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LIBRO DECIMOQUARTO 51


XV. E per non si vituperare affatto, giocando ancora nel teatro pubblico, trovò la nuova festa detta Giovanile, ove si scrisse gran numero. Esser nobile, vecchio, aver avuto magistrato, non frenava alcuno dall’usare l’arte delli strioni greci o latini; insino agli atteggiamenti, e gesti non da uomo, anzi le gentildonne ancora studiavano in laidezze; e nella selva che Augusto piantò intorno al lago navale, fece rizzar camere e taverne, e vendere ricette da lussuria. Davansi per cotal festa danari, de’ quali i buoni si servivano per forza, i dissoluti per gloria; onde crebbero le sceleratezze e l’infamia: nè mai fur costumi corrotti quanto in quella canaglia. Appena con l’arti oneste, non che gareggiando ne’ vizj, si mantien pudicizia, modestia, o arte buona. Egli all’ultimo venuto in sul palco, con grande studio la lira accordava e la voce a lume di torchi, presenti ancora una banda di soldati Centurioni e Tribuni, e Burro, che di ciò dolente, pur lo lodava. Creossi all’ora un numero di cavalieri romani detti augustani. Questi giovani, disposti e forti, chi v’entrò per bizzarria di cervello, chi sperando avanzarsi con applaudere dì e notte alla bellezza e boce del principe con titoli divini; erano grandi, e onorati quasi per gran virtù.

XVI. Per non parere questo Imperadore solamente strione, si diede ancora a far versi. Ragunava poetuzzi novellini; metteva loro innanzi, e faceva levare e porre, e rabberciare i versi suoi; e ben si paiono allo stile stentato, rotto e non di vena, nè d’un solo. Udiva ancora filosofi dopo mangiare, che scoprivano loro discordie bisticciandosi: nè mancava chi fra i passatempi del principe desiderasse esser veduto con volto e voce severa.