Sui confini della scienza della natura/I sette enigmi del mondo
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I SETTE ENIGMI DEL MONDO
Confermo oggi questa confessione tanto più premurosamente in quanto, avendo dopo d’allora molto più letto, molto più meditato, ed essendo più istruito, son più in condizione d’affermare che non so nulla.
Dizionario Filosofico
Oso dire tuttavia che non ho meritato
Nè tale eccesso d’onore, nè tale infamia.
Brittanico |
Quand’io, otto anni fa, accettai di tenere una conferenza alla seduta pubblica dell’Associazione dei Naturalisti e Medici Tedeschi esitai a lungo finchè decisi di scegliere come argomento i confini della conoscenza della natura.
L’impossibilità, da una parte di comprendere l’essenza della materia e della forza, dall’altra di spiegare meccanicamente la coscienza anche nei suoi infimi gradi, mi pareva proprio una banale verità. Che con l’atomistica, la dinamistica, e il continuo riempimento dello spazio, si finisca col non concluder nulla, è vecchia esperienza che non potrà mai esser menomamente modificata da alcuna scoperta nella scienza naturale. Che nessun ordinamento o movimento della materia possa render comprensibile anche la più semplice sensazione, i migliori pensatori l’hanno da lungo tempo capito. Sapevo bene che su quest’ultimo punto sono molto comuni alcune false idee, ma quasi mi vergognavo di offrire ai naturalisti tedeschi una bevanda così stantìa; e soltanto con la novità delle mie argomentazioni, potevo sperare di desiar interesse.
Il successo ottenuto dalla mia esposizione mi dimostrò che in tale circostanza mi ero ingannato. La conferenza, dapprima freddamente accolta, ebbe presto l’onore di divenir oggetto di numerose discussioni nelle quali si manifestò una grande diversità di punti di vista. La critica toccò tutti i toni, dalla lode che giocondamente assentiva, fino al biasimo che respingeva con la massima asprezza, e la parola «Ignorabimus» nella quale culminavano le mie indagini, divenne una specie di filosofico segno di riconoscimento.
L’eccitazione provocata nel mondo tedesco dalla mia conferenza, non mette in buona luce la coltura filosofica della nazione, di cui usiamo vantarci tanto. Per quanto fosse per me lusinghiero veder lodata la mia dimostrazione come opera di Kant, devo però respingere questa gloria. Come ho già osservato, la mia conferenza non conteneva niente che con una scorsa alle vecchie pubblicazioni filosofiche non potesse esser noto a chiunque avesse voluto interessarsene. Ma da quando la filosofia fu trasformata da Kant, questa disciplina ha preso un carattere così esoterico, ha tanto dimenticato il linguaggio della comune intelligenza umana e della semplice meditazione, si è tanto allontanata dalle questioni che più profondamente commuovono la libera gioventù, o le ha trattate così dall’alto in basso come non autorizzate pretese, si è finalmente per così lungo tempo opposta con tanta inimicizia alla nuova potenza che sorgeva accanto a lei, la scienza naturale, che non c’è da meravigliarsi se, specialmente presso i naturalisti è andato smarrito anche il ricordo delle conseguenze più naturali tratte dai primi tempi della filosofia. Una parte della colpa pesa veramente sulla circostanza che la nuova filosofia si trova di fronte alla religione positiva in rapporti di negazione, o almeno non troppo chiari, e che essa, consciamente o inconsciamente evitò di spiegarsi senza rigiri, come per esempio poteva farlo Leibniz, che non avrebbe avuto nulla da nascondere ad un tribunale ecclesiastico. La filosofia non deve esser qui nè lodata nè biasimata per questo; ma ne deriva che nei filosofi dalla metà del secolo scorso in poi i più interessanti problemi della metafisica non si trovano posti ed esaminati francamente o almeno con linguaggio adatto ai naturalisti induttivi. Anche questo potrebbe essere uno dei motivi per cui la filosofia così spesso fu cacciata da parte come superflua e sterile, e per cui adesso che la scienza stessa della natura tocca in tanti punti la filosofia, si manifesta tanta mancanza di cognizioni preliminari e tanta ignoranza in quel che si produce.
Poichè mentre da un lato il mio merito fu eccessivamente valutato, da un altro lato mi si gridò l’anatema perchè mettevo confini insuperabili all’umana capacità di conoscenza. Non si poteva capire perchè la coscienza non fosse comprensibile nella sua natura, come lo sviluppo del calore nelle reazioni chimiche e il generarsi dell’elettricità nella catena galvanica. I calzolai abbandonarono le loro scarpe e arricciarono il naso su «la confessione di quell’Ignorabimus che odora quasi di un’umiltà da consigliere concistoriale, e col quale l’ignoranza sarebbe permanentemente giustificata». Fanatici di questa specie, che avrebbero dovuto capir meglio mi denunziarono come appartenente a nere combriccole ed accennarono di nuovo che uno vicino all’altro stanno il despotismo e l’estremo radicalismo1. Cervelli più misurati rivelarono tuttavia in questa occasione che la loro dialettica era male in gambe. Credettero di dire qualche cosa di diverso da quello che avevo detto io, quando opponevano al mio Ignorabimus un Sapremo, sotto la condizione che «noi, come uomini mortali quali siamo, ci contentiamo di umana conoscenza». Oppure non erano capaci di comprendere la differenza fra l’asserzione che io confutavo: La conoscenza può essere meccanicamente spiegata, e l’asserzione di cui non ho mai dubitato, che ho anzi sostenuta con molti argomenti: La conoscenza è legata a processi materiali.
Più acutamente vide David Friedrich Strauss. Il grande critico aveva tardi superato il passaggio, che certe nature non di rado compiono molto più presto in gioventù, dagli studi teologici alla scienza della natura. Unn naturalista esperto della disciplina può dar poca importanza all’analisi di seconda mano in cui l’autore «della vecchia e della nuova fede» si compiace forse un pò troppo. Ai moralisti, ai giuristi, ai professori, ai medici può parer troppo scrupolosa la logica quasi violenta con la quale Strauss cerca di trasportar nella vita la sua nozione del mondo. Se io stesso una volta in questo luogo lo combattei da questo punto di vista2, non per ciò ammiro meno la forza d’animo e la saldezza di carattere che questo maestro del pensiero, nello stesso tempo così artisticamente dotato, porta in mezzo agli antichi enigmi del mondo, che neppur egli, naturalmente, risolve, ma che senza rispetti umani chiama col loro nome.
A Strauss non sfuggì che io, riguardo ai processi spirituali, mi era messo interamente dal punto di vista del naturalista induttivo, il quale non separa il processo dal substrato da cui ha imparato a conoscere il processo, e che senza sufficiente motivo non crede all’esistenza del processo staccato dal substrato. Un po’ più esperto nelle tortuose vie del pensiero e abituato a più astratti modi di esprimersi, egli naturalmente capì la differenza fra le due asserzioni. Strauss e Lange, l’autore della Storia del materialismo3 troppo presto strappato alla scienza, mi risparmiano la fatica di distruggere con la frase: «E chi non mi sa capire, impari» il giubilo di coloro che credevano di vedere in me un campione del dualismo.
Ma anche Strauss criticò notevolmente il mio principio dell’inesplicabilità della coscienza da cause meccaniche. Egli dice: «Vi sono, come è noto, tre punti nell’ascendente sviluppo delia natura, i quali ebbero più d’ogni altra l’apparenza dell’incomprensibilità. Sono le tre questioni: Come provenne l’essere vivente dall’essere senza vita, il sensibile dall’insensibile, il cosciente dall’incosciente? L’autore dei Confini della scienza naturale considera il primo dei tre problemi, A, la produzione della vita, come solubile. Egli si apre la via, a quanto pare, alla soluzione del terzo problema, C, l’intelligenza e il libero arbitrio, unendolo in perfetta dipendenza col secondo, cioè l’intelletto considerato soltanto come il più alto grado della conoscenza già ottenuta con la sensibilità. Il secondo problema, B, quello della sensibilità, è da lui al contrario considerato insolubile. Io ammetto che mi potrebbe ancor sembrar chiaro se qualcuno dicesse: è e resta inesplicabile A, vale a dire la vita; ma data questa seguono da sè, cioè con sviluppo naturale, B e C, vale a dire la sensibilità e il pensiero. Oppure, per conto mio, anche all’inverso: A e B si possono ancora comprendere, ma C, la coscienza, sorpassa la nostra capacità intellettuale. Ambedue i casi, come ho detto, mi sembrano più ammissibili che non considerare precisamente il punto di mezzo soltanto come insuperabile»4.
Così prosegue Strauss. Mi dispiace doverlo dire, ma egli non ha afferrato il nocciolo della mia osservazione. Chiamavo conoscenza astronomica di un sistema materiale, una conoscenza pari a quella che noi avremmo del sistema planetario, se tutte le osservazioni fossero perfettamente giuste e tutte le difficoltà della teoria perfettamente superate. Se noi possedessimo la conoscenza astronomica di ciò che succede nell’interno di un organo ancora misterioso dell’organismo animale o vegetale, il nostro bisogno di causalità riguardo a quest’organo sarebbe soddisfatto, quanto riguardo al sistema planetario, vale a dire quanto è permesso alla natura del nostro intelletto, destinato a priori a naufragare davanti alla possibilità di comprendere la materia e la forza. Al contrario se noi possedessimo la conoscenza astronomica di ciò che succede nell’interno del cervello, noi non saremmo neppure d’un capello più avanzati riguardo al formarsi della coscienza. Anche possedendo la formula del mondo, l’Intelligenza di Laplace così smisuratamente superiore alla nostra, ma pur simile ad essa, non sarebbe su tale quistione niente più istruita di noi; anzi quand’anche secondo la supposizione di Leibniz, fosse provvista di tanta capacità tecnica da metter insieme un homunculus atomo per atomo, molecola per molecola, lo farebbe bensì pensante, ma non comprenderebbe in qual modo egli potesse riuscir a pensare5.
Il primo sorgere della vita non ha in sè niente a che fare con la coscienza. Si tratta in tal caso soltanto di aggruppamento d’atomi e di molecole e di introduzione di certi movimenti. Per conseguenza non solamente è concepibile una conoscenza astronomica di ciò che vien chiamato generazione, Generatio spontanea seu œquivoca, e recentemente abiogenesi od eterogenesi, ma tale conoscenza astronomica soddisferebbe, anche riguardo al primo sorgere della vila, il nostro bisogno di causalità, come lo soddisfa riguardo ai movimenti dei corpi celesti.
Questo è il motivo per cui, usando le parole di Strauss «nell’ascendente sviluppo della natura» l’iato per la nostra intelligenza non si incontra ancora al punto A, ma soltanto al punto B. Del resto io non ho affatto sostenuto che data la sensibilità si possa comprendere ogni più alto grado di sviluppo spirituale, e che il problema C sia senz’altro solubile. Dò tanta importanza all’incomprensibilità meccanica anche della più semplice sensazione, perchè soltanto così ne deriva esattamente, mediante un Argumentum a fortiori, l’incomprensibilità di tutti i più alti processi spirituali.
Il primo sorgere della vita appare adesso avvolto in profonda oscurità, anche più di quando si poteva ancor sperare di veder mascere la vita dalla morte nei laboratori sotto il microscopio. Nelle ricerche di Pasteur l’eterogenesi è stata senza dubbio per lungo tempo, se non per sempre, sottomessa alla pansmermia; dove si credeva che sorgesse la vita si sviluppavano germi di vita già esistenti. E tuttavia le cose hanno preso una tale piega che chi non si irrigidisce in un punto di vista affatto infantile, può essere logicamente costretto ad ammettere la formazione meccanica della vita. Davanti all’attualismo geologico e alla teoria della discendenza, si troverà a stento ancora un serio difensore della dottrina dei periodi di creazione, secondo la quale l’Onnipotenza creatrice dovrebbe sempre nuovamente distruggere l’opera sua, per poi, come un artista guastamestieri, sempre ricominciarla da principio, migliorandola in un punto e forse peggiorandola in un altro. Anche chi crede alle cause ultime deve ammettere che tale cominciamento non è molto degno dell’Onnipotenza creatrice. Ad essa s’addice, con supernaturalistica intromissione nella meccanica del mondo, chiamare tutt’al più una volta all’esistenza i più semplici germi di vita, ma costruiti in modo che da essi, senz’altro aiuto, provenga l’odierna organica creazione. Ammesso questo, è permessa l’altra domanda se non sia più degno dell’Onnipotenza creatrice liberarsi anche da quell’unica intromissione nelle leggi da essa stessa create, e dare fin da principio alla materia tali forze che, in circostanze opportune, dovessero sorgere senz’altro aiuto esterno germi di vita sulla terra o su altri corpi celesti? Non c’è alcun motivo di negar questo; con ciò si ammette anche che potrebbe svilupparsi vita puramente meccanica; e si tratterebbe ora soltanto di vedere se la materia che in via puramente meccanica può disporsi in modo da venire alla vita, ha esistito sempre o se, come Leibniz pensava, fu creata da Dio.
Che la conoscenza astronomica del cervello non ci possa rendere più comprensibile che oggi non sia la coscienza da cause meccaniche, lo conclusi dal fatto che ad un certo numero d’atomi di carbonio, idrogeno, azoto ed ossigeno dovrebbe essere indifferente in qual modo si muovano o siano raggruppati, sia pure che avessero giù coscienza particolare, cosa che non spiegherebbe nè la coscienza in genere, nè la coscienza collettiva della massa cerebrale.
Io considero questa conclusione come perfettamente persuasiva. David Friedrich Strauss crede che dopo tutto soltanto il tempo potrebbe decidere se questa è l’ultima parola su tale argomento. Senza dubbio, ciò non è ora deciso, sebbene H. Haeckel abbia posto come assioma metafisico la supposizione da me fatta per mia comodità che gli atomi abbiano singola coscienza. «Ogni atomo» dice egli «possiede una sua propria somma di forza, e in questo senso è animato». Senza ammettere un «atomo-anima» i più frequenti e comuni fenomeni della chimica sono incomprensibili. Gioia e dolore, desiderio e rifiuto, attrazione e repulsione devono essere comuni a tutte le masse atomiche; poichè i movimenti dell’atomo che dovrebbero aver luogo per formare e sciogliere ogni combinazione chimica non si possono spiegare altro che ammettendo ch’essi possono avere sensibilità e volontà... Se la «volontà» degli uomini e degli animali superiori sembra libera in confronto della volontà vincolata degli atomi, è questa una illusione nata dallo sviluppo infinitamente più largo dei movimenti volitivi dei primi in confronto ai semplicissimi movimenti volitivi di questi ultimi». E perfettamente nello spirito della falsa filosofia della natura, già dal medesimo punto di partenza divenuta perniciosa alla scienza tedesca, Haeckel prosegue a costruire sulla «inconscia memoria» di un certo «complesso atomico vivente» da lui designalo come plastidulo»6.
Così egli disdegna il cammino delle ricerche induttive a noi segnato da La Mettrie, per sapere sotto quali condizioni si sviluppi la coscienza7. Egli pecca contro una delle prime regole delle investigazioni filosofiche: «Entia non sunt creanda sine necessitate» poichè, a quale scopo la coscienza dove basta la meccanica? E se gli atomi sentono, a quale scopo gli organi dei sensi? Haeckel non si cura di comprendere la difficoltà, pur da me abbastanza fatta osservare, come dai numerosi «atomi-anime» possa nascere la coscienza unica della massa cerebrale. Del resto io accenno alla sua concezione soltanto per collegare a ciò la domanda perchè mai egli considera gesuitismo negare la possibilità di spiegare la coscienza dall’aggruppamento e movimento degli atomi, se nemmeno lui pensa a spiegare la coscienza e la suppone soltanto come un attributo degli atomi, non ulteriormente analizzabile?
Ad un morfologo esercitato più che altro nello studio delle forme, si può perdonare se non è capace di tener separati due concetti come quelli di volontà e di forza8. Ma anche da parti meglio armate furono commessi gli stessi errori. Rinnovando sogni antropomorfici dell’infanzia della scienza, filosofi e fisici spiegarono l’azione esercitata da lontano da corpo su corpo attraverso lo spazio vuoto, mediante una volontà insita negli atomi. Una meravigliosa volontà infatti, alla quale due obbediscono sempre! Una volontà che, come quella di Adelaide nel Götz, deve volere, sia che voglia o no, e ciò in proporzione diretta del prodotto della massa e in proporzione inversa del quadrato della distanza! Una volontà che deve muovere il soggetto trascinato nella sezione conica! Una volontà davvero, che ricorda quella fede che trasporta i monti, ma che finora in meccanica non fu ancora utilizzata come fonte di movimento. A tale contraddizione giunge chi, invece di attenersi alla modestia, inchioda la bandiera all’albero, e, con una fraseologia rumorosa, cerca di alimentare in sè e in altri l’illusione di esser riuscito, là dove Newton disperava. In quale contrasto con tanta audacia si manifesta il riserbo del maestro che assegna come compito alla meccanica analitica la descrizione dei movimenti dei corpi!9.
In ogni caso l’ardente e vasta opposizione contro l’incomprensibilità da me sostenuta della coscienza da cause meccaniche, mostra quanto sbagli la nuova filosofia supponendo questa incomprensibilità come evidente. Sembra piuttosto che ogni investigazione filosofica sullo spirito dovrebbe cominciare col mettere in chiaro questo punto, e con qualche altra argomentazione corrispondente alle mie. Se la coscienza fosse meccanicamente comprensibile non ci sarebbe metafisica; per ciò che è soltanto incosciente non c’è bisogno di altra filosofia che la meccanica.
Se annovero qui un tentativo dei tempi moderni per respingere ancora più indietro gli altri confini della conoscenza della natura e per gettar luce sull’essenza della materia, allo scopo di qualificarlo anch’esso insoddisfacente, non è però mia intenzione metterlo a così basso livello come l’atomo animato. Questo tentativo nacque dalla scuola matematica-fisica scozzese di sir William Thomson e di quel prof. Tait, il cui sciovinismo riattizzò la lite sulla parte avuta da Leibniz nella invenzione del calcolo infinitesimale, e che non si perita di qualificare Leibniz un ladro10, per cui non merita a dir vero l’onore di venir oggi nominato in questa sala. William Thomson e il prof. Tait credono che dalle meravigliose virtù che Helmholtz scoperse nei vortici dei fluidi, si possano dedurre parecchie importanti proprietà che devono essere attribuite agli atomi. Si possono supporre fra gli atomi, piccolissimi vortici diversamente combinati che s’aggirano dall’eternità11. Niente può essere più ingiusto che spacciare questa teoria, come successe in Germania, quale una riesumazione dei vortici di Cartesio. Quantunque nei vortici la materia ponderabile non sia, come l’elettricità nelle piccole correnti che avvolgono le particelle di ferro, parallela all’asse piegata a cerchio, ma incrociata con quest’asse, ci si sente tuttavia, attraverso la teoria d’Ampère, favorevolmente disposti a quella di Thomson. Pure, mentre sarebbe affatto prematuro respingere leggermente l’ingegnosa teoria di sir William Thomson per il fatto che in molti punti è manchevole, una cosa però si può già con sicurezza affermare: ch’essa non risolve, niente più di qualsiasi altra precedente teoria, la contraddizione in cui urta la nostra intelligenza nei suoi tentativi per comprendere le materia e la forza. Poichè quand’anche essa riuscisse con la supposizione del costante riempimento dello spazio che le serve di base, a lasciar da parte la diversa densità della materia, dovrebbe pure supporre il movimento vorticoso o esistente dall’eternità o prodotto da una spinta soprannaturale; ecco dunque che essa si troverebbe ben presto di nuovo perplessa davanti alla seconda difficoltà che si oppone alla comprensione del mondo, il problema dell’origine del moto.
Queste difficoltà si possono in tutto dividere in sette. Trascendenti chiamo qui sotto quelle che mi sembrano insuperabili, anche se me le immagino precedentemente risolte nell’ascendente sviluppo.
La prima difficoltà è l’essenza della materia e della forza. Come uno dei confini che io pongo alla conoscenza della natura, è anch’essa in sè trascendente.
La seconda difficoltà è precisamente l’origine del moto. Noi vediamo il moto sorgere e scomparire; possiamo rappresentarci la materia in riposo; il moto ci sembra come qualche cosa di accidentale alla materia, qualche cosa per cui in ogni singolo caso è necessario vi sia il motivo sufficiente. Se noi cerchiamo perciò di figurarci uno stato primitivo nel quale nessuna causa abbia agito sulla materia, in modo che riguardo al nostro bisogno di causalità non resti più nessun’altra questione, noi veniamo sempre a rappresentarci la materia come immobile da tempo infinito, e nello spazio infinito ugualmente suddivisa. Poichè la supposizione di una spinta soprannaturale non conviene al nostro mondo concettuale, manca la ragione sufficiente per il primo movimento. Oppure dobbiamo concepire la materia come mossa dall’eternità. Fin dal principio dunque rinunciamo a poter comprendere questo punto. Questa difficoltà mi pare trascendente.
La terza difficoltà è il primo sorgere della vita. Dissi già più volte e lo ripeto ora che io, contro all’opinione tradizionale, non vedo alcuna ragione per considerare questa difficoltà come trascendente. Una volta che la materia ha incominciato a muoversi, possono sorgere dei mondi; sotto appropriate condizioni, che noi possiamo tanto poco riprodurre quanto quelle sotto cui ha luogo una quantità di processi inorganici, può anche essersi creato quello stato speciale di equilibrio dinamico della materia, che noi chiamiamo vita. Lo ripeto e insisto su ciò: se noi dovessimo ammettere un atto sopranaturale, basterebbe un solo atto che creasse la materia in moto; in ogni caso avremmo bisogno soltanto di un unico giorno di creazione.
La quarta difficoltà è data da quella che pare una direttiva della natura rivolta ad uno scopo premeditato. Le leggi di formazione organica non possono agire con uno scopo se la materia non fu fin da principio opportunamente creata a ciò; dunque le leggi operanti sono pure affatto incompatibili col concetto meccanico della natura. Ma nemmeno questa difficoltà è assolutamente trascendente. Darwin mostrò nella selezione naturale una possibilità di girarla, e di spiegare l’intima conformità della creazione organica al suo scopo, come pure il suo adattamento alle condizioni inorganiche, per mezzo d’un concatenamento di circostanze operanti secondo una specie di meccanicismo con necessità naturale. Quale grado di verosimiglianza raggiunga la teoria della selezione lo discussi già qui in altra occasione. «Noi possiamo tuttavia» io dissi «finchè ci atteniamo a questa dottrina, avere la sensazione di chi, condannato altrimenti ad affondare senza speranza, si tiene aggrappato ad un’asse che appena basta a sostenerlo sull’acqua. Nella scelta fra l’asse e l’annegamento, il vantaggio è decisamente dalla parte dell’asse»12.
Il mio paragone fra la teoria della selezione e un’asse fu accolto nell’altro campo con tanta soddisfazione che dal piacere, ripetendo il racconto, si fece dell’asse un filo di paglia. Ma tra un’asse e un filo di paglia c’è una grande differenza. Chi è ridotto ad un filo di paglia affonda, ma un’asse ha salvato più di una vita umana; e perciò anche la quarta difficoltà non è fino ad ora trascendente, per quanto richieda ancora scrupolose e ben serie meditazioni.
La quinta invece lo è proprio assolutamente: l’altro mio confine della conoscenza della natura: il nascere della semplice sensazione.
Fu poc’anzi ricordato come io abbia dimostrata la natura ipermeccanica di questo problema, e perciò la sua trascendenza. Non è inutile osservare come lo faccia Leibniz. In parecchi punti dei suoi scritti non sistematici, si trova la franca affermazione che la coscienza non potrebbe sorgere per mezzo di alcuna figura o movimento, e per usare il nostro presente linguaggio, di alcun movimento o aggruppamento di materia13. Nei Nouveaux Essais sur l’Entendement humain diretti appunto contro il «Saggio sull’intelligenza umana» Leibniz fa dire a Filalete, il difensore del sensismo, quasi con le stesse parole usate da Locke14: Forse sarà conveniente mettere in rilievo la questione se un essere pensante può provenire da un essere non pensante, senza sensibilità e coscienza come è la materia. È abbastanza chiaro che una particella di materia non potè mai produrre qualche cosa da sè e darsi il movimento. Il suo movimento deve quindi o aver esistito dall’eternità o deve esserle stato dato da un essere più potente. Ma quand’anche fosse esistito dall’eternità non avrebbe potuto generare la coscienza. Dividete la materia, quasi per spiritualizzarla, in parti piccole quanto volete, datele quelle figure e quei movimenti che vi piaccia, fatene una sfera, un cubo, un prisma, un cilindro ecc. le cui dimensioni siano soltanto il mille milionesimo di un piede filosofico, vale a dire la terza parte del pendolo che registra 1 secondi sotto a 45°. Per quanto piccole siano queste particelle, non agiranno su particelle dello stesso ordine altro che come agiscono uno sull’altro corpi del diametro d’un pollice o d’un piede. E si potrebbe con la stessa ragione sperare di generare sensazione, pensiero, coscienza mediante l’unione di grosse parti di materia di data figura e movimento, come con le più piccole particelle che esistono. Queste si urtano, si spingono e si respingono proprio come le parli grosse, e niente di più possono fare. Ma se la materia potesse immediatamente e senza macchine, oppure senza aiuto di figure e di movimenti, creare da sè stessa sensazione, percezione e coscienza, queste sarebbero attributo indivisibile della materia e di tutte le sue parti».
A ciò rispose Teofilo, il sostenitore dell’idealismo di Leibniz: «Considero questa conclusione saldamente fondata quant’è possibile e non soltanto perfettamente giusta, ma anche profonda e degna del suo autore. Sono interamente della sua opinione che nessuna combinazione o modificazione di particelle di materia, per quanto piccole siano, possa dar origine alla percezione; poichè, come si vede ben chiaro, le grosse parti non ne hanno il potere e nelle parti piccole tutti i processi sono proporzionali a quelli delle grosse»15.
Nella «Monadologia» composta più tardi per il principe Eugenio, Leibniz dice brevemente e con locuzione sua propria e caratteristica: «Si è costretti ad ammettere che la percezione e ciò che da essa dipende, è affatto inesplicabile su basi meccaniche, vale a dire per mezzo di figure e di movimenti. Se si potesse rappresentarsi una macchina costruita in modo da produrre pensiero, sensazione e percezione, si potrebbe anche figurarsela tanto ingrandita nelle sue proporzioni da poterci entrar dentro come in un mulino. E supposto ciò, non si troverebbero nel suo interno altro che parti che si urlano e niente da cui si possa comprendere la percezione»16.
Così Leibniz venne allo stesso risultato al quale siamo giunti noi; ma l’argomentazione che Locke prese da Leibniz, perdette di forza per i progressi della scienza naturale. Poichè, dal presente punto di vista, si potrebbe obbiettare che in una progressiva suddivisione della materia viene certo un punto in cui essa manifesta proprietà nuove. Apparisce anche evidente come nè Locke nè Leibniz pensarono che non è nient’affatto indifferente se si trovano vicine o una sull’altra masse di carbone, zolfo o salnitro della grossezza d’un piede, ovvero se queste sostanze in date proporzioni sono ridotte ad un miscuglio di polvere o sgranate in piccoli nuclei d’una certa sottigliezza. Nemmeno l’effetto meccanico di macchine simili è proporzionale alla loro mole. Se dunque la materia, secondo il grado della sua suddivisione presenta sempre nuove e meccanicamente comprensibili azioni, perchè, mediante più sottili suddivisioni, non potrebbe anche pensare, senza che questa nuova attività cessasse di essere meccanicamente comprensibile? Per non dar tosto occasione a tale domanda, giusta soltanto in apparenza, ma forse capace di trascinar molti in errore, è meglio lasciar da parte la progressiva suddivisione della materia di Locke e il mulino pensante di Leibniz e dimostrar subito, quanto alla materia scomposta in atomi, che nessun aggruppamento o movimento di atomi potrà mai servire a spiegare la coscienza.
La seconda osservazione è che noi andiamo senza dubbio fin qui d’accordo con Leibniz, ma non più in là. Dall’incomprensibilità della coscienza da basi meccaniche egli conclude che essa non viene generata da processi materiali. Noi ci contentiamo di constatare quella incomprensibilità, che io esprimerei drasticamente dicendo che è altrettanto impossibile comprendere questo quanto comprendere perchè lo schiacciaciamento del nervo trigemino dà dolore mentre invece l’eccitazione di altri nervi fa piacere17. Leibniz sposta la coscienza nella monade psichica assegnata al corpo e fa scendere in essa per onnipotenza di Dio, un seguito di visioni corrispondenti alle vicende del corpo. Noi invece accumuliamo argomenti per credere che la coscienza è legata a condizioni materiali.
Del resto, da nessuna parte fu pronunciata una parola contro la mia dimostrazione dell’impossibilità di comprendere la coscienza sotto aspetto meccanico; tutti si accontentarono di affermazioni contraddicenti. Secondo il sig. Haeckel la mia conferenza di Lipsia sarebbe stata una «magnifica negazione dell’embriologia» posto che io non prendevo in considerazione la possibilità per l’uomo di raggiungere col tempo una organizzazione tanto superiore alla presente quanto questa è superiore a quella dei nostri progenitori in qualsiasi precedente periodo geologico18. Nondimeno, press’a poco da Omero in poi la nostra specie resta stazionaria; fin da Epicuro, che già conosceva la costanza della forza e della materia, l’essenza del mondo materiale fu incomprensibile; e incomprensibile fu, fino da Platone ed Aristotele quella del mondo spirituale; e prima che si compia la profezia di Haeckel la terra dovrebbe diventare inabitabile. Ma se qualcuno qui pecca contro l’embriologia, quest’è il profeta di Jena. Per quanto in fretta o lentamente progredisca il cervello umano, esso deve attenersi al tipo dato, la cui più alta creazione sarebbe l’irraggiungibile Intelligenza di Laplace. Ma poichè i confini della scienza naturale valgono anche per essa, nemmeno con ulteriore sviluppo l’umanità potrà mai sorpassarli, e se il signor Haeckel non sa obiettare alla mia dimostrazione altro che la possibilità di uno sviluppo paratipico, io avrò la ragione dalla mia.
Non con assoluta convinzione presento come sesta difficoltà il pensiero intelligente e l’origine del linguaggio, ad esso strettamente legata. Fra l’ameba e l’uomo, fra i neonati e gli adulti c’è senza dubbio un abisso immenso, ma fino ad un certo grado si può superarlo. Lo sviluppo della capacità spirituale nella classe degli animali conduce questi obiettivamente fino alla scimmia antropoide; per poter nell’individuo arrivare dalle più semplici sensazioni ai più alti gradi di attività spirituale, basta probabilmente alla teoria della conoscenza la memoria e la capacità di generalizzazione19. Per quanto grande la distanza che resta ancora, sia pure fra l’animale più elevato e l’infimo uomo, e per quanto siano difficili i problemi da sciogliere su questo argomento, una volta data la conoscenza tali difficoltà son di genere affatto diverso da quelle che si oppongono sopratutto alla spiegazione meccanica della coscienza; queste e quelle sono incommensurabili. Perciò, sciolto il problema B, per usare di nuovo la classificazione di Strauss, il problema C non mi pare trascendente. Ma come giustamente osserva Strauss il problema C è in stretta dipendenza con un altro che si presenta nella nostra serie come settimo ed ultimo. È la quistione del libero arbitrio.
È senza dubbio nella natura delle cose che tutti i problemi qui annoverati abbiano occupao l’umanità da quando essa pensa. Tutti i popoli colti hanno in ogni tempo meditato e investigato sulla costituzione della materia, l’origine della vita e del linguaggio. Tuttavia erano sempre soltanto pochi spiriti eletti che si spingevano fino a tali questioni, e se anche sorgeva intorno ad esse qualche contesa propriamente scolastica, il litigio però usciva appena appena dalle sale accademiche. Ben altrimenti per la questione se l’uomo sia libero nelle sue azioni, o legato da una forza che inevitabilmente lo costringe. Interessante per tutti, apparentemente a tutti accessibile, intimamente allacciata alle condizioni fondamentali della società umana, profondamente concatenata con le convinzioni religiose, questa questione ha avuta una parte d’immensa importanza nella storia dello spirito e della coltura, e nella sua maniera di considerarla si sono chiaramente rispecchiati i vari stadi di sviluppo dello spirito umano.
L’antichità classica non si è molto stillato il cervello sul problema del libero arbitrio. Poichè per l’antica concezione del mondo in generale non esistevano nè l’idea di infrangibili e vincolanti leggi naturali, nè quella di un assoluto governo del mondo20, così non c’era alcuna ragione di un conflitto fra il libero arbitrio e il concetto del mondo allora dominante. La scuola stoica credeva ad un Fato, e negava perciò il libero arbitrio; ma i moralisti romani, per necessità etica, lo rimettevano in piedi su una base ingenuamente soggettiva. «Sentit animus se moveri»: si dice nelle Toscolane21 «quod quum sentit, illud una sentit se vi sua, non aliena moveri»; e il fatalismo stoico fu deriso con aneddoti come quello dello schiavo di Zenone di Cizio che servendosi del fato per scusare il furto commesso, si sentì rispondere: Ebbene, era anche tuo fato venir bastonato. Una storiella che oggi ancora potrebbe servire al Bosforo dove alla Ἑιμαρμένη stoica è subentrato il Kismeth turco.
Fu il dogmatismo cristiano (per quanti elementi semitici ed ellenici si siano ad esso amalgamati) che con la questione del libero arbitrio si perdette nel più oscuro labirinto, scavandosi la fossa. Dai Padri della Chiesa e dai Scismatici, da Agostino e Pelasgio, passando per gli scolastici Scoto Erigena e Anselmo di Canterbury, fino ai Riformatori Lutero e Calvino ed oltre, si trascina la contesa disperatamente intricata sul libero arbitrio e sulla predestinazione. Dio è onnipotente ed onnisciente; nulla succede ch’Egli non abbia voluto e previsto dall’eternità. Dunque l’uomo non è libero; poichè se egli agisse altrimenti da ciò che Dio ha fissato, Dio non sarebbe onnipotente ed onnisciente. Dunque non dipende dalla volontà dell’uomo ch’egli pecchi o faccia il bene. Come allora può essere responsabile dei suoi atti? Come potrebbe accordarsi con la giustizia e la bontà di Dio la punizione o la ricompensa data all’uomo per azioni che in fondo sono azioni proprie di Dio?
Questa è la forma in cui si presentava il problema del libero arbitrio allo spirito umano oscurato da sacro delirio. La dottrina del peccato originale, le questioni sulla redenzione per merito proprio o mediante il sangue del Salvatore, per mezzo della fede o delle opere, secondo i diversi modi di grazia, crebbero in mille modi legate a quel dilemma già abbastanza fecondo di cavilli, e dal quarto al diciasettesimo secolo echeggiarono in dispute sul determinismo e l’indeterminismo nelle scuole e nei chiostri di tutta la cristianità. Forse non c’è alcun soggetto di meditazione umana sul quale esista nella polvere delle biblioteche moderne più lunga serie di mai più aperti volumi in folio. Ma la contesa non rimase circoscritta nei libri. Furenti accuse d’eresia con tutte le atrocità che i partiti religiosi dominanti si permettono contro chi la pensa in altro modo, si unirono a tali astruse controversie tanto più facilmente quanto meno c’entrava intelligenza e sincero sforzo verso la verità.
Quanto diversamente il tempo nostro considera il problema del libero arbitrio! La conservazione dell’energia afferma che, come la materia, giammai la forza sorge o si distrugge. La condizione del mondo intero e quella pure d’un cervello umano, sono in ogni istante l’assoluto effetto meccanico della condizione d’un istante precedente, e l’assoluta causa meccanica della condizione dell’istante che verrà poi. Che sotto date circostanze possa, di due cose, succedere una o l’altra, è inconcepibile. Le molecole cerebrali possono cadere sempre soltanto in un dato modo, con altrettanta sicurezza come i dadi dopo che sono usciti dal bossolo. Se una molecola si allontanasse dal suo posto o dalla sua via senza causa sufficiente, sarebbe un miracolo tanto grande quanto quello di Giove che uscisse dalla sua elittica e sconvolgesse il sistema planetario. Se dunque, come crede il monismo, le nostre idee e i nostri sforzi, come pure gli atti della nostra volontà sono necessarie e univoche manifestazioni accompagnatorie dei movimenti e della posizione delle nostre molecole cerebrali, appare evidente che non c’è alcun libero arbitrio; per il monismo il mondo è un meccanismo, e un meccanismo non è luogo adatto per il libero arbitrio.
Il primo al quale il mondo materiale si offerse sollo tale aspetto fu Leibniz. Come ho qui già l’fatto spesso osservare, la sua concezione del mondo è in tutto uguale alla nostra. Se anche egli non potè rintracciare come noi la conservazione dell’energia per mezzo di diversi processi molecolari, egli era però di questa conservazione assolutamente convinto. Egli si trovava, davanti all’insieme dei processi molecolari, nella posizione in cui noi ci troviamo ancora davanti a processi singoli.
Poichè dunque Leibniz credeva altrettanto fermamente a un mondo dello spirito e trasse la natura etica dell’uomo nel cerchio delle sue meditazioni, anzi andò perfettamente d’accordo con le religioni positive, val la pena di domandarsi che cosa egli pensasse del libero arbitrio, e specialmente come lo potesse collegare con la sua concezione meccanica del mondo.
Leibniz era incondizionatamente determinista, e secondo la sua dottrina doveva esser tale22. Egli ammetteva due sostanze create da Dio, il mondo materiale e il mondo delle sue monadi. Uno non può agire sull’altro; in tutt’e due avvengono per necessità immutabili e prestabilite, dei processi in assoluta reciproca indipendenza, ma proseguenti di pari passo e in perfetta armonia: il movimento avanti e indietro della macchina del mondo, matematicamente calcolabile, e nelle monadi psichiche appartenenti ad ogni individuo animato, le immagini che corrispondono alle apparenti sensazioni, immagini ed alti volitivi di chi ospita la monade. Il solo nome di armonia prestabilila che Leibniz dà al suo sistema, esclude la libertà. Poichè i concetti della monade non sono che immagini di sogno senza causa meccanica e senza rapporto reciproco col mondo materiale, così riesce facile a Leibniz spiegare la soggettiva convinzione della libertà delle nostre azioni. Dio ha semplicemente regolato il corso delle idee della monade psichica in modo ch’essa crede di agire liberamente23.
In altre circostanze Leibniz si tiene più attaccato al solito modo di pensare, poichè lascia all’uomo un’apparenza di libertà, dietro alla quale si nascondono secreti impulsi coattivi. Nel paragrafo Buridano nel suo Dizionario storico e critico24 Pierre Bayle aveva nuovamente richiamata l’attenzione sul sofisma, falsamente attribuito a quello scolastico, e che si trova già in Dante25, anzi in Aristotele, del
«. . . . . . . . grigio amico |
muore miseramente di fame, poichè i due mucchi sono eguali, essendo però egli, come bestia, privo del libero arbitrio. «È vero - dice Leibniz nella Teodicea - che, se il caso fosse possibile, si dovrebbe giudicare ch’esso si lascierebbe morire di fame; ma in fondo si tratta di una cosa impossibile; salvo che Dio non lo permetta di proposito. Poichè, per mezzo di un piano perpendicolare che dividesse a metà l’asino nel senso della lunghezza, non potrebbe venir diviso anche l’universo in modo che le due parti fossero tutte eguali; come un’elissi, ovvero come una delle figure piane da me chiamate amphidexter, ciascuna delle quali viene divisa da una retta passante attraverso il suo centro; poichè, nè le parti dell’universo nè i visceri della bestia sono dai due lati di quel piano perpendicolare perfettamente uguali ed ugualmente disposte. Ci sarebbero dunque sempre nell’asino e fuori dell’asino molte cose le quali, sebbene noi non le osserviamo, lo deciderebbero a volgersi da una parte piuttosto che dall’altra. E quantunque l’uomo sia libero, mentre l’asino non lo è, tuttavia anche nell’uomo appare impossibile il caso dell’equilibrio perfetto di motivi per due decisioni, e un angelo, o almeno Dio, potrebbe sempre offrire un motivo per la decisione presa dall’uomo, anche se la lunga estensione del concatenamento delle cause, rendesse questo motivo molto complesso e a noi stessi incomprensibile»27.
Quanto alla quistione dove vanno a finire col determinismo la responsabilità umana e la giustizia e bontà di Dio, Leibniz se la cava mediante il suo ottimismo. Nella conclusione della Teodicea, di cui una gran parte è rivolta a questo argomento, egli sostiene, continuando una finzione di Lorenzo Valla28 che per Sesto Tarquinio fu senza dubbio un gran danno dover commettere dei delitti per i quali non poteva venirgli risparmiato il castigo. Innumerevoli mondi sarebbero stati possibili nei quali Tarquinio avrebbe potuto avere una parte più o meno virtuosa, vivere più o meno felice, e fra questi anche quello in cui avrebbe potuto morire da vecchio virtuoso, carico d’anni, onorato e pianto dai suoi concittadini; ma Dio doveva preferire la creazione di questo mondo nel quale Sesto Tarquinio divenne un malvagio, poichè questo era il migliore nel quale il rapporto del bene coll’inevitabile male rappresentasse per esso mondo un massimo29.
Non c’è bisogno di dire che il monismo non può esser avvantaggiato da queste immagini, sia pur logicamente giuste, ma, per lo meno, sommamente arbitrarie e con l’impronta della falsità; esso deve cercarsi da sè il suo posto nel problema del libero arbitrio. Appena si viene alla decisione di considerare come illusione il sentimento soggettivo di libertà, è altrettanto facile su basi monistiche come per l’estremo dualismo di Leibniz riconciliare l’apparente libertà con la necessità. I fatalisti di ogni tempo, su qualsiasi base si radicasse la loro convinzione, Zenone, Agostino, e i Tomisti, Calvino, Leibniz, Laplace30 (non dimenticando Jacques le fataliste et son maitre) non ci trovarono nessuna difficoltà. Con mediocre agilità dialettica è facile far cedere a chiunque quel sentimento di cui parla Cicerone. Anche nei sogni noi ci sentiamo liberi, poichè i fantasmi delle nostre sostanze sensitive giocano con noi. Da molti di noi effettuati in apparenza con proposito cosciente, perchè noi sappiamo adesso che azioni rivolte ad uno scopo sono involontari effetti di certe strutture del nostro sistema nervoso, dei meccanismi riflessi e dei così detti centri nervosi automatici. Se prestiamo attenzione al corso dei nostri pensieri, noi osserviamo ben presto con quanta indipendenza dalla nostra volontà vengono le idee improvvise, sorgono e spariscono le immagini. Dovrebbero i nostri presunti atti di volontà essere davvero molto più arbitrari? Se del resto tutte le nostre sensazioni, i nostri desideri, le nostre idee, non sono altro che il prodotto di processi materiali nel nostro cervello, può benissimo al movimento molecolare al quale è connessa la sensazione di volontà di sollevare il braccio, corrispondere subito la spinta materiale che produce in modo puramente meccanico il sollevamento del braccio; e così a prima vista non resta più niente di oscuro.
Ma l’oscurità si manifesta, per la maggior parte degli uomini, non appena si lascia il campo fisico per entrare nel campo morale. Poichè fino a tanto che le nostre azioni sono indifferenti, ammettiamo facilmente di agire senza libertà e quali strumenti di cause nascoste. Che Cesare, sopra pensiero, mettesse prima la caliga destra o la sinistra, è indifferente; in tutt’e due i casi egli uscì calzato dalla tenda. Che egli passasse o no il Rubicone, da ciò dipendeva il corso della storia del mondo. Noi siamo tanto poco liberi in certe piccole decisioni, che un conoscitore della natura umana può predire con sorprendente sicurezza quale carta noi scegliamo fra parecchie disposte secondo certe regole. Ma, davanti alle più serie esigenze della vita pratica, anche il più deciso monista ben difficilmente può sostenere che tutta l’esistenza umana non sia che una Fable convenue, nella quale la necessità meccanica ha assegnato a Caio la parte del delinquente, a Sempronio quella del giudice, e perciò Caio viene condotto al patibolo mentre Sempronio va a far colazione.
Se il sig. von Stephan ci annunzia che su centomila lettere circa tante in un anno vengono gettate nella cassetta senza indirizzo31, non ce ne meravigliamo. Ma che, secondo Quetelet, fra centomila abitanti di una città circa tanti in un anno, per necessità naturale, siano ladri, assassini e incendiarie32, a ciò si ribella il nostro senso morale, poichè è penoso dover pensare che noi non siamo diventati criminali soltanto perchè altri ha estratto in vece nostra la palla nera che avrebbe potuto toccare a noi.
Chi, per così dire, attraversa la vita dormendo, e nel suo sogno governa il mondo o spacca la legna; chi, come storico, giurista, poeta, considerando la vita da un punto di vista unilaterale, si occupa più che altro di istituzioni e di passioni umane, e chi studiando o dominando la natura rivolge uno sguardo altrettanto limitato soltanto alle leggi naturali, quegli dimentica il dilemma sulle cui corna infilata la nostra ragione langue come la preda dell’Ammazzasette; come noi dimentichiamo le immagini doppie che altrimenti ci inseguirebbero dovunque dandoci la vertigine. In così disperati sforzi per sfuggire a tale tormento si consuma la piccola schiera di coloro che col Rabbino di Amsterdam contemplano il Tutto sub specie æternitatis; sia pure che, come Leibniz aggiudichino a sè stessi, fiduciosi, la spontaneità. Gli scritti dei metafisici offrono una lunga serie di tentativi per conciliare il libero arbitrio e la legge morale col sistema meccanico del mondo. Se a uno di loro, supponiamo a Kant, fosse veramente riuscita questa quadratura, la serie avrebbe fine. Soltanto i problemi insolubili sono eterni così33.
Meno conosciuti di questi studi metafisici sono gli studi matematici rivolti allo stesso scopo, e nati da poco tempo in Francia. Essi si annodano al disgraziato tentativo di Descartes di spiegare l’azione reciproca fra anima e corpo, della sostanza materiale e spirituale da lui ammessa. Poichè, quantunque Descartes ritenesse costante la quantità del movimento nel mondo, e quantunque non credesse che l’anima possa generare movimento, tuttavia egli era d’opinione che la direzione del movimento viene data dall’anima34. Leibniz dimostrò che non la somma dei movimenti ma soltanto la forza motrice è costante, e che anche la somma di forza dirigente e di progressione verso una qualsiasi asse tracciata nello spazio, resta pure la stessa. Così chiama egli la somma algebrica dei componenti, paralleli a quell’asse, di tutti i momenti meccanici. Secondo l’ultimo teorema, trascurato da Descartes, nemmeno la direzione di movimento potrebbe esser abolita o cambiata senza corrispondente dispendio di forza. Per quanto piccolo possa figurarsi tale dispendio di forza, esso costituisce tuttavia una parte del meccanismo naturale e non potrebbe venir attribuito a sostanza spirituale35. Riconoscimento che non avrebbe poi bisogno dell’apparato offerto da Leibniz, poichè basterebbe rimandare alle leggi del moto di Galileo.
Il defunto matematico Cournot a Digione,36 il sig. Boussinesq, professore a Lilla37, e l’accademico parigino sig. De Saint-Venant, onorevolmente noto per i suoi lavori sull’elasticità38, si son dati, un dopo l’altro, il compito di spezzare i vincoli del determinismo meccanico mediante la dimostrazione che contrariamente all’affermazione di Leibniz, potrebbe esistere movimento o si potrebbe cambiare la direzione del movimento senza dispendio di forza. Cournot e il sig. De Saint-Venant usano a questo scopo l’idea, da lungo tempo comune alla scuola fisiologica tedesca39, della disarticolazione (décrochement). Essi credono che la forza necessaria per la disarticolazione del movimento volontario potrebbe essere non soltanto proporzionatamente piccolissima, ma anche nulla. Il sig. Boussinesq da parte sua accenna a certe equazioni differenziali del movimento i cui integrali ammettono soluzioni particolari in modo che la direzione del movimento successivo diviene ambigua affatto indeterminata. Già Poisson aveva attratta l’attenzione su queste soluzioni, come su una specie di paradosso meccanico40.
Uno di questi casi è per esempio quello in cui ad un punto materiale lungo la falda d’un cono senza attributo con asse verticale e vertice diretto in alto, viene impartita nella direzione del vertice quella velocità che esso avrebbe ottenuto cadendo liberamente dal vertice nello stesso piano orizzontale. Esso giunge allora al vertice con la velocità zero, e resta in riposo finchè, secondo le supposizioni del sig. Boussinesq ad un «Principe directeur» che là dimora, piace comunicargli nella direzione preferita un impulso che gli toglie il sostegno, impulso il quale, sebbene meccanicamente equivalente a zero, deve tuttavia esser capace di farlo di nuovo sdrucciolar giù lungo le falde del cono. Un punto, una curva, o un piano dove ciò può succedere, vengono chiamati da Boussinesq point d’arrêt, ma il punto dove il cammino si biforca point de bifurcation, ed egli è d’opinione che tali punti siano quelli dove nell’organismo un principio immateriale potrebbe generare azione meccanica41.
Cournot crede di aver bisogno soltanto della forza disarticolante pari a zero, e il sig. Boussinesq dell’integrale con singolari soluzioni, per spiegar con ciò, in unione al «Principio dirigente», la varietà e l’indefinibilità dei processi organici.
La scuola fisiologica tedesca, da lungo temgo tempo abituata a non veder negli organismi altro che meccanismi particolari, difficilmente si accorderà con tale interpretazione, e nonostante le opposte assicurazioni, nonostante l’autorità di Claude Bernard42 invocata dal sig. Boussinesq, paventerà sempre dietro il «Principio direttivo», la forza vitale che in Francia, sotto uno od altro nome, risorge continuamente. L’idea vitalistica di Cournot è evidente.
Si può inoltre osservare che il sig. Boussinesq mi fraintende se mi fa dire nei «Confini della scienza naturale» che un organismo differisce da una cristallizzazione, supponiamo dai fiori di ghiaccio o dall’albero di Diana soltanto per la maggior complessità. Dò invece molta importanza al fatto di avere esattamente indicata la circostanza nella quale a me sembrano radicate tutte le sensibili differenze che sempre e in ogni luogo trascinano l’umanità a riconoscere nella natura viva e nella natura morta due regni diversi, sebbene, secondo le nostre presenti convinzioni, comandino in tutte due le medesime forze. Questa circostanza è: che negli esseri inorganici, i cristalli, la materia si trova in equilibrio stabile, mentre negli esseri organici, gli esseri viventi, domina un equilibrio dinamico più o meno perfetto, con bilancia ora positiva, ora negativa. Mentre la corrente di materia che sussurra attraverso l’animale serve al cambiamento di energia potenziale in energia cinetica, spiega nello stesso tempo la dipendenza della vita dalle condizioni esterne, le condizioni integranti od eccitanti alla vita dell’antica fisiologia, e la transitorietà dell’organismo in confronto all’eternità del cristallo immobile in sè e senza bisogni43.
Secondo il nostro parere, la teoria della vita inconscia può reggere senza bisogno dell’integrale che si biforca o che diventa indeterminata, e senza «principio dirigente». D’altra parte è da dubitare che con ciò, o con la disarticolazione, si possa concludere qualche cosa nella contesa fra libero arbitrio e necessità. La lodevole relazione del sig. Paul Janet all’Accademie des Sciences morales et politiques44, di cui ammiro assai la limpida bellezza, lascia alla responsabilità dei tre matematici la possibilità d’un indeterminismo meccanico. Ma intanto questa dottrina che afferma la possibile infinita piccolezza della forza disarticolante, e procede ad affermare che potrebbe anche esser nulla, pare che faccia un uso affatto inammissibile d’un procedimento molto comune sotto circostanze tutte diverse nel calcolo infinitesimale. La prima affermazione tuttavia vuol dire soltanto che la forza disarticolante in confronto della forza disarticolata potrebbe essere impercettibile. Così sparisce la forza dei colpi d’ala d’una cornacchia che la valanga trascina nella sua caduta in confronto della forza della massa di neve che alfine precipita sulla valle, vale a dire noi potremmo trascurare una forza uguale alla prima, nel misurare la seconda, perchè essa non esercita alcuna notevole influenza pesabile in cifra e resta molto dentro ai confini degli errori d’osservazione. Ma per quanto insignificante, osservato dalla valle, in confronto della forza furibonda della valanga, sembri quel colpo d’ala lassù, da vicino esso rimane pur sempre un colpo d’ala, a cui corrisponde un dato peso ad una data altezza. È nell’essenza della disarticolazione che la forza disarticolante e la forza disarticolata siano indipendenti una dall’altra, e non congiunte da alcuna legge; secondo la calzante espressione di Jul. Rob. Mayer, la disarticolazione non è nemmeno un soggetto per la matematica45.
Perciò è per lo meno inesatto dire «il rapporto tra la forza disarticolante e la forza disarticolata si svolge al limite zero»46 senza aggiungere che ciò si fonda soltanto su un accidentale aumento della forza disarticolata nel senso della forza disarticolante, dunque nel nostro esempio con una sempre uguale forza di colpo d’ala in confronto di una sempre maggiore altezza, rapidità, levigatezza del pendio, e di un sempre più grosso cumulo di neve ecc. Tanto poco può la forza disarticolante essere in sè veramente zero, che, se la disarticolazione non deve mancare, essa non può nemmeno sotto un certo «livello di potenzialità» dipendente dalle circostanze, diminuire; e perciò non si può credere di poter spiegare, con l’aiuto della disarticolazione, come una sostanza spirituale possa operare cambiamenti materiali.
Per quel che riguarda la soluzione proposta dal sig. Boussinesq, il punto materiale nel Point d’arrêt è semplicemente rimasto giù in equilibrio instabile, e per calcolare le conseguenze di tale adagiamento non c’era bisogno di farlo prima risalire. In realtà questo caso differisce soltanto per essere espresso più astrattamente e rivestito di forme matematiche, da quello di Dante e di Buridano, il quale potrebbe anche essere formulato così: che la creatura affamata
«Intra duo cibi, distanti e moventi |
Il sig. Boussinesq mette sul tappeto anche la nota questione, quale sarebbe la conseguenza dell’inversione di tutti i movimenti del mondo. Se si immagina il mondo come composto soltanto di processi invertibili, e tutti i movimenti delle grosse e piccole porzioni di materia ad un dato momento con uguale rapidità invertiti in uguale direzione come quelli di una palla rimandata, la storia del mondo materiale dovrebbe rifarsi a ritroso. Tutto ciò che è accaduto accadrebbe di nuovo, dopo una certa pausa, in ordine inverso: un pollo ridiventerebbe un uovo, l’albero crescerebbe in senso contrario fino a diventar seme, e dopo un tempo illimitato il cosmo si troverebbe di nuovo sciolto nel caos48. Quali sensazioni, aspirazioni, pensieri, accompagnerebbero il movimento invertito delle molecole cerebrali? Se le condizioni psichiche fossero legale soltanto a posizioni di atomi, con le stesse posizioni ritornerebbero le condizioni stesse, ciò che condurrebbe a conseguenze strane, per esempio questa: che immediatamente prima ad ogni atto di volontà succederebbe ogni volta l’inverso del voluto. Ma possiamo risparmiarci il calcolo delle possibilità immaginabili in un caso simile. Non soltanto, come deduce Boussinesq, la supposizione è falsa per l’integrale che si biforcherebbe o diventerebbe indeterminata, ma anche perchè in tal caso la manovella della macchina del mondo dovrebbe esser girata «a ritroso». Fra l’altro i movimenti di masse trasformati con lo sfregamento in calore, non potrebbero, col cambiato indirizzo, esser ricostituiti con la stessa somma totale di movimenti di masse in uguale direzione. Il mondo a ritroso resta una impossibile creazione meccanica della fantasia da cui non si può dedurre nulla sul formarsi della coscienza e sul libero arbitrio.
Riguardo alla nostra settima difficoltà resta dunque stabilito che essa non è tale, dato che ci si decida a negare il libero arbitrio e a considerare illusione la soggettiva sensazione di libertà, ma che altrimenti si deve tenerla come trascendente; ed è per il monismo una ben magra consolazione vedere il dualismo preso nella stessa rete, e forse ancor più imbrogliato, perchè questo dà all’etica maggiore importanza. In questo senso scrissi una volta nel proemio alle mie «Ricerche su l’elettricità animale» le parole che adesso Strauss rivolge contro di me49. «La meccanica analitica giunge fino al problema della libertà personale, la cui soluzione deve restare alla capacità d’astrazione di ogni individuo»50.
Ma venne per me più tardi, non ne faccio mistero, il giorno di Damasco. Assidue meditazioni necessarie per le mie letture pubbliche «Su alcuni risultati dei nuovi studi naturali» mi condussero alla convinzione che il problema del libero arbitrio è preceduto almeno da tre altri problemi trascendenti: oltre a quello già prima da me riconosciuto dell’essenza della materia e della forza, quello del primo movimento e quello della prima sensazione nel mondo.
Che i sette enigmi siano stati qui numerati e contrassegnati come in un libro di temi matetematici, fu conseguenza del scientifico Divide et impera. Si può anche raccoglierli in un unico problema, il problema del mondo51.
Il possente pensatore, di cui oggi solennizziamo la memoria, credeva di aver sciolto questo problema; egli si era assestato il mondo a suo piacimento. Se Leibniz potesse, appoggiandosi sui suoi stessi lavori, prender parte oggi alle nostre meditazioni, egli certo direbbe con noi
«Dubitemus»
Note
- ↑ [p. 107 modifica]Questo «Ignorabimus» è lo stesso che la biologia di Berlino vuol tirare come un catenaccio davanti al progressivo sviluppo della scienza. Questo «Ignorabimus» è l’«Ignoratis» dell’infallibile Vaticano e dell’«Internazionale nera» da esso guidata, quella schiera di malaugurio contro la quale adesso la moderna umanità civile ha finalmente incominciata la lotta per la coltura. In questo combattimento spirituale... stanno da una parte sotto la luminosa bandiera della Scienza: Libertà di pensiero e Verità... dall’altra parte sotto la bandiera nera della Gerarchia: Schiavitù di pensiero, e Menzogna» Ernest Haeckel. Antropogenia o Storia dello sviluppo dell’uomo Leipzig 1874. p. 7 e segg. 3ª ed. 1877, p. 15 e segg.
- ↑ [p. 107 modifica]Cfr. il Discorso su La Mettrie nelle Relazioni mensili ecc. 1875. p. 104-105; Discorsi ecc. 2ª ed. V. I, p. 531.
- ↑ [p. 107 modifica]V. sopra. Nota 37.
- ↑ [p. 107 modifica]«Un epilogo come prefazione alle nuove edizioni della mia opera: «L’antica e la nuova fede». Opere riunite di David Friederich Strauss ecc. Con introduzione ecc. di Eduard Zeller V. VI Bonn 1876, p. 267.
- ↑ [p. 107 modifica]V. sopra p. 100
- ↑ [p. 107 modifica]Ernst Haeckel, La peregenesi del plastidulo o la produzione delle onde delle particelle di vita. [p. 108 modifica]Tentativo di interpretazione meccanica degli elementari processi vitali. Berlino 1876, p. 38-39.
- ↑ [p. 108 modifica]La Mettrie, Relazioni mensili ecc. 1875, p 101-102; Discorsi ecc. 2ª ed. V. I, p. 527-528.
- ↑ [p. 108 modifica]Anche il sig. von Nägeli crede all’animazione e ai movimenti volontari delle molecole. V. la sua conferenza «I limiti della conoscenza naturale scientifica» tenuta a München il 20 Settembre 1877 nella seconda seduta plenaria della 50ª convocazione dei Naturalisti e Medici tedeschi, a confutazione del mio discorso di Leipzig. Nel giornale delle convocazioni. Supplemento. Settembre 1877, p. 16, anche in appendice alla «Teoria meccanica-fisiologica della dottrina della discendenza» München e Leipzig, 1881. p. 597.
- ↑ [p. 108 modifica]Gustav Kirchhoff «Letture di fisica matematica. Meccanica» Leipzig 1876 p. 3-1.
- ↑ [p. 108 modifica]Natura: settimanale illustrato di Scienza. V. Vº. p. 81 (Nov. 30, 1871). V. XIX, p. 288 (Gen. 30 1879). Cfr. il mio Discorso sul sentimento nazionale nelle Relazioni mensili ecc. 1878, p. 241 e segg.; Discorsi ecc. 2ª ed. V. 1. p. 673 e segg.
- ↑ [p. 108 modifica]P. G. Tait. Letture su alcuni recenti progressi della scienza fisica, con una Lettura speciale sulla Forza, 3ª ed. riveduta. Londra 1885, p. 294 e segg. La teoria del vortice è stata recentemente allargata da J. J. Thomson (Il movimento dei giri vorticosi. Londra 1883). Cfr. Osborne Reynolds in: Natura. Dic. 27 1883. V. XXIX N. 739 p. 193.
- ↑ [p. 108 modifica]Cfr. il mio Discorso: Darwin versus Galiani. Relazioni mensili ecc. 1876. p. 400; Discorsi ecc. 2ª ed. V. I, p. 557.
- ↑ [p. 108 modifica]G. G. Leibnitii Opera philosophica ed. [p. 109 modifica]Erdmann. Berolini 1840. V. IV, p. 208. Risposta alle riflessioni... del sig. Bayle; p. 463 (Commentativo de Anima Brutorum V. IV).
- ↑ [p. 109 modifica]Le opere di John Locke in dieci volumi. 11ª ed. V. III. Londra 1812 p. 55-56.
- ↑ [p. 109 modifica]Leibnitii Opera ecc. l. c. p. 375-376. Cfr. p. 185-203.
- ↑ [p. 109 modifica]Leibnitii Opera ecc. l. c. p. 706. Leibniz non poteva certo supporre nel principe la conoscenza di alcun’altra grossa macchina che un mulino. A lui era immagine comune quella della macchina a vapore. (Corrispondenza di Leibniz e di Huygens con Papin, più la Biografia di Papin ecc. Ridotta, e pubblicata a spese della Regia Accademia prussiana di Scienze, dal Dott. E. Gerland, Berlino 1881.
- ↑ [p. 109 modifica]Cfr. sopra p. 41-42.
- ↑ [p. 109 modifica]Antropogenia o Storia dello sviluppo dell’uomo ecc. Cfr. sopra p. 63-64.
- ↑ [p. 109 modifica]Joh. Müller, Manuale di fisiologia dell’uomo ecc. V. II, 3ª parte. Koblenz 1840, p. 519.
- ↑ [p. 109 modifica]Cfr. la mia Conferenza tenuta a Colonia il 24 Marzo 1877 su la «Storia della coltura e Scienza naturale» 2ª ed. Leipzig 1878, p. 29-30. Discorsi ecc. 2ª ed. V. I. p. 590-591.
- ↑ [p. 109 modifica]M. Tullii Ciceronis Scripta quae manserunt omnia. Recognovit Reinholdus Klotz. Partis IV. V. I. Lipsiae 1872, p. 261-262 (Tusculanarum Disputationum Lib. I. Cap 231).
- ↑ [p. 109 modifica]Cfr. fra altri: Lettera al sig. Bayle (1702) Opera ecc. p. 191. «Quanto al libero arbitrio, io sono del parere dei Tomisti ed altri filosofi, i quali credono che tutto sia predeterminato».
- ↑ [p. 109 modifica]Cfr. Pensieri di Leibniz ecc. Relazioni [p. 110 modifica]mensili ecc. 1870. p. 839-840; Dicorsi ecc. 2ª ed. V. I, 375-376. Darwin versus Galiani. Relazioni mensili ecc. 1876, p. 401-402; Discorsi ecc. p. 559.
- ↑ [p. 110 modifica]Dizionario storico e critico ecc. 5ª ed. Amsterdam ecc. 1740. In-folio t. I, p. 708 e segg.
- ↑ [p. 110 modifica]Il Paradiso. Canto IV. Verso 1 e segg. In Dante però l’uomo «libero» in persona sta al posto dell’asino introdotto più tardi.
- ↑ [p. 110 modifica]Voltaire ha preceduto Heine nel mettere in poesia l’asino di Buridano. La Pucelle. Canto XII verso 16 e segg.
- ↑ [p. 110 modifica]Teodicea. Saggi sulla Bontà di Dio, la Libertà dell’uomo e l’Origine del Male. Parte I. 49 (Opera ecc. p. 517). L’asino di Buridano si trova anche prima in Leibniz, l. c. p. 225-448-449-594. Cfr. alla Teodicea l’edizione tedesca con traduzione ed interpretazione di Robert Habs, Leipz. Reclam giugno 1883.
- ↑ [p. 110 modifica]Laurentii Vallae Opera etc. Basilae apud Henrichum Petrum, Mense Augusto, Anno MDXLIII (Gr. 8) p. 1005 (Nell’opera: De Libero Arbitrio ad Garsam Episcopum Illerdensem).
- ↑ [p. 110 modifica]L. c. p. 620 (Partie III, p. 405 e segg ).
- ↑ [p. 110 modifica]V. sopra p. 51-52.
- ↑ [p. 110 modifica]In Inghilterra 1 2, in Germania nemmeno 0. 6 lettere, come mi comunicò gentilmente il «Weltpostmeister».
- ↑ [p. 110 modifica]Su l’Uomo e lo Sviluppo delle sue Facoltà, o Saggio di Fisica sociale. Bruxelles 1836 V. II, p. 171 e segg.
- ↑ [p. 110 modifica]Una delle più notevoli osservazioni sul problema del libero arbitro si trova nella Corrispondenza di Galiani recentemente pubblicata: «La [p. 111 modifica]convinzione della libertà» dice egli «costituisce l’essenza dell’uomo. Si potrebbe anzi definir l’uomo, un animale che si crede libero... È assolutamente impossibile per l’uomo dimenticare un solo istante e rinunciare alla sua convinzione d’esser libero. Ecco dunque un primo punto. Secondo punto: esser convinto d’esser libero è la stessa cosa che esser libero in realtà? rispondo: non è la stessa cosa, ma produce nella morale gli stessi effetti. L’uomo è dunque libero, poichè è intimamente convinto d’esserlo, e ciò vale quanto la libertà. Ecco dunque il meccanismo dell’universo spiegato chiaro come l’acqua di fonte. Se ci fosse un solo essere libero nell’universo, non ci sarebbe più Dio. L’universo si sconvolgerebbe; e se l’uomo non fosse intimamente, essenzialmente convinto sempre d’esser libero, il morale umano non andrebbe più come va. La convinzione della libertà basta per stabilire una coscienza, un rimorso, una giustizia, delle ricompense e delle pene. Essa basta a tutto; ed ecco il mondo spiegato con due parole». (L’abate F. Galiani Corrispondenza ecc. di Lucien Perey e Gaston Maugras. I Parigi 1881. p. 483-484).
- ↑ [p. 111 modifica]V. sopra p. 34-35.
- ↑ [p. 111 modifica]Leibnitii Opera etc. p. 133: «si conserva non soltanto la stessa quantità di forza motrice, ma anche la stessa quantità di direzione verso qualunque parte la si prenda nel mondo. Vale a dire: conducendo una linea retta quale a voi piacerà, e prendendo pure dei corpi tali e tanti quanto vi piacerà, troverete, considerando tutti questi corpi insieme, senza omettere alcuno di quelli che agiscono su qualcuno di quelli che avrete presi, che [p. 112 modifica]ci sarà sempre la stessa quantità di progresso dalla stessa parte in tutte le parallele alla destra che voi avete presa; badando che bisogna calcolare la somma del progresso detraendo quello dei corpi che vanno in senso contrario a quelli che vanno nel senso che è stato preso». Cfr. p. 108-429-430-520-645-702-711-723.
- ↑ [p. 112 modifica]Trattato del concatenamento delle idee fondamentali nelle Scienze e nella Storia. 1861. V. I, p. 364 e segg.
- ↑ [p. 112 modifica]Conciliazione del vero Determinismo meccanico con l’esistenza della Vita e della Libertà morale (Estratto delle Memorie della Società di Scienze, d’Agricoltura e d’Arti, di Lilla, anno 1878, v. VI, 4ª Serie) Parigi 1878. V. anche Resoconti ecc., 19 febb. 1877, v. LXXXIV, p. 362.
- ↑ [p. 112 modifica]Accordo delle leggi della Meccanica con la libertà dell’uomo nella sua azione sulla materia. Resoconti ecc., 5 marzo 1877, v. LXXXIV, p. 419 e segg.
- ↑ [p. 112 modifica]V. la mia esposizione nei: Progressi della Fisica nell’anno 1847, Presentata dalla Società Fisica di Berlino. V. III. Berlino 1850, p. 415. Sul movimento delle bestie. Discorso tenuto all’Associazione per letture scientifiche il 22 febb. 1851. Berlino 1851. p. 25, 26. Discorsi ecc., 2ª ed., V. I, p. 44, 45. Discorso commemorativo di Johannes Müller. Dai Saggi dell’Accademia, 1859. Berlino 1860, 4º, p. 88. Discorsi p. 206.
- ↑ [p. 112 modifica]Giornale della Scuola Politecnica, XIIIº fascicolo, v. VI 1806, p. 63, 106.
- ↑ [p. 112 modifica]Le parole del sig. Boussinesq sono: «..... È alle biforcazioni d’integrali delle equazioni d’un movimento che un principio direttore non ha bisogno [p. 113 modifica]d’alcuna forza meccanica per condurre il sistema materiale in cui esso risiede; è là che ogni lavoro distacco diventa superfluo, là soltanto che la vita può influire sui fatti in un modo che le sia proprio, vale a dire senza ricorrere al modo d’azione delle forze fisiche». (Conciliazione ecc., l. c., p. 33, 140).
- ↑ [p. 113 modifica]Claude Bernard Relazione sui progressi e il cammino della Fisiologia generale in Francia. Parigi 1867, p. 223, 233. Nota.
- ↑ [p. 113 modifica]Boussinesq l. c. p. 38. Cfr. sopra p. 29.
- ↑ [p. 113 modifica]Resoconti dell’Accademia di Scienze morali e politiche. 1878, v. IX, p. 696 e segg. Ristampato da Boussinesq l. c. p. 3 e segg.
- ↑ [p. 113 modifica]J. R. Mayer, Die Torricellische Leere und über auslösung. Stuttgart 1876, p. 11.
- ↑ [p. 113 modifica]De Saint-Venant l. c. p. 422: Noi abbiamo detto che la produzione degli effetti più immensi non esigeva che uno scambio adeguato delle due specie di energia (potenziale, e attuale o cinetica) e che la proporzione del lavoro determinante il principio di questo scambio tendeva ad un limite zero. Nulla impedisce dunque di supporre che l’unione tutta misteriosa del soggetto al suo organo sia stata stabilita tale, che possa senza lavoro meccanico, determinarvi il principio di simili scambi». Le parole in corsivo sono state messe in rilievo da me.
- ↑ [p. 113 modifica]Il sig. J. Delboeuf a Lüttich ha seguito, dopo d’allora, un’altra strada per conciliare il determinismo meccanico e il libero arbitrio. Egli suppone che l’essere vivente che agisce liberamente può arrestare l’impulso all’azione a lui meccanicamente imposta. Bollettini dell’Accademia Reale delle Scienze ecc. Belgio 3ª Serie 1881, v. I, p. 463 e segg.; 1882, [p. 114 modifica]v. III, p. 145 e segg.). Una soluzione simile si trova anche in Locke: Saggio sull’intelligenza umana. Opere ecc. v. I, p. 249, 252) Si può obiettare che la possibilità di cedere all’impulso o vincerlo a proprio piacimento, presuppone la libertà, perciò la soluzione si aggira in un circolo vizioso.
- ↑ [p. 114 modifica]Il sig. Boussinesq cita (l. c. p. 81 e segg.) su questo argomento uno scritto dell’Ingegnere in capo Philippe Breton, dal titolo: La riversione o il mondo a ritroso. Parigi 1876, che io non potei procurarmi. Una immagine dello stesso genere fu già dipinta drasticamente anni fa da Fechner col titolo di «Mondo a ritroso» (D.r Mises, operette. Leipzig 1875, p. 339).
- ↑ [p. 114 modifica]L. c. 267.
- ↑ [p. 114 modifica]V. sopra p. 43.
- ↑ [p. 114 modifica]Nella nota 16 alla conferenza da lui tenuta alla 53ª riunione dei Naturalisti e Medici tedeschi ad Eisenach il 18 sett. 1882; Concetto della natura di Darwin, Goethe e Lamarch (Jena 1882) Haeckel dice: «Inoltre la nostra convinzione monistica accetta soltanto un «enigma del mondo», mentre Du Bois-Reymond ne accettò già due, anzi recentemente sette! Probabilmente con questa evoluzione retrograda il loro numero crescerà di continuo». Nella conclusione dei Confini della conoscenza naturale (v. sopra p. 49-50) si dice espressamente «Sorge alla fine la domanda se i due confini della nostra conoscenza della natura non siano forse uno solo... Senza dubbio questa idea è la più semplice ecc.» e al punto del testo, corrispondente a questa nota si dice di nuovo chiaramente che i «Sette enigmi del mondo» sono in fondo uno solo, il «Problema del [p. 115 modifica]Mondo» soltanto per maggior comodità di trattazione conviene presentarli e numerarli separati. Figurarsi che si abbia tutto pensato prima è cosa, come si sa, da baccelliere. Tuttavia è poco da sperare che nel sig. Haeckel si compia la trasformazione già sperata da Mefistofele. Si vede però quale stupefacente leggerezza, fino alla deformazione della verità, il sig. Haeckel usa nella sua critica. (Dalle osservazioni per la pubblicazione separata del Discorso: «Goethe und kein Ende». Leipzig 1883, p. 42, 43).