Annali (Tacito)/XIII
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DEGLI ANNALI
DI
C. CORNELIO TACITO
LIBRO DECIMOTERZO
SOMMARIO
I.G. Silano avvelenato per trama d'Agrippina. Narciso a morte. — II. Lode di Burro e Seneca. Censorio mortoro di Claudio: è lodato da Nerone. IV. Buoni principi di Nerone: molte cose ad arbitrio del Senato fatte. — VI. I Parti aspirano all'Armenia: opponsi Domizio Corbulone. — XII. Nerone in amor con Atte liberta, freme Agrippina: va scemando suo potere. XIV. Pallante casso d’impiego. — XV. Veleno accelerato a Britannico: presto funerale, già preparato e scarso. — XVIII. Agrippina, vie più a Nerone avversa, sembra macchinar novità: accusatane, ottien vendetta delle spie, premi agli amici. — XXII. Silana esiliata. Pallante e Burro da Peto accusati: esilio all'accusante — XXIV. Roma ribenedetta. — XXV. Lusso e lascive notturne scappate di Nerone: istrioni banditi d’Italia. — XXVI Trattasi in Senato delle frodi de' liberti, e di tornarli schiavi: pur nulla in comune derogato. — XXVIII. Limitati i dritti dei Tribuni e degli Edili: cura dell’erario variata. — XXX. Vipsanio Lena condannato. Muore L. Volusio. — XXXI. Magistrati eletti alle province non posson dar feste. — XXXII. Fatti sicuri i padroni: Pomponia Grecina al giudizio del marito permessa, assoluta per innocente. — XXXIII. accusati di mal tolto P. Celere, Cossuziano, Capitone, Eprio Marcello. — XXXIV. Liberalità di Nerone: la guerra contro l'Armenia differita si assume seriamente: coll'antica severità e disciplina assodata la milizia, v’entra Corbulone, prende e incendia Artassata. — XLII. P. Suillio condannato a Roma. — XLIV. Ottavio Saetta, d'amor frenetico, Ponzia passa di stoccata: mirabil fede d'un liberto. — XLV. Primo amor di Nerone a Sabina. Poppea. — XLVII. Cornelio Sulla in bando a Marsiglia. — XLVIII. Pozzuolo in rivolta. — XLIX. Peto Trasea un breve decreto di senato impugna per accrescere ai Padri onore. — L. Impudenza de’ publicani: mantenute le gabelle contro gli impeti di Nerone: Proscritte le leggi di ogni comune di publicani sirir là ignote — LIII. Mosse de’ Prigioni in Germania: tosto fatti uscire da’ campi occupati lungo il Reno: presi e uccisi i riottosi. Con pari fato i campi stessi occupano gli Ansibarj. — LVII. Guerra tra Ermunduri e Catti a questi fatale. — LVIII. Albero Ruminale rinverdito.
Anno di Roma DCCCVIII. Di Cristo 55.
Consoli. Nerone Claudio Cesare e L. Antistio Vetere
An. di Roma dccix. Di Cristo 56.
Cons. Q. Volusio Saturnino e P. Cornelio Scipione.
An. di Roma dccix. Di Cristo 57.
C. Nerone Claudio Cesare II e L. Calpurnio Pisone.
An. di Roma dccxi. di Cristo 58.
C. Nerone Claudio Cesare III e Valerio Messala.
I. Il primo ucciso nel nuovo principato fu Giunio Silano, viceconsolo in Asia, senza saputa di Nerone, per fraude d’Agrippina: non per paura di troppo terribile, anzi era pigro, e spregiato dagli altri Imperadori, onde C. Cesare il chiamava bue d’oro; ma perchè ella, che tramò la morte di L. Silano suo fratello, ne temeva vendetta, vociferando il popolo, che a Nerone uscito a pena di pupillo, e fatto tristamente Imperadore, si doveva anteporre Silano d’età grave, netto, nobile, e quello a che si guardava allora, del sangue de’ Cesari; cioè bisnipote d’Augusto. Ciò fu la morte sua; i ministri, P. Celere cavaliere romano, ed Elio liberto, procuratori del principe in Asia, i quali l’avvelenarono a mensa, che se n’accorse ognuno. Non men tosto Narciso liberto di Claudio, delle cui male parole con Agrippina dissi di sopra, fu fatto morire in carcere asprissima di stento estremo, contro al voler del principe, avaro e prodigo, non meno di lui, ma non ancora scoperto; però molto gli andava a sangue.
II. E moriva di molta gente, se Afranio Burro e Anneo Seneca, non rimediavano. Questi il giovane Imperadore governavano uniti, di potenza pari, con arti diverse; Burro con la cura dell’armi e gravità di costumi; Seneca con gl’insegnamenti d’eloquenza e piacevolezze; aiutandosi l’un l’altro a tenere a freno più agevolmente l’età pieghevole del principe con diporti leciti, se con virtù non potessero. Avevano solamente a combattere con la ferocità d’Agrippina, d’ogni voglia tirannesca ardente, aiutata da Pallante, che indusse Claudio a gittarsi via con le inceste nozze e con la pestifera adozione. Ma Nerone non avea umore di lasciarsi governare a schiavi: e Pallante con la sua arroganza passando la condizione di liberto, gli era venuto a fastidio. Pure alla madre faceva ogni onore in apparenza: e diede a un tribuno, come s’usa a’ soldati, questo contrassegno: Ottima madre. Il senato ordinò a lei due littori, e il flaminato de’ Claudj; e a Claudio la consagrazione dopo l’esequie da censore;
III. ove il principe lodò: e mentre annoverava l’antico legnaggio, i consolati, i trionfi de’ suoi maggiori, l’attenzione fu grande; il ricordar le scienze e sue nobili arti, e come, reggente lui, da niuno nimico si ricevette danno, fu grato: ma quando egli entrò nella sapienza, nella provedenza, niuno tenne le risa; quantunque la diceria composta da Seneca fusse molto adornata da quell’ingegno grazioso, e agli orecchi di que’ tempi accomodato. Notavano i vecchi scioperati, che paragonano le cose antiche con le moderne, Nerone essere stato il primo di tutti i Signori di Roma a parlare imboccato; perchè Cesare Dettatore co’ maggiori dicitori gareggiò; Augusto parlò chiaro e corrente, proprio del principe; Tiberio del pesar le parole, avea l’arte, concetti vivi o scuri apposta: nè a C. Cesare la bestialità tolse la forza del dire: e Claudio, quando diceva pensato, era elegante. Lo ingegno di Nerone degli anni teneri se n’andò in dipingere intagliare, cantare, cavalcare, e semi di dottrina mostrava nel verseggiare.
IV. Fornito il piagnisteo, egli venne in senato: e, discorso dell’autorità de’ Padri e dell’unione de’ soldati, parlò egregiamente dei suoi pensieri ed esempi per ben governare; non gioventù nutrita in armi civili, in discordie di casa, non odj, non ingiurie arrecare, non avidità di vendetta. Propose il modello del governo avvenire, scansando tutte le cose che eran frescamente spiaciute: „Imperocchè egli non abbraccerebbe ogni causa, acciocchè vedendosi tutti gli attori e i rei in una camera, non pòtesser i pochi favoriti assassinare, e far delle giustizie e grazie baratteria. Una cosa sarebbe la sua famiglia, un’altra la repubblica. Riterrebbe il Senato l’antiche sue autorità: l’Italia e le province del popolo andrebbono al tribunale de’ Consoli, che le introdurrebbero al Senato: egli penserebbe agli eserciti.„
V. E tutto osservò: e furon fatti molti ordini, come volle il Senato, che gli avvocati non si comperassero per mercede o presenti: che al far lo spettacolo de’ gladiatori non fusser tenuti nè anche i disegnati Questori; non ostante che, per esser contro agli ordini di Claudio, contraddicesse Agrippina: la quale faceva ragunar i Padri in Palazzo, e alla porta udiva con un velo innanzi per non esser veduta; e mentre gli ambasciadori armeni sponevano dinanzi a Nerone, veniva per salir su, e risedere al pari di lui; ma Seneca, stando gli altri attòniti, gli disse, che le andasse incontro; e così, mostrandole riverenza, riparò la vergogna.
VI. Nel fine dell’anno vennero nuove che l’Armenia era dì nuovo corsa da’ Parti, cacciatone Ra«damisto, già più volte entratovi e fuggitone, allora del tutto abbandonatosi. Molti per la città ciarlatrice domandavano: „In che modo potrebbe quel principe, fanciullo di anni diciassette, tanto peso reggere, o sgravarsene? che aiuto dare chi è retto da una donna? commetteransi le giornate, gli assalti, e l’altre azioni di guerra a pedagoghi?„ Altri dicevano: „Durerà le fatiche della guerra meglio costui che quel vècchio scimunito di Claudio, comandato da servidori; di Burro e Seneca ci son moltissime sperienze; e all’Imperatore quanto manca all’esser uomo? avendo Gn. Pompeo di diciott’anni, e Ottaviano Cesare di diciannove, retto le guerre civili. Più fanno i principi con la reputazione e col consiglio, che con la mano e con l’armi. Mostrerebbe se egli si serve d’uomini dabbene o no; se di capitano valoroso senza invidia, o tirato su per ricchezza e favori.„
VII. Dicendosi queste cose, Nerone mandò una bella fanteria, fatta di vassalli vicini, a rinfrescare le legioni d’Oriente, e fece quelle accostare all’Armenia: e due antichi Re, Agrippa e Iocco, stare in ordine con eserciti per entrar nella campagna de’ Parti, e gittar ponti per l’Eufrate. L’Armenia ad Arìstobolo, la regione di Sofena a Soeme con le reali insegne commise; e venne a tempo, che Vardane si scoperse nimico a Vologese suo padre: e partironsi i Parti d’Armenia, quasi differendo la guerra.
VIII. Erano queste cose in Senato aggrandite da quelli che proponevano far pricissione; il principe v’andasse in veste trionfale, entrasse in Roma ovante: se gli facesse statua nel tempio, di Marte Vendicatore, grande come la sua; tutto per l’usata adulazione, e per l’allegrezza d’aver fatto suo luogotenente in Armenia Domizio Corbulone, e parere aperta la porta alle virtù. Le forze dell’Oriente furon divise in questa guisa; Che Quadrato Vinidio rimanesse nel suo governo di Soria con le due legioni, e parte delli aiuti; altrettanti n’avesse Corbulone: e più i colonnelli e la cavalleria, che svernavano in Cappadocia: i Re amici quelli, secondo che la guerra chiedesse, ubbidissero. Ma essi amavan più Corbulone; il quale per acquistar nome, cosa nelle nuove imprese importantissima, camminando forte, riscontrò Quadrato in Egea città di Cilicia, che s’era levato innanzi per gelosia, che se in Sorìa entrava a ricever le genti Corbulone, di gran potenza, di parole magnifico, atto, oltre alla esperienza e al sapere, a muovere ancora con l’apparenza, non facesse tutti gli occhi in sè volgere.
IX. L’uno e l’altro per messaggi confortavano il Re Vologese a voler pace e, non guerra: dare statichi, e continuar la reverenza portata dalli altri al popol romano. Vologese, o per apparecchiarsi con agio di forze a quella guerra, o per levarsi i sospetti di concorrenza, consegnò sotto nome di statichi i primi del sangue arsacido a Isteo Centurione, da Vinidio per sorte mandato prima al Re per detta cagione; il che come Corbulone intese, mandò per essi Arrio Varo, Prefetto d’una coorte. Il Centurione ne venne seco a parole; e per non farsi tra que’ forestieri scorgere, la rimisero nelli statichi e ne’ loro conducenti. Questi anteposto Corbulone, per la sua fresca gloria e benivoglienza ancor de’ nemici. Onde nacque tra questi Capi discordia; dolendosi Vinidio, essergli levato di mano l’acquistato per opera sua, e Corbulone vantandosi, non essersi risoluto il Re offerire gli statichi, se non quando seppe d’avere a far seco, e voltò la speranza in paura. Nerone per rappaciarli bandì, che i fasci dell’Imperadore per le prospere geste di Quadrato e di Corbulone, si portassero con l’alloro; e queste cose toccarono dell’anno appresso.
X. In questo presente, Cesare domandò al senato l’immagine a Gn. Domizio suo padre, e le insegne di Consolo ad Asconio Labeone, stato suo tutore. Le statue d’ariento e d’oro massicce, a lui offerte, ricusò; e contro al voler de’ Padri, che il mese di decembre, nel quale egli nacque, fusse capo d’anno, mantenne alle calende di gennaio l’antica religione. E non furono accettate le querele poste da uno schiavo a Celere Garinate Senatore, e a Giulio Denso Cavaliere, di favorire Britannico.
XI. Entrati Consoli esso Claudio Nerone e L. Antistio, giurando i magistrati negli atti dei principi, non volle che Antistio suo collega giurasse ne’ suoi: laudandolo molto i Padri, che quel giovenile animo compiaciutosi nelle picciole glorie, continuasse nelle maggiori. Fu benigno a Plauzio Laterano, cacciato, come adultero di Messalina, del senatorio ordine; in rimetterlovi prometteva clemenza con sue dicerie spesse, che Seneca componeva e pubblicava per la bocca del principe, per far mostra delle virtù che gl’insegnava, o di suo ingegno.
XII. La madre cominciò appoco appoco a cadere, essendosi Nerone intabaccato con Atte liberta, e fattone consapevoli due be’ giovanetti, Otone di famiglia consolare e Claudio Senecione, figliuolo d’un suo liberto. Questi per la libidine, e per li segreti di pericolo, gli entrarono in gran confidenza: nè poteoci ella, quando il seppe, rimediare; e parve meglio a^ consiglieri del principe (il quale la moglie Ottavia, benchè nobile e ottima, per disventura, o perchè le cose vietate prevagliono, non poteva patire) lasciarlo sfogare in quella femmina, senza offesa d’alcuno, che nelle donne illustri.
XIII. Sbuffava Agrippina d’avere una liberta per compagna, una servente per nuora: e cotali altre cose, senz’aspettare il ripentere o stuccare del figliuolo i cui quanto più svergognava, più accendeva di questo amore. Dal quale sopraffatto, ogni ubbidienza levò a lei, e voltò a Seneca; de’ cui famigliari un Anneo Sereno, facendo lo innamorato di questa liberta, ricopriva da principio il giovane principe; e sotto nome di costui andavano i presenti. Allora Agrippina mutò registro: e cominciò a tentare il giovane con le lusinghe, e offerirgli la sua camera per dare celato sfogo a quello, di che l’età giovanile, e la somma potenza gli facesse venir voglia. Confessava d’essergli stata troppo severa: largivagli tutte le sue ricchezze, poco minori di quelle dello Imperadore: quanto dianzi lo gridava rabesta, tanto ora gli si umiliava. Di tanto mutamento Nerone attinge il fine, e gli amici ne temeano, e pregavanlo a guardarsi da quella, sempre atroce, allora falsa donna. Riveggendo egli un giorno le vesti e gioie delle passate Imperadrici, mandò a donare alla madre senza ritegno le più ricche e care. Ella alzò la boce: „Non di tali onori pascerla il figliuol suo, ma torle gli altri: e dell’imperio, datogli intero, renderle questo spicchio„. Non vi mancò chi tutto rapportasse, e peggio.
XIV. Nerone, che quelli non poteva patire, per cui la donna era superba, levò a Pallante il maneggio datogli da Claudio, col quale governava quasi tutto ’l regno. Dicono che partendosi egli con gran comitiva, Nerone a proposito disse, che egli andava a render l’uficio. Vero è che egli aveva pattuito, che senza rivedere i conti suoi pubblici, s’intendessero saldi e pari. Agrippina imbestialisce, e grida in modo che il principe l’ode: „Che Britannico era il figliuol vero e degno, e d’età da tenere l’imperio del padre, usurpatogli per opera di lei trista da quello adottato posticcio con sì scelerate nozze e veleno. Deansi pur fuora tutti i mali (dicev’ella) di quella casa infelice. Mercè degl’Iddii e sua, il figliastro esser campato, con esso andrebbe in campo, ave s’udirebbe la figliuola di Germanico da una parte, Burro e Seneca, un monco, e un pedante, dall’altra, pretendere il governo del genere umano.„ Arrostava le mani: diceva ogni male: chiamava Claudio da cielo, l’anime de’ Silani d’inferno, i tanti peccati orrendi fatti senza alcun pro.
XV. Nerone se n’alterò: e compiendo Britannico quattordici anni tra pochi dì, considerava or la madre rovinosa, ora il giovane spiritoso, che l’avea mostrato e acquistatone grazia in quelle feste Saturnali, ove Nerone, fatto re de’ giuochi, n’impose agli altri vari, e da non arrossire: a Britannico, che nel mezzo andasse e cantasse improvviso, sperando far rìdere il popolo del fanciullo non usato a cene oneste, non che ubbrìachesche. Ma egli sensatamente cantando, accennò, come del suo seggio e sommo imperio cacciato fosse, e mosse pietà pia manifesta, per aver la notte e l’allegria levato i rispetti. Nerone, vistosi mal voluto per questo fratello, gli accrebbe l’odio: e per le minacce d’Agrippina, affrettò cagione di farlo uccidere. Alla scoperta non v’era, e non ardiva: pensò alle fraudi, e d’avvelenarlo per mezzo di Giulio Pollione Tribuno d’una coorte di guardia, che teneva prigiona Locusta, condannata per molti veleni, ond’era maestra famosa; e già ogni custode di Britannico era acconcio a fargli ogni tradimento. Questi gli diedono il primo veleno, che gli mosse il corpo, e passò, come poco potente o temperato a tempo. Ma Nerone non potendo aspettare, minaccia il Tribuno: comanda che gastighi la femmina; poichè per pensare al dire del popolo, a scusar sè, tengono il principe in pericolo. Promettongli morte più subita che di coltello nel cuore. Nella sua anticamera cuocon, di più veleni provati pessimi, un furiosissimo.
XVI. Usavano i figliuoli de’ principi sedere in vista loro appiè de’ letti con altri nobili di loro età, a mensa separata e men ricca. Così mangiando Britannico, uno de’ suoi gli faceva de’ cibi e del bere la credenza, e per non mancare dell’usato, e non chiarire il veleno, morendo ambi, si trovò questa astuzia: Fu portato a Britannico da bere senza veleno, e fattogli la credenza, ma troppo caldo; perciò ricusato e raffreddato con acqua, ove era il veleno. Corsegli di fatto per tutte le membra e tolsegli la vece e ’l fiato. Que’ giovani si spaventarono: alcuno ne fuggì; ma gl’intendenti affisaron Nerone. Egli senza levarsi su, fattosi nuovo, disse: „Darsegli quel male, del quale sin da bambino cadeva, e appoco appòco rinverrebbe.„ Quanto Agrippina, che non più d’Ottavia sorella di lui ne sapea, ne rimanesse smarrita, le si lesse nel viso, benchè acconcia, come colei, cui era tolto ogni aiuto; e datone annunzio di sua morte. Ottavia ancora, benchè di anni tenera, imparato aveva a nascondere il dolore, l’amore e ogni affetto. Così dopo un breve silenzio, si tornò all’allegria del mangiare.
XVII. La stessa notte morì Britannico, e fu arso con esequie scarse, e prima provedute. Fu seppellito pure nel Campo di Marte, con pioggia si tempestosa che parvero crucciati gl’Iddii; benchè molti scusassero Nerone, incolpandone, la natura de’ fratelli sempre discordi, e del regno, che non vuol compagnia. Molti scrittori di que’ tempi dicono, aver prima Nerone spesse volte abusato la fanciullezza di Britannico; perciò non può parere affrettata nè cruda quella morte, benchè nelle sagre mense data, senza lasciarlo dalla sorella abbracciare, in su gli occhi al nimico, il quale estinse quel sangue ultimo de’ Claudi, prima da vitupero che da veleno corrotto. Cesare per bando le affrettate esequie scusò con dire: „Che gli antichi usavano levarsi dinanzi agli occhi, e non con le pompe e dicerie trattenere le morti acerbe. Mancatagli l’aiuto del fratello, ogni speranza sua era nella repubblica. Della famiglia, nata al sommo imperio, rimanea solo; tanto più dovevano i Padri e il popolo tenerlo caro.„ A’ principali amici donò largamente,
XVIII. e tassati furono alcuni che faceano il grave, d’essersi case e ville, quasi prede, spartiti in tale stagione. Altri diceano, averli ad accettare forzati dal principe, che si sentiva dal peccato rimordere, e con donare ai più grossi sperava perdono. L’irata madre già non potè con veruna larghezza attutare. Ella abbracciava Ottavia; avea co’ suoi confidenti gran segreti; rapiva, oltre all’avarizia radicata nell’ossa, per ogni verso danari, quasi per aiutarsene; Tribuni e Centurioni carezzava; dei nobili, che vi eran rimasi, di conto, venerava i nomi e le virtù, come cercasse capo e parte. Ciò veduto Nerone, mandò via le sentinelle, che ella teneva già come moglie, e ancora come madre del l’Imperadore, e oltre a questa pompa, la guardia de’ Tedeschi; e perchè meno gente la venisse a salutare, la fece uscire di casa sua, e tornare in quella che fu d’Antonia; ed ei non v’andava se non in mezzo a molti Centurioni; davale un freddo bacio e partivasi.
XIX. „Niuna cosa mortale sì tosto vola, come l’opinione del potere assai che non ha forze da sè.„ La porta d’Agrippina diacciò subito: non l’andava a consolare, a vedere, fuorchè qualche donna; nè si sa, se per amore o per odio; tra le quali Giùnia Silana, già moglie di C. Silio (fatta rimandare, come dicemmo, da Messalina), di gran sangue, bellezza lasciva, tutta d’Agrippina un tempo, poi non si diceano punto; perchè Agrippina non la lasciò rimaritare a Sestio Affricano giovane nobile, dicendola disonesta e vecchia: non per goderlosi ella, ma perchè egli come marito, non redasse lei ricca e orba. Ella, colto il tempo da vendicarsi, ordina che Iturio e Calvisio, sue creature, l’accusino, non di piagnere la morte di Britannico, e contar gli strapazzamenti d’Ottavia, cose vecchie e stracche, ma d’ordire novità con Rubellio Plauto, disceso per madre da Augusto in pari grado che Nerone, e torlo per marito, e di nuovo la repubblica occupare. Iturio e Calvisio scuoprono questa cosa ad Atimeto, liberto di Domizia, paterna zia di Nerone. Costui lieto (perchè Agrippina e Domizio si cozzavano fieramente), spinse Paride strione, liberto anch’egli di Domizia, a correre e riferire con atrocità questa congiura a Nerone.
XX. Era gran pezzo di notte, e Nerone la consumava avvinazzandosi. Paride, usato a quell’otta a rinforzare l’allegria del principe, entrò con viso addólorato; e contatogli tutto per ordine, gli mise sì fatta paura, che deliberò ammazzar la madre e Plauto; Burro da lei fatto grande e lei riconoscente, cassare, Fabio Rustico scrive, che Cecina Tusco fu fatto prefetto de’ Pretoriani, e mandatogli la patente; ma l’aiuto di Seneca raffermò Burro. Plinio e Cluvio dicono, che della fede di Burro non fu dubitato; ma Fabio loda Seneca volentieri perchè lo fece grande. Noi, dove s’accordano, affermeremo; dove no, gli citeremo. Nerone spaventato, e d’uccider la madre avido non le dava sosta, se Burro non permetteva levarla via, provata l’accusa; le difese darsi a ciascheduno, non che alla madre; non ci essere accusatore, ma voce d’un solo, e di casa nimica; considerasse che nella notte, e fra ’l vino le deliberazioni potevan riuscire indiscrete e temerarie.
XXI. Scemata così al principe la paura e fattosi giorno, a Burro fu commesso che andasse a esaminar Agrippina, per assolverla o dannarla. Egli, presenti Seneca e alcuni liberti, lesse la querela e gli accusanti, e minacciolla. Ella più indragata che mai, disse: „Non è maraviglia che Silana sterile non conosca l’amor de’ figliuoli, i quali non posson la madre scambiare come le ribalde i bertoni. Nè Iturio e Calvisio, che si son pappati loro avere, e ora per, aver pane da quella vecchia mi fanno la spia, cagioneranno mai a me infamia, nè a Cesare colpa di parricidio. Alla nimicizia di Domizia avrei obbligo se ella gareggiasse meco in amare Nerone mio; ma ella attende ora co’ bei personaggi d’Atimeto suo drudo, e di Paris suo strione quasi a compor farse; e prima si trastullava a Baia co’ suoi vivai, quando io co’ miei consigli lo faceva adottare, far viceconsolo, disegnar Consolo, e l’altre vie gli lastricava all’imperio. Bene ora contro gli avrò tentato guardia, sollevato vassalli, corrotto schiavi liberti? Forse poteva io vivere regnando Britannico? o se Plauto, o altri, fatti padróni, m’avessero avuto a giudicare, mancare forse accusatori, non di parole scappate per troppo amore, ma di cose da non perdonarle se non ei figliuolo a me madre?„ Commosse que’ che v’erano, e cercavano di mitigarla. Ella ottenne di parlare al figliuolo, col quale non entrò nè in sua innocenza, quasi le bisognasse, nè in suoi beneficj, quasi gli rimproverasse; anzi ottenne gastigo agli accusanti e premio agli amici.
XXII. Fenio Rufo fu fatto prefetto dell’ abbondanza; Arrunzio Stella, della festa che Nerone ordinava; Caio Balbillo governatore d’Egitto; P. Anteio destinato per Soria; ma dopo vari aggiramenti, alla fine fu arrestato in Roma: Silana scacciata; Calvisio ed Iturio confinati; Atimeto giustiziato. Le libidini del principe scamparon Paride: di Plauto per allora non si parlò.
XXIII. Pallante e Burro furon poi accusati d’avere consentito che Cornelio Silla di gran sangue, marito d’Antonia, figliuola di Claudio, fusse assunto all’imperio. La spia del tutto riuscì falsa: e fu un certo Peto, infame incettator di beni di condennati, che il fisco incantava. Di Pallante non fu tanto cara l’innocenza quanto stomacò la superbia. Avendo detto, quando senti nominar suoi liberti per testimoni, che in casa sua non comandava che per cenni: e bisognando sprimer meglio, per non s’affratellar con essi parlando scriveva. Burro, benchè reo, fra giudici diede il voto. Peto fu bandito e arsigli i libri fiscali, ove raccendeva i debitori che avean pagato.
XXIV. Al fine dell’anno si levò la guardia solita tenersi alle feste, per mostrare più libertà: non insegnare assoldati quelle licenze della plebe, e lei provare come senza guardia stesse. Gli Aruspici fecero al principe ribenedire la città, essendo in su i tempj di Giove e Minerva cadute saette.
XXV. L’anno di Q. Volusio e P. Scipione Consoli, fuori fu quieto, nella città scorretto; perchè Nerone per le vìe, taverne e chiassi, travestito da schiavo, con mala gente correva le cose da vendere: e faceva tafferugli sì sconosciuto, che ne toccava anch’egli, e ne portò il viso segnato. Chiaritoci esser lui che faceva questi baccani, crescevano gli oltraggi ad uomini e donne di gran qualità, perchè molte quadriglie d’altri credute esser la sua, affrontavano a man salva; e pareva la notte la città ire a sacco. Giulio Montano vinto per Senatore, venuto alle mani una notte col prìncipe, lo fece cagliare; poi conosciutolo, e chiestogli perdono, fu fatto morire, quasi glielo avesse rimproverato. Nerone andò poscia più cauto, con masnade di soldati e accoltellanti, che lo lasciasser fare i primi affronti; ma, riscaldando la zuffa, accorresser con l’arme. Convertì la licenza del favorire chi questi, chi quelli strioni, quasi in battaglia, col non punire e col premiare: e star esso a vedere ora ascoso, ora scoperto; alla qual discordia di popolo e pericolo di sollevamento, fu rimediato col cacciare gli strioni fuor d’Italia, e nel teatro rimetter la guardia de’ soldati.
XXVI. In questo tempo si trattò in senato delle fraudi de’ liberti, e che i padroni potessero per mali portamenti ritor loro la libertà. Approvatori non mancavano. Ma i Consoli non ardirono proporlo senza saputa del principe; scrissergli: „Che il senato n’era contento; ne comandasse egli il partito, come tra pochi e discordi. Fremevano alcuni, la libertà averli fatti tale insolenti, che trattino a diritto o a torto, stanno a tu per tu col padrone, e quando gli vuol gastigare, te lo rispingono o manomettono. E un povero padrone offeso, che può far altro al suo liberto, che discostarlosi venti miglia in Terra di Lavoro? nel resto procedon del pari, e conviene metter loro un morso che lo temano. Non esser grave mantenersi la libertà con là medesima riverenza che l’ottennero. Chi erra, ritorni schiavo; e freni la paura, cui non muta il beneficio.
XXVII. Dicevasi all’incontro: „La colpa di pochi dover nuocere a quelli, e non pregiudicare a tutto ’l còrpo degli altri sì grande, che le tribù in maggior parte, le decurie e ministri de’ magistrati e sacerdoti, i soldati guardiani della città, infiniti Cavalieri, moltissimi Senatori, non essere usciti altronde. Levandone i discesi di liberti, pochi restar gli altri liberi. Non accaso i nostri antichi avere onorato ciascun grado di sue proprie podestà: la libertà aver fetta comune a ognuno; la quale inoltre ordinarono che si desse in due modi per lasciar luogo a pentimento o a nuovo benefizio. Quei che non eran fatti liberi per mezzo del magistrato, rimaner quasi in servitù; esaminassersi poi i meriti, e non si corresse a darla quando non si poteva ritorre.„ Piacque questo parere. E Cesare riscrisse al senato: Che in particolare a qualunque si lamentasse di suoi liberti si facesse ragione: in generale niente si derogasse. Indi a poco non senza biasimo di Nerone fu tolto quasi di ragion civile Paris istrione alla zia Domizia, da lui fatto prima dichiarare ingenuo.
XXVIII. Eravi pure di repubblica un poco di somiglianza; perchè avendo Vibullio Pretore carcerato certi partigiani di strioni, e Antistio Tribuno della plebe comandato che fussero lasciati, i Padri, approvato il fatto, sgridarono Antistio; a’ Tribuni similmente vietarono l’entrar nella podestà de’ Consoli e pretori, o avocare a sè le liti d’Italia. Aggiunse L. Pisone eletto Consolo, che lor podestà di condannare non usassero in casa: e chi i Questori il mettere a entrata le condennagioni fatte da loro, differissero quattro mesi: in tanto si potesse dir contro, e i Consoli giudicassero: e fu ristretta l’autorità, e tassate le somme agli Edili curuli e a’ plebei, del pegnorare e condennare; onde Elvidio Prisco, Tribuno della plebe, privatamente nimico d’Obultronio Sabino Questore dell’erario, l’accusò, perchè incantava i beni de’ poveri troppo crudamente. Il principe tolse di mano a’ Questori i libri pubblici, e ne diede cura a’ Prefetti.
XXIX. Questa cosa spesso variò, perchè Augusto faceva eleggere i Prefetti dal senato: sospettandosi poi de’ favori, si traevan per sorte del numero dei Pretori. Nè questo modo durò, perchè uscivano molti inetti. Claudio ritornò a’ Questori: e perchè non andassero adagio per tema d’offendere, diè loro, per poi, pretorie fuor d’ordine. Ma perchè quei che aveano quel primo magistrato eran giovani, Nerone elesse persone cimentate, e già stati Pretori.
XXX. Quest’anno fu condannato Vipsanio Lenate d’aver con rapacità retta la Sardigna. Di simil cosa assoluto Gestio Proculo, cedendo li accusatori. Clodio Quirinale, capo della ciurma dell’armata di Ravenna, per avere con lussuria e crudeltà maltrattata Italia, come vilissima tra le nazioni, innanzi alta sentenza s’avvelenò. G. Aminio Rebio, principalissimo in dottrina legale e ricchezza, per fuggir i dolori in vecchiezza si segò le vene; che tanto cuore non si aspettava in quel vecchio, libidinoso quasi donna infame. Con fama ottima morì L. Volusio di novantatrè anni, giustamente arricchito, senza cadere in disgrazia di tanti mali Imperadori.
XXXI. Nel consolato secondo di Nerone e di L. Pisone, poco fu da memorare, chi non volesse impiastrar le carte, lodando i bei fondamenti, e legnami dell’anfiteatro che Cesare edificò in Campo di Marte; ma per dignità del popol romano s’usa negli annali scriver le cose illustri, e le simili nei giornali. Furono le colonie di Capua e Nocera rifornite di vecchi soldati; e dieci fiorini per testa donati del pubblico alla plebe, e messo nell’erario un milion d’oro per mantenere il credito del popolo, e li quattro per cento delle vendite delli schiavi, levati pia in vista che in effetto; perchè dovendo pagarli il venditore, ne voleva quel più; e mandato un bando che niuno di magistrato, o govèrnator di province, facesse spettacoli di cacce, accoltellanti o altro, perchè prima non meno affliggevano i popoli con simil giuochi, che col rubargli, difendendo con si fatte liberalità le loro sceleratezze.
XXXII. Fu dal senato fatto un decreto, a gastigo e sicurtà, che ammazzando li schiavi il padrone, i liberti per testamento, stanti in quella casa, portassono la medesima pena. E’ rifatto senatore L. Vario stato Consolo, e di rapine già accusato e,casso. Pomponia Grecina, donna illustre, moglie di Plauzio, tornato d’Inghilterra ovante, querelata di eresia, fa data a giudicare al marito; il qual co’ parenti di lei al modo antico, della vita e dell’onore, esaminò e dichiarò innocente. Ella visse assai in continui dispiaceri per Giulia di Druso, uccisa per malvagità di Messalina: portò bruno quattordici anni, nè mai si rallegrò; del che vivente Claudio non portò pena, poi ne ebbe gloria.
XXXIII. Molti furono quest’anno accusati: dall’Asia P. Celere, il quale non potendo Cesare assolvere, trattenne tanto che si mori di vecchiaia; perchè la grande sceleratezza di Celere dell’avere avvelenato, come dissi, Silano viceconsolo, tutte l’altre sue ricoperse: dalla Cilicia, Cossuziano Capitone, brutto vituperoso, che prese animo a rubare nella provincia come in Roma; ma dalla pertinace querela confitto, abbandonò la difesa, e fu dannato secondo la legge del mal tolto: dalla Licia, Eprio Marcello del medesimo; ma potette sì co favori, che alcuni delli accusanti furon mandati in esilio, come avesser messo in pericolo lo innocente.
XXXIV. Nerone la terza volta fu consolo con Valerio Messala, il cui bisavol Corvino, l’oratore, si ricordavano i vecchi (oramai pochi) essere stato in tal magistrato collega d’Augusto arcavolo di Nerone: e per più onorare sì nobil famiglia, gli fur dati fiorini dodicimila cinquecento l’anno per sostentare l’innocente sua povertà. Altre provisioni assegnò il principe ad Aurelio Cotta e Aterio Antonino, benchè scialacquatori di loro facultadi antiche. Nel principio di quest’anno la guerra co’ Parti, per l’acquisto dell’Armenia, lentamente avviata, sospesa, invelenì; per cagione che Vologese, che data l’aveva a Tirldate fratel suo, non voleva ch’e’ la perdesse, nè riconoscesse da altra potenza: e a Corbulone non pareva onore del popol romano gli acquisti già di Lucullo e di Pompeo, non ripigliare; e gli Armeni, di dubbia fede, chiamavano l’une e l’altre armi; ma come co’ Parti imparentati, e di paese o di costumi più simili, non conoscendo libertà, più inchinavano a servir loro.
XXXV. Ma a Corbulone più dava da fare la poltroneria de’ soldati che la perfidia dei nimici. Le legioni levate di Sorìa nella lunga pace imbolsite, ansavano alle fatiche romane. Vidersi in quello esercito soldati vecchi, che non avevano fatto mai guardia, nè scolta: steccato o fossa ammiravano per cosa nuova: non elmi, non loriche portavano; ma col ben vestire e mercantare, finivano lor soldo per le castella. Là onde licenziati i vecchi e malsani, chiese nuova gente, che si fece in Galazia e Cappadocia: e di Germania gli venne una legione di buoni cavalli e fanti. Tenne tutto l’esercito fuori sotto le tende, che per rizzarle convenne zappare il terreno ghiacciato per lo verno crudissimo, onde a molti le membra rimaser secche, e alcune sentinelle intirizzate; un soldato, che portava un fastello di legna, vi lasciò le mani appiccate e rimase monco. Esso capitano mal vestito e in zucca, sempre dattorno era a lavorìi, all’ordinanze: dava lode a’ valenti, conforto alli infermi, esempio a tutti. E perchè molti fuggirono quella crudezza di cielo e di milizia, la severità fu rimedio; non perdonando, come negli altri eserciti, la prima falta, nè la seconda; ma era subitamente, chi lasciava l’insegna, dicapitato; e fu la vera medicina, più che usar pietà; perchè di quel campo ne fuggì meno, che d’onde si perdonava.
XXXVI. Tenne Corbulone i nostri dentro, sino a mezza primavera, nel campo: gli aiuti adattò in più luoghi con ordine di non venire i primi a battaglia: e accomandogli a Fazio Orfito stato Primìpilo. Costui benchè scrivesse, i Barbari non si guardare, ed esservi da far del bene, gli fu comandato, non uscisse e aspettasse più gente. Non ubbidì: e venutoli di castella vicine pochi cavalli, chiedenti senza giudizio battaglia col nimico, l’appiccò e fu rotto. E gli altri, che aiutar li doveano, impauriti dal danno altrui, fuggirono ciascuno in suo alloggiamento. Corbulone ne ebbe gran dispiacere: e dettone villania a Fazio, a’ capi, a’ soldati, gli cacciò tutti fuori dello steccato: nè di quella vergogna levolli se non pregato da tutto l’esercito.
XXXVII. Tirìdate con li aiuti de’ suoi raccomandati, e di Vologese suo fratello, non più copertamente, ma a guerra rotta infestava l’Armenia, e saccheggiava i creduti a noi fedeli: e se gente gli veniva incontra, la scansava: e qua e là volando, spaventava col romore più che con l’armi. Corburlone adunque avendo assai cercato in vano la battaglia, tirato dal nimico a guerreggiare in più luoghi, sparti le forze, e mandò suoi capitani ad assaltar più paesi a un tratto, e il Re Antioco a’ reggìmenti vicini. Farasmane, ammazzato il figliuolo Radamisto come di lui traditore, per mostrarsi a noi fedele, esercitava lo antico odio vivamente contro agli Armeni; e gl’Isichi, nostri amici prima degli altri, allora allettati, corsero i luoghi aspri d’Armenia. Così riuscivano i disegni di Tiridate al contrario; e mandava ambasciadori in suo nome, e dei Parti a intendere: „Onde fosse che avendo poco fa dati ostaggi, e rinnovata la lega, che suole esser la porta a nuovi beneficj, lui volesser cacciare dall’antico possesso d’Armenia. Non avere ancora esso Vologese pigliato l’armi, per trattare anzi con la ragione che con la forza. Se pur vorranno la guerra, non esser per mancar agli Arsacidi la virtù e fortuna, spesse volte con guai da’ Romani assaggiata.„ Corbulone, che sapeva, Vologese aver che fare con l’Ircania ribellata, consiglia Tiridate a racoomandarsi a Cesare, e conseguire per questa via piana e corta il regno stabile, e senza sangue, e lasciar le cose lunghe e malagevoli.
XXXVIII. E non venendo per via di messaggi a concluslone, parve bene abboccarsi, e rimanere dove e quando Tiridate diceva, che verrebbe con mille cavalieri; venisse Corbulone con quanti volesse, ma venissesi senza elmi e corazze a modo di pace. Avrebbe conosciuto ognuno, non che quel capitano vecchio e sagace, la fraude pensata del Barbaro, vantaggio di numero offerente; perchè contro a mille finissimi arcadori non vale qualunque moltitudine ignuda. Ma infingendosi di non l’avere inteso, rispose: Meglio essere, delle cose di tutti, con tutti gli eserciti insieme consultare; e prese un luogo, ove erano collinette per li fanti, e pianura per li cavalli. Dato il giorno, Corbulone a buon’otta ebbe messo ne’ corni le genti degli aiuti e de’ Re: nel mezzo la legion sesta, con tremila soldati in corpo della terza, fatti venir di notte da altri alloggiamenti, tutto sotto un’aquila, per parere una legion sola. Tiridate si presentò tardi e discosto, da poter esser veduto, più che udito; onde il nostro capitano senza abboccarsi rimandò ciascuno al suo alloggiamento.
XXXIX. Il Re si partì a fretta, o dubitando di stratagemma, vedendo che in molti luoghi a un tratto s’andava: o per levarci le vettovaglie, che ci venivano dal mar Maggiore e di Trabisonda; ma quelle si conducevano per monti da’ nostri ben guardate: e Corbulone per forzare gli Armeni a difender le cose loro, si mette all’espugnazione de’lor villaggi, scegliendo per sè Volando, il più forte, e i minori assegnò a Cornelio Fiacco Legato, e Isteo Capitone Maestro di campo; e riconosciuta la fortificazione e provveduto il bisogno a pigliarla, esortò i soldati a snidiar con preda e gloria quel nimico scorazzante, che non vuol battaglia nè pace; ma col fuggire si confessa traditore e poltrone. Fece dell’esercito quattro parti: una sotto le testudini a zappar le trìacee: altra a scalar le mura; molti a lanciar fuochi e frecce con istrumenti, tiratori di mano e fionda mise in luoghi da poter da lungi avventar ciottoli; e così rendendo ogni luogo pericoloso, vietava il soccorso a’ difenditori. Combattè questo esercito con tanto ardore, che innanzi la terza parte del giorno le mura furo spazzate, scalate: i forti presi: le porte abbattute: tutti i Barbari uccisi: pochi nostri feriti, niuno morto: i fieboli venduti all’incanto, ogn’altro bottino dato a’soldati vittoriosi. Pari fortuna ebbero il Legato e il Maestro di campo; tre castella presero in un dì: l’altre si davano per terrore, e parte volentieri; il che diede animo d’assalire la metropoli Artassata, e passò l’esercito il fiume Arasse, che bagna le mura: non per lo ponte che sotto quelle è, da poter esser battuti, ma lontano ove è basso e largo.
XL. Era a Tiridate vergogna non la soccorrere, e pericolo in que’ luoghi aspri imbarazzare cavalleria: rìsolvè di presentarsi, e la mattina appiccar la zuffa, o sembrando fuggire, condurre in agguato. Circondò adunque a un tratto il romano esercito, che per avvedimento del capitano marciava in battàglia. Andava nel lato destro la legion terza, nel sinistro la sesta; nel mezzo il fiore della decima: le bagaglio tra le file: mille cavalli alla coda, con ordine di menar le mani, affrontati; allettati, lasciargli andare. Ne’ corni, andavano gli arcieri a piede, e il resto de’ cavalli, allungato più il sinistro a’ piè de’ colli, per girare, se il nimico v’entrava a cingerlo. Tiridate s’aggirava intorno, lontano più d’un tiro d’arco, or minacciando, or mostrando temere, per allargare, e sbrancati seguitare i nostri. Veduto stare ognuno a segno, da un capodieci di cavalli in fuori, che andò troppo innanzi, e caricato di frecce, insegnò agli altri ubbidire, essendo presso a notte se n’andò.
XLI. E Corbulone ivi accampatosi, stimando Tiridate essersi ritirato in Artassata, pensò andarvi la notte con legioni spedite, a porle assedio. Ma riferendo gli spiatori che egli aveva preso la lunga verso i Medi o Albani, aspettò il giorno, e mandò innanzi gente leggiera che le mura cignesse e cominciasse da lungi a batterla. Ma i terrazzani le porte apersero, e diedersi a’Romani con tutto loro avere: questo li salvò. Artassata fu arsa e spianata, perchè tener non poteasi per lo suo gran cerchio senza gran gente, e noi non ne avevamo per lei e per la guerra: e lasciandola in abbandono, che pro o gloria averla presa; e per miracolo, un brutto nugolo battendo fuor delle mura il sole, quanto quella teneva, scurò: e sì vi balenò, che ben parve gl’irati Iddii darlaci a disolare Per tali successi Nerone fu gridato Imperadore. Il senato ordinò processioni, statue, archi e continui consolati a Nerone: festivi i giorni della vittoria ottenuta, della nuova venuta, del senato tenutone; e altre cose a tal dismisura, che G. Cassio, che àgli altri onori stette cheto, disse: „Se ogni giorno che gl’Iddii ci hanno fatto bene, si dee spendere in ringraziarli, tutto l’anno non basta; però conviene che i giorni siano parte sagri per lo divino cidto, e parte profani per l’umano commerzio; questo per quello non dee guastarsi.„
XLII. Dopo varie fortune corse, fu accusato uno a ragion molto odiato uomo, non però senza carico di Seneca. Questi fu P. Suilio, regnante Claudio, terribile e vendereccio, e per li tempi mutati abbassato; ma non quanto voleano i nimici; e minor noia gli dava esser chiarito reo, che l’umiliarsi. Credesi, per rovinarlo essere stato rinovato il decreto del senato, e la legge Cincia, del non avocar a prezzo. Egli se ne doleva; feroce per natura, e libero per l’estrema età, e sparlava di Seneca: „che egli perseguitava gli amici di Claudio perchè lo scacciò degnamente: e avvezzo a insegnare a’ giovani lettere da trastullo, astiava chi difendeva i cittadini con viva e reale eloquenza. Esso essere stato questore di Germanico, lui adultero di quella casa: che esser peggio, o per oneste fatiche accettar da un clientolo cortesia, o Ietti di principesse contaminare? Qual sapienza, qua’ filosofi avergli insegnato, in quattr’anni che ci serve la corte, raspare sette milioni e mezzo d’oro? a’ testamenti, a’ ricchi senza erède, tendere le lungagnole per tutto Roma? l’Italia e le province con le canine usure seccare? Quanto a sè, trovarsi pochi danari, e bene stentati. Accuse, perìcoli, ogn’altra cosa voler patire anzi che sottomettere la sua degnità, in tanto tempo acquistata alla subitana felicità di costui.„
XLIII. Nè mancava chi rificcasse queste parole medesime, e peggiorate a Seneca. Ebbevi accuiatori, che Suilio quando resse in Asia assassinò i privati e rubò il comune. Ma perchè fu dato lor tempo un anno a giustificare, parve più breve farsi da’ peccati fatti qua, che ci erano i testimoni pronti. Con acerba accusa avere spinto Q. Pomponio a guerra civile; fatto morir Giulia di Druso e Poppea Sabina tradito Valerio Asiatico, Lusio Saturnino, Cornelio Lupo: le centinaia de’ cavalieri romani dannati; e tutte le crudeltà di Claudio esser fatture sue. Egli rispondeva, niuna di queste cose aver di sua volontà fatto, ma ubbidito al principe. Cesare gli die sulla voce dicendo, sapere da’ libri di suo padre che non forzò, mai alcuno ad accusare: Ricorse a dire avergliele comandate Messalina. Infieboli la difesa; perchè bene scelse lui, e non altri, quella sfacciata, a far per lei le empietà; doversi punire i ministri delle crudeltà, che avendone ridèvuto il prezzo, le addossano ad altri. Toltogli adunque parte de’ beni, e parte concedutone al figliuolo e alla nipote, e cavatone i lasci della madre, o avolo per testamenti, fu confinato in Maiorica; nè pel pericolo, nè condannato, abbassò l’animo, perchè ivi tenne, cóme si disse, vita larga e delicata. Accusavano i medesimi, per l’odio del padre, Nerulino suo figliuolo di mal tolto. Ma parve al principe a bastanza quello che s’era fatto.
XLIV. In questo tempo Ottavio Sagitta, Tribuno della plebe, impazzato d’amore dì Ponzia maritata, con gran presenti la compera, e indi fassi promettere di rifiutare il marito, e lui prendere: La donna, scioltasi lo tratteneva: scusavasi che suo padre non volesse, e sperandone un altro più ricco, si ritirava. Ottavio or piangendo, or minacciando, mostrava aver perduta la reputazione e la ròba: rimanergli la vita: facessene che volesse: ed ella sempre: No. Chiedele d’una notte sola contento, per recarsi poi a pazienza. Data la posta, ella impone a una sua fidata servente che guardi la camera. Egli entra con un liberto, e uha daga sotto. Ivi, come avviene dove è sdegno e amore, corsero contese, preghi, rimproveri, paci e parte della notte abbracciari. Raccesa l’ira, lei tutta sicura trapassa di stoccata; la servente accorsa spaventa con leggier ferita e scappa fuori. La mattina n’andò il romore: l’ucciditore era chiaro, provandosi l’esservi stato; ma il liberto diceva averla esso uccisa, e vendicato l’ingiuria del padron suo. Mosse l’atto nobile alcuni; ma la servente guarì e disse la verità; e Ottavio, uscito del tribunato, chiamato dal padre della morta a’ Consoli, fu condannato dal senato per la legge Cornelia degli omicidi,
XLV. Disonestà non minore fu principio quell’anno di maggior mali pubblici. Era in Roma Poppea Sabina figliuola di T. Ollio, ma prese il nome dell’avolo materno, per la chiara memoria di Poppeo Sabino, stato Consolo e trionfante; non aveva ancora avuto onori, e l’amicizia di Seiano lo rovinò. Questa donna ogni cosa ebbe, da onestade in fuori; vanto, come la madre, della più bella donna di quella età: ricchezza bastevole al suo chiaro sangue; parlare dolce: era disonesta e sapea fare la contegnosa: usciva poco fuori: coperta parte del viso, perchè stava meglio, o per farne bramosia: fama non curò; nè mariti dai non mariti distinse: amor suo, nè d’altri, non la stringeva; dove vedeva utile, là si gittava. Perciò ella, moglie allora di Rudio Crispino cavalier romano, che n’aveva un figliuolo, fu adocchiata da Otone, giovane splendido e tenuto il cuore di Nerone; e senza indugio all’adulterio seguitò il matrimonio.
XLVI. Otone non finava di lodar la bellezza e la grazia di questa sua moglie al principe: o malaccorto per troppo amore, o per farnelo innamorare e godere: e con quest’altra scala più alto salire. Più volte fu nel levarsi da tavola del principe udito dire: „Andarsene a quella a sè conceduta nobiltà, beltà, disianza d’ogni uomo, gioia de’ felici„. Per tali incitamenti non passò guari, che Poppea intromessa, prima con atti e lusinghe, pigliava Nerone, dicendo, sè presa dalla sua beltade, non possente a resistere a tanto ardore; e quando il vide concio, insuperbita, dalla prima o seconda notte in là, diceva aver marito, non poterlo lasciare: esser da Otone trattata meglio che mai fosse donna; in lui vedere e d’animo e di vita, magnificenza; lui degno di somma fortuna; ma Nerone imbertonito d’una fantesca, come Atte, non avere cavato dalla pratica di lei che viltà e schifezza. Nerone a Ottone levò la dimestichezza: poscia il ragionare e il corteggiare: finalmente perchè in Roma non gli facesse il rivale, lo mandò governatore di Portogallo; ove resse sino alla guerra civile con giustizia e santità, contrarie alla infamia passata; essendo nell’ozio, dissoluto, nella podestà, temperato.
XLVII. Insino a qui Nerone cercò di coprire le sue cattività, sospettando massimamente di Cornelio Silla, cui tardo ingègno attribuiva a fina astuzia. Accrebbegli il sospetto Grato liberto di Cesare, cortigian vecchio insino di Tiberio, con questa menzogna. Ponte Molle allora era il raddotto la notte d’ogni baccano: Nerone vi veniva per andar meglio scavallando fuori della città. Ritornandosene per via Flaminia negli Orti de’ Salustj, Gratto corse a dirgli, la sorte averlo aiutato a non dare nell’imboscata di Silla (avvegnachè ai ministri del principe, che per l’ordinaria via tornavano, fusse da certi baioni scherzando, come si fa, fatto paura); nè vi fu conosciuto niuno servo nè seguace di Silla; uomo sprezzato, e non punto da simile ardimento. Nondimeno, come fosse convinto; gli fu detto che sgombrasse di Roma, e non uscisse delle mura di Marsilia.
XLVIII. Nel detto anno da Pozzuolo mandaro ambasciadori contrari, a dolersi i senatori delle violenze della plebe, e la plebe dell’avarizia de’ magistrati e de’ Grandi; ed eran venuti a’ sassi, e minacce di fuoco, che volean dire armi e sangue. C. Cassio, eletto a quietarli, parea loro troppo severo, e ne fu a’ suoi preghi data la cura a due fratelli Scribonj con una coorte pretoriana; lo cui terrore e supplizio di pochi, accordò i Pozzolani.
XLIX. Non direi del decreto notissimo, che si fece di poter Siracusa passare il novero terminato delli accoltellanti, se Trasea Peto non l’avesse contraddetto e fattosi biasimare: „Se egli crede la repubblica aver bisogno che i senatori parlino libero, perchè entr’egli in cose sì deboli? e non dice più tostò della guerra o della pace, dell’entrate, delle leggi, e dell’altre importanze romane, quel che si dea fare o no? Potere i Padri, che hanno voce in senato, proporre quanto vogliono, e chieder che si cimenti, non averci egli altro da correggere che’l troppo spender in feste che fa Siracusa? Stare l’altre cose per tutto l’imperio bene e a cappello, se reggesse come Trasea, e non Nerone? se a queste si chiude gli occhi, quanto dee più alle vane?„ Trasea rispondeva alli amici, aver corretto questo erroruzzo, non per ignoranza de’ gravi, ma per onoranza de’ Padri; perchè si vegga quanto pensano alle cose grandi essi, che badano in sino alle menome.
L. In questo anno a Nerone, rompendogli la testa il pòpolo dell’avanie de’ pubblicani, cadde in animo di lasciare tutte le gabelle, e fare al mondo questo bel dono. Ma i vecchi, alzata a cielo la sua grandezza d’animo, rattennero il furore; mostrando che l’imperio non si sostenterebbe scemandogli gli alimenti, e quasi ricolte della repubblica. Conciossiachè, levati i dazi, anche i tributi si vorrebbon levare. Le compagnie degli appalti furon create le più da’ Consoli e Tribuni, nel maggior vigore della libertà, bilanciate l’entrate pubbliche con le spese. Ben doversi dare in su le mani a’ pubblicani, che non facciano maladire, per crudeltà nuove, le cose tollerate ab antico.
LI. Cesare adunque bandì, che le tariffe di tutte le compagnie de’ pubblicani, fino allora occulte, si pubblicassero; le domande, passato l’anno, non si riassumessero; le querele a quelli date in Roma, il Pretore, e fuori, il vicepretore o il viceconsolo giudicassero sommariamente; a’ soldati si mantenesse l’esenzione, fuorchè ne’ traffichi da mercatanti; e altri giusti provvedimenti fece, durati poco e poi svaniti. Pure la quarantesima, la cinquantesima, e gli altri ingordi nomi trovati dai doganieri, non furono ritornati; le tratte del grano alle province oltremare scemate, le navi mercantili non addecimate.
LII. Sulpizio Camerino, e Pomponio Silvano dalle querele dell’Affrica, da loro retta, assoluti. Camerino ebbe pochi accusanti, e di crudeltà private, più che di latrocinj. Silvano ne ebbe un mondo; chiedevan tempo a far venir i testimoni; e il reo d’esser difeso allora, come fu, perchè era senza reda e vecchio; ma quei che sopra vi disegnavano moriron prima di lui.
LIII. Le cose in Germania si stavano, per volere di Paulino Pompeo e L. Vetere, allora capitani, ai quali; perchè nel dare le trionfali si largheggiava, il mantener la pace pareva più gloria. Ma per non infingardire i soldati, quegli fornì l’argine al Reno, che cominciò Druso prima sessantatrè anni. Vetere ordinò di tirar un fosdo dalla Mosella alla Sona, perchè gli eserciti portati per mare nel Rodano e nella Sona, per quel fosso si traghettassero in Mosella, in Reno, indi in Oceano: e senza le tante difficultà de’ cammini fare i liti di Settentrione e Ponente, in qua e in là navigabili. Per invidia di sì bell’opera, Elio Gracile, Legato de’ Belgi, avvertì Vetere a non mettere le legioni sue nella provincia d’altri, e farsi le Gallie benivole; perciocchè all’Imperadore darebbe sospètto; e così spesse volte’ s’impediscono le imprese onorate.
LIV. Onde per lo continuo ozio delli eserciti corse fama che a’ Legati era levata l’autorità di uscire contro al nimico; talchè i Frisj per boschi e paludi la gioventù, e per laghi l’inferma età, condussero alla riva, e ne’ voti campi, che i nostri nutrivano, si piantarono; persuasi da Verrito e Malorige, capitani di quella nazione, che allora era de’ Germani. E già vi avevano rizzato abituri, e fatto semente, come in lor patria; quando Didio Avito, preso il carico da Paulino, minacciando d’adoperar la forza romana se i Frisj non isgombravano nel paese antico, o non ne ottenevano da Cesare altro nuovo, mosse Verrito e Malorige a chiederlo. Andaro a Roma; e aspettando che Cesare, in altro occupato, li udisse, furono fra l’altre cose che si mostrano a’ Barbari, messi nel teatro di Pompeo a vedere lo gran popolo; ove standosi, senza gustar il giuoco, perchè non lo intendevano, domandano degli spettatori, delle differenze degli ordini, qua’ fossero i cavalieri, ove il senato: venne lor veduto certi vestiti da forestieri sedere tra i senatori; e domandaro chi e’ fussero; udito che tale onore si faceva agli ambasciadori delle nazioni più valorose e più amiche a’ Romani, alzano la voce: niuno mortale, nè in armi, nè in fede, avanzare i germani; e vanno, e si pongono tra i Padri. Applauderono ì riguardanti, quasi fosse delle lor furie buona gelosia. Nerone gli fece ambi cittadini romani, e comandò che i Frisj si levassono di quei terreni. Non voleano ubbidire; mandaronsi cavalli forestieri a forzarli, uccisi o presi i più pertinaci
LV. Oecuparonli gli Ansibarj, gente più poderosa, e per la sua moltitudine, e per misericordia de’ vicini; essendo cacciati da’Cauci di casa loro, senza nidio, e chiedendo qualche sicuro esilio. Era tra loro un detto Boiocalo, di gran nome, a noi fedele, che diceva nella ribellione de’ Cherusci essere stato prigione d’Arminio, poi soldato di Tiberio e di Germanico, e divoto nostro cinquant’anni; di più ci offeriva quella gente per ligia: „Quanta parte di quei piani (diceva egli) servirà per pasture de’ cavalli e carnaggi per li nostri soldati? Lasciassimovi tra le bestie sfamare anche que’ poverelli; se già non gli volessimo anzi saivatichi e deserti, che colti da’ popoli amici. Già essere stali de’ Camani, poi de’ Tubanti, indi degli Uspii. Il cielo esser fatto per gli Iddii, la terra per gli uomini, la vota essere di chi occupa. Voltossi al sole e alle stelle, quasi presenti, domandando, se volean vedere quel terreno perduto? sgorgasservi sopra anzi il mare in onta di coloro che gli uomini privavano della terra„.
LVI. Avito se ne alterò, e disse agli Ànsibarj in pubblico: „Doversi a’ maggiori ubbidire; esser piaciuto agl’Iddii da loro invocati, che a’ Romani stia il dare e’l torre, senza renderne conto a Boiocalo; che darebbe a lui terreni per li suoi meriti propri;„ il che egli, quasi premio di tradigione, ricusò dicendo: „Terreni posson mancarsi dove vivere; dove morire mancar non può.„ E così partironsi a rotta, e chiamarono i Brutteri e Tenteri in aiuto e nazioni lontane collegate. Avito scrisse a Curtilio Mancia, capitano dell’esercito di sopra, che passasse il Reno, e mostrasse loro Farmi di dietro; egli condusse le legioni nel paese de’ Tenteri, minacciando spiantarlo se pigliavano le brighe d’altri. Lasciaronle questi, e per la medesima paura i Brutteri e gli altri. Gli Ànsibarj soli rimasi, la danno addietro negli Uspii e Tubanti; ne son cacciati; ne vanno ai Catti, poi ai Cherusci; e dopo lungo aggirarsi, senza ricetto, strutti in paese nimico, n’andarono i giovani a pezzi, il resto in preda.
LVII. In quella state gli Ermunduri co’ Catti, volendo ambi per forza il dominio del fiume, che gli divide e molto sale genera, vennero a gran battaglia, sì per voglia di fare ogni cosa con Farmi, sì per ubbìa che quel sito sia il più presso al cielo, e onde prima gl’Iddìi odano i preghi umani; „perciò abbiano quel fiume, que’ boschi, privilegiati di sale: non fatto come all’altre genti d’acqua marina allagata e rasciutta, ma di esso fiume versata sopra catasta ardente di quelli arbori, e dal suo contrario elemento fatta rappigliare.„ La guerra fu alli Ermunduri prospera, e de’ Catti sterminio, perchè i vincitori fecer voto a Marte e Mercurio di sagrificar loro i nimici vicendevoli; così, cavalli, uomini, ogni cosa vinta, fur vittime; e le minacce nimiche tomavano loro in capo. Ma la comunità degli Iuoni, nostra amica, ebbe piaga non aspettata; usciron fuochi di sotterra, che s’appresero a campi, ville, casali e passavano le mura della nuova colonia: nè pioggia caduta, nè acqua gittata, nè altro umidore gli spegneva. Certi contadini, per mancamento di rimedio e ira del danno, vi tiravano da discosto de’ sassi, e le fiamme calavano: accostatisi con pertiche e bastoni, quasi bestie le correggevano: in ultimo, trattosi i panni di dosso, e sopra gittatiglivi, quanto più schifi e logori, più il caso per que’ fuochi ammorzare.
LVIII. Nel detto anno al Fico Ruminale, posto nel Comizio, sotto il quale furon lattati Romolo e Remo, ottocento quaranta anni fa, cadute le ramora, si seccava il pedale; il che fu preso per un mal segno, sino a che non cominciò a rimettere nuove vermene.
fine del libro decimoterzo