Chi l'ha detto?/Parte prima/48

Parte prima - § 48. Nazioni, città, paesi

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§ 48.

Nazioni, città, paesi



Le frasi che raccolgo in questo paragrafo sono in gran numero di vituperio, poichè sembra che queste si ricordino più facilmente delle altre. Tuttavia sarebbe sciocco il trarne argomento a spregiare questo o quel paese, poichè esse non hanno ormai che valore storico, e in ogni modo:

936.   Le pour et le contre se trouvent en chaque nation1

(Bayle, Pensées sur la comète, sect. 142).
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In fondo non mi pare che fosse tanto stupido quel buon borghese di Torino che non capiva la passione dei viaggi, e fra le altre cose diceva:

937.    Le sitò.... tute a peuprè:
Na cà dsa, na cà dlà e an mes na stra.2

nel sonetto L’om machina, che è il primo di quei geniali quadretti dal vero intitolati Macëtte tourineise (1879), satira vivace della borghesia piemontese di Alberto Arnulfi, conosciuto anche sotto l’anagramma di Fulberto Alarni.

Bellissimo invero sarebbe il paese cercato da Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini) nei Postuma, XXXVII:

938.         Conosci tu il paese
          Dove non s’è mortali,
          Dove alla fin del mese
          Non scadon le cambiali?

che poi dovrebbe essere il famoso paese di Cuccagna e di Bengodi, dove le vigne si legavano con le salsiccie, già noto anche agli antichi che credevano

939.   Hic porcos coctos ambulare.3

(Petronio, Satyr., XLV, 4).

Questo sarebbe veramente il paese ideale, il paese di cui potremmo giustamente dire con Orazio:

940.   Ille terrarum mihi præter omnes
Angulus ridet.4

(Odi, lib. ii, od. 6, v. 13-14).

Finchè un fortunato esploratore non abbia trovato questa benedetta regione, che ancora non figura su nessuna carta, converrà contentarsi di quelle che la Provvidenza e le Società Geografiche [p. 299 modifica] ci consentono di conoscere. Per noi italiani in tal caso non sarà orgoglio eccessivo se applichiamo le parole oraziane alla nostra, che Virgilio salutò col verso:

941.   Salve, magna parens frugum, Saturnia tellus, Magna virum.5

(Georgiche. lib. ii, v. 173-174).

che l’Alighieri designò con la frase:

942.   (Del) Il bel paese là, dove il suona.

(Inferno, c. XXXIII. v. 80).

ed il Petrarca con la bella nota perifrasi:

943.                                           .... Il bel paese
Ch’Appennin parte e’l mar circonda e l’Alpe.

(Sonetto in vita di M. Laura, num. CXVI
sec. il Marsand. CXIV sec. il Mestica.
com.: O d’ardente virtute ornata e calda).

Si confronti con le parole dell’Ariosto (Orlando furioso, c. XXXIII, ott. 9):

                              ....La terra
     Ch’Apennin parte, e il mare e l’Alpe serra.

e con quelle del Manzoni (Conte di Carmagnola, coro dell’atto II):

944.   Questa terra....
Che natura dall’altre ha divisa,
E ricinta coll’Alpe e col mar.

Lo stesso Petrarca chiama il popolo d’Italia nella famosa Canzone a’ grandi d’Italia, che comincia: Italia mia, benchè ’l parlar sia indarno indarno (è la canz. dell’ediz. Mestica: v. la str. 5)

945.                       Latin sangue gentile.

frase che fu introdotta da G. B. Niccolini Nell’Arnaldo da Brescia per designare il popolo di Roma. [p. 300 modifica]

Ne diceva le lodi Giuseppe Garibaldi con le note parole:

946.   La pianta uomo nasce in Italia, non seconda a nessuno.

parole del generale dittatore, nell’Ordine del giorno alle truppe volontarie dopo la battaglia del Volturno (i° ottobre i860): «Favorito dalla fortuna, io ebbi l’onore nei due mondi di combattere accanto ai primi soldati, ed ho potuto persuadermi che la pianta uomo nasce in Italia, non seconda a nessuno; ho potuto persuadermi che quegli stessi soldati che noi combattemmo nel l’Italia meridionale, non indietreggeranno davanti ai più bellicosi, quando saranno raccolti sotto il glorioso vessillo emancipatore.» (Cellai, Fasti militari della Guerra dell’Indipendenza italiana, vol. IV, pag. 471). È da credersi che Garibaldi s’ispirasse così dicendo all’Alfieri il quale nell’opera Del Principe e delle lettere (lib. III, nel cap. 11 intitolato: Esortazione a liberar l’Italia dai Barbari, che è probabile non fosse ignoto a Garibaldi) scriveva: «L’Italia è dunque stata sotto tutti gli aspetti ciò che non sono finora mai state l’altre regioni del globo. E ciò attesta, che gli uomini suoi, considerati come semplici piante di più robusta tempra vi nasceano; e le piante, nello stesso terreno, rinascono pur sempre le stesse, ancorché per alcun tempo le disnaturi a forza il malvagio cultore».

È all’Italia che pensa Mignon nella lirica omonima di Goethe (in Wilhelm Meisters Lehrjahre, III, i) chiedendo:

947.   Kennst du das Land, wo die Citronen blüh’ n?6

Che nell’opera lirica pure intitolala Mignon (a. I. sc.6). parole di Michele Carré e Giulio Barbier, musica di Ambr. Thomas (la traduzione italiana è di Giuseppe Zaffira) è stato imitati) nella patetica romanza di cui le goffe parole torto indegne della gentile melodia:

948.   Non conosci il bel suol - che di porpora ha il ciel?

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Ebbe l’Italia per molti secoli il vanto di essere la terra della musica e dell’armonia: un appassionato poeta francese lo confessava nei versi famosi

949.                                 ....Harmonie! Harmonie!
Langage que pour l’amour inventa le génie!
Qui nous vins d’Italie et qui lui vins des cieux!7

(Musset, Le Saule, fragment, I, nelle Premières poésies. -
E anche in: Lucie, élégie, nelle Poésies nouvelles).

Anche nell’opera buffa Tutti in maschera del maestro Carlo Pedrotti, rappresentata per la prima volta a Verona nel 1856, una canzone comincia:

950.   Viva l’Italia terra del canto.

e del resto il magico inno di Garibaldi (del poeta Luigi Mercantini) chiama l’Italia:

951.   La terra dei fiori, dei suoni e dei carmi.

Il poeta aggiunge il voto ch’ella torni, qual era prima, la terra dell’armi, poichè all’Italia de’ suoi tempi potevano ancora appropriarsi le parole che il Niccolini pone in bocca a un gentiluomo veneziano del sec. xvii, ma col pensiero alla età presente:

952.                                           .... Italia giace
Dall’armi, e più da’ suoi costumi oppressa;
Nulla ritien degli avi e tutto apprese
Dai suoi nuovi tiranni.

(Antonio Foscarini, tragedia, a. I. sc. 1).

Si può fare per l’Italia anche un altro voto, più prosaico, ma non senza importanza, cioè che si applicare a lei sul serio le parole:

953.   Ricca è l’Italia, ma ricca assai.

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che Alboino dice a Rosmunda nella nota ballata del Prati (Una cena di Alboino re): pur troppo la frase non si ripete più che per celia. «L’Italia, conquistatrice del mondo durante l’antichità romana, museo di tutte le arti del medio evo, mirabile nella civiltà moderna per i suoi sforzi di rinnovazione è, e rimane tuttavia, un paese molto povero: soprattutto essa soffre d’impécuniosité, deficienza di danaro, deficienza di capitali.» Così uno dei più acuti sociologi italiani, Francesco S. Nitti, già presidente del Consiglio, in un suo famoso libro La ricchezza dell’Italia (Napoli, 1904, pag. 8), composto per sostenere appunto il concetto pessimistico della povertà del nostro paese. Consoliamoci tuttavia pensando che il movimento ascensionale economico, ammesso pure dal Nitti, ha continuato anche più intensamente negli ultimi anni, e se la guerra col suo enorme sperpero di forze e di ricchezze gli ha imposto una sosta, tutto fa sperare che superata la crisi il movimento riprenderà anche più intenso.

954.                                                     .... Italia
          Assunta novella tra le genti.

(G. Carducci, Cadore, ultimi versi).

la disse il Poeta della terza Italia e vie’ più si sarebbe compiaciuto delle sue parole se avesse potuto vederla trionfatrice dopo Vittorio Veneto: e con più ragione che non ne avesse avuta pochi anni prima l’avrebbe ripetuto il suo successore sulla cattedra di Bologna, Giovanni Pascoli, quando disse:

955.   La grande Proletaria si è mossa....

ch’è il titolo e la prima frase del bel discorso tenuto a Barga il 26 novembre 1911 dal Pascoli «per i nostri morti e feriti» [della guerra di Libia]. Il fu pubblicato nel giornale La Tribuna del 27 novembre I911 e poi in opuscolo a parte dallo Zanichelli di Bologna. La «grande Proletaria» è l’Italia che manda per il mondo i suoi lavoratori «che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco» per cui il mondo che più ne aveva bisogno, meno li stimava; ma ora la patria ha trovato luogo per loro.... in Libia! Pur troppo anche questa era un’illusione in gran parte caduta! [p. 303 modifica]

Perlustriamo velocemente la patria nostra dal Monviso all’Etna, adendo a’ pie’ delle Alpi, fermiamoci nel Piemonte,

956.   Petit État situé au pied des Alpes.8

Con queste parole lo designava Napoleone III nel discorso inaugurale della sessione legislativa del 1865, pronunziato il 15 febbraio al Louvre, annunziando al Senato e al Corpo Legislativo la convenzione di settembre. Le parole imperiali che parvero in Italia sprezzanti, e oltraggiose per l’italianità del Piemonte, furono rilevate da Tommaso Villa, nel giornale torinese Le Alpi, e da Giuseppe Mazzini, che nel giornale medesimo, il 13 marzo, scriveva: «Io.... non vedo che una risposta degna dell’Italia, e segnatamente del Piccolo Paese a’ piè dell’Alpi: dire, con fatti, all’imperatore straniero: Sire, voi errate: avremo Venezia, e non avrete il Piemonte» (Mazzini, Scritti editi ed ined., vol. XIV, p. cxliii e 101).

Ecco il periodo del discorso imperiale: «Ce ne sont plus les membres épars de la patrie italienne cherchant à se rattacher par de faibles liens à un petit État situe au pied des Alpes, c’est un grand pays qui, s’élevant au-dessus des préjugés locaux et méprisant des excitations irréfléchies (si allude alle dimostrazioni torinesi del settembre), transporte hardiment au cœur de la Péninsule sa capitale, et la place au milieu des Appennins comme dans une citadelle imprenable» (Moniteur universel, 16 févr. 1865).

Nella forte Torino, la culla dell’Indipendenza italiana, udremo facilmente cantare:

957.             I souma i fieuj d’Gianduja,
                                        Na sola famia.9

ch’è il principio d’una popolarissima canzone Ij fieuj d’ Gianduja, in dialetto piemontese, di Cesare Scotta, cantata al teatro d’Angennes la sera del 15 febbraio 1868.

Questo poeta, così noto in Torino, è pure l’autore di un’altra canzone, la Giandujeide, di cui il ritornello è: [p. 304 modifica]

958.                                 Cantoma,
                              Crioma,
          Ciuciand a la douja,
          Aussand el goblot,
          Eviva Gianduja
          E i so Giandujot.10

Gianduia, la maschera caratteristica torinese, è una trasformazione di Girolamo, la vecchia maschera dei burattini, tipo di villico dalla figura ridanciana, latino di mano e rozzo di modi, però cordiale in fondo e galantuomo, che sullo scorcio del secolo xviii sarebbe stato ribattezzato, per ragioni di opportunità, col nomignolo di Gióan dla dója, Giovanni dall’orciuolo (A. Viriglio, Torino e i Torinesi, Torino, 1898, pag. 154). Tale trasformazione sarebbe avvenuta secondo altri precisamente nei primissimi anni del sec. xix a Genova dove i burattinai piemontesi Giambattista Sales e Gioacchino Belloni agivan con le loro marionette al teatro delle Vigne, ma non poterono produrre la popolarissima maschera di Girolamo se non alla condizione, imposta dal soprintendente alla polizia del teatro, che le fosse cambiato il nome perchè uguale a quello del Doge d’allora (1802-5), il march. Girolamo Durazzo! E così Girolamo diventò Giovanni, Gioan dia dója.

Sotto gli auspici del simpatico Gianduja siamo dunque scesi a Genova, i cui laboriosi figli non meritano più oggi l’acerbo rimbrotto del fiero Ghibellino:

959.   Ahi, Genovesi, uomini diversi
     D’ogni costume e pien d’ogni magagna,
     Perchè non siete voi del mondo spersi?

(Dante, Inferno, c. XXXIII. v. 151-153).

Ai genovesi come in generale ai liguri si applica l’emistichio virgiliano [p. 305 modifica]

960.   Adsuetum (que) malo Ligurem.11

(Virgilio. Georgiche, lib. II, v. 168).
che però deve intendersi per assuefatto alla fatica, e alla vita misera, perchè parco e laborioso, non abituato al mal fare, come per malizia o per scherzo talora s’interpreta.

Passiamo in Lombardia, dove potremo, date certe benigne circostanze (p. es. quando non piove o quando non c’è la nebbia), anche ammirare il cielo,

961.   Quel cielo di Lombardia, così bello quand’e bello.

(Manzoni, Promessi Sposi, cap. XVII).

Una entusiastica descrizione delle pianure lombarde l’abbiamo nel celebre coro dei Crociati, nel melodramma di Temistocle Solera, I lombardi alla prima crociata, musicato dal Verdi (a. IV. s2. 2), che comincia:

O Signore, dal tetto natio,

e dove sono i seguenti versi:

962.   O fresc’aure volanti sui vaghi
     Ruscelletti dei prati lombardi!...
     Fonti eterne!... purissimi laghi!...
     O vigneti indorati dal Sol!

Uno fra questi purissimi laghi è il:

963.   Vago Èupili mio.

che il Parini ricorda nell’ode La vita rustica (str. 5):

          Colli beati e placidi
          Che il vago Èupili mio,
          Cingete con dolcissimo
          Insensibil pendio.

e anche nell’ode La salubrità dell’aria (str. prima):

          O beato terreno
          Del vago Èupili mio.

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L’Èupili è il laghetto di Pusiano, in Brianza, sulle cui sponde sorge Bosisio, terra natale del Parini: piccolissimo lago, e ben lontano da gareggiare in dimensioni col Lario, col Verbano, e soprattutto col massimo lago d’Italia, il lago di Garda o Benaco, cui Virgilio rivolgeva la nota apostrofe:

964.   Fluctibuset fremitu adsurgens, Benace, marino.12

(Georgiche, lib. II, v. 160).

e che Dante con mirabile precisione descrisse nella terzina:

965.    Suso, in Italia bella giace un laco
     A piè dell’Alpe, che serra Lamagna
     Sovra Tiralli, c’ha nome Benàco.

(Inferno, c. XX, v. 61-63).

in cui anche le frasi staccate d’Italia bella e dell’Alpe che serra Lamagna sono ugualmente famose. Le polemiche sulla retta interpretazione di quest’ultima frase e del nome di Tiralli, interpretazioni così semplici se cercate in buona fede, che l’una è la superba giogaia delle Retiche dove s’apre il passo del Brennero, l’altra è la rocca di Tirolo, sopra Merano, culla e dimora dei Conti che ne presero il nome, durarono a lungo alimentate dalla passione politica dei pangermanisti: ma ormai sono sorpassate. Si veda l’esauriente scritto del senatore G. Mazzoni, "L’Alpe che serra Lamagna" nell’Archivio per l’Alto Adige, vol. II, pag. 5 sgg.. III, pag. 1 sgg.

Gemma del Garda è la vaghissima penisola di Sirmione, cara a Catullo:

966.   Peninsularum Sirmio insularumque Ocelle.13

(Catullo, Carmina, XXXI).

Non lasceremo la Lombardia senza un saluto alla citta dei tre T, i cui abitanti

967.   Cremonesi mangia-fagiuoli.

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sono così chiamati per una tradizione che si vuol far risalire al Tassoni, il quale nella Secchia Rapita (c. V, ott. 63) dice dei cremonesi guidati da Buoso Dovara:

          Con quattro mila suoi mangia-fagiuoli
          Stava Bosio Duara alla campagna.

Certamente il Tassoni o altri per lui, fece un giuoco di parole tra mangia-fagiuoli (magna-fasoeu in dialetto) e l’appellativo di Magna Phaselus, che da tutti gli antichi storici è concordemente dato alla città di Cremona per la sua configurazione ovale, rassomigliante ad una gran barca, di cui il famoso Torrazzo sarebbe l’albero maestro, il Castello la poppa, Porta Mora la prua, le mura i fianchi (A. Mandelli nella Rivista delle Tradizioni Popolari Italiane, Anno II, 1895, p. 257).

Avanziamo verso levante; sorvoliamo su

968.   Brescia la forte, Brescia la ferrea,
     Brescia leonessa d’Italia
     beverata nel sangue nemico.

(Carducci, Alla Vittoria, tra le rovine del tempio
di Vespasiano in Brescia
. Nelle prime Odi barbare).

versi anche più noti per l’episodio che a proposito di essi narra il Carducci medesimo nell’Eterno femminino regale (nelle Confessioni e battaglie; Opere, vol. IV, pag. 340); ma nei quali egli non fece che ripetere la frase dell’Aleardi (poeta che pure non era nelle simpatie del Carducci):

               ....dietro a la pendice
     D’un de’ tuoi monti fertili di spade,
     Niobe guerriera de le mie contrade,
     Leonessa d’Italia,
     Brescia grande e infelice.

(Canti patrii. - Le tre fanciulle, str. 1).

Ritorniamo ora sul lago di Garda e dalla punta settentrionale di esso, da Riva, la perla del Garda (come cantò Giovanni Prati risalendo verso Rovereto e insinuandoci nella valle Lagarina che si stende a monte della Chiusa Veronese verso Trento, vicino a [p. 308 modifica]

969.              .... Quella ruina che nel fianco
Di qua da Trento l’Adice percosse,
O per tremuoto o per sostegno manco.

(Dante, Inferno, c. XII, v. 4-6).

che per consenso oggi quasi unanime dei commentatori, concordi in questo con i più antichi, non escluso Piero, il figlio di Dante, si ritiene indicare gli Slavini di Marco, una morena glaciale ingigantita dallo scoscendimento della montagna, che ingombra di macigni la valle per più miglia e prende il nome dal villaggio di Marco, posto a mezzogiorno di quella rovina. La tradizione, non priva di verisimiglianza, della dimora di Dante nel Trentino, portò anche alla supposizione, assai meno fondata, del soggiorno di lui presso i Castelbarco nel castello di Lizzana, che sta a nord degli Slavini e dove nel 1897 fu inaugurata una iscrizione, molto discussa, la quale arditamente afferma Dante aver dai suoi spalti cantato la ruina, ecc. Su questo passo famoso, più che per la sua bellezza, per le molte dispute a cui dette origine, si veda E. Lorenzi, La “ruina di qua da Trento” (Trento, 1896) dove sono diligentemente riassunte le varie opinioni: si noti che il Lorenzi sostiene l’altra interpretazione che pure ebbe molti seguaci e che vuol riconoscere la ruina dantesca nella frana del Cengio rosso che sta nella stessa valle, più a settentrione, poco a monte di Rovereto; si veda pure Dante e il Trentino, di Gius. Zippel (Firenze, 1920; nella Lectura Dantis).

La regione dove ci troviamo, è abitata da una buona, gagliarda e patriottica popolazione, riunita dopo lunga attesa alla patria e che anche negli anni in cui era da lei divisa diceva di sè:

970.   Italiani noi siam, non Tirolesi.

ripetendo un famoso verso di un sonetto di Clementino Vannetti, diretto nell’agosto 1790 all’amico suo Antonio Morocchesi, celebre comico. Il sonetto comincia:

     Del Tirolo al governo, o Morocchesi,
     Fur queste valli sol per accidente
     Fatte suddite un dì; del rimanente
     Italiani noi siam, non Tirolesi.

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Infatti la città di Rovereto, patria del Vannetti, soltanto dal 1509 era diventata suddita della tedesca contea del Tirolo. Quanto al Principato vescovile di Trento, esso rimase indipendente sino dopo le guerre napoleoniche.

Questo sonetto non si trova stampato negli otto volumi delle Opere del Vannetti, pubblicati per cura dell’Accademia di Rovereto (Venezia, 1826-1831), e nemmeno nei due di Prose e Poesie inedite (Milano. 1836): circolò per molto tempo in copie a mano, finchè non fu stampato per la prima volta, credo, nell’opuscolo: Lettere inedite di Clementino Vannetti all’ab. Franc. Pederzani di Villa Lagarina (Rovereto, Sottochiesa, 1869). Il nome di «Trentino», usato oggi a designare quella italiana regione in luogo di quello artificioso e in ogni modo più generale e più indeterminato di «Tirolo meridionale» o «Tirolo italiano», non è di creazione recente, come molti scrittori tedeschi, per ragioni politiche, sostennero. Ne dette le prove Giovanni Pedrotti in uno scritto Sull’uso della parola “Trentino” nei vecchi scrittori della nostra regione, nella rivista Pro Cultura, Luglio-Settembre 1913, pag. 250 e segg., e la prima autorità da lui invocata è il naturalista Pier Andrea Mattioli, del sec. XVI, senese di nascita ma trentino per elezione. Con ogni diritto quindi rivendicava dinanzi al nostro Parlamento il venerando presidente della Camera elettiva, l’on. Giuseppe Marcora, il

971.   Trentino nostro.

parole da lui dette nella tornata del 27 luglio 1905, commemorando Ettore Socci che: “Milite della patria, è, nel 1866, appena ventenne, sulle balze del Trentino nostro, con Garibaldi” (Atti Parlam., Discussioni della Camera dei Deputati, Sess. 1904-5, vol. IV. pag. 5301). La frase Trentino nostro passò allora inosservata dalla stampa, ma fu invece rilevata da alcuni trentini residenti a Roma i quali si affrettarono a telegrafare al Marcora in termini: “Al Presidente on. Marcora che commemorando le nobili gesta di Ettore Socci disse al Parlamento italiano: Egli ha combattuto nel Trentino nostro, mandano i Trentini residenti in Roma riconoscenti delle fiere e sante parole plauso e fervide grazie.” Il telegramma pubblicato dai giornali richiamò, com’era naturale. [p. 310 modifica] l’attenzione dell’ambasciatore e del governo austriaco, il quale fece chiedere al governo italiano, allora presieduto dall’on. Fortis, spiegazioni in forma che si disse molto recisa, insistendo l’Austria sulla gravità delle parole pronunciate da un’alta autorità come quella del presidente della Camera italiana. Le trattative non furono nè brevi nè facili e finalmente l’incidente fu chiuso con un comunicato dell’ufficioso giornale di Vienna Fremdenblatt del 25 agosto (riprodotto nei giornali italiani del giorno successivo), nel quale si annunciava che il governo italiano, «dopo di avere inteso il presidente, della Camera che escluse ogni intenzione irredentista, ma tenendo conto del penoso risentimento propagatosi in Austria-Ungheria si affrettò ad esprimere colla lealtà che lo distingue al nostro rappresentante in Roma il sincero rincrescimento del governo italiano a tale riguardo». L’incidente si era chiuso assai meglio che per Sebastiano Tecchio il quale essendo presidente del Senato, commemorando il trentino Giovanni Prati nella tornata del 12 maggio 1884, aveva parlato del pensiero crudele che inacerbiva l’animo del Prati, la servitù delle balze native, del suo voto che «il Trentino fosse tolto agli estranei, e alla madre patria restituito», della fiducia che l’Italia com’egli l’augurava, abbia ad essere tutta nostra. Il Depretis obbligò il Tecchio a dimettersi, ciò ch’egli fece il 16 luglio, motivando con la grave età e la malferma salute le dimissioni che però, a mascherarne le ragioni vere, non furono accettate che con decreto del 27 novembre. Sorvoliamo sulle terre della Venezia propria: non si dica il Veneto, brutta parola entrata in uso come ingrata memoria della consuetudine austriaca che chiamava le provincie venete e lombarde il Lombardo-Veneto (il regio decreto del 19 maggio 1912 che sopprimeva gli antichi commissari distrettuali delle provincie venete e istituiva le nuove sottoprefetture, vi sostituiva ufficialmente il nome di Venezia); ricordiamoci pure che questa ubertosa regione fu ben descritta da Giovanni Rucellai nel poemetto didascalico Le Api (v. 54-56):

972.                                       ....(Del) Il bel paese,
Ch’Adige bagna, il Po, Nettuno e l’Alpe
Chiudon....

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e spingiamoci fino alla spiaggia del mare: eccoci là dove

973.    Rotta dal vento nell’adriaco lido
Sempre è l’onda del mare, e par che pianga.

(G. B. Niccolini, Antonio Foscarini,
tragedia, a. II. sc. 3).

Siamo sulle rive dell’

974.   Amarissimo Adriatico.

come disse Gabriele d’Annunzio. L’11 gennaio 1908 al Teatro Argentina in Roma alla presenza dei Sovrani si dava con enorme successo la prima rappresentazione della Nave di Gabriele d’Annunzio, al quale pochi giorni dopo, il 15, per iniziativa del giornale Il Tirso era offerto un banchetto dalla stampa romana e da un gruppo di ammiratori e di amici: tra gl’invitati il ministro Rava. Ai brindisi il Poeta, ricordato un singolar costume dei Veneti primi, i quali ogni notte portavano le arnie delle loro api sulle navi risalendo i fiumi perchè le api trovassero ogni giorno pasture nuove, continuò: «Ecco che anch’io, oggi, per voi, amici e compagni, ho la mia Nave carica del miele più diverso. Assaporo con gioia l’insolita larghezza e ne spero i più attivi fermenti. Ma il fedele bevitore di acqua, infondendone una stilla nel vino che vorrebbe nato dalla più schietta e profonda vite laziale, beve da Roma, in compagnia di buoni italiani d’ogni terra, beve da Roma all’amarissimo Adriatico». - «L’Ambasciatore d’Austria-Ungheria, a Roma, fece un casus belli dell’amarissimo Adriatico: - così narra Silvio Ghelli in Austria nemica (Milano, 1916, a pag. 116) — la stampa austriaca gonfiò l’aggettivo al punto di chiedere la testa dell’on. Rava, perchè, nella sua qualità di Ministro, non aveva fatto diventar dolce l’amaro!... Richiesto il d’Annunzio del significato dell’amarissimo, scrisse: è chiaro e ovvio a tutti quanti sono ancora buoni italiani in Italia, il senso sin troppo aperto e manifesto dell’allusione. L’amarezza, quindi, dell’Adriatico, deve venir riferita solo a quel nostro polmone sinistro ammalato, che travaglia e rende perpetuamente inferma, nella sua costa orientale, la vita della moderna Italia».

Qui su cento isolette sorge dal mare in una festa di colori

975.   La gran mendica.

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com’è più volte chiamata Venezia nell’ode Venezia e Milano, giudicata il capolavoro di Goffredo Mameli, e scritta per un’accademia data al teatro Carlo Felice di Genova, dopo l’armistizio Salasco, a beneficio dell’eroica città, bombardata, affamata, decimata dal colera.

La città ricca di glorie nuove (e l’ultima guerra aggiunse altre fronde alla sua corona), porta degnamente l’onore delle glorie antiche, del tempo in cui essa era la signora dei mari, in cui vasti domini di terraferma e d’oltremare riconoscevano l’imperio dei buoni Veneziani. E donde questo epiteto di buoni? Venezia sul principio del sec. XV aveva tolto con le armi agli Imperiali e al Patriarcato di Aquileja tutto il Friuli e non restava che la Comunità dei Cadorini la quale innanzi di sottomettersi a S. Marco volle prima essere sciolta dal vincolo del giuramento di fedeltà che la legava al Patriarca. E poi che questi la mise in pieno arbitrio di disporre di sè medesima, fu convocata la generale assemblea per deliberare; e fu dapprima deciso di pregare Dio perchè in così grave frangente illuminasse le menti dei consiglieri. «Era di que’ tempi in Valle, borgo intorno a due millia da Pieve [di Cadore] - narra mons. Giuseppe Ciani nella Storia del Popolo Cadorino, vol. I, pag. 395 (Padova, 1856) — una Cappella consacrata nel titolo dello Spirito Santo: a quella i sedenti in Consiglio mossero concordi; e fatta quivi cantare la Messa dello Spirito Santo, pregato ed invocato il divino suo lume, si restituirono nella sala da cui erano due ore prima partiti. Messisi tutti al loro posto, non più discussioni, non dispareri; sì levossi un grido unanime:

976.   Eamus ad bonos Venetos.14

e questo grido fu più volte ripetuto: Eamus ad bonos Venetos; andiamo a’ buoni Veneziani. Uno de’ Consiglieri, spalancata una delle finestre che guardavano la piazza: Eamus (gridò con voce più alta che potè), eamus ad bonos Venetos: e il popolo, di che era piena la piazza: Benissimo (gridò), benissimo, eamus ad bonos Venetos: questo da tanto tempo il nostro voto.» Ciò accadeva in uno degli ultimi giorni del luglio 1420. [p. 313 modifica]

Entriamo nella Venezia Giulia (nome suggerito dall’illustre filologo Graziadio Ascoli, di Gorizia, in un articolo Le Venezie, pubblicato, senza firma, ne l’Alleanza di Milano, del 23 agosto 1863, e nel Museo di Famiglia, pure di Milano, stessa data) e salutiamo la nobilissima città oggi ricongiunta alle sorelle italiane, Trieste, la

977.   Fedele di Roma.

È noto che in tempi più oscuri per l’Italia l’imperatore d’Austria Francesco I aveva conferito a Trieste, con suo motuproprio del 7 agosto 1818, il titolo di Città fedelissima e un nuovo stemma con l’alabarda triestina sormontata dal capo dell’impero. Ma col risvegliarsi del sentimento nazionale quel titolo pesava sui Triestini che fecero di tutto per smentirlo. In un indirizzo al dittatore Garibaldi, del luglio 1860, le donne triestine scrivevano: «Il dispotismo austriaco.... dopo averla asservita (Trieste) in onta ai più solenni patti, adoperò per anni ed anni ogni arte e prepotenza a spegnerne le naturali aspirazioni di civile e morale progresso ed a rapirle costumi e linguaggio; non ne volle risparmiato l’onore e la chiamò fedelissima!» (Il Diritto d’Italia su Trieste e l’Istria, documenti, Torino. 1915. pag. 314). E in quell’anno medesimo Cavour, scrivendo a Valerio, Regio Commissario straordinario nelle Marche: «È utilissimo il mantenere buone ed attive corrispondenze con Trieste che, da quanto mi si dice, si fa meno fedelissima e più Italiana» (C. Cavour, Lettere edite ed inedite, racc. ed illustr. da L. Chiala, voi. IV, Torino, 1885, pag. 79).

Di questa insofferenza di Trieste si faceva interprete molti anni dopo il poeta della Terza Italia, Giosuè Carducci, il quale nell’Ode A Victor Hugo (xxvii febbr. mdccclxxxi) strofa 9, diceva:

Poeta, su ’l tuo capo sospeso ho il tricolore
     Che da le spiagge d’Istria da l’acque di Salvore
     La fedele di Roma, Trieste, mi mandò.

Quest’ode «letta - com’è detto in una nota preposta alla stampa - in un banchetto che alcuni ammiratori della grande arte e amici della Francia tennero in Bologna per festeggiare l’ottantesimo (leggi 79°: Hugo era nato il 26 febbraio 1802) anniversario del poeta», uscì subito in un opuscoletto edito dallo Zanichelli, poi fu riprodotta nelle Rime nuove e finalmente nelle Poesie, edizione [p. 314 modifica] definitiva, pag. 716. La frase naturalmente ebbe fortuna, data la fama del Carducci e la venerazione di cui fin d’allora era circondato fra gl’irredenti; il Carducci stesso la riaffermava molti anni dopo, ormai vecchio e malato, quando il 17 giugno 1905 il prof. Giacomo Venezian (poi eroicamente caduto sul Carso) fu incaricato di presentargli la medaglia d’oro offertagli dalla città di Trieste e si recò per assolvere questo incarico a Lizzano in quel di Cesena ove il poeta era ospite della famiglia Pasolini-Zanelli. E dopo che il Venezian gli ebbe presentata la medaglia accennando a un rescritto della Direzione di Polizia in Trieste che parlando di Trieste la indica come città austriaca, «il Poeta sorse in piedi esclamando: — No, città austriaca! La più italiana delle città italiane! La fedele di Roma! — E aggiunse: Dite a Trieste che sento profondamente con tutta l’anima mia quello che è l’anima e il pensiero di Trieste.... — Ma tanta era la commozione del Poeta che le parole gli furono troncate da uno scoppio di pianto» (Corriere della Sera, di Milano, del 19 giugno 1905). Ed infatti Trieste che da parecchi anni aveva affermato la sua recisa volontà di essere italiana e di restare italiana, già da gran tempo prima non aveva in nessuna circostanza smentito il tenace attaccamento alla sua stirpe, alla sua lingua: «Cum latini simus, linguam ignoramus theutonicam, protesta il Comune di Trieste nell’anno 1523 allorchè, per compiacere agli Stati provinciali della Carniola, si volevano imporre a’ Triestini atti processuali in lingua tedesca. E nuovamente nel 1524: quia civitas tergestina est in finibus et limitibus Italiæ, omnes cives et ibidem oriundi habent proprium sermonem et idioma italicum» (Hortis, Per la Università Italiana di Trieste, discorso. Trieste 1902, pag. 11). E non altrimenti ai giorni nostri

978.              Nella patria de Rosseti
               No se parla che italian!

È nel ritornello di una famosa canzonetta del poeta triestino vivente Giulio Piazza (Macieta) intitolata Lassè pur....: fu premiata in un concorso indetto dal Circolo Artistico di Trieste nel 1893 e musicata dal maestro Silvio Negri, divenne subito popolarissima, e a Trieste come nell’Istria, a Fiume, in Dalmazia, durante l’ultimo venticinquennio della invisa dominazione austrìaca, fu cantata per [p. 315 modifica] le vie ad ogni dimostrazione politica e lanciata come una sfida sotto il naso dei poliziotti. Il ritornello completo è:

          Lassè pur che i canti e i subii
               E che i fazzi pur dispeti:
               Nella patria de Rosseti
               No se parla che italian!

Occorre appena ricordare che Domenico Rossetti, illustre giurista e storiografo triestino (1774-1842), è considerato il precursore e vessillifero del nazionalismo italiano a Trieste. La canzonetta del Piazza, che con la musica del Negri figura tra le edizioni Ricordi, è stata stampata più volte e anche nella recentissima antologia della poesia dialettale triestina, Trieste vernacola, compilata dal Piazza medesimo (Milano, Casa ed. Risorgimento, 1920), a pag. 53. È interessante anche ciò che in proposito racconta Alberto Manzi in un pregevole scritto La canzone della italianità in Austria (ne La Lettura, maggio 1915, pag. 415): «La canzone divenne l’Inno degli italiani: e ogni città dell’Istria e della Dalmazia l’adattò e l’adottò contro il nemico comune. Il nome di «Rossetti». che la rende locale, vien facilmente sostituito: a Gorizia con Favetti. a Fiume con Peretti, ecc. Quando non c’è un nome prosodiacamente sostituibile, si modificano gli ultimi versi, come a Zara:

               . . . . . . . . . . . .
               che i fazzi pur la spia:
               Ne la patria de Paravia
               No se parla che italian!»

Dalla ricordata raccolta del Piazza (pag. 56) tolgo questi altri due versi, che i recenti avvenimenti resero anche più popolari:

979.    Vegnarà quel gran momento
Che a Trieste se sarà.

Sono essi pure nel ritornello di una canzonetta vernacola, L’arrivo del Vapor, di Felice di Giuseppe Venezian (cugino ed omonimo di quel Felice che fu capo e guida del partito nazionale triestino), il quale firmava col trasparente pseudonimo Un Venezian triestin. Il senso nascosto dei due versi era palese a tutti.... tranne alla polizia austriaca, che non ostante i suoi occhi d’Argo, non capì o [p. 316 modifica] finse di non capire l’allusione politica e lasciò correre. Il ritornello, durante la guerra, in Italia fu stampato sulle cartoline illustrate:

          Deghe drento, deghe drento,
               Se sfadiga, ma se va;
               Vegnarà quel gran momento
               Che a Trieste se sarà.

E quel gran momento venne il 3 novembre del 1918; ma il povero Venezian che l’aveva vaticinato, già da 22 anni dormiva sotterra.

Lasciamo ora le tre Venezie, ma prima di entrare nella Italia centrale, incontriamo Rovigo, così a torto bistrattato nei versi:

980.    Qui tra l’Adige e il Po giace sepolto,
     Scheletro di città, Rovigo infame.

È il principio di un sonetto, troppo famoso, composto a vituperio di Rovigo da ignoto poetastro di Adria verso il 1726, episodio della lunga e asprissima contesa fra le due città per la sedia episcopale. Vedasi l’opuscolo del signor A. E. Baruffaldi, L’origine dei versi citati di sopra (Badia Polesine, 1898).

Parma era famosa presso gli antichi per le sue lane:

981.   Tondet et innumeros Gallica Parma greges.15

(Marziale, Epigr., lib. V, ep. 13, v. 8).

Reggio e Modena sono ricordate dall’Ariosto:

982.   Reggio giocondo e Modona feroce.

(Orlando Furioso, c. III, ott. 39).

e quest’ultima città è vituperata dal Tassoni (La Secchia Rapita, c. II, ott. 63) il quale, a cagione del lordume delle strade, la chiama:

983.   Città fetente.

Il Tassoni, benché modenese, era pochissimo tenero della sua città come lo prova il famoso sonetto caudato ch’egli compose in [p. 317 modifica] odio di lei, notissimo in Modena e ancor più fra gli abitanti dei paesi vicini, e di cui è soprattutto popolare la prima quartina che si cita in diverse lezioni più o meno esatte ma di cui il vero testo è il seguente:

          Modena è una città di Lombardia,
               Che nel pantan mezza sepolta siede,
               Ove si suol sm... da capo a piede
               Chi s’imbatte a passar per quella via.

Il sonetto fu pubblicato, credo per la prima volta, da G. A. Barotti nelle annotazioni alla Secchia, loc. cit., ediz. di Modena, Soliani, 1744, pag. 81, dove altre cose si dicono sulla sporcizia della città di Modena a’ tempi del Tassoni.

Pisa giace ancora sotto il peso dell’imprecazione dantesca:

984.    Ahi, Pisa, vituperio delle genti
     Del bel paese là, dove il suona.

(Dante, Inferno, c. XXXIII, v. 79-80).

nè più benevolo è l’Alighieri verso Lucca, di cui egli dice che

985.    Ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
     Del no per li denar vi si fa ita.

(Inferno, c. XXI, v. 41-42).

(cioè si) e l’atroce sarcasmo di questi versi salta fuori sapendo che Bonturo Dati, qui menzionato, fu tristissimo barattiere a’ suoi tempi. Ma Dante a pochi la perdonò: ebbe una punta feroce per i Sanesi,

986.                       .... Or fu giammai
Gente sì vana come la Sanese?

(Inferno, c. XXIX 121-122).

e non disse bene neppure della sua patria, alla quale con amara ironia si rivolge dicendo:

987.    Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
     Che per mare e per terra batti l’ali,
     E per lo inferno tuo nome si spande!

(Inferno, e. XXVI. v. 1-3).

e infatti Dante mette dei fiorentini in tutti i cerchi dell’Inferno. [p. 318 modifica]

Invece Firenze è chiamata:

988.    L’elegante città, dove con Flora
Le Grazie han serti e amabile idioma.

nel carme di Ugo Foscolo, Le Grazie (secondo il testo edito dal Chiarini, inno II, v. 25-26). Ai fiorentini ed alla loro parlata, che fra tutte quelle della Toscana si distingue per le forti aspirazioni, e che Vittorio Alfieri, nel principio del sonetto scritto per la soppressione dell’Accademia della Crusca (vedi nelle Opere scelte, ediz. de’ Classici Italiani, vol. III, pag. 490), chiamava

989.   L’idioma gentil sonante e puro.

(è noto che delle prime parole di questo verso Edmondo De Amicis fece il titolo di un suo volume sulla questione della lingua, pubblicato nel 1905), si addice pure l’altra frase dantesca:

990.                                 .... Fiorentino
Mi sembri veramente quand’io t’odo.

(Inferno, c. XXXIII, v. 11-12).

991.   Botoli ringhiosi.

chiama Dante gli aretini:

          Botoli truova poi, venendo giuso,
               Ringhiosi più che non chiede lor possa.

(Purg., e. XIV, v. 46-47).

e un antico commentatore fiorentino annota, che Dante così li chiama «perchè hanno maggiore l’animo che non si richiede alle forze loro; et ancora perchè è scolpito nel segno loro A cane non magno saepe tenetur aper». Ma il Sacchetti invece afferma che «furon sempre chiamati can botoli...; poichè sanza intelletto abbaiano, s’e’ lor signori non li battono, e per lo battere si rimangono dall’abbaiare, e dopo le battiture stanno più soggetti e con più amore che non essendo battuti» (Sermoni evangelici, ed. 1857, pag. 180).

Per le Romagne, me la leverò ricordando soltanto una delle sue città nel verso

992.   Dunque ti lascio, o Rimini diletta.

(Pellico, Francesca da Rimini, a. V, sc. 2).
[p. 319 modifica]

che si ripete anche per celia dovendo lasciare una residenza qualunque: salutiamo l’Umbria coll’apostrofe carducciana:

993.   Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte
     Nume Clitumno!

(Carducci, Alle fonti del Clitumno, nelle Odi barbare).

e passiamo a volo sulle vicine Marche, dove noteremo il

994.   Natìo borgo selvaggio.

Così nel 1829, tornato dopo l’assenza di alcuni mesi a Recanati, chiamava Giacomo Leopardi il suo paese natale nel canto Le Ricordanze. Nè molto più lusinghiero è il seguito:

                    ....intra una gente
     Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
     Argomento di riso e di trastullo,
     Son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
     Per invidia non già, che non mi tiene
     Maggior di sè, ma perchè tale estima
     Ch’io mi tenga in cor mio....

Il soggiorno di Recanati, così caro a Monaldo Leopardi, era odiosissimo ai figli di lui. Paolina, la sorella di Giacomo, lo diceva «soggiorno abbominevole ed odiosissimo» (in una lettera alla Marianna Brighenti del 1830); l’altro fratello Carlo desiderava che un terremoto la distruggesse perchè gli abitanti andassero a incivilirsi altrove!

Eccoci a Roma, dove tutto dovrebbe sorridere alla vita se fossimo ancora ai tempi di Pollione e di Adalgisa che nel melodramma Norma, di F. Romani, musica di V. Bellini (a. I, sc. 6), cantano in un famoso duetto:

995.    Vieni in Roma, ah vieni, o cara,
     Dove è amore, è gioia, è vita!

Molte frasi, dal patrimonio delle popolari reminiscenze su Roma, possono desumersi dal libro di Marco Besso: Roma e il Papa nei proverbi e nei modi di dire (nuova ediz., Roma, 1904), più volte [p. 320 modifica] citato in queste pagine. Noi ricorderemo soltanto i più noti degli attributi che i classici scrittori dettero alla eterna città,

996.   Roma æterna.16

come la disse Tibullo (Carmina, lib. II, od. 5, v. 23); ma altri la chiamarono anche: Aurea Roma — prima inter urbes — Divûm domus (Auson., Clarae Urbes I); Roma pulcherrima (Virg., Georg., 2, 534); Roma dea terrarum gentiumque (Mart., Epigr., 12, 8); Roma superba (Propert., ed. Tauchnitz, 3, 11, 60); Roma beata (Horat., Od., 3, 29, 11); Roma princeps urbium (Hor., Od., 4, 3, 13); Roma ferox! (Hor., Od., 3, 3, 44); Roma caput orbis terrarum (Liv., Hist., 1, 16); Roma Urbs regum (Cyneae dictum ap. Justin., Hist., 18, 2 10); Roma septemgemina (Statius, Silv., 1, 2, 191); Roma caput mundi (Lucan., Pharsal., 2, 655); Urbs caput rerum (Tacit., Hist., 2, 32); Roma marmorea — ab Augusto relicta (Sveton., Aug., cap. 29). Le parole Roma caput mundi, con l’aggiunta regit orbis frena rotundi, si leggevano in giro alla corona d’oro seminata di gemme che Diocleziano si era fatta a imitazione dei Re di Persia (Gregorovius, Storia della città di Roma nel medio evo, trad, ital., Venezia, 1873, to. III, p. 569, dove si cita come fonte la Graphia aurea urbis Romae). Lo stesso verso è scritto più tardi sulle monete del Senato Romano. Fu poi adoperato da Corrado II (1024- 1039) nelle bolle d’oro e fu mantenuto come impresa del Sacro Romano Impero, con qualche interruzione, sino a Federico III che fu l’ultimo imperatore coronato a Roma.

Roma ispirò Vincenzo Monti, quando alla ombra del trucidato Bassville faceva cantare:

997.    Stolto, che volli coll’immobil fato
     Cozzar della gran Roma, onde ne porto
     Rotta la tempia, e il fianco insanguinato;
Chè di Giuda il Leon non anco è morto;
     Ma vive e rugge, e il pelo arruffa e gli occhi.

(In morte di Ugo Bassville, c. III, v. 7-14).
[p. 321 modifica]

e Byron la chiamò:

998.   The Niobe of nations.17

(Childe Harold’ s Pilgrimage, canto IV, str. 79).

mentre Gilbert la diceva:

Veuve d’un peuple roi, mais reine encore du monde.

Che cosa fosse la vita a Roma prima del 1870, è espresso nei celebri versi di G. G. Belli:

999.    .... A sto paese ggià tutt’er busilli
Sta in ner vive a lo scrocco e ffà orazzione.

Sono in un sonetto di lui delli 8 gennaio 1832, intitolato: La Sala de Monsignor Tesoriere.

Le aspirazioni politiche degli Italiani su Roma, designata capitale naturale d’Italia fin dal 1861, hanno dato origine ad alcune frasi. Cominciamo dal

1000.   Roma o morte.

che fu il grido di guerra della sventurata impresa di Aspromonte, come alcuni anni più tardi di quella non meno infelice di Mentana. L’ordine del giorno del I° agosto 1862, scritto da Giuseppe Civinini, segretario di Garibaldi, e letto dal generale ai volontari assembrati nei boschi della Ficuzza presso Palermo, cominciava appunto con la formola: Italia e Vittorio Emanuele, Roma o Morte. Ma queste ultime parole avevano avuto origine a Marsala dove Garibaldi si era recato per colorire il suo disegno.

«Risoltosi infatti a visitare i luoghi della epopea del 1860, tocca Alcamo, Partinico, percorre, esaltandosi a quei ricordi gloriosi, il campo di Calatafimi, fa una punta a Corleone, a Sciacca, in Mazzara, di là ripiega su Marsala, dove parendogli bello riprendere da “quella terra di felice augurio il tronco cammino”, annunzia, più categoricamente che fino allora non avesse fatto, il suo fermo proposito di marciare all’impresa di Roma, ed apertamente invita i Siciliani a dar di piglio allo armi ed a seguirlo. E poichè a quel [p. 322 modifica] bellicoso appello, una voce ignota dalla folla plaudente sclamò: Roma o Morte. — Sì, - ripetè più volte il Generale, - o Roma o Morte; — e questo grido, uscito forse dalle labbra inconscie d’un picciotto o d’un pescatore marsalese, diventò da quell’istante, per il fato delle parole, il segnacolo in vessillo d’una delle avventure più cimentose a cui mai Garibaldi siasi accinto ed abbia tentato strascinare l’Italia» (Guerzoni, Garibaldi, vol. II, pag. 302-303). È dunque errata la lapide che si legge in Pescia, sulla facciata della casa Allegretti in piazza Vittorio Emanuele, secondo la quale quelle fatidiche parole sarebbero state pronunziate da Garibaldi in quella città quando vi si recò nel luglio 1867 (Biagi, In Val di Nievole, pag. 21). Il grido di Garibaldi doveva risuonare invano per molti anni, finchè nel 1870 le armi italiane non liberavano Roma dal governo teocratico. Ma se la forza degli avvenimenti aveva condotto gl’Italiani a Roma, il difficile, dopo esserci entrati, era di restarci: però fin dai primi mesi del nuovo regime una voce augusta aveva solennemente ammonito:

1001.   Ci siamo e ci resteremo.

Approvata dal Parlamento, ancora residente in Firenze, la legge detta delle Guarentigie, il re Vittorio Emanuele lasciò Firenze, e dopo una visita a Napoli entrò solennemente in Roma il 2 luglio 1871 fra indescrivibili manifestazioni di pubblica gioia. Il giorno appresso egli riceveva nel palazzo del Quirinale le deputazioni politiche e cittadine, e in quella occasione egli avrebbe pronunciato con ferma voce le solenni parole: A Roma ci siamo e ci resteremo, parole che ebbero un’eco potentissima in tutta Italia. Altri invece narrano che furono dette il 31 dicembre 1870 agli ufficiali superiori della Guardia Nazionale recatisi dal Re a ringraziarlo di essere accorso in Roma desolata dalla inondazione del Tevere; ma i giornali del tempo riportano in forma un poco diversa le parole reali in quella occasione: «Finalmente siamo a Roma: ed io l’ho tanto desiderato. Ora nessuno ce la toglierà».

Potremo metterci accanto l’Hic manebimus optime del quale ho già parlato (n. 344), e la frase:

1002.   Roma conquista intangibile.

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che s’incontra nel telegramma spedito da Umberto I in risposta a quello di felicitazioni del Municipio di Roma per il 20 settembre 1886, XVI anniversario della breccia di Porta Pia: «Rendo con tutta Italia omaggio alla memoria di coloro, che con tanti sacrifizi cooperarono alla intangibile conquista, oggi affidata al nostro senno, al nostro patriottismo, alla fedeltà, ai principii, sui quali si fonda il risorgimento italiano.» Dello stesso Umberto I si ricorda che già in una lettera del 4 febbraio 1875 aveva chiamato Roma suggello infrangibile dell’unità italiana. Per la storia della frase ricorderò che il Carducci chiudeva il suo magnifico discorso per l’ VIII centenario dello Studio di Bologna, pronunciato nell’Archiginnasio il 12 giugno 1888 alla presenza dei Sovrani, con queste parole: «Voi, Sire, fedele assertore di otto secoli di storia italiana, Voi, interprete augusto e mantenitore sovrano del voto di tutto il popolo vostro. Voi, con parola che suona alta nel conspetto del mondo, o Re, lo diceste: Roma, conquista intangibile. Si, o Re, conquista intangibile del popolo italiano, per sè e per la libertà di tutti». E come episodio ameno, aggiungasi che nel 1895 un industriale di Milano, il signor Carlo Bartezaghi, mise in circolazione delle medagliette di bronzo con la lupa e il motto Roma intangibile. Alcuni imbroglioni pensarono di dar loro una patina antica e di gabellarle ai minchioni come medaglie coniate durante l’effimera Repubblica Romana del 1798. Il bello si fu che diversi musei archeologici ci cascarono e che dei numismatici le presero sul serio e ci scrissero e stamparono delle memorie, annunziandole una scoperta importante!

Del resto chi oggi penserebbe sul serio a contrastare Roma all’Italia? Lo stesso partito cattolico, pure facendo ampie riserve sulla questione di diritto, si è acconciato al fatto compiuto. Al consiglio Comunale di Roma, il consigliere on. Egilberto Martire, leader del nuovo Partito Popolare Italiano poi anche deputato di Roma, nella seduta del 21 febbraio 1919, discutendosi la proposta di festeggiamenti internazionali per commemorare il 20 settembre 1920 il cinquantenario della riunione di Roma all’Italia, pronunciò un discorso che suscitò grandi clamori, svariati commenti, e anche le proteste della parte clericale più intransigente. L’on. Martire si associava alla proposta, sollecitando l’amministrazione comunale ad apprestare la commemorazione dell’anno [p. 324 modifica] prossimo, «ma a far sì che essa abbia questa precisa significazione di concordia, di energia, di unità nazionale», togliendole dunque ogni carattere anticlericale che non avrebbe ragion d’essere, poichè, egli concludeva, «vano e miserabile fu il sogno di coloro che credevano di potere offendere e schiacciare l’Idea religiosa attraverso la

1003.   Povera breccia di un piccolo muro.

perchè essi stessi possono ora con gli occhi smarriti constatare che oggi, più che cinquant’anni fa, l’Idea religiosa è più alta e più potente di prima, più forte e più vittorioso il Papato!». La frase rimase famosa: e il discorso suscitò lunghi commenti, sforzandosi ogni partito di interpretarlo secondo le proprie idee. Il discorso stesso fu integralmente riportato dal Corriere d’Italia del 23 marzo 1919, dalla Conquista del 2 marzo e dalla Civiltà Cattolica, nel quad. 1650 del 15 marzo 1919 (pag. 514) entro un articolo editoriale intitolato Una questione internazionale al Consiglio Comunale di Roma, scritto come s’immagina, in senso sfavorevole al giovane deputato, ma che è opportuno di leggere per la storia della polemica. Il testo della Civiltà Cattolica presenta delle varianti.

Scendiamo ancora nello Stivale italico, salutiamo l’

1004.   Abruzzo forte e gentile.

come si sogliono chiamare le tre provincie d’Abruzzo dopo che Primo Levi, direttore della Riforma, pubblicò con lo pseudonimo di Primo un volume di bozzetti intitolato appunto Abruzzo forte e gentile, impressioni d’occhio e di cuore (Roma, 1882), e giungiamo in riva al Tirreno nella incantevole Partenope, alle falde dello

1005.   Sterminator Vesevo.

(G. Leopardi, La Ginestra, ode).

che è, come tutti capiscono, il monte Vesuvio; e non lasceremo la città affascinatrice, e con lei la penisola, senza salutarla con le parole:

1006.   Addio mia bella Napoli.

che sono il titolo e il principio di una canzone popolare napoletana, d’ignoto autore, ridotta da Teodoro Cottrau per la raccolta [p. 325 modifica] celebre L’Eco del Vesuvio da lui edita; ma si trovano anche nella stretta finale del duetto fra basso comico e soprano nello spartito di Enrico Sarria, Il babbeo e l’intrigante.

Valicato il mare, prenderemo commiato dalla nostra bella patria salutando l’isola di Sardegna e i suoi forti abitatori, per i quali è glorioso ricordo l’antico proverbio:

1007.   Sardi venales (alius alio nequior).18

(Cicerone, Epist. ad Fam., lib. VII, ep. 24. 2).

comune presso gli antichi Romani a indicare cose di malagevole spaccio: e secondo Tito Livio (vedi nei suppl. del Freinshemio al lib. XX, cap. III) ebbe origine dopo il trionfo del pretore Tiberio Sempronio Gracco (a. 577 di Roma) che tornando dall’avere debellato la sedizione di Sardegna, ne trasse seco immenso numero di schiavi. «Contrapporsi potrebbe, è vero, all’autorità di Livio quella di Plutarco (Vita Romuli), il quale non agli schiavi di Sardegna, ma ai Vejenti della Toscana l’origine riferisce di tal motto, perchè i Toscani tutti da Sardi, città di Lidia, si diceano discendere. Io nondimeno porto opinione che nei detti volgari le facili letterali derivazioni siano da preporre a quelle più stentate, le quali col soccorso si sorreggono di recondite storiche origini: e giovami invece, più che il combattere l’opinione d’uno storico di tanto peso, come i nostri scrittori nazionali fecero finora, l’affrontare apertamente tutto il rigore di quella proverbiale ingiuria, ed accettarla non senza gloria, dicendo: poter agli schiavi della Sardegna convenire un motto attribuito ad un uomo straordinario della nostra età [Napoleone I] sugli schiavi d’un’isola alla Sardegna assai vicina. “Non lo niego, egli diceva, giammai i Romani comprarono schiavi della mia patria: essi sapevano che avrebbero tentato un’impossibil cosa nel farli piegare alla schiavitù.” (Mémorial de Sainte-Hélène, 29 mai 1816). Ed in verità io non posso che commendare i cittadini romani se nello scorrere le file degli schiavi venderecci, imbattendosi in qualcuno di quegli Iliesi e di quei Balari, e leggendo in quel loro cipiglio di libertà da essi non perduta nell’animo, aombravano a quel feroce aspetto, e giudicavano fra sè che non avriano il buon pro nel recarsi a [p. 326 modifica] casa quella generazione irrequieta, fatta per mettere a sbaraglio le loro docili gregge di schiavi. Si dica dunque essere pure stati gli schiavi sardi mercatanzia di mala vendita: ma dicasi del pari che non per altro caddero in tale discredito, che per aver sentito, a preferenza di tanti altri popoli di natura più tenera, quanto pugnassero questi due vocaboli, uomo e venale.» Così il barone Giuseppe Manno nella Storia di Sardegna, sua patria (ediz. di Capolago, 1840, to. I, pag. 91).

Rivalichiamo il Mediterraneo, quel Mediterraneo, le cui chiavi, secondo un illustre statista italiano, Pasquale Stanislao Mancini, avrebbero dovuto trovarsi nel Mar Rosso. Il Mancini infatti, rispondendo nella tornata (antimer.) della Camera dei Deputati del 27 gennaio 1885 ad alcune interpellanze sulla politica coloniale italiana, osservava: «Voi temete ancora che la nostra azione nel Mar Rosso ci distolga da quello che chiamate il vero e importante obiettivo della politica italiana, che deve essere il Mediterraneo. Ma perchè invece non volete riconoscere che nel Mar Rosso, il più vicino al Mediterraneo, possiamo trovare la chiave di quest’ultimo, la via che ci conduca ad una efficace tutela contro ogni turbamento del suo equilibrio? (Bene! bravo).» Tale è la origine della celebre frase:

1008.   Le chiavi del Mediterraneo sono nel Mar Rosso.

Rivalichiamo, dunque, il mare, ed eccoci in Francia. Ricordiamoci che qui, a detta dei francesi medesimi, di nulla più dobbiamo maravigliarci; si è attribuita al solito Talleyrand la frase:

1009.   En France tout arrive, surtout l’impossible.19

Ma non è roba sua; anche questa è una delle tante frasi, più o meno argute, di cui gli si è voluto affibbiare una paternità apocrifa. Infatti nei Mémoires di Pierre Lenet (ed. Michaud et Poujoulat, pag, 413) si legge che durante i tumulti della Fronda il duca de La Rochefoucald, tante volte citato in questa pagine come autore delle troppo famose massime, ebbe il 4 [p. 327 modifica] ottobre 1650 un abboccamento col suo potente avversario, il Mazarino, a Bourg presso Bordeaux. Il cardinale condusse seco alla messa in carrozza il duca e due persone del seguito (una delle quali era il Lenet medesimo), e mentre erano in via, disse sorridendo: «Qui auroit cru il y a quinze jours, voire huit, que nous eussions été tous quatre aujourd’hui dans un même carrosse? — Tout arrive en France, lui repartit le duc de la Rochefoucauld.» Si cita anche, con diverso concetto, l’inciso staccato:

Tout arrive.

Ricordiamoci che, volere o no, siamo in quella che è convenuto di chiamare

1010.   La grande Nation.20

Napoleone Bonaparte usò la frase in un suo proclama al Popolo Cisalpino prendendo da esso congedo per tornare in Francia, del 17 novembre 1797 (Lanfrey, Napoléon I, to. I, cap. X) e soleva ripeterla di frequente: vedi Las Cases, Memorial de Sainte- Hélène, sotto la data del 31 ottobre 1816; anche Napoleone III rivendicò al suo grande zio la paternità di questa frase in una lettera scritta a Rouher il 12 aprile 1869 per il centenario della nascita di Napoleone I. Tuttavia essa si trova già in Goethe, Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten von 1793 u. 1795 e in una lettera di Giuseppe De Maistre al barone Vignet des Etoles del 1794: vedi Glaser, Graf J.de Maistre, Berl., 1865, pag. 17.

Che i Francesi si credano realmente un popolo privilegiato e superiore a tutti gli altri, non è cosa d’oggi:

1011.   Gesta Dei per Francos.21

è il titolo di una raccolta di storici delle Crociate e del regno franco di Gerusalemme, pubblicata nel 1611 da Jac. Bongarsius. Il titolo della raccolta rivela lo spirito col quale fu fatta, cioè di mostrare nel popolo Francese uno strumento prediletto della Provvidenza.

La verità è che la Francia ha sempre destato tanto rancori quanto amori vivissimi. Quanti nel lasciarla non hanno mentalmente ripetuto le storiche parole: [p. 328 modifica]

1012.   Adieu, la France! Adieu, la France! je pense ne vous voir jamais plus.22

che sono le parole dette con animo presago da Maria Stuart nel lasciare il 14 agosto 1561 la terra di Francia (Brantôme, Vies des dames illustres, disc. III). I versi:

          Adieu, plaisant pays de France,
               O ma patrie
               La plus chérie!

sono invece di un giornalista, G. Meusnier de Querlon, che li pubblicò nel 1765 attribuendoli alla sventurata regina (Dict. of Nat. Biogr., vol. XXXVI, p. 389).

Di frasi italiane sui francesi è spiacevole che il mio taccuino non ricordi che gli sgarbati epigrammi di Vittorio Alfieri:

1013.              Sempre insolenti
               Coi Re impotenti:
          Sempre ridenti
               Coi Re battenti:
          Talor valenti;
               Ma ognor serventi,
          Sangue-beventi,
               Regi stromenti.

L’Alfieri ne fece l’epigrafe al rame allegorico che serve d’antiporta alle stampe del Misogallo. Nel medesimo libro un altro epigramma dello stesso autore che ha il num. VIII e la data del 23 marzo 1793 suona:

1014.         Tutto fanno, e nulla sanno;
     Tutto sanno, e nulla fanno:
     Gira, volta, e’ son Francesi;
                    Più li pesi,
                    Men ti danno.

[p. 329 modifica]

Invece, della Germania ho, in questo capitolo, meno agri ricordi: e per prima, l’arguta definizione che della Prussia ha dato, come si crede, Victor Cousin:

1015.   La Prusse, le pays classique des écoles et des casermes.23

e poi la spavalda frase di Bismarck detta nel Reichstag tedesco il 6 febbraio 1888, a proposito dell’attitudine minacciosa della Russia di fronte alla Germania:

1016.   Wir Deutsche fürchten Gott, sonst Nichts auf der Welt.24

Germania ed Austria sarebbero il nido dell’uccellaccio di così ingrata memoria per gl’italiani:

1017.                        L’Aquila grifagna
Che per più divorar due becchi porta.

che sono versi di Luigi Alamanni. Narra il Ruscelli (Le Imprese illustri, ediz. di Venezia 1584, pag. 203-204) che Francesco I, dopo la pace di Crespì, mandò l’Alamanni ambasciatore a Carlo V: aveva l’Alamanni nei suoi versi parlato male di Cesare, e Francesco intendeva di riconciliarlo con lui. Comparso Luigi dinanzi all’Imperatore, alla presenza di molti e grandi personaggi fece una bellissima allocuzione; alla quale Cesare, essendo stato attentissimo, poichè fu finita, con volto sereno disse:

                         l’Aquila grifagna
          Che per più divorar due becchi porta.

Questi versi di Luigi, pronunciati dal Monarca quasi a sperimentare lo spirito del poeta, non lo perturbarono; anzi con grande alacrità rispose avere scritto come poeta al quale è proprio il fanoleggiare, ora ragionare come ambasciadore cui si disconviene il mentire; avere scritto come giovane, parlare come vecchio. Allora avere scritto pieno di sdegno e di passione per ritrovarsi dal [p. 330 modifica] duca Alessandro genero di Sua Maestà cacciato dalla patria, ora esser libero d’ogni passione (ved. pure Versi e prose di Luigi Alamanni, per cura di Pietro Raffaelli, vol. I, Firenze, 1859, pag. xxviii). Ma l’Alamanni nell’egloga Admeto Secondo disse veramente:

                         ....l’uccel di Giove
          Che per più divorar due bocche porta.

Potrà non essere senza interesse di sapere che le origini della figura araldica dell’aquila bicipite risalgono ben avanti nella notte dei tempi. Il to. I, fasc. I (1894) della Fondation Eugène Piot, Monuments et mémoires, contiene una memoria di Heuzey, Armoiries chaldéennes de Sirpourla, che descrive un bassorilievo di Tello il quale contiene la figura di un’aquila leontocefala, con gli artigli posati sulla schiena di due leoni addossati, e in cui l’autore vuol vedere lo stemma di Sirpourla. Il monumento che risalirebbe ai tempi del re Entemina, cioè al xl° secolo av. Cr., sembra essere il prototipo dell’aquila bicefala di Pteria (Cappadocia) che passò poi nella iconografia dei Bizantini e degli Arabi, e finalmente nel blasone degli imperatori germanici.

Il crollo dell’impero austriaco in seguito alla nostra grande vittoria dell’ottobre 1918 ha tolto ogni interesse, che non sia una semplice curiosità retrospettiva, alle molte frasi che all’Austria stessa si riferiscono. Alcune tuttavia non possono essere dimenticate, come il famoso distico attribuito a torto a Mattia Corvino Hunyadi, re d’Ungheria (1443-1490):

1018.   Bella gerant alii! tu, felix Austria, nube!
     Nam quae Mars alijs, dat tibi regna Venus!25

alludendo ai molti fortunati matrimoni con i quali i principi d’Absburgo e più specialmente l’Imperatore Massimiliano I, seppero avvedutamente ampliare di nuovi territori ricchissimi i loro possedimenti. Tóth Béla nel suo volume Szájrul száira [p. 331 modifica] (Budapest, 1895, pag. 22) sostiene che l’attribuzione non ha fondamento: tuttavia finora nessuno ha saputo suggerire altro nome di possibile autore. Si nota che il primo emistichio è tolto da Ovidio:

Bella gerant alii! Protesilaus amet.

(Heroides, epist. XIII. v. 84).

e che il motto

1019.   Felix Austria.26

si trova già sopra un sigillo del duca Rodolfo IV d’Absburgo (ved. Kürschner, Die Urkunden Herz. Rudolfs IV., nell’Archiv für österr. Gesch., vol. 49, 1872, pag. 30.

Di un altro sovrano austriaco, l’imperatore Federico III detto il Pacifico (1415-1493) è il motto nascosto nelle sigle A. E. I. O. U. che a quanto narra il Lambecio furono dall’imperatore stesso poste sull’ingresso del suo palazzo in Vienna, nonché sui suoi libri, sollecitandone la spiegazione a variis curiosissimis ingeniis, i quali tutti suggerirono spiegazioni diverse ma nessuno seppe indovinare quella che l’imperatore stesso aveva inventata: Explicatio autem - egli sentenziò — hujus simboli est haec:

1020.   Austriae Est Imperare Orbi Universo.27

che poteva anche dirsi in tedesco: Alles Erdreich Ist Oesterreich Unterthan. Alle spiegazioni non legittime trovate allora, altre se ne sono aggiunte dopo, e non va taciuta quella più nota delle altre: Austria Erit In Orde Ultima che vuol dire: «L’Austria durerà quanto il mondo», ma che i nemici dell’Austria interpretavano con poca proprietà: «L’Austria sarà l’ultima nazione del mondo»! Qualche storico aggiunge che le sigle A. E. I. O. U. comparvero per la prima volta nel 1438 per la incoronazione di Alberto II (predecessore di Federico III nell’impero) e allora erano così spiegate: Albertus Electus Imperator Optimus Vivat.

Più recente è la frase con cui Francesco Palacky, storico e uomo politico della Boemia, nel celebre manifesto alle nazioni d’Europa divulgato nel 1848 in occasione del Parlamento di [p. 332 modifica] Francoforte, parodiava la frase famosa di Voltaire che citeremo più oltre: Si Dieu n’existait pas, il faudrait l’inventer, dicendo:

1021.   Si l’Autriche n’existait pas, il faudrait l’inventer.28

Ma egli stesso nel 1872, in un epilogo col quale chiudeva il suo volume Radhost, faceva ammenda del suo errore: «Devo confessare che al principio della mia carriera politica sono stato vittima di un deplorevole errore.... Il mio sbaglio è stato, lo confesserò francamente, quello di confidare nella saviezza e nella sincerità della nazione tedesca. La frase ch’io ho detto allora: Si l’Autriche etc., data da un momento in cui io riteneva fermamente che la giustìzia avrebbe regnato in questa confederazione di popoli liberi».

1022.   John Bull.29

è rimasto come designazione collettiva del popolo inglese dopo che John Arbuthnot (1667-1735), medico e scrittore, nel 1727 pubblicò una History of John Bull nella quale riunì cinque opuscoli satirico-politici pubblicati dal 1712 in avanti. Questo John Bull, è da notarsi, era un organista di corte, morto il 1628, il quale avrebbe composto nel 161 l’inno popolare, che comincia:

1023.   God save the king.30

Ma quest’attribuzione, sostenuta principalmente verso il 1822 da un altro musicista inglese, Richard Clarke (Account of the National Anthem) sembra destituita di ogni fondamento: ma nemmeno si possono contrapporre alla pretesa paternità del Bull altre attribuzioni meglio fondate, nè è tale, ad esempio, quella per Henry Carey che avrebbe cantato nel 1740 l’inno in questione come di sua propria composizione: quel che è certo è che parole e musica furono stampate per la prima volta soltanto nel Gentleman’s Magazine, fasc. dell’ottobre 1745. L’inno medesimo contende il [p. 333 modifica] primato come inno nazionale (national anthem) dell’Inghilterra all’altro che comincia:

1024.   Rule Britannia! Britannia rules the waves.31

e che non è altro se non un coro dell’Alfred di James Thomson (1700-1748), masque o commedia allegorica scritta nel 1740 in collaborazione con David Mallet (in fine, a. II, sc. 5), e rappresentata nel teatro privato del Principe di Galles, a Cliefden, nel Buckinghamshire il 1° agosto 1741. È quasi certo che la cantata è di Thomson, benchè dopo la morte di lui il Mallet tentasse di rivendicare la paternità dell’intiera produzione: essa però fu ritoccata da Lord Bolingbroke. La musica della cantata. come dell’intiera produzione, è di Arne. Il verso citato di sopra, insieme all’altro già ricordato al num. 800: Britons never shall be slaves, fanno il ritornello della cantata di cui scrisse Southey che «it will be the political hymn of this country as long as she maintains her political power.»

1025.   England is the mother of Parliaments.32

fu detto da John Bright in un discorso politico tenuto a Birmingham il 18 gennaio 1865; ma fu pure detto e si dice che l’Inghilterra è una

1026.   Nation of shopkeepers.33

La frase fu attribuita a Napoleone, infatti secondo il libro di B. E. O’ Meara (Napoleon at St. Helena, ed. 1888, vol. II. pag. 121-122), egli avrebbe detto una volta all’O’ Meara medesimo: «You were all greatly offended with me for having called you a nation of shop-keepers.... I meant that you were a nation of merchants, and that all your great richess and your grand resources arose from commerce, which is true»; ma la frase è più antica, poichè così già chiamava la metropoli Samuel Adams [p. 334 modifica] nel suo Independent Advertiser del 1748 e ugualmente Adamo Smith nella Inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776), II, bk. 4, ch. 7, pl. 3. E ugualmente a Napoleone si attribuisce l’altra frase:

1027.   Perfida Albione.

ma ancora a torto. Le origini di questa frase furono ripetutamente discusse nell’Intermédiaire des Chercheurs et Curieux (voll. IX, X, LX) senza avere mai una esauriente risposta e nei primi anni della Grande Guerra furono con particolare compiacenza ricercate dagli scrittori tedeschi, i quali sotto lo stimolo del Gott strafe England! (vedi nella parte II di questo libro) si affannarono a ricercare documenti sulla tradizione della perfidia dell’Inghilterra. Diversi articoli si seguirono, specialmente nell’Abendblatt der Frankfurter Zeitung, e l’autore di uno di essi, il signor Adolf Bowski che nel numero del 5 febbraio 1915 aveva pubblicato una nota su «Le perfide Royaume»: England in der Tradition der französischen Literatur, spinse la cortesia a mandare da New York dove egli risiedeva, a me ch’egli non conosceva, la nota stessa perchè io me ne valessi nella ristampa del Chi l’ha detto? Eccolo servito. Non posso però riprodurre le numerose citazioni antiche e moderne le quali valgono a stabilire che l’opinione della mancanza di fede degl’Inglesi era antica. Il prof. W. Alison Phillips in uno studio pubblicato nella Edinburgh Review del gennaio 1920 (no. 471, pag. 143-165), col titolo The legend of Perfide Albion, ricerca le origini della leggenda rifacendo la storia della politica inglese dal sec. xviii in poi. Limitandoci alla storia della frase nella forma oggi tradizionale, diremo che se ne posson rintracciare le fonti in Bossuet che nel Premier Sermon sur la circoncision esclama: «L’Angleterre, ah la perfide Angleterre, que le rempart de ses mers rendoit inaccessible aux Romains, la foi du Sauveur y est abordée» (4e s., III, 32). E il modo col quale è usata la frase, fa credere ch’essa fosse già conosciuta. Ma la frase divenne popolare in Francia soltanto nel periodo rivoluzionario, quando l’Inghilterra si unì alle potenze coalizzate contro la Francia e ricevè più tardi nuova conferma dalla condotta realmente sleale del governo inglese verso Napoleone. Allora la più antica menzione della Perfida Albione [p. 335 modifica] si trova in una piccola poesia firmata Ximénez su L’ère républicaine pubblicata nel Calendrier républicain del 5 ottobre 1793 nella quale è detto:

          Attaquons dans ses eaux la perfide Albion.
          Que nos fastes s’ouvrant par sa destruction
               Marquent les jours de la victoire.

Cfr. Interm., vol. LX, 1909, col. 563, 774.

Certo essa è frase francese: antica, infatti, fu l’antipatia della Francia verso l’Inghilterra, cui ci lega invece una tradizionale amicizia la quale però non risale oltre gli anni epici del Risorgimento, poichè anteriormente i sentimenti anche in Italia erano, in generale, ostili all’Inghilterra, per riflesso dei rancori francesi. Ne dava un saggio il signor Domenico Guerri pubblicando nel fasc. 224-225 del Giornale storico della Letteratura italiana, vol. LXXV, 1920, pag. 334 un sonetto estemporaneo fatto con rime obbligate dal famoso improvvisatore Tommaso Sgricci la sera del 9 marzo 1825 in una conversazione, e nel quale egli vede in sogno Megera che fabbrica un Inglese pestando in un mortaio:

          Cor di volpe, di falco unghie, d’insano
               Leone il fiel, membri di cane, un vano
               Teschio d’asino....

Nel Parlamento italiano fu il deputato Ferdinando Petruccelli della Gattina il quale primo disse in forma sentenziosa che:

1028.   L’Inghilterra è la sola amica d’Italia.

L’on. Crispi, nella seduta della Camera del 20 marzo 1862 (Discussioni, pag. 1773) aveva ricordato che: « L’Inghilterra al 1860 impedì l’intervento francese in Sicilia»; e l’on. Petruccelli interruppe: «È la sola amica d’Italia». Altro giudizio ben diverso da quello dei Francesi, anche prima della famosa entente cordiale (vedi num. 680), sarebbe stato quello del Papa S. Gregorio I o Magno al quale si attribuiscono le parole:

1029.   Non Angli sed Angeli.34

[p. 336 modifica]

ma egli avrebbe detto, vedendo una volta (circa l’anno 574) a Roma dei giovanetti inglesi che si vendevano come schiavi: «Non Angli sed Angeli forent si fuissent Christiani».

È nel Faust, l’immortale capolavoro di Goethe, che s’incontra la frase:

1030.   Spanien, das schöne Land des Weins und der Gesänge.35

detta da Mefistofele nella Prima Parte (scena della Cantina). Il testo precisamente dice:

          Wir kommen erst aus Spanien zurüch
          Dem schönen Land des Weins und der Gesänge.

Lieto paese dunque la Spagna; ma non meno lieto il Portogallo, se è vero che:

1031.   Il portoghese è gaio ognor.

Questo verso è nella infelicissima traduzione italiana del libretto dell’opera buffa in 3 atti, Le Jour et la Nuit (parole di A. Vanloo ed E. Leterrier, musica di Carlo Lecocq). Ecco il testo originale (a. II, sc. 5):

          Les Portugais
               Sont toujours gais,
               Qu’il fasse beau,
               Qu’il fasse laid,
               Au mois de décembre ou de mai,
               Les Portugais,
               Sont toujours gais!

Non sono dei gran bei versi neppure questi, ma in un’operetta non è facile trovarne dei migliori! Volgiamoci alla Russia, che fino all’ultimo sfacelo bolscevico era svisceratissima amica della Francia. Alla ammirazione dei francesi per la Cosaccheria di pochi anni fa, aveva preluso Voltaire, scrivendo per colmo di cortigianeria alla imperatrice Caterina II. la Semiramide del Nord: [p. 337 modifica]

1032.   C’est du Nord aujourd’hui que nous vient la lumière.36

(Èpître à l’imperatrice de Russie. Catherine II, 1771, v. 8).

Napoleone I, vari anni dopo, diceva a proposito della Russia e dei suoi destini, la frase famosa che si suole ripetere in questa forma:

1033.   Dans cinquante ans, l’Europe sera républicaine ou cosaque.37

Essa si legge nel Mémorial de Sainte-Hélène del Conte de Las Cases. Ma Napoleone I, esaminando con Las Cases il 3 aprile 1816 le varie probabilità di una liberazione da S. Elena, più specialmente gli diceva che «enfin, une dernière chance, et ce pourrait être la plus probable, ce serait le besoin qu’on aurait de moi contre les Russes, car dans l’état actuel des choses, avant dix ans toute l’Europe peut-être cosaque, ou toute en république (sic): voilà pourtant les hommes d’Etat qui m’ont renversé» (ediz. di Parigi, 1842, pag. 454 del to. I). È singolare come il testo, che corre sulle bocche di tutti sia così differente, singolarissima poi la sostituzione dei cinquant’anni ai dieci, dovuta certamente a qualche bonapartista che volendo conservare la riputazione di profeta al suo idolo, pensò di rimandare di quarant’anni il giorno fissato per il compimento di una delle sue più notevoli predizioni politiche. Ma è ancora più singolare che questa sostituzione si sia fatta sulle parole di un libro così noto come il Memoriale di S. Elena. Si ha da dire forse che i libri più noti sono i meno letti, specialmente quando sono della mole indiscreta del Mémorial de Sainte-Hélène? Non sarei alieno dall’accogliere questa soluzione.

In ogni modo la profezia accenna a realizzarsi ma con grande ritardo e in una forma che Napoleone non aveva preveduto, poichè egli non aveva previsto i cosacchi repubblicani, anzi sovietisti. Egli però aveva sentito che il grande impero moscovita era realmente un

1034.   Colosso dai piedi di creta

[p. 338 modifica]

come lo chiamò Diderot con frase famosa conservataci dal Conte di Ségur. Quando alla dimane del regno di Pietro il Grande e sotto il regno della grande Caterina, Diderot andò a Pietroburgo e poi se ne ripartì senza aver potuto convincere quella sovrana della necessità di applicare i grandi principî e le grandi riforme nella legislazione e nella politica, egli riassunse la propria opinione pessimistica sulla Russia con queste parole profetiche: «C’est un colosse aux pieds d’argile». Osservava a tal proposito il Conte di Ségur: «Il n’en est cependant pas moins vrai qu’à cette époque, ainsi que le disait l’emphatique Diderot, la Russie n’était encore qu’un colosse aux pieds d’argile; mais on a laissé durcir cette argile, et elle s’est changée en bronze» (Comte de Ségur, Oeuvres complètes - Mémoires ou Souvenirs et Anecdotes, to. III, Paris 1826, pag. 214). Pur troppo si è visto ai tempi nostri che quel che pareva bronzo era proprio creta. Del resto è noto che l’immagine del colosso dai piedi d’argilla risaliva alla Bibbia, alla statua gigantesca veduta in sogno da Nabucodonosor, nella quale pedum quaedam pars erat ferrea, quaedam autem fictilis (Prophetia Danielis, cap. II, v. 32), da cui Dante tolse la figura del Veglio del monte Ida che pure è nella parte inferiore tutto di ferro «salvo che ’l destro piede è terracotta» (Inferno c. XIV, v. 110). Si veda: Vascheri e Bertacchi, Il gran Veglio del Monte Ida tradotto nel senso morale della Divina Commedia (Torino, 1877).

Pure a Napoleone I si attribuisce quest’altra frase sui Russi:

1035.   Grattez le Russe, et vous trouverez le Cosaque [o le Tartare].38

ma a torto; se mai essa è del Principe De Ligne. Così l’Hertslet nel suo curioso libro Treppenwitz der Weltgeschichte, IV. Aufl. (Berlin, 1895), pag. 360. Un altro singolare giudizio sulla Russia, è il seguente, che si attribuisce al march. Astolphe de Custine:

1036.   Le gouvernement russe est une monarchie absolue tempérée par l’assassinat.39

[p. 339 modifica]

e si dice anche che: Le despotisme, tempére par l’assassinat, c’est notre Magna Charta, aggiungendo, non so con quale fondamento, che così avrebbe parlato un alto funzionario russo all’inviato dell’Hannover, conte Münster, dopo l’assassinio dell’imperatore Paolo nel 1801. Questa frase ricorda singolarmente l’altra di Chamfort, già ricordata al num. 53. Evidentemente l’una si ispirò all’altra.

Antichissima è l’altra frase:

1037.   La Turchia, il grande malato.

considerando i numerosi esempi di ogni tempo recatine dal Büchmann nella sua opera magistrale, che cominciano con due canzoni popolari tedesche del secolo xvii, l’una intitolata Der Türk ist krank del 1683, l’altra Sultans Krankheit del 1684, ambedue del canonico di Bamberga J. Albert Poysel. Il malato però ha una costituzione molto robusta, se a dispetto di tanti medici che lo hanno spedito, non vuol saperne di andarsene, e neppure il recente trattato di Sèvres è valso ad ammazzarlo definitivamente.

1038.   Quid novi ex Africa?40

si chiede di continuo ora che le imprese coloniali africane riserbano ogni giorno nuove sorprese, non sempre piacevoli e la frase discende da una locuzione proverbiale presso gli antichi. Forse la menzione più antica n’è in Aristotile, Historia animalium, libro VIII, cap. 28: ὰεὶ φέρει τι Λιβύη καινὁν; mentre Plinio il vecchio nella Storia naturale (lib. VIII, cap. 17), dice: «Semper frica aliquid novi affert». Zenobio dice lo stesso della Libia in particolare (lib. II, § 51); ma tutti però intendevano parlare delle molte e strane fiere ond’è ricco il continente nero. Ed anche a noi la Libia ha dato spesso delle novità, generalmente sgradite; anche la famosa

1039.   Tripoli, bel suol d’amore.

come è detto nella canzone-marcia patriottica A Tripoli, popolarissima ai tempi della guerra libica. I versi, di G. Corvetto, pubblicista, sono i più tristi che si possano immaginare, ma lo spunto facile e indovinato della musica fece la fortuna della canzone. La musica [p. 340 modifica] era di Colombino Arona, nome prima d’allora sconosciuto nel mondo musicale, e fu la nota cantante di operette Gea della Garisenda, cui la canzone è dedicata, che s’incaricò di lanciarla. Per la storia, ecco le parole del ritornello:

                    Tripoli, bel suol d’amore,
     Ti giunga dolce - questa mia canzon.
                    Sventola il tricolore
     Sulle tue torri - al rombo del cannon.
                    Naviga o corazzata,
     Benigno è il vento - dolce la stagion.
                    Tripoli, terra incantata,
     Sarà italiana - al rombo del cannon!

  1. 936.   il pro e il contro si trovano in ogni nazione.
  2. 937.   Le città.... tutte a un dipresso.... una casa da una banda, una casa dall’altra, e la strada nel mezzo.
  3. 939.   Qui passeggiano i porci belli e cotti.
  4. 940.   Quell’angolo di terra mi sorride più di qualunque altro.
  5. 941.   Salve, terra Saturnia, grande madre di grani e di uomini.
  6. 947.   Conosci tu il paese dove fioriscono gli aranci?
  7. 949.   Armonia, armonia, linguaggio inventato dal genio umano per uso dell’amore, ci venisti dall’Italia, dove eri venuto dal cielo.
  8. 956.   Piccolo stato situato ai piedi delle Alpi.
  9. 957.   Noi siamo i figli di Gianduia, una sola famiglia.
  10. 958.   Cantiamo, gridiamo, bevendo al boccale, alzando il bicchiere: Evviva Gianduia e i suoi Gianduiotti.
  11. 960.   Il Ligure assuefatto a star male.
  12. 964.   O Benaco, che gonfi le tue onde e fremi come il mare.
  13. 966.   O Sirmione, occhio di tutte le penisole e isole.
  14. 976.   Andiamo con i buoni Veneziani.
  15. 981.   Parma, nella Gallia Cisalpina, tosa innumerevoli armenti.
  16. 996.   Roma eterna.
  17. 998.   La Niobe delle nazioni.
  18. 1007.   Sardi da vendere (l’uno più tristo dell’altro).
  19. 1009.   In Francia, tutto accade, soprattutto ciò che è impossibile.
  20. 1010.   La grande Nazione.
  21. 1011.   Le gesta fatte da Dio per mano dei Francesi.
  22. 1012.   Addio Francia! addio Francia! io penso che non ti rivedrò mai più.
  23. 1015.   La Prussia, il paese classico delle scuole e delle caserme.
  24. 1016.   Noi tedeschi temiamo Iddio, ma nient’altro nel mondo.
  25. 1018.   Lascia che le guerre le facciano gli altri, tu, felice Austria, va’ a nozze, che Venere ti dona quei regni che gli altri conquistano per la mano di Marte.
  26. 1019.   Austria felice.
  27. 1020.   All’Austria spetta l’impero del mondo.
  28. 1021.   Se l’Austria non esistesse, bisognerebbe inventarla.
  29. 1022.   Giovanni Bull.
  30. 1023.   Dio salvi il re.
  31. 1024.   Sii potente, Britannia! La Britannia è signora dei mari.
  32. 1025.   L’Inghilterra è la madre dei parlamenti (ossia del regime parlamentare).
  33. 1026.   Nazione di bottegai.
  34. 1029.   Non Angli ma Angeli.
  35. 1030.   La Spagna, il bel paese del vino e delle canzoni.
  36. 1032.   È dal Nord che oggi ci viene la luce.
  37. 1033.   Entro cinquant’anni l’Europa sarà repubblicana o cosacca.
  38. 1035.   Grattate il Russo e troverete il Cosacco (o il Tartaro).
  39. 1036.   Il governo russo è una monarchia assoluta temperata dall’assassinio.
  40. 1038.   Che cosa c’è di nuovo dall’Africa?