce - ci ha lasciato scritto il Farini (Lo Stato romano dal 1815 al 1850, III ediz., Firenze, 1853, vol. IV, pag. 17) - che a coloro i quali affermavano certa la resistenza di Roma rispondesse: Gli Italiani non si battono»: e concludeva il capitolo, dopo aver narrata la battaglia del 30 aprile e detto che «alle due del mattino seguente il generale Oudinot scrisse notizia del sinistro caso al Governo francese chiedendo pronti e poderosi aiuti. Gli Italiani si battevano». Ma l’on. Meda nella polemica già ricordata, dubita dell’esattezza di questo racconto.

Il Lamoricière, che già l’anno prima aveva dalla tribuna francese gettata la medesima accusa, non si mostrava più benevolo liberali italiani dodici anni più tardi, quando venne a Roma a comandare il piccolo esercito pontificio, cui Cialdini doveva dare a Castelfidardo il 18 settembre i860 una così dura lezione. In una lettera, pubblicata dal Keller nella vita che scrisse di lui (to. II. pag. 245), il Lamoricière diceva: «En France et en Europe, on voit la Révolution ici avec des grossissants, qui augmentent et défigurent tout. La manifestation hostile de l’avant dernière dimanche [in Roma] a été dispersée par cinquante gendarmes. Les émeutiers étaient payés vingt et un sous. Comme ils ont été battus on prétend que le prix de la journée s’élèvera au double la première fois. S’il y avait eu mort d’homme, le prix se serait élevé à un écu romain. 5 francs 37 centimes, tant est grand le désir de chacun de sauver sa peau». E il nome dello sconfitto di Castelfidardo richiama alla memoria la nota operetta del conte di Ségur Les Martyrs de Castefidardo Parigi 1861 e molte ediz. successive), nella quale in principio del cap. II (pag. 27) è detto che «il lui (al Pontefice) manquait deux choses que l’Italie ne [p. 666 modifica] produit guère: des généraux et des soldats»: il traduttore italiano nella ediz. di Bologna, 1862 (pag. 30) si vergognò di scrivere tal e quale la sciocca ingiuria e volle attenuarla un poco dicendo che «gli mancavano due cose che l’Italia pena produrre: generali e soldati».

Eppure, come ho già detto, il giudizio così severo degli stranieri non era equo: si veda un interessante articolo del capitano I. Libertini su Il valore bellico degli Italiani nella «Rivista Militare Italiana», a. LX, disp. XI del 16 novembre 1915, pag. 2193-2215, articolo polemico che prende lo spunto dalla frase Les Italiens ne se battent pas, dovuta - egli avverte - «ai nostri fratelli in latinità» e intende a confutare con buoni argomenti la ingiusta accusa che nelle guerre del Risorgimento gl’italiani dessero scarse prove di valore militare.

Poi venne Adua ed è carità di patria non insistere su quell’ora grigia della storia italiana, non tanto per il fatto in sè quanto per la ripercussione non bella che ebbe nel paese. Parve che l’Italia cogliesse nella guerra libica l’occasione di rialzarsi, e veramente il risveglio della virile coscienza del paese fu ammirevole, benchè anche qui non mancassero dei punti neri. Per quanto la rievocazione possa essere incresciosa, non passerò sotto silenzio la gravissima accusa che all’on. Giovanni Giolitti, oggi capo del governo, fu mossa dall’on. Antonio Salandra in una lettera politica, diretta alla vigilia delle elezioni generali del 1919 ai suoi antichi elettori del collegio di Lucera. In questa lettera che ha la data di Troja 17 ottobre 1919 e che fu stampata da tutti i giornali quotidiani d’Italia del 19 o del 20 ottobre, l’on. Salandra, accennando al colloquio avuto in sua casa con l’on. Giolitti il 10 maggio 1915 e agli argomenti con i quali il Giolitti medesimo giustificava la sua esplicita contrarietà alla guerra. aggiungeva: «Soprattutto accentuò la sua sfiducia nell’Esercito che probabilmente, a suo dire, non si sarebbe battuto non avrebbe resistito ad una lunga guerra. In Libia, egli diceva, si era vinto soltanto quando eravamo dieci contro uno». Conviene però soggiungere subito che l’on. Giolitti respinse sdegnosamente tale accusa in una lettera al senatore Frassati, direttore della Stampa di Torino, datata da Cuneo il 20 ottobre 1919 e pubblicata ne La Stampa medesima, num. 290 del 21 ottobre, dove diceva «Egli (Salandra) afferma che io esprimevo avviso contrario [p. 667 modifica] all’entrata in guerra per sfiducia nel valore dell’esercito. Ciò è falso. Il valore del nostro esercito fu sempre fuori di discussione.... Non uscì mai dalla mia bocca il turpe linguaggio che Salandra mi attribuisce. Non io potevo dimenticare il valore dimostrato dai nostri soldati in Libia ed in tutte le guerre».

Per lavare l’Italia da questa immeritata taccia ci voleva la guerra delle Nazioni. «Che cosa sta facendo — scriveva Benedetto Croce nel già citato articolo: La guerra italiana, l’esercito e il socialismo (pag. 224) - che cosa sta facendo l’esercito italiano, che combatte sotto la guida energica e sapiente del Cadorna? Nientedimeno che questo: sta redimendo in modo definitivo il popolo italiano da una taccia quindici volte secolare. Sta provando cioè col fatto che il popolo italiano ha raggiunto ormai la compattezza nazionale e politica, la cui espressione è la forza dell’esercito». Ma pur troppo questo scriveva Benedetto Croce il 24 settembre 1917, e un mese dopo seguiva la rotta di Caporetto!

Non è qui il hiogo di analizzare le cause di quella catastrofe sulle quali esiste ormai una vera biblioteca e che indubbiamente furono svariate e complesse. Mi contenterò di accennare che i fattori morali della sconfitta dell’ottobre 1917 furono con coscienza imparziale e obiettività scientifica benissimo analizzati dal prof. Giulio Cesare Ferrari nella Rivista di Psicologia da lui diretta, in uno studio scritto nel marzo 1918 ma di cui la Censura proibì severamente la stampa e che uscì soltanto nel fascicolo di maggio-agosto 1919, pag. 145-191 (Il disastro di Caporetto e la battaglia di Vittorio Veneto. Psicologia della guerra di movimento).

Non farà meraviglia che il doloroso episodio fosse malignamente sfruttato al di là delle Alpi per trarne nuova conferma alla vecchia leggenda. A tal proposito una onesta e preziosa confessione è fatta da Albert Dauzat nel curioso libro già citato: Légendes prophéties et superstitions de la guerre (Paris 1919). A entendre les poilus revenus d’Italie, deux divisions françaises auraient suffi pour arrêtere la débandade effroyable de deux millions d’Italiens après le désastre de Caporetto: l’histoire - et le simple rapprochement des dates - établit an contraire que l’armée italienne était reformée sur la Piave avant l’arrivée des contingents franco-britannique. La supérioritè et dédaigneuse que le poilu s’attribue sur le soldat italien n’est que la confirmation de la [p. 668 modifica] légende répandue avant la guerre et suivant laquelle l’Italien était mauvais soldat: la légende a son origine dans la tenue médiocre des troupes napolitaines à l’époque de l’expédition des Mille. Le soldat italien, au contraire, s’est montré bon combattant au cours de la dernière guerre, en dépit de revers dus avant tout à des fantes de commandement: Caporetto n’est pas plus déshonorant que Morhange. Mais la légende était trop ancrée: le peuple (civils ou mobilisés) n’admet pas que les faits contrecarrent des opinions arrêtées, et il n’accepte que des récits qui les confirment. Encore au mois de juillet 1918, un gendarme de Modane me racontait qu’à la récente offensive sur la Piave, les Italiens avaient commencé par s’enfuir, mais, arrêtés par des mitrailleuses françaises, ils étaient alors partis de l’avant. Semblables rumeurs n’ont jamais été propagées sur le compte des Américains, dont la réputation était aussi faite à l’avance, mais dans un tout autre sens» (pag. 41-42).

Pur troppo neppure in Italia è mancato chi non ha voluto esser da meno degli stranieri; e quando dopo la pubblicazione della relazione della Commissione d’Inchiesta, Dall’Isonzo al Piave, più volte ricordata, che riabilitava il buon nome del fante italiano e incolpava il Comando Supremo del disastro, sorse nel paese una poco opportuna polemica, un articolo firmato Scalarini nell’Avanti! del 7 settembre 1919 diceva: «Devo dire anch’io il mio debol parere? Il mio debol parere è questo: che gli italiani la guerra la fanno malvolentieri. Ci vanno, sfido io! Se no, vengono i carabinieri a prenderli: ma quando capita l’occasione, piantano baracca e burattini, e tornano indietro. Così è avvenuto a Caporetto. Dare la colpa a Cadorna, è una ingiustizia bell’e buona». La confessione esplicita dell’Avanti! - veniva assai giustamente commentata dal Popolo d’Italia con queste parole: «Confessione preziosa. Per quei soldati - quelli dell’Avanti! - la “baracca” è l’Italia e i “burattini” sono i vecchi, le donne, i bambini che quei soldati avevano il compito di difendere dagli aggressori. Senonchè “quei soldati” erano i soldati del “Pus”, i caporettisti autentici e così ben fotografati da Scalarini. Ma c’erano anche degli altri soldati, i nostri, e quelli erano.... al Piave», e ci erano nel giugno ’18 e lo varcarono nell’ottobre, vendicando Caporetto a Vittorio Veneto. Più sereno, e a parer mio giusto in generale con qualche riserva su certi particolari è il giudizio di G. Prezzolini, acuto [p. 669 modifica] osservatore: «Il soldato italiano non ha molte qualità militari; salvo lo slancio nell’attacco, purchè abbia capi che paghino di persona e inspirino fiducia. Allora lo si porta dove si vuole. Manca però di voglia di lavorare (tutt’altro!), non ha molta precisione, nè amor patrio, poca disciplina, debole senso del dovere.... In compenso di questi difetti, gravi per una guerra come la presente, ha in dose enorme una qualità grandissima, ed è la capacità di soffrire e di sopportare, fino ad un grado che rasenta l’inverosimile. Perchè un soldato italiano si rivolti occorre che ogni limite umano sia sorpassato». (G. Prezzolini, Dopo Caporetto, Roma, 1919, pag. 23-24).

  1. 1866.   Gl’italiani non si battono.
  2. 1867.   Italiano e bellicoso (due qualità che si contraddicono).
  3. 1870.   Un esercito che non si batte.