Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1890)/VII
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LA COMMEDIA
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VII.
Chi mi ha seguito, vede che la divina Commedia non è un concetto nuovo, nè originale, nè straordinario, sorto nel cervello di Dante e lanciato in mezzo a un mondo maravigliato. Anzi il suo pregio è di essere il concetto di tutti, il pensiero che giaceva in fondo a tutte le forme letterarie, rappresentazioni, leggende, visioni, Trattati, Tesori, Giardini, sonetti e canzoni. L’allegoria dell’anima e la Commedia dell’anima sono gli schizzi, le categorie, i lineamenti generali di questo concetto.
Nel Convito la sostanza è l’Etica, che Dante cerca di rendere accessibile agl’illetterati, esponendola in prosa volgare. Qui il problema è rovesciato. La sostanza sono le tradizioni e le forme popolari rannodate intorno al Mistero dell’anima, il concetto di tutt’i misteri e di tutte le leggende, ed è in questo quadro che Dante gitta tutta la coltura di quel tempo. Con questa felice ispirazione, pigliando a base della coltura le tradizioni e le forme popolari, riunisce le due letterature, che si contendevano il campo, intorno al comune concetto che la ispirava, il mistero dell’anima. La rappresentazione e la leggenda esce dalla sua rozza volgarità e si alza a’ più alti concepimenti della scienza; la scienza esce dal santuario e si fa popolo, si fa mistero e leggenda. Indi l’immensa popolarità di questo libro che gl’illetterati accettavano nel senso letterale, e i dotti comentavano come un libro di scienza, come la Somma di san Tommaso. Il popolo vedeva in quei versi quel medesimo che sentiva nelle prediche, nelle divozioni e rappresentazioni, nè meraviglia che qualcuno guardando Dante con quella faccia pensosa e come alienata, dicesse: Costui par veramente uscito ora dall’Inferno. Gli eruditi si affannavano a cercare il senso de’ versi strani, e il Boccaccio iniziava quella serie di comenti che spesso in luogo di squarciare il velo lo fanno più denso.
In effetti la divina Commedia è una visione dell’altro mondo allegorica. Cristianamente, la visione e la contemplazione dell’altra vita è il dovere del credente, la perfezione. Il santo vive in ispirito nell’altro mondo; le sue estasi, le sue visioni si riferiscono alla seconda vita, a cui sospira. Dante accetta questa base ascetica, popolarissima: contemplare e vedere l’altro mondo è la via della salvazione. Per campare dalla selva del vizio e dell’ignoranza, egli si getta alla vita contemplativa, vede in ispirito l’altro mondo e narra quello che vede. Questo è il motivo ordinario di tutte le visioni, è la storia di tutt’i santi, è il tema di tutt’i predicatori, è la lettera della Commedia, visione dell’altro mondo, come via a salute. Ma la visione è allegoria. L’altro mondo è allegoria e immagine di questo mondo, è in fondo la storia o il mistero dell’anima ne’ suoi tre stati, detti nella Allegoria dell’anima Umano, Spoglia, Rinnova, che a’ tre mondi, Inferno, Purgatorio e Paradiso. È l’anima intenebrata dal senso, nello stato puramente umano, che spogliandosi e mondandosi della carne si rinnova, ritorna pura e divina. Questa allegoria era popolare e comune non meno che la lettera. Ciascuno vedeva un po’ l’altro mondo con l’occhio di questo mondo, con le sue passioni e interessi. I predicatori, soprattutto nella descrizione delle pene infernali, cercavano immagini delle passioni terrene. Il mistero dell’anima era la base di tutte le invenzioni, la leggenda delle leggende. L’uomo, caduto nell’errore e nella miseria, che finisce o vendendo l’anima al demonio, o purgandosi e salvandosi, era il fondamento di tutte le storie popolari, come s’è visto nell’Introduzione alle Virtù e nella Commedia dell’anima.
La Commedia dell’anima è l’anima uscita dalle mani di Dio pura, che in terra combatte le sue battaglie con la carne e col demonio, e vince assistita dalla grazia di Dio. Vizi e Virtù combattono, come gli Dei di Omero, intorno all’anima; le Virtù vincono e l’anima è salva. Nell’ Introduzione alle Virtù è un giovane caduto in miseria, a cui apparisce confortatrice la Filosofia, sua maestra e signora, e gli mostra la battaglia de’ Vizi e delle Virtù; e il giovane, spregiando i beni terrestri, si leva al cielo. La filosofia è anche la divina consolatrice di Boezio, così popolare, e di Dante a cui dopo la morte di Beatrice apparve questa nobilissima figlia dell’Imperatore dell’universo, facendolo suo amico servo. Il vizio e l’ignoranza, la conversione per opera di Dio o della filosofia, la redenzione e beatificazione, visione di Dio e della scienza, era il luogo comune delle due letterature, de’ semplici e degli uomini colti. E Dante fonde insieme le due forme, e tira nella sua allegoria filosofia e teologia, ragione e grazia, Dio e Scienza, e fa un mondo armonico, assegnando a ciascuno il suo luogo. L’anima nell’inferno e nel purgatorio, non essendo uscita ancora dal terreno, ha a guida il lume naturale, la Ragione o la Filosofia; ma la ragione è insufficiente senza la grazia di Dio: fatta libera o monda o leggiera, ha nel paradiso maestra la grazia o la teologia, luce intellettuale, che le mostra la scienza senza velo, o Dio nella sua essenza.
Perchè l’altro mondo è allegorico, figura dell’anima nella sua storia, il poeta è sciolto da’ vincoli liturgici e religiosi e spazia nel mondo libero dell’immaginazione. Prendendo a base le tradizioni e le forme cristiane, adopera alla sua costruzione tutt’i materiali della scienza, sacra e profana, e le tradizioni e favole del mondo pagano, mescolando insieme Enea e san Paolo, Caronte e Lucifero, figure classiche e cristiane. Così ha realizzato quel mondo universale della coltura, tanto desiderato dalle classi colte e fino allora tentato invano, cristiano nel suo spirito e nella sua letteratura, ma dove già penetra da tutte le parti il mondo antico. Mescolanza che in molti contemporanei pare strana e grottesca, legittimata qui dall’allegoria, che concede al poeta libertà di forme, ch’egli creda più acconce a significare i suoi concetti. Il mondo pagano e la scienza profana sono qui materiali di costruzione, usati a edificare un tempio cristiano, a quel modo che colonne egizie e greche si veggono talora nelle costruzioni moderne divenire simbolo e figure de’ nuovi tempi e delle nuove idee. Così a questa costruzione gigantesca prendon parte tutte le età e tutte le forme, fuse insieme e battezzate, penetrate da un solo concetto, il concetto cristiano.
L’ordito è semplicissimo: è la storia o mistero dell’anima nella sua espressione elementare, come si trova nella rappresentazione della Commedia dell’anima; e l’hai già tutta e chiara innanzi fin dal primo canto, Dante nel giorno del Giubileo, quando Bonifazio facea mostra di tutta la sua possanza, il mondo cristiano si raccoglieva intorno a lui, si trova smarrito in una selva oscura, e sta per soggiacere all’assalto delle passioni, figurate nella lonza, il leone e la lupa, quando a camparlo dal luogo selvaggio esce Virgilio, e lo mena seco a contemplare l’inferno e il purgatorio, ove, confessati i suoi falli, guidato da Beatrice, sale in Paradiso e di luce in luce giunge alla faccia di Dio. Allegoricamente, Dante è l’anima, Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Grazia, e l’altro mondo è questo mondo stesso nel suo aspetto etico e morale, è l’Etica realizzata, questo mondo quale dee essere secondo i dettati della filosofia e della morale, il mondo della giustizia e della pace, il regno di Dio.
Dante è l’anima non solo come individuo, ma come essere collettivo, come società umana, o umanità. Come l’individuo, così la società è corrotta e discorde, e non può aver pace se non instaurando il regno della giustizia o della legge, riducendosi dall’arbitrio dei molti sotto unico moderatore. E qui entra la tradizione virgiliana: la monarchia prestabilita da Dio, fondata da Augusto, discendente di Enea, e Roma per diritto divino capo del mondo. Questo concetto politico non è intruso e soprapposto, ma è, come si vede, lo stesso concetto etico, applicato all’individuo e alla società.
È tale la medesimezza che la stessa allegoria si può interpretare in un senso puramente etico, per rispetto all’individuo, e in un senso politico, per rispetto alla società. E non è perciò maraviglia che la stessa materia si presti con tanta docilità alle più diverse interpretazioni.
Se l’allegoria ha reso possibile a Dante una illimitata libertà di forme, gli rende d’altra parte impossibile la loro formazione artistica. Dovendo la figura rappresentare il figurato, non può essere persona libera e indipendente, come richiede l’arte, ma semplice personificazione o segno d’idea, sicchè non contenga se non i tratti soli che hanno relazione all’idea, a quel modo che il vero paragone non esprime di sè stesso se non quello solo che sia immagine della cosa paragonata. L’allegoria dunque allarga il mondo dantesco, e insieme lo uccide, gli toglie la vita propria e personale, ne fa il segno o la cifra di un concetto a sè estrinseco. Hai due realtà distinte, l’una fuori dell’altra, l’una figura e adombramento dell’altra, perciò amendue incompiute e astratte. La figura, dovendo significare non sè stessa, ma un altro, non ha niente di organico, e diviene un accozzamento meccanico mostruoso, il cui significato è fuori di sè, com’è il Grifone del Purgatorio, l’Aquila del Paradiso, e il Lucifero e Dante con le sette P incise sulla fronte.
La poesia non s’era ancora potuta sciogliere dalla allegoria. Il cristianesimo in nome del Dio spirituale facea guerra non solo agl’idoli, ma anche alla poesia, tenuta lenocinio e artifizio: voleva la nuda verità. E verità era filosofia o storia: la verità poetica non era compresa. La poesia era stimata un tessuto di menzogne, e poeta e mentitore, come dice il Boccaccio, era la stessa cosa; i versi erano chiamati, come dice san Girolamo, cibo del diavolo. La poesia perciò non fu accettata se non come simbolo e veste del vero: l’allegoria fu una specie di salvacondotto, pel quale potè riapparire fra gli uomini. Erano detti poeti solenni, a distinzione de’ popolari, i dotti che esprimevano in poesia la dottrina sotto figura, o in forma diretta. Dante definisce la poesia banditrice del vero, sotto il velame della favola ascoso, di modo che il lettore sotto alla dura corteccia, sotto favoloso e ornato parlare trovi salutari e dolcissimi ammaestramenti. La poesia è in sè una bella menzogna, che non ha alcun valore, se non come figura del vero.
Con questa falsa poetica, di cui abbiamo visto l’influenza ne’ nostri lirici, Dante lavora sopra idee astratte; trova una serie di concetti, e poi ti forma una serie corrispondente di oggetti. Le menti erano assuefatte a processo, a correre al generale. Il campo ordinario della filosofia scolastica era l’Ente con tutte le altre generalità, e la pratica del sillogismo avea avvezzi tutti, anche i poeti, a cercare in ogni cosa la maggiore, la Proposizione generale. Ora quel mondo di concetti è la maggiore dell’altro mondo.
Quali sieno questi concetti, io dirò, quasi con le stesse parole di Dante:
La patria dell’anima è il cielo, e come dice Dante, discende in noi da altissimo abitacolo. Essa partecipa della natura divina.
L’anima uscendo dalle mani di Dio, è semplicetta, sa nulla; ma ha due facoltà innate, la ragione e l’appetito, la virtù che consiglia, e l’esser mobile ad ogni cosa che piace, l’esser presta ad amare1.
L’appetito (affetto, amore) la tira verso il bene2. Ma nella sua ignoranza non sa discernere il bene, segue la sua falsa immagine, e s’inganna. L’ignoranza genera l’errore, e l’errore genera il male3.
Il male o il peccato è posto nella materia, nel piacere sensuale4.
Il bene è posto nello spirito, il sommo Bene è Dio, puro spirito5.
L’uomo dunque per esser felice, dee contrastare alla carne, e accostarsi al sommo Bene, a Dio. A questo fine gli è stata data la ragione come consigliera: indi nasce il suo libero arbitrio e la moralità delle sue azioni.6
La ragione per mezzo della filosofia ci dà la conoscenza del bene e del male. Lo studio della filosofia è perciò un dovere, è via al bene, alla moralità. La moralità è la bellezza della filosofia (Convito): è l’Etica, Regina delle Scienze, il primo cielo cristallino.
A filosofare è necessario amore. L’amore (appetito) può esser sementa di bene e di male secondo l’oggetto a cui si volge. Il falso amore è appetito non cavalcato dalla ragione. Il vero amore è studio della filosofia, unimento spirituale dell’anima con la cosa amata.
Filosofia è amistanza e sapienza, amicizia dell’anima con la sapienza. Nelle nature inferiori l’amore è sensibile dilettazione. Solo l’uomo, come natura razionale, ha amore alla verità e alla virtù (alla filosofia) (Convito).
Ciò è vera felicità, che per contemplazione della verità si acquista (Convito).
In questi concetti si trova il succo della morale antica. Già i filosofi pagani aveano mostrato la filosofia come unico porto fra le tempeste della vita; esser filosofo significava e significa anche oggi resistere alle passioni ed a’ piaceri, vincer sè stesso, serbar l’eguaglianza dell’anima nelle umane vicissitudini.
Ma ecco ora sopraggiungere il cristianesimo.
L’umanità per il peccato d’origine cadde in servitù dei sensi (del male o del peccato), e la ragione e l’amore non furono più sufficienti a salvarla. La ragione andava a tentoni, e menava all’errore: i filosofi andavan e non sapevan dove, l’amore rimaso senza rettore divenne appetito sensuale. Era necessaria una redenzione soprannaturale. Dio si fece uomo e redense l’umanità offrendosi vittima espiatoria per lei. (Par. VII).
Mediante questo sacrificio, la ragione è stata avvalorata dalla fede, l’amore avvalorato dalla grazia, la filosofia è stata compiuta dalla teologia, la rivelazione.
Redenta l’umanità ciascun uomo ha acquistato la virtù di salvarsi con l’aiuto di Dio. Guidato dalla ragione e dalla fede, fortificato dall’amore e dalla grazia, può affrancarsi da’ sensi e levarsi di mano in mano sino a Dio, al sommo Bene.
Questo cammino della materia o del peccato sino allo spirito o al bene comprende tutto il circolo della morale o etica. La conoscenza della morale (naturale e rivelata, filosofia e teologia) e perciò necessaria a salute.
La morale è il Nosce te ipsum, la conoscenza di sè stesso. L’uomo si trova in questa vita in uno de’ tre stati, di cui tratta la morale, stato di peccato, stato di pentimento, stato di grazia.
L’altro mondo è figura della morale. L’inferno è figura del male o del vizio: il paradiso è figura del bene o della virtù; il Purgatorio è il passaggio dall’uno all’altro stato mediante il pentimento e la penitenza. L’altro mondo è perciò figura de’ diversi stati ne’ quali l’uomo si trova in questa vita.7
La rappresentazione dell’altro mondo è dunque un’etica applicata, una storia morale dell’uomo, com’egli la trova nella sua coscienza. Ciascuno ha dentro di sè il suo inferno e il suo paradiso.
Il viaggio nell’altro mondo è figura dell’anima nel suo cammino a redenzione. Ed è Dante stesso che fa questo viaggio. Si trova in una selva oscura (stato d’ignoranza e di errore, la selva erronea del Convito), vede il dilettoso colle, principio e cagione di tutta gioja (la beatitudine), illuminata dal sole che mena dritto altrui per ogni calle (la Scienza), ma tre fiere (la carne, gli appetiti sensuali) gli tengono il passo. L’uomo da sè non può salire il calle, non può giungere a salute; viene dunque il Deus ex machina, l’ajuto soprannaturale. Si richiede non solo ragione, ma fede, non solo amore, ma grazia. Virgilio (ragione e amore) lo guida insino a che confesso e pentito e purgato d’ogni macula terrena succede Beatrice (ragione sublimata a fede, amore sublimato a grazia). Con questo ajuto esce dallo stato d’ignoranza e di errore (la selva), e prende il cammino della scienza (l’altro mondo, il mondo etico e morale). Gli si affaccia prima l’inferno (l’anima nello stato del male) e conosce il male nella sua natura, nelle sue specie, ne’ suoi effetti (vedi canto XI). Entra allora in purgatorio (pentimento ed espiazione), dove ancor vive la memoria e l’istinto del male, e conosciuto il suo stato, pentito e mondo, diventa libero (dalla carne o dal peccato). Si trova allora ricondotto allo stato d’innocenza, nel quale era l’uomo avanti il peccato d’origine, e vede il paradiso terrestre, e vede Beatrice (fede e grazia). Con la sua guida sale in paradiso (l’anima nello stato di beatitudine) di grado in grado si leva sino alla conoscenza e amore (contemplazione beatifica) di Dio, del sommo Bene, e in questa mistica congiunzione dell’umano e del divino si riposa (è beato).
La redenzione della società ha luogo nello stesso modo che degl’individui. La società serva della materia è anarchia, discordia, sviata dall’ignoranza e dall’errore. E come l’uomo non può ire a pace, se non vinca la carne ed ubbidisca alla ragione, così la società non può ridursi a concordia, se non presti ubbidienza ad un supremo moderatore (l’imperatore) che faccia regnare la legge (la ragione), guida e freno dell’appetito.8
Con questo fondo generale si lega tutto lo scibile di quel tempo, metafisica, morale, politica, storia, fisica, astronomia, ec.
Il centro intorno a cui gira questa vasta enciclopedia, è il problema dell’umana destinazione che si trova in fondo a tutte le religioni e a tutte le filosofie, il mistero dell’anima, pensiero della letteratura volgare sotto tutte le sue forme. Il problema è posto ed è sciolto cristianamente. L’umanità ha perduto, ed ha racquistato il paradiso; questa storia epica di Milton è l’antecedente del problema. L’umanità ha racquistato il paradiso, cioè ciascun uomo ha acquistato la forza di salvarsi. Ma in che modo? qual è la via di salvazione? La Commedia è la risposta a questa domanda, la soluzione del problema.
Il cristianesimo ne’ primi tempi di fervore rispondea: L’uomo si salva, imitando Cristo che ha salvato l’umanità, si salva con l’amore. Bisogna volger le spalle alla vita terrena e seguire Dio, lui amare, lui contemplare. Di qui la preminenza della vita contemplativa, che Dante chiama eccellentissima, e simile alla vita divina. Il che dovea menar dritto alla visione estatica, alla comunione tra l’anima e Dio, al misticismo, tanta parte della letteratura volgare. Gli uomini stanchi del mondo cercavano pace e obblio nei monasteri, e nutrivano l’anima del pensiero della morte, della meditazione dell’altra vita; i santi padri esortano spesso i fedeli a volger la mente all’altro mondo; anche oggi le prediche, i libri ascetici, i libri di preghiera non sono che un continuo memento mori; è famoso il pensa, anima mia, frase formidabile, a cui il lettore vede già in aria venir dietro il giudizio universale e le fiamme dell’inferno. Se le cose di quaggiù sono caduche, e nulla promission rendono intera, se il significato serio della vita e nell’altro mondo, se là è il vero, è la realtà; l’Iliade, il poema della vita è la Commedia, la storia dell’altro mondo.
In quei primi tempi la scienza non è necessaria a salute, anzi i cristiani menavano vanto della loro ignoranza: beati pauperes spiritu. Avendo per avversari, gli uomini più dotti, del paganesimo, rispondevano ex abundantia cordis, con la sicurezza e l’eloquenza della fede, la loro lingua di fuoco. Ma questo amore di cuori semplici, che spesso umiliava l’orgoglio di una scienza vota e arida, non bastò più appresso. Aristotele dominava nelle scuole, la scienza si era introdotta nella teologia e ne avea fatto un cumulo di sottigliezze, lo stesso misticismo avea preso forme scientifiche, divenuto ascetismo, scienza della santificazione, in Agostino, Bernardo e Bonaventura. L’amore dunque prende un contenuto, diviene scienza, e la loro unità è la filosofia, uso amoroso di sapienza.
La scienza però non contraddice, non annulla, anzi fortifica e dimostra lo stesso concetto della vita. Anche per Dante la santificazione è posta nella contemplazione; l’oggetto della contemplazione è Dio; la beatitudine è la visione di Dio; al sommo della scala de’ Beati mette i contemplanti, non gli operanti; ma per giungere all’unione con Dio, non basta volere, bisogna sapere, ci vuole la sapienza che è amore e scienza, unità del pensiero e della vita. Perciò Virgilio non può esser ragione, che non sia anche amore, e Beatrice non può esser fede, che non sia anche grazia; Dante stesso conosce e vuole a un tempo; ogni suo atto del conoscere mena a un suo atto del volere. L’intelletto è in cima della scala; l’amore dee essere inteso, se ne dee avere intelletto.
Tale è la soluzione dantesca. A quattro secoli di distanza il problema si ripresenta, ma i termini sono mutati. Il punto di partenza non è più l’ignoranza, la selva oscura, ma la sazietà e vacuità della scienza, l’insufficienza della contemplazione, il bisogno della vita attiva. La sapiente Beatrice si trasforma nell’ignorante e ingenua Margherita; e Fausto non contempla ma opera; anzi il suo male è stato appunto la contemplazione, lo studio della scienza, e il rimedio che cerca è ribattezzarsi nelle fresche onde della vita. Ma al tempo di San Tommaso la ragione entrava appena nella sua giovinezza; sorgea da lungo ozio, curiosa, credula, acuta, tanto più confidente, quanto meno esperta della misura di sè e delle cose; le si domandava tutto e prometteva tutto. Dovea ella darci la pietra filosofale del mondo morale, la felicità. Lo scopo della scienza non era speculativo solamente ma pratico. Nell’ordine speculativo era già conseguito il suo scopo, divenuta per Dante un libro chiuso, di cui tutte le pagine sono scritte. Ma la scienza dee operare anche sulla volontà, menare a virtù e felicità. E se questo miracolo non era ancora avvenuto, se la realtà era tanto disforme alla scienza, doveasene recare la cagione secondo Dante e i contemporanei all’ignoranza. Bisognava dunque volgarizzare la scienza; darle uno scopo morale, drizzarla all’opera. Indi l’importanza che ebbe l’etica e la rettorica, la scienza de’ costumi e l’arte della persuasione.
I tentativi fatti, compreso il Convito, furono infelici. Trattandosi di verità da esporre e non da cercare, manca lo spirito e l’ardore scientifico, manca in tutti, anche in Dante. La stessa esposizione non è libera, predeterminata da forme scolastiche. Da queste condizioni non potea uscire una letteratura filosofica, quella forma, propria degli uomini meditativi, che ti rivela non solo l’idea, ma come in te nasce, come la si presenta, con esso i sentimenti che l’accompagnano, pregna di altre idee, le quali per la potenza comprensiva della parola intravvedi, ancora senza contorni, mobili, nasciture. Qui sta la vita superiore della forma filosofica, generata immediatamente dal travaglio del pensiero, che mette immoto tutte le altre facoltà, compresa l’immaginazione. In quei tentativi il contenuto scientifico ci sta, non nel punto che tu lo trovi e vi metti sopra la mano, ma già trovato, divenuto nello spirito un antecedente non esaminato, tolto pesolo e grezzo dalla scuola. La terra si manifesta meglio al coltivatore che al proprietario. Dante sa di avere i tali fondi, ma non ci va, non entra in comunione con quelli, non vive della vita de’ campi, non li lavora, li conosce sulla carta. Rimane una proprietà astratta, senza effettiva possessione, senza assimilazione, un mio che non è me, non è fatto parte dell’anima mia. Non ci è investigazione, e non ci è passione, dico la passione che è generata da un amoroso lavoro intellettuale. Il filosofo fora la superficie e si seppellisce nel mondo sotterraneo, dove, come dice Mefistofele, stanno le profonde radici della scienza. Ma qui la scienza è salita sulla superficie, e se ne coglie i frutti senza fatica. Tutto è dato, la scienza, con esso le sue prove e il suo linguaggio; sì che, ferme e intangibili le parti superiori della scienza, non rimane libera che l’ultima e più bassa operazione dell’intelletto, distinguere e sottilizzare.
Essendo la scienza base di tutto l’edificio, ne seguitò quella falsa poetica di cui è detto. La letteratura solenne e dotta divenne un istrumento della scienza, un modo di volgarizzarla. E tenne due vie, l’esposizione diretta o allegorica. Nè altro fu l’intendimento di Dante nella rappresentazione dell’altro mondo. Come que’ filosofi che sotto nome di Utopia costruiscono un mondo dove sia realizzato il loro sistema, Dante costruisce un mondo allegorico della scienza, dove pur trova modo di esporla in forma diretta nelle sue parti sostanziali.
Egli ha aria di dire: Volete salvarvi l’anima? venite appresso a me nell’altro mondo; ivi impareremo dalla bocca de’ morti la filosofia morale, la scienza della salvazione. E i morti parlano ed espongono la scienza, soprattutto in Paradiso, i cui stalli sembrano convertiti in vere cattedre o pulpiti. Nè la scienza è solo nelle parole de’ morti, ma anche nella costruzione e rappresentazione dell’altro mondo, dove essa è sposta sotto figura, in forma allegorica. Il sistema insegue il poeta in mezzo a’ suoi fantasmi, e dice: Bada che tu non passeggi per curiosità, per osservare e dipingere; il tuo scopo è l’insegnamento della scienza per la salute dell’anima; non ti dimenticare della scienza. E la poetica gli soggiunge: Pensa che tutte le tue invenzioni, belle che sieno e maravigliose, sono nè più nè meno che sciocche bugie, quando non rendono odore di scienza; la poesia è un velo sotto il quale si dee nascondere la dottrina. Ond’è che il poeta costringe la stessa realtà a produrre un contenuto scientifico: dietro la realtà ci è la scienza, come dietro l’ombra ci è il corpo: qui la scienza è il corpo, e la realtà è l’ombra, ombrifero prefazio del vero, anzi è meno che ombra, perchè nell’ombra ci è pure l’immagine del corpo. È l’alfabeto della scienza, come la parola è del pensiero, un alfabeto composto non di lettere, ma di oggetti, ciascuno segno della tale e tale idea.
Questi erano i concetti, e queste le forme, a cui lo spirito era giunto. Perciò quel concetto fondamentale dell’età, il mistero dell’anima o dell’umana destinazione, non era ancora realizzato, come arte; perchè l’arte è realtà vivente, che abbia il suo valore e il suo senso in sè stessa, e qui la scienza in luogo di calare nel reale ed obbliarvisi, lo tira e lo scioglie in sè.
Il mistero dell’anima era dunque o rozza e greggia realtà nella letteratura popolare, o trattato e allegoria nella letteratura dotta e solenne.
Dante s’impadronì di questo concetto e tentò realizzarlo come arte. Ma ci si mise con le stesse intenzioni e con le stesse forme. Prese quella rozza realtà degli ascetici, e volle farne l’ombrifero prefazio del vero, l’allegoria della scienza. Da questa intenzione non potea uscir l’arte.
Neppure l’esposizione della scienza in forma diretta è arte. Il poeta che vuole esporre la scienza, e vuol pur fare una poesia, si propone un problema assurdo, voler dare corpo a ciò che per sua natura è fuori del corpo. La poesia si riduce dunque a un puro abbigliamento esteriore, non penetra l’idea, non se l’incorpora; l’idea rimane invitta nella sua astrazione. Dante spiega in questo assunto tutte le forze della sua immaginazione; nessuno più di lui ha saputo con tanta potenza assalire la scienza nel proprio campo e farle forza; ma questo connubio della poesia e della scienza, ch’egli chiama nel Convito un eterno matrimonio, non è uno di due, è un eterno due. La poesia può farle preziosi doni, può vestirla sontuosamente, ingemmarla, girarle attorno carezzevole, può abbigliarla, non possederla. E la possiede allora solamente, quando non la vede più fuori di sè, perchè è divenuta la sua vita e anima, la realtà.
L’allegoria è una prima forma provvisoria dell’arte. È già la realtà, che però non ha valore in sè stessa, ma come figura, il cui senso e il cui interesse è fuori di sè, nel figurato, oggetto o concetto che sia. E poichè nel figurato ci è qualche cosa che non è nella figura, e nella figura ci è qualche cosa che non è nel figurato, la realtà divenuta allegorica vi è necessariamente guasta e mutilata. O il poeta le attribuisce qualità non sue, ma del figurato, come il veltro che si ciba di sapienza e di virtude, o esprime di lei solo alcune parti, e non perchè sue, ma perchè si riferiscono al figurato, come il Grifone del Purgatorio. In tutti e due i casi la realtà non ha vita propria, o per dir meglio non ha vita alcuna; l’interesse è tutto nel figurato, nel pensiero. Ora o il pensiero è oscuro, e cessa ogni interesse; o è dubbio, di maniera che ti si affaccino più sensi, e tu rimani sospeso e raffreddato; o è chiaro, e lo hai innanzi nella sua generalità, senza carattere poetico. La selva è figura della vita terrena. E la vita terrena, appunto perchè figurato, ti si porge spoglia di ogni particolare, per cui e in cui è vita, generale e immobile come un concetto. Questo povero figurato è condannato, come Pier delle Vigne, a guardarsi il suo corpo penzolare innanzi senza che mai sen rivesta; e non propriamente suo perchè quel corpo singolare, che chiamasi figura, serve a due padroni, è sè ed un altro, è insieme lettera e figura, un corpo a due anime, rappresentato in guisa, che prima paja sè stesso, la selva, e considerato attentamente mostri in sè le orme di un altro. Talora la figura fa dimenticare il figurato; talora il figurato strozza la figura. Per lo più nel senso letterale penetrano particolari estranei che lo turbano e lo guastano, e per volerci procurare un doppio cibo ci si fa stare digiuni.
Adunque in queste forme non ci è ancora arte. La realtà ci sta o come immagine del pensiero astratto ed estrinseco, o come figura di un figurato parimente astratto ed estrinseco. Non ci è compenetrazione dei due termini. Il pensiero non è calato nell’immagine, il figurato non è calato nella figura. Hai forme iniziali dell’arte; non hai ancora l’arte.
Dante si è messo all’opera con queste forme e con queste intenzioni. Se l’allegoria gli ha dato abilità a ingrandire il suo quadro e a fondere nel mondo cristiano tutta la coltura, mitologia, scienza e storia, ha d’altra parte viziato nell’origine questo vasto mondo, togliendogli la libertà e spontaneità della vita, divenuto un pensiero e una figura, una costruzione a priori, intellettuale nella sostanza, allegorica nella forma.
E se la Commedia fosse assolutamente in questi termini, sarebbe quello che fu il Tesoretto prima e il Quadriregio poi, grottesca figura d’idee astratte.
Ma dirimpetto a quel mondo della ragione astratta viveva un mondo concreto e reale, la cui base era la storia del vecchio e nuovo Testamento nella sua esposizione letterale e allegorica, e che nelle allegorie, nei misteri, nei cantici, nelle laude, nelle visioni, nelle leggende avea avuta già tutta una letteratura. Era la letteratura degli uomini semplici, poveri di spirito. A costoro la via a salute era la contemplazione non di esseri allegorici, figurativi della scienza ma reali, Dio, la Vergine, Cristo, gli Angioli, i Santi, l’inferno, il purgatorio, il paradiso, ciò che essi chiamavano l’altra vita, non figura di questa, anzi la sola che essi chiamavano realtà e verità. Il contemplante o il veggente era il santo, il profeta, l’apostolo, banditore della parola di Dio. Dante, amico della filosofia, contemplando il regno divino, se ne fa non solo il filosofo, ma il profeta e l’apostolo, rivelandolo e predicandolo agli uomini; diviene il missionario dell’altro mondo, ed è san Pietro che gli apre la bocca e lo investe della sacra missione:
Apri la bocca
E non nasconder quel ch’io non nascondo.
Ora questo mondo cristiano, di cui si faceva il profeta, era per lui una cosa così seria, come per tutt’i credenti, seria nel suo spirito e nella sua lettera. Ne parla col linguaggio della scienza, lo intravvede attraverso la scienza ma la scienza non lo dissolveva anzi lo illustrava e lo confermava. Supporre che esso fosse una figura, una forma trovata per adombrarvi i suoi concetti scientifici, è un anacronismo, è un correre sino a Goethe. La scienza penetra in questo mondo come ragionamento o come allegoria, e spiega la sua costruzione e il suo pensiero, a quel modo che il filosofo spiega la natura. E come la natura così l’altro mondo è per Dante più che figura, è vivace e seria realtà, che ha in sè stessa il suo valore e il suo significato.
Nè quel mondo cristiano rimane nella sua generalità religiosa com’è ne’ cantici, nelle prediche e ne’ misteri e leggende. Dalla vita contemplativa cala nella vita attiva, e si concreta nella vita reale. Essendo la perfezione religiosa nel dispregio de’ beni terreni, i credenti da Francesco d’Assisi a Caterina non poteano vedere con animo quieto i costumi licenziosi de’ chierici e de’ frati, la corruzione della città santa, dove Cristo si mercava ogni giorno, il Papa divenuto sovrano temporale e dominato da fini e interessi terreni, in tresca adultera co’ Re. Su questo punto i santi sono così severi, come Dante; più avean fede, e maggiore era l’indignazione. Venendo più al particolare, abbiam visto Bonifazio legarsi con Filippo il Bello contro l’Imperatore, ciò che Dante chiama un adulterio, inviare Carlo di Valois a Firenze, cacciarne i Bianchi, instaurarvi i guelfi. Il guelfismo era allora la Chiesa, fatta meretrice del Re di Francia, che la trasse poco poi in Avignone, divenuta pietra di scandalo e aizzatrice di tutte le discordie civili. Come potere e interesse temporale, era essa non solo radice e causa della corruzione del secolo, ma impedimento alla costituzione stabile delle nazioni e massime d’Italia in quella unità civile o imperiale, che rendea immagine dell’unità del regno di Dio. A questo mondo guasto contrapponevano la purezza de’ tempi evangelici e primitivi e il vivere riposato e modesto delle città, prima che vi entrasse la corruzione e la licenza de’ costumi, di cui la Chiesa dava il mal esempio.
Come si vede, il mondo politico entrava per questa via nel mondo cristiano, e ne facea parte sostanziale. La politica non era ancora una scienza con fini e mezzi suoi; era un’appendice dell’etica e della rettorica. E come vita reale il suo modello era il mondo cristiano, di cui si ricordava un’immagine pura in tempi più antichi, una specie di età dell’oro della vita cristiana.
Questo mondo cristiano-politico non era già per Dante una contemplazione astratta e filosofica. Mescolato nella vita attiva, egli era giudice e parte. Offeso da Bonifazio, sbandito da Firenze, errante per il mondo tra speranze e timori, fra gli affetti più contrarii, odio e amore, vendetta e tenerezza, indignazione e ammirazione, con l’occhio sempre volto alla patria che non dovea più vedere, in quella catastrofe italiana c’era la sua catastrofe, le sue opinioni contraddette, la sua vita infranta nel fiore dell’età e offesi i suoi sentimenti di uomo e di cittadino. Le sue meditazioni, le sue fantasie mandano sangue. Non è Omero, contemplante sereno e impersonale; è lui in tutta la sua personalità, vero microcosmo, centro vivente di tutto quel mondo, di cui era insieme l’apostolo e la vittima.
Se dunque, come filosofo e letterato, involto nelle forme e ne’ concetti dell’età, volea costruire un mondo etico o scientifico in forma allegorica, come entra in quel mondo, non vi trova più la figura. Simile a quel pittore che s’inginocchia innanzi al suo san Girolamo, trasformatasi nell’immaginazione la figura nella persona del Santo, egli cerca la figura e trova una realtà piena di vita, trova sè stesso.
Oltre a ciò, Dante era poeta. Invano afferma che poeta vuol dire profeta, banditore del vero. Sublime ignorante, non sapea dov’era la sua grandezza. Era poeta e si ribella all’allegoria. La favola, ciò ch’egli chiama bella menzogna, lo scalda, lo soverchia, e vi si lascia in dietro come innamorato, nè sa creare a metà, arrestarsi a mezza via. Nel caldo dell’ispirazione non gli è possibile starsi col secondo senso innanzi, e formar figure mozze, che vi rispondono appuntino, particolare con particolare, accessorio con accessorio, come riesce a’ mediocri. La realtà straripa, oltrepassa l’allegoria, diviene sè stessa; il figurato scompare, in tanta pienezza di vita, fra tanti particolari. Indi la disperazione de’ comentatori: egli fece il suo mondo, e lo abbandonò alle dispute degli uomini.
Per metter d’accordo la sua poetica con la sua poesia, Dante sostiene nel Convito che il senso letterale dee essere indipendente dall’allegorico, di modo che sia intelligibile per sè stesso. Con questa scappatoia si è salvato dalle strette dell’allegoria, ed ha conquistato la sua libertà d’ispirazione, la libertà e indipendenza delle sue creature. Sia pure l’altro mondo figura della scienza; ma è prima e innanzi tutto l’altro mondo, e Virgilio è Virgilio, e Beatrice è Beatrice, e Dante è Dante, e se d’alcuna cosa ci dogliamo, è quando il secondo senso vi si ficca dentro e sconcia l’immagine e guasta l’illusione.
Sicchè nella Commedia come in tutt’i lavori d’arte, si ha a distinguere il mondo intenzionale e il mondo effettivo, ciò che il poeta ha voluto, e ciò che ha fatto. L’uomo non fa quello che vuole, ma quello che può. Il poeta si mette all’opera con la poetica, le forme, le idee e le preoccupazioni del tempo; e meno è artista, più il suo mondo intenzionale è reso con esattezza. Vedete Brunetto e Frezzi. Ivi, tutto è chiaro, logico e concorde: la realtà è una mera figura. Ma se il poeta è artista, scoppia la contraddizione, vien fuori non il mondo della sua intenzione, ma il mondo dell’arte.
Come l’argomento siasi affacciato a Dante non è chiaro. Le memorie secrete del genio non sono scritte ancora e mal si può indovinare da quello che è espresso quello che è preceduto nello spirito d’un autore. È difficile far la geologia di un lavoro d’arte, trovare nel definitivo le traccie del provvisorio. È probabile che la Commedia sia stata vagamente concepita fin dalla giovinezza, ad imitazione di quelle commedie dell’anima, di quelle visioni dell’altra vita, così in voga: e che dapprima il poeta pensasse solo alla glorificazione di Beatrice e alla rappresentazione pura e semplice dell’altro mondo; e forse de’ frammenti e anche de’ canti furono scritti prima che un disegno ben chiaro e concorde gli entrasse in mente. Questo è il tempo oscuro alla critica e altamente drammatico, il tempo de’ tentennamenti, del silenzioso contendere con sè stesso, degli abbozzi, del va e vieni, storia intima del poeta. Il quale, quando gli si mostra l’argomento, vede per prima cosa dissolversi quella parte di realtà che vi risponde, fluttuante come in una massa di vapori guardata da alto, dove gli alberi, i campanili, i palazzi, tutte le figure si decompongono e si offrono a frammenti. Chi non ha la forza di uccidere la realtà, non ha la forza di crearla. Ma sono frammenti già penetrati di virtù attrattiva, amorosi, che si cercano, si congregano, con desiderio, con oscuro presentimento della nuova vita a cui sono destinati. La creazione comincia veramente, quando quel mondo tumultuario e frammentario trovi un centro intorno a cui stringersi. Allora esce dall’illimitato che lo rende fluttuante e prende una forma stabile; allora nasce e vive, cioè si sviluppa gradatamente secondo la sua essenza. Ora il mondo dantesco trovò la sua base nella idea morale.
La idea morale non è concetto arbitrario ed estrinseco all’argomento, è insito nell’altro mondo, è il suo concetto; perchè senza di quella l’altro mondo non ha ragion d’essere. La base dunque è vera, e nell’argomento; e se difetto c’è, il difetto è nella natura dell’argomento. Ma Dante meditandovi sopra, e non come poeta, ma come filosofo, valicò l’argomento. Non è contento che la ci sia, ma la mostra e la spiega. E non si contenta neppure di questo. Quella idea diviene la filosofia, tutto un sistema di concetti ben coordinato, e non è più la base, il senso interiore dell’altro mondo, a quel modo che lo spirito è nella natura, ma è essa il contenuto, essa l’argomento, essa lo scopo. Così quella vivace realtà si va ad evaporare in una generalità filosofica, e il lavoro diviene un insegnamento morale-politico sotto il velo dell’altro mondo. Il poeta spontaneo e popolare si volta nel poeta dotto e solenne. Descrivere l’altro mondo così alla semplice e nel suo senso immediato gli pare un frivolo passatempo, la maniera de’ narratori volgari. La lettera ci è, ma è per i profani, per gli uomini semplici, che non vedono di là dell’apparenza. Ma egli scrive per gli iniziati, per gl’intelletti sani, e loro raccomanda di non fermarsi alla corteccia, di guardare di là! E tutti si son messi a guardare di là.
Così sono nati due mondi danteschi, uno letterale e apparente, l’altro occulto, la figura e il figurato. E poichè l’interesse è in questo senso occulto, in questo di là, i dotti si son messi a cercarlo. L’hanno cercato, e non l’hanno trovato, e dopo tante dispute e vane congetture esce infine il buon senso, esce Voltaire e dice: Gl’italiani lo chiamano divino; ma è una divinità occulta; pochi intendono i suoi oracoli; la sua fama si manterrà sempre, perchè nessuno lo legge. E Voltaire vuol dire: Abbiamo sudato parecchi secoli per capirti: e poichè non ti vuoi far capire, statti con Dio. E vuol dire ancora: Ne val poi la pena? è una falsa divinità quella che rimane nascosta. Pure nè il veto del Voltaire valse ad arrestare le ricerche, nè il suo disprezzo ad intiepidire l’ammirazione. Con nuovo ardore italiani e stranieri si misero a interpretare questo Giano a due facce o piuttosto a due mondi, l’uno visibile e l’altro invisibile; ciascuno si provò ad alzare un lembo del velo di cui si è ravvolto il Dio. Ma nè acutezza d’ingegno, nè copia di dottrina, nè profonda conoscenza di quei tempi, nè studio paziente delle altre sue opere hanno potuto trarci fuori delle ipotesi e delle congetture. Gli antichi interpreti dissentivano nei particolari; il dissenso de’ moderni è più profondo; hai interi sistemi che si confutano a vicenda. Oggi ancora non si pubblica un Dante in Germania che non ci si appicchino nuove spiegazioni; non puoi leggere una critica della Commedia, che non ti trovi ingolfato in un pelago di quistioni. Dante è divenuto un nome che spaventa, irto di sillogismi e soprasensi, e spesso sei ridotto a domandarti: Qual è il vero Dante? Poichè ciascun comentatore ha il suo, ciascuno gli appicca le opinioni e passioni sue, e lo fa cantare a suo modo, e chi ne fa un apostolo di libertà, di umanità, di nazionalità, chi un precursore di Lutero, chi un santo Padre. Cercano Dante dove non è, cercano i suoi pregi dove sono i suoi difetti, e qual maraviglia che il Lamartine alla sua volta cercandolo colà e non vel trovando, si sia affrettato a conchiudere: dunque Dante non esiste? Io ne conchiudo: Poichè non è là, cerchiamolo altrove. La grandezza del Dio non è nel santuario, ma là dove si mostra con tanta pompa al di fuori. A forza di cercar maraviglie in un mondo ipotetico, non vediamo quelle che ci si affacciano innanzi. Parlando a coro della dignità della Commedia e de’ veri e del senso arcano, si è data una importanza fattizia a questo mondo intellettuale allegorico, se non fosse per altro, per la fatica che ci si è spesa. Se Dante tornasse in vita, sentendo a dire che Beatrice è l’eresia o la sua anima, che le arpie sono i monaci domenicani, che Lucifero è il Papa, che il suo vocabolario è un gergo settario, e vedendo quanti sensi occulti gli sono affibbiati, potrebbe a più d’uno tirargli le orecchie e dire: Cotesto arri non ci misi io. Ma gli si potrebbe rispondere: vostra colpa: perchè non siete stato più chiaro? Ci avete promessa un’allegoria: perchè non ci avete data un’allegoria? La vostra figura non risponde appuntino al figurato: perchè l’avete fatta sì bella? perchè le avete data tanta realtà? In tanta ricchezza di particolari dove o come trovare l’allegoria? E qual maraviglia che la stessa figura significhi una per me e una per voi? qual maraviglia che nella stessa figura si trovi di che provare la verità di tre o quattro interpretazioni? E ci fosse solo un senso! Ma ci fate sapere che oltre all’allegorico, ci è il senso morale e l’analogico: dove trovare il bandolo? I vostri ascetici gridano che il corpo è un velo dello spirito: ma il peccatore fa di cappello allo spirito e adora la carne. E anche voi gridate, che i versi sono un velo della dottrina; e come il peccatore, piantate lì il figurato, e correte appresso alla figura, e la fate così impolpata, così corpulenta, che è un velo denso e fitto, di là dal quale non si vede nulla, e perciò si vede tutto, quello che intendete voi e quello che intendiamo noi. Se dunque la vostra allegoria è come l’ombra di Banco messa tra voi e noi che ci toglie la vostra vista, se il vostro poema è divenuto un immenso geroglifico, un mondo ignoto, alla cui scoperta si son messi infruttuosamente molti Colombi, di chi è la colpa? Non forse della vostra poca logica, che altro intendete e altro fate? Rimproveri che sono un elogio.
Così è. Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che non intendeva. Ciascuno è quello che è, anche a suo dispetto, anche volendo essere un altro. Dante è poeta e avviluppato in combinazioni astratte, trova mille aperture per farvi penetrare l’aria e la luce. Tratto ad una falsa concezione dal mezzo de’ tempi, valica l’argomento e si trova in un mondo di puri concetti, e fa di questi la sua intenzione e si tira appresso tutta la realtà e ne vuol fare la figura de’ suoi concetti. Ma come attinge il reale ivi sente sè stesso, ivi genera, ivi l’ingegno trova la sua materia; queste figure prendono corpo, acquistano una vita propria; e le direste creature libere e indipendenti, se quella benedetta intenzione non vi fosse rimasa attaccata come una palla di piombo, impacciando a volta a volta i loro movimenti. Così quel mondo internazionale, tanto caro al poeta, si è ito come nebbia dissipando innanzi alla luce del mondo reale, solo rimasto vivo. Tutto l’altro è l’astratto di quel mondo, è il lavoro oltrepassato, non è la Commedia, è il suo di là, la sua nebbia, che pur penetra qua e là e lascia delle grandi ombre, che gl’interpreti dilatano e trasformano in una sola e vasta ombra. A quel modo che i geologi scoprono i vestigi di forme imperfette, che attestano la lenta e progressiva formazione della materia; qui si discernono i frammenti di un mondo prosaico, intellettuale, allegorico, scissi, isolati, sterili, più o meno tollerabili, secondo la maggiore o minore abilità dell’esposizione, inviluppati in una forma più alta, alla quale il genio sospinse il poeta attraverso gli errori della sua poetica. I quali frammenti sono i fossili della Commedia, morti già da gran tempo, vivi solo agli eruditi, i geologi della letteratura; e se la loro morte non ha potuto seco involgere il rimanente, gli è che il vero lavoro è in questo rimanente, dotato di una vita così fresca e tenace, che distende un po’ di sua luce anche sulle parti morte. Quel contenuto astratto vive in grazia del mondo in cui si trova entrato; spiccatenelo, isolatelo, e non se ne parlerebbe più.
Che cosa è dunque la Commedia? È il medio evo realizzato, come arte, malgrado l’autore e malgrado i contemporanei. E guardate che gran cosa è questa! Il medio evo non era un mondo artistico, anzi era il contrario dell’arte. La religione era misticismo, la filosofia scolasticismo. L’una scomunicava l’arte, abbruciava le immagini, avvezzava gli spiriti a staccarsi dal reale. L’altra viveva di astrazioni e di formole, e di citazioni, drizzando l’intelletto a sottilizzare intorno a’ nomi e alle vacue generalità che si chiamavano essenze. Gli spiriti erano tirati verso il generale, più disposti a idealizzare che a realizzare: ciò che è proprio il contrario dell’arte. Nei poeti semplici trovi il reale rozzo, senza formazione, come ne’ misteri, nelle visioni, nelle leggende. Ne’ poeti solenni trovi una forma o crudamente didascalica, o figurativa e allegorica. L’arte non era nata ancora. C’era la figura; non c’era la realtà nella sua libertà e personalità.
Dante raccoglie da’ misteri la commedia dell’anima, e fa di questa storia il centro di una sua visione dell’altro mondo. Tutta questa rappresentazione non è che senso letterale; la visione è allegorica, i personaggi sono figure e non persone; ma ciò che è attivo nel suo spirito, lo porta verso la figura e non verso il figurato. La sua natura poetica, tirata per forza nelle astrattezze teologiche e scolastiche, ricalcitra e popola il suo cervello di fantasmi, e lo costringe a concretare, a materializzare, a formare anche ciò che è più spirituale e impalpabile, anche Dio. Quel mondo letterale lo ammalia, lo perseguita, lo assedia e non posa che non abbia ricevuta la sua forma definitiva; e non è più lettera, ma è spirito, non è più figura, ma è realtà, è un mondo in se compiuto e intelligibile, perfettamente realizzato. Visione e allegoria, trattato e leggenda, cronache, storie, laude, inni, misticismo e scolasticismo, tutte le forme letterarie e tutta la cultura dell’età sta qui dentro inviluppata e vivificata, in questo gran mistero dell’anima o dell’umanità, poema universale, dove si riflettono tutt’i popoli e tutti i secoli che si chiamano il medio evo.
Ma questo mondo artistico, uscito da una contraddizione tra l’intenzione del poeta e la sua opera, non è compiutamente armonico, non è schietta poesia. La falsa coscienza poetica disturba l’opera di quella geniale spontaneità; e vi gitta dentro un tentennare, un non so che di mal sicuro e di non compiuto, una mescolanza e crudezza di colori. Il pensiero, ora nella sua crudità scolastica, ora abbellito d’immagini che pur non bastano a vincere la sua astrattezza, vi ha troppo gran parte. Le sue figure allegoriche ricordano talora più i mostri orientali che la schietta bellezza greca, personificazioni astratte, anzi che persone conscie e libere. Preoccupato del secondo senso che ha in mente, spesso gli escono particolari estranei alla figura, che turbano e distruggono il lettore e gli rompono l’illusione. La presenza perenne di un altro senso che aleggia al di sopra della rappresentazione ed introducevisi a quando a quando, ne turba la chiarezza e l’armonia. Anche lo stile, inviluppato alcuna volta in rapporti lontani e sottili, perde la sua lucidità e riesce intralciato e torbido. Non è un tempio greco; è un tempio gotico, pieno di grandi ombre, dove contrari elementi pugnano, non bene armonizzati. Or rozzo, or delicato. Ora poeta solenne, or popolare. Ora perde di vista il vero e si abbandona a sottigliezze; ora lo intuisce rapidamente, e lo esprime con semplicità. Ora rozzo cronista, ora pittore finito. Ora si perde nelle astrattezze, ora di mezzo a quelle fa germogliare la vita. Qui cade in puerilità, là spicca il volo a sopraumane altezze. Mentre tien dietro a un sillogismo, brilla la luce dell’immagine. E mentre teologizza, scoppia la fiamma del sentimento. Talora ti trovi innanzi ad una fredda allegoria, quando tutto ad un tratto vi senti dentro tremare la carne. Talora la sua credulità ti fa sorridere, talora la sua audacia ti fa stupire. Fu un piccolo mondo, dove si rifletteva tutta l’esistenza, com’era allora. I contrari elementi, che fermentavano in una società ancora nello stato di formazione, contendevano in lui. E senza che ne avesse coscienza. Se guardi alle sue aspirazioni, tutto è armonia. Filosofo, pensa il regno della scienza e della virtù. Cristiano, contempla il regno di Dio. Patriota, sospira al regno della giustizia e della pace. Poeta, vagheggia una forma tutta luce e proporzione e armonia, lo bello stile; il suo autore è Virgilio. Maggiore era la barbarie e la rozzezza, e più si vagheggiava un mondo armonico e concorde. Ma il poeta è inviluppato egli medesimo in quella rozza realtà e in quelle forme discordi; e ne sente la puntura, e gli manca la serenità dell’artista. E gli esce dalla fantasia un mondo dell’arte in gran parte realizzato, ma dove pur trovi gli angoli e le scabrosità di una materia non perfettamente doma.
Entriamo in questo mondo, e guardiamolo in sè stesso e interroghiamolo. Perchè un argomento non è tabula rasa, dove si può scrivere a genio, ma è marmo già incavato e lineato, che ha in sè il suo concetto e le leggi del suo sviluppo. La più grande qualità del genio è d’intendere il suo argomento, e diventare esso, risecando da sè tutto ciò che non è quello. Bisogna innamorarsene, vivere ivi dentro, essere la sua anima o la sua coscienza. E parimente il critico, in luogo di porsi innanzi regole astratte, e giudicare con lo stesso criterio la Commedia e l’Iliade e la Gerusalemme e il Furioso, dee studiare il mondo formato dal poeta, interrogarlo, indagare la sua natura che contiene in sè virtualmente la sua poetica, cioè le leggi organiche della sua formazione, il suo concetto, la sua forma, la sua genesi, il suo stile. Che cosa è l’altro mondo?
È il problema dell’umana destinazione sciolto, è il mistero dell’anima spiegato, è la fine della storia umana, il mondo perfetto, l’eterno presente, l’immutabile necessità. Nella natura non ci è più accidente, nell’uomo non ci è più libertà. La natura è predeterminata e fissata secondo una logica preconcetta, secondo l’idea morale. Reale e ideale diventano identici, apparenza e sostanza è tutt’uno. L’uomo non ha più libero arbitrio; è lì, fissato e immobilizzato, come natura. Ogni azione è cessata; ogni vincolo che lega gli uomini in terra, è sciolto, patria, famiglia, ricchezze, dignità, costumi. Non c’è più successione, nè sviluppo, non principio e non fine: manca il racconto e manca il dramma. L’individuo scompare nel genere. Il carattere, la personalità, non ha modo di manifestarsi. Eterno dolore, eterna gioja, senza eco, senza varietà, senza contrasto nè gradazione. Non ci è epopea, perchè manca l’azione; non ci è dramma, perchè manca la libertà: la lirica è l’immutabile e monotona espressione di una sola aria; rimane l’esistenza nella sua immobile estrinsechezza, descrizione della natura e dell’uomo.
Che cosa è dunque l’altro mondo per rispetto all’arte? È visione, contemplazione, descrizione, una storia naturale.
Ma in questa visione penetra la leggenda o il mistero, perchè ivi dentro è rappresentata la Commedia o redenzione dell’anima nel suo pellegrinaggio dall’umano al divino, da Fiorenza in popol giusto e sano. Ci hai dunque l’apparenza di un dramma, che si svolge nell’altro mondo, i cui attori sono Dante, Virgilio, Catone, Stazio, il demonio, Matilde, Beatrice, san Pietro, san Bernardo, la Vergine, Dio, dramma allegorico, come allegorica è la commedia dell’anima. Dico apparenza di un dramma, perchè la santificazione nasce non dall’operare ma dal contemplare, e Dante contempla, non opera, e gli altri mostrano, insegnano. Il dramma dunque svanisce nella contemplazione.
Questo mondo così concepito era il mondo de’ misteri e delle leggende, divenuto mondo teologico scolastico in mano a’ dotti. Dante lo ha realizzato, gli ha dato l’esistenza dell’arte, ha creato quella natura e quell’uomo. E se il suo mondo non è perfettamente artistico, il difetto non è in lui, ma in quel mondo, dove l’uomo è natura e la natura è scienza, e da cui è sbandito l’accidente e la libertà, i due grandi fattori della vita reale e dell’arte.
Se Dante fosse frate o filosofo, lontano dalla vita reale, vi si sarebbe chiuso entro e non sarebbe uscito da quelle forme e da quell’allegoria. Ma Dante, entrando nel regno de’ morti, vi porta seco tutte le passioni de’ vivi, si trae appresso tutta la terra. Dimentica di essere un simbolo o una figura allegorica, ed è Dante, la più potente individualità di quel tempo, nella quale è compendiata tutta l’esistenza, com’era allora, con le sue astrattezze, con le sue estasi, con le sue passioni impetuose, con la sua civiltà e la sua barbarie. Alla vista e alle parole di un uomo vivo le anime rinascono per un istante, risentono l’antica vita, ritornano uomini; nell’eterno ricomparisce il tempo; in seno dell’avvenire vive e si muove l’Italia, anzi l’Europa di quel secolo. Così la poesia abbraccia tutta la vita, cielo e terra, tempo ed eternità, umano e divino; ed il poema soprannaturale diviene umano e terreno, con la propria impronta dell’uomo e del tempo. Riapparisce la natura terrestre, come opposizione, o paragone, o rimembranza. Riapparisce l’accidente e il tempo, la storia e la società nella sua vita esterna ed interiore; spunta la tradizione virgiliana, con Roma capitale del mondo e la monarchia prestabilita, ed entro a questa magnifica cornice hai come quadro la storia del tempo, Bonifazio VIII, Roberto, Filippo il Bello, Carlo di Valois, i Cerchi e i Donati, la nuova e l’antica Firenze, la storia d’Italia e la sua storia, le sue ire, i suoi odii, le sue vendette, i suoi amori, le sue predilezioni.
Così la vita s’integra, l’altro mondo esce dalla sua astrazione dottrinale e mistica, cielo e terra si mescolano, sintesi vivente di questa immensa comprensione Dante, spettatore, attore e giudice. La vita guardata dall’altro mondo acquista nuove attitudini, sensazioni e impressioni. L’altro mondo guardato dalla terra veste le sue passioni e i suoi interessi. E n’è uscita una concezione originalissima, una natura nuova e un uomo nuovo. Sono due mondi onnipresenti, in reciprocanza d’azione, che si succedono, si avvicendano, s’incrociano, si compenetrano, si spiegano e s’illuminano a vicenda, in perpetuo ritorno l’uno nell’altro. La loro unità non è in un protagonista, nè in un’azione, nè in un fine astratto ed estraneo alla materia; ma è nella stessa materia; unità interiore e impersonale, vivente indivisibile unità organica, i cui momenti si succedono nello spirito del poeta, non come meccanico aggregato di parti separabili, ma penetranti gli uni negli altri e immedesimantisi, com’è la vita. Questa energica e armoniosa unità è nella natura stessa de’ due mondi, materialmente distinti, ma una cosa nell’unità della coscienza. Cielo e terra sono termini correlativi, l’uno non è senza l’altro; il puro reale ed il puro ideale sono due astrazioni; ogni reale porta seco il suo ideale; ogni uomo porta seco il suo inferno e il suo paradiso; ogni uomo chiude nel suo petto tutti gli Dei d’Olimpo: lo scettico può abolire l’inferno, non può abolir la coscienza. Appunto perchè i due mondi sono la vita stessa nelle sue due facce, in seno a questa unità si sviluppa il più vivace dualismo, anzi antagonismo: l’altro mondo rende i corpi ombre, ombre gli affetti e le grandezze e le pompe, ma in quelle ombre freme ancora la carne, trema il desiderio, suonano d’imprecazioni terrene fino le tranquille volte del cielo. Gli uomini con esso le loro passioni e vizi e virtù rimangono eterni, come statue, in quell’attitudine, in quella espressione d’odio, di sdegno, di amore, che sono stati colti dall’artista; ma mentre l’altro mondo eterna la terra, trasportandola nel suo seno e ponendole dirimpetto l’immagine dell’infinito, ne scopre il vano e il nulla: gli uomini sono gli stessi in un diverso teatro, che è la loro ironia. Questa unità e dualità uscente dall’imo stesso della situazione balena al di fuori nelle più varie forme, ora in un’apostrofe, ora in un discorso, ora in un gesto, ora in un’azione, ora nella natura, ora nell’uomo, in questa unità penetra la più grande varietà, nè è facile trovare un lavoro artistico, in cui il limite sia così preciso e così largo. Niente è nell’argomento che costringa il poeta a preferire il tal personaggio, il tal tempo, la tale azione; tutta la storia, tutti gli aspetti sotto a’ quali si è mostrata l’umanità, sono a sua scelta; e può abbandonarsi a suo talento alle sue ire e alle sue opinioni, e può intramettere nello scopo generale fini particolari, senza che ne scapiti l’unità. Il che dà al suo universo compiuta realità poetica, veggendosi nella permanente unità tutto ciò che sorge e dalla libertà dell’umana persona e dall’accidente, e moversi con vario gioco tutt’i contrasti, e il necessario congiunto col libero arbitrio, e il fato col caso.
Adunque, che poesia è codesta? Ci è materia epica, e non è epopea; ci è una situazione lirica e non è lirica: ci è un ordito drammatico, e non è dramma. È una di quelle costruzioni gigantesche e primitive, vere enciclopedie, bibbie nazionali, non questo o quel genere, ma il Tutto, che contiene nel suo grembo ancora involute tutta la materia e tutte le forme poetiche, il germe di ogni sviluppo ulteriore. Perciò nessun genere di poesia vi è distinto ed esplicato; l’uno entra nell’altro, l’uno si compie nell’altro. Come i due mondi sono in modo immedesimati, che non puoi dire: qui è l’uno, e qui è l’altro; così i diversi generi sono fusi di maniera, che nessuno può segnare i confini che li dividono, nè dire: questo è assolutamente epico, e questo è drammatico.
È il contenuto universale, di cui tutte le poesie non sono che frammenti, il poema sacro, l’eterna geometria e l’eterna logica della creazione incarnata ne’ tre mondi cristiani, la città di Dio, dove si riflette la città dell’uomo in tutta la sua realtà del tal luogo e del tal tempo, la sfera immobile del mondo teologico, entro di cui si movono tempestosamente tutte le passioni umane.
L’idea che anima la vasta mole e genera la sua vita e il suo sviluppo, è il concetto di salvazione, la via che conduce l’anima dal male al bene, dall’errore al vero, dall’anarchia alla legge, dal moltiplice all’uno. È il concetto cristiano e moderno dell’unità di Dio sostituita alla pluralità pagana. Questo concetto se fosse solo un di fuori, spiegato nella sua astrattezza dottrinale come pensiero, o rappresentato in forma allegorica, come figurato, non basterebbe a generare un’opera d’arte. Ma qui è non solo il di fuori, ma il di dentro, non solo il significato e la scienza di quel mondo, opera di filosofo e di critico, ma principio attivo, com’è nell’uomo e nella natura, che costruisce e forma quel mondo, e gli dà una storia e uno sviluppo. Questo principio attivo se nella sua astrattezza si può chiamare il vero o il bene, o la virtù o la legge, come realtà viva e operosa, è lo spirito, che ha per suo contrario la materia o la carne, dove sta come in una prigione o in un vasello da cui si sforza di uscire. La vita è perciò un antagonismo, una battaglia tra lo spirito e la carne, tra Dio e il demonio. E la sua storia è la progressiva vittoria dello spirito, la costui consapevolezza e libertà sotto le forme in cui vive, il suo successivo assottigliarsi e scorporarsi e idealizzarsi sino a Dio, assoluto spirito, la Verità, la Bontà, l’Unità, l’ultimo Ideale. Il concetto dantesco, lo spirito che abita per entro al suo mondo, è dunque la progressiva dissoluzione delle forme, un costante salire di carne a spirito, l’emancipazione della materia e del senso mediante l’espiazione e il dolore, la collisione tra il satanico e il divino, l’inferno e il paradiso posta e sciolta. Omero trasporta gli Dei in terra e li materializza; Dante trasporta gli uomini nell’altro mondo e li spiritualizza. La materia vi è parvenza; lo spirito solo è; gli uomini sono ombre: i fatti umani si riproducono come fantasmi innanzi alla memoria; la terra stessa è una rimembranza che ti fluttua avanti come una visione; il reale, il presente è l’infinito spirito; tutto l’altro è vanità che par persona. Questo assottigliamento è progressivo; il velo si fa sempre più trasparente. L’inferno è la sede della materia, il dominio della carne e del peccato; il terreno vi è non solo in rimembranza, ma in presenza; la pena non modifica i caratteri e le passioni; il peccato, il terrestre si continua nell’altro mondo e s’immobilizza in quelle anime incapaci di pentimento; peccato eterno, pena eterna. Nel purgatorio cessano le tenebre, e ricomparisce il sole, la luce dell’intelletto, lo spirito; il terreno è rimembranza penosa che il penitente si studia di cacciar via, e lo spirito sciogliendosi dal corporeo si avvia al compiuto possesso di sè, alla salvazione. Nel paradiso l’umana persona scomparisce, e tutte le forme si sciolgono ed alzano nella luce; più si va su, e più questa gloriosa trasfigurazione s’idealizza, insino a che al cospetto di Dio, dell’assoluto spirito, la forma vanisce e non rimane che il sentimento.
Tutta cessa
Mia visïone e ancor mi distilla
Nel cor lo dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
Così al vento nelle foglie lievi
Si perdea la sentenzia di Sibilla.
Questo concetto comprende tutto lo scibile e tutta la storia; non solo costruisce e sviluppa il mondo dantesco, ma lo incontrate sempre vivo nel cammino intellettuale e storico della vita, sotto tutte le forme, in tutte le stioni che si affacciano al poeta, in religione, in filosofia, in politica, in morale, e così si concreta e compie in tutti gl’indirizzi della vita. In religione è il cammino dalla lettera allo spirito, dal simbolo all’idea, dal vecchio al nuovo testamento; nella scienza dall’ignoranza e dall’errore alla ragione e dalla ragione alla rivelazione; in morale dal male al bene, dall’odio all’amore mediante l’espiazione; in politica dall’anarchia all’unità. Sottoposto alle condizioni di spazio e di tempo, diventa storia, il tale uomo, il tale popolo, il tale secolo. In religione vi sta innanzi la Chiesa romana, il Papato, che il poeta vuole emancipare dalle cure e passioni terrene e ricondurre al suo fine spirituale; in filosofia avete la scienza volgare e la scienza della verità in paradiso; in morale vi stanno innanzi le passioni, le discordie, le colpe e i vizii della barbara età, dalle quali vi sentite a poco a poco allontanare nel vostro cammino verso il sommo Bene; in politica è l’Italia anarchica e sanguinosa che il poeta aspira a comporre a pace e concordia nell’unità dell’impero. Così un solo concetto penetra il tutto, come forma, come pensiero e come storia. Mai più vasta e concorde comprensione non era uscita da mente di uomo. Alcuni ci vedono dentro l’altro mondo, e il resto è una intrusione e quasi una profanazione; Edgard Quinet rimane choquè, veggendo come le passioni del poeta lo inseguono fino in paradiso; altri ci veggono un mondo politico, di cui quello sia la rappresentazione sotto figura. Chiamano questo poema o religioso, o politico, o didascalico o morale; lo riducono a querele di cattolici e protestanti, a dispute di guelfi e ghibellini. Guardano non dall’alto del monte, dalla pianura, e prendono per il tutto quello che incontrano nella diritta linea del loro cammino. Ciascuno si fabbrica un piccolo mondo, e dice: questo è il mondo di Dante. E il mondo di Dante contiene tutti quei mondi in sè. È il mondo universale del medio evo realizzato dall’arte.
Questa immensa materia si forma e si sviluppa secondo il concetto in tre mondi, de’ quali l’inferno e il paradiso sono le due forze in antagonismo, carne e spirito, odio e amore, e il purgatorio è il termine medio o di passaggio: tre mondi, dei quali la letteratura non offriva che povere e rozze indicazioni, e che escono dalla fantasia dantesca vivi e compiuti.
L’inferno è il regno del male, la morte dell’anima e il dominio della carne, il caos; esteticamente è il brutto.
Dicesi che il brutto non sia materia d’arte, e che l’arte sia rappresentazione del bello. Ma è arte tutto ciò che vive e niente è nella natura che non possa essere nell’arte. Non è arte quello solo che ha forma difettiva o in sè contraddittoria, cioè l’informe o il deforme o il difforme: e perciò non è arte il confuso, l’incoerente, il dissonante, il manierato, il concettoso, l’allegorico, l’astratto, il generale, il particolare: tutto questo non è vivo, è abbozzo o aborto d’artisti impotenti. L’altro, bello o brutto che si chiami in natura, esteticamente è sempre bello.
In natura il brutto è la materia abbandonata a’ suoi istinti, senza freno di ragione: e ne nasce una vita che ripugna alla coscienza morale e al senso estetico. Alla sua vista il poeta vede negata la sua coscienza, negato sè stesso, e perciò lo concepisce come brutto e gli dice: tu sei brutto. Più il suo senso morale ed estetico è sviluppato, e più la sua impressione è gagliarda, più lo vede vivo e vero innanzi all’immaginazione. Perciò non pensa a palliarlo, e tanto meno ad abbellirlo, anzi lo pone in evidenza e lo ritrae coi suoi proprii colori.
Il brutto è elemento necessario così nella natura, come nell’arte; perchè la vita è generata appunto da questa contraddizione tra il vero e il falso, il bene e il male, il bello e il brutto. Togliete la contraddizione, e la vita si cristallizza. Verità così palpabile che le immaginazioni primitive posero della vita due principii attivi, il bene e il male, l’amore e l’odio. Dio e il demonio: antagonismo che si sente in tutte le grandi concezioni poetiche. Perciò il brutto così nella natura, come nell’arte ci sta con lo stesso dritto che il bello, e spesso con maggiori effetti, per la contraddizione che scoppia nell’anima del poeta. Il bello non è che sè stesso; il brutto è sè stesso e il suo contrario, ha nel suo grembo la contraddizione, perciò ha vita più ricca, più feconda di situazioni drammatiche. Non è dunque maraviglia che il brutto riesca spesso nell’arte più interessante e più poetico. Mefistofele è più interessante di Fausto, e l’inferno è più poetico del paradiso.
Dante concepisce l’inferno, come la depravazione dell’anima, abbandonata alle sue forze naturali, passioni, voglie, istinti, desiderii, non governati dalla ragione, o dall’intelletto, contraddizione ch’egli esprime con l’energia di uomo offeso nel suo senso morale:
le genti dolorose
Che hanno perduto il ben dell’intelletto.
Che libito fe’ licito in sua legge.
Che la ragion sommettono al talento.
L’anima è dannata in eterno per la sua eterna impenitenza; peccatrice in vita, peccatrice ancora nello inferno, salvo che qui il peccato è non in fatto, ma in desiderio. Onde nell’inferno la vita terrena è riprodotta tal quale, essendo il peccato ancor vivo, e la terra ancora presente al dannato. Il che dà all’inferno una vita piena e corpulenta, la quale spiritualizzandosi negli altri due mondi diviene povera e monotona. Gli è come un andare dall’individuo alla specie e dalla specie al genere. Più ci avanziamo, e più l’individuo si scarna e si generalizza. Questa è certo perfezione cristiana e morale; ma non è perfezione artistica. L’arte come la natura è generatrice, e le sue creature sono individui, non specie o generi, non tipi o esemplari; sono res, non species rerum. Perciò l’inferno ha una vita più ricca e piena, ed è de’ tre mondi il più popolare. Aggiungi che la vita terrena o infernale è colta dal poeta nel vivo stesso della realtà in mezzo a cui si trova, essendo essa la rappresentazione epica della barbarie, nella quale il rigoglio della passione e la sovrabbondanza della vita trabocca al di fuori. Dante stesso è un barbaro, un eroico barbaro, sdegnoso, vendicativo, appassionatissimo, libera ed energica natura. Al contrario la vita negli altri due mondi non ha riscontro nella realtà, ed è di pura fantasia, cavata dall’astratto del dovere e del concetto, e ispirata dagli ardori estatici della vita ascetica e contemplativa.
Essendo l’inferno il regno del male o della materia in sè stessa e ribelle allo spirito, la legge che regola la sua storia o il suo sviluppo è un successivo oscurarsi dello spirito, insino alla sua estinzione, alla materia assoluta.
Il suo punto di partenza è l’indifferente, l’anima priva di personalità e di volontà, il negligente. Il carattere qui è il non averne alcuno. In questo ventre del genere umano non è peccato, nè virtù, perchè non è forza operante; qui non è ancora inferno, ma il preinferno, il preludio di esso. Ma se, moralmente considerati, i negligenti tengono il più basso grado nella scala de’ dannati, e pajono a Dante sciaurati più che peccatori, il concetto morale rimane estrinseco alla poesia, e non serve che a classificare i dannati. Altri sono i criterii del poeta. La morale pone i negligenti sul limitare dell’inferno, la poesia li pone più giù dell’ultimo scellerato, che Dante stima più di questi mezzi uomini. E la poesia è d’accordo con la tempra energica del gran poeta e de’ suoi contemporanei. A quegli uomini vestiti di ferro anima e corpo questi esseri passivi e insignificanti doveano ispirare il più alto dispregio. E il dispregio fa trovare a Dante frasi roventi. Sono uomini che vissero senza infamia e senza lode, anzi non fur mai vivi. La loro pena è di essere stimolati continuamente, essi che non sentirono stimolo alcuno nel mondo. La pena è minima, eppure tale è la loro fiacchezza morale, sono così vinti nel duolo, che lacrimano e gettano le alte strida, che fanno tumultuare l’aria come la rena quando il turbo spira. A’ loro piedi è la loro immagine, il verme. Turba infinita, senza nome: appena accenna ad un solo, e senza nominarlo, colui che fece per viltate il gran rifiuto.
Il loro supplizio è la coscienza della loro viltà, il sentirsi dispregiati, cacciati dal cielo e dall’inferno. Ritratto immortale, e popolarissimo, di cui alcuni tratti sono rimasti proverbiali. Esseri poetici, appunto perchè assolutamente prosaici, la negazione della poesia e della vita: onde nasce il sublime negativo degli ultimi tre versi:
Fama di loro il mondo esser non lassa
Misericordia e giustizia gli sdegna.
Non ragioniam di lor; ma guarda e passa.
Se i negligenti non sono nell’inferno, perchè mancò loro la forza del bene e del male, gl’innocenti e i virtuosi non battezzati non sono in paradiso perchè mancò loro la fede, sono nel Limbo. E anche qui il concetto teologico ci sta per memoria, per semplice classificazione. La poesia nasce da altre impressioni e da altri criterii. Il valore poetico dell’uomo non è nella sua moralità e nella sua fede, ma nella sua energia vitale; non è una idea, ma una forza il personaggio poetico. Perciò il negligente, considerato esteticamente, è un sublime negativo, la negazione della forza, il non esser vivo. E perciò qui nel Limbo la mancanza di fede è un semplice accessorio, e l’interesse è tutto nel valore intrinseco dell’uomo, come essere vivo, come forza. Dio ha lo stesso criterio poetico e dà ad alcuni un luogo distinto non per la loro maggiore bontà, ma per la fama che loro acquistò in terra la grandezza dell’ingegno e delle opere.
L’onorata nominanza,
Che di lor suona su nel vostro mondo,
Grazia acquista nel ciel che sì gli avanza.
Concetto poco ascetico e poco ortodosso; ma Dio si fa poeta con Dante e gli fabbrica un Eliso pagano, un Panteon di uomini illustri. E chi vuol trovare le impressioni di Dante, quando alzava questo magnifico tempio della storia e della cultura antica, e le impressioni che ne dovettero ricevere i contemporanei, ricordi le sue impressioni quando giovinetto su’ banchi della scuola gli si affacciarono le maraviglie di questo mondo greco-latino. Aristotile, Omero, Virgilio, Cesare, Bruto, ciascuno di questi nomi, quante memorie, quante fantasie suscitava! Nudo è qui un elenco di nomi tra alcuni tratti caratteristici che segnano i protagonisti, il Signore dell’altissimo canto e il maestro di color che sanno. E colui che a quella vista si sente esaltare in sè stesso e s’incorona poeta con le sue mani e si proclama il primo poeta de’ tempi nuovi, sesto tra tanto senno, e non è il Dante dell’altro mondo, ma Dante Alighieri. Ecco ciò che rende il Limbo così interessante, come il mondo de’ negligenti, due concezioni originalissime uscite da un profondo sentimento della vita reale e rimaste freschissime ne’ secoli. Molti tratti sono ancora oggi in bocca del popolo.
Come l’inferno è concepito e ordinato, lo spiega nel canto XI il poeta stesso, architetto e filosofo delle sue costruzioni. Quel regno del male è partito in tre mondi, rispondenti alle tre grandi categorie del delitto: la incontinenza e violenza, la malizia, e la fredda premeditazione. Ciascuna di queste categorie si divide in generi e specie, in cerchi e gironi. Il concetto etico di questa scala de’ delitti è che dove è più ingiuria, è più colpa, e l’ingiuria non è tanto nel fatto quanto nell’intenzione. Perciò la malizia e la frode è più colpevole della incontinenza e violenza, e la fredda premeditazione de’ traditori è più colpevole della malizia. Indi la storica evoluzione dell’inferno dove da’ meno colpevoli, gl’incontinenti, si passa alla città di Dite, sede de’ violenti, e poi si scende in Malebolge, e di là nel pozzo dei traditori. Questo è l’inferno scientifico o etico. Ma non è ancora l’inferno poetico.
La poesia dee voltare questo mondo intellettuale in natura vivente. L’ordine scientifico presenta una serie di concetti astratti, il poetico una serie di figure, di fatti, e d’individui: il primo una serie di delitti, il secondo una serie non solo d’individui colpevoli, ma di tali e tali individui. Dividere in categorie significa considerare in un gruppo d’individui non quello che ciascuno ha di proprio, ma quello che ha di comune col gruppo a cui appartiene. Così una classificazione è possibile, una esatta riduzione a generi e specie. Ma la poesia ritorna l’individuo nella sua libera personalità, e lo considera non come essere morale, ma come forza viva e operante. E più in lui è vita, più è poesia. Perciò, se l’inferno, come mondo etico, è il successivo incattivirsi dello spirito, sì che alla violenza, comune all’uomo, e all’animale, succede la malizia, male proprio dell’uomo, e alla malizia la fredda premeditazione, questo concetto poeticamente rimane ozioso e non serve che alla sola classificazione. Come natura vivente o come forma, l’inferno è la morte progressiva della natura, la vita è il moto che manca a poco a poco sino alla compiuta immobilità, alla materia dove insieme con la vita muore la poesia. Indi la storia dell’inferno.
Dapprima la situazione è tragica; il motivo è la passione, dove la vita si manifesta in tutta la sua violenza; perchè la passione raccoglie tutte le forze interiori, distratte e sparpagliate nell’uso quotidiano della vita, intorno a un punto solo, di modo che lo spirito acquista la coscienza della sua libertà infinita. Preso per sè stesso lo spirito ed isolato dal fatto, la sua forza è infinita e non può esser vinta neppure da Dio, non potendo Dio fare ch’esso non creda, non senta, e non voglia quello che crede, sente e vuole. Non vi è donnicciuola, così vile, che non si senta forza infinita, quando è stretta dalla passione. Io ti amo, e ti amerò sempre, e se dopo morte si ama, ed io ti amerò, e piuttosto con te in inferno, che senza te in paradiso. Queste sono le eloquenti bestemmie che traboccano da un cuore appassionato, e che rendono eroiche la timida Giulietta e la gentile Francesca.
Ma quando la passione vuole realizzarsi, s’intoppa in un altro infinito, nell’ordine generale delle cose, di cui si sente parte e innanzi a cui è un fragile individuo. E n’esce la tragica collisione tra la passione e il Fato, l’uomo e Dio, il peccato. Nella vita nè la passione, nè il fato sono nella loro purezza, la passione ha le sue fiacchezze e oscillazioni; il fato talora è il caso, o l’espressione collettiva di tutti gli ostacoli naturali e umani in cui intoppa il protagonista. Ma nell’inferno l’anima è isolata dal fatto, ed è pura passione e puro carattere, perciò inviolabile e onnipotente, e il Fato è Dio, come eterna giustizia è legge morale: onde la prima parte dell’inferno, ove incontinenti e violenti, esseri tragici e appassionati, mantengono la loro passione di rincontro a Dio, è la tragedia delle tragedie, l’eterna collisione nelle sue epiche proporzioni. Tutto questo mondo tragico è penetrato dello stesso concetto. La natura infernale non è ancora laida e brutta; anzi balzan fuori tutt’i caratteri che la rendono un sublime negativo, l’eternità, la disperazione, le tenebre. L’Eterno è sublime, perchè ti mostra un di là sempre allo stesso punto, per quanto tu ti avvicini; la disperazione è sublime perchè ti mostra un fine non possibile a raggiungere, per quanto tu operi; la tenebra è sublime, come annullamento della forma e morte della fantasia, per quella stessa ragione che è sublime la morte, il male, il nulla. Leggete la scritta sulla porta dell’inferno. Ne’ primi tre versi è l’eterno immobile che ripete sè stesso, dolore, dolore e dolore, quel luogo, quel luogo e quel luogo, per me, e per me, insino a che in ultimo l’eterno risuona nella coscienza del colpevole come disperazione:
Uscite di speranza voi che entrate.
La luce, il dolce lome, rende sublimi le tenebre, morte del sole e delle stelle e dell’occhio, come è l’aer senza stelle, e il loco d’ogni luce muto, e quel ficcar lo viso al fondo e non discernere alcuna cosa. Certo l’eternità, le tenebre e la disperazione sono caratteri comuni a tutto l’inferno; ma solo qui sono poesia, quando l’inferno si affaccia per la prima volta alla immaginazione nella gagliardia e freschezza delle prime impressioni. Appresso diventano spettacolo ordinario, come è il sole, visto ogni giorno.
E Dante che parte da principii preconcetti nelle sue costruzioni scientifiche, quando è tutto nel realizzare e formare i suoi mondi, opera con piena spontaneità, abbandonato alle sue impressioni. Il canto terzo è il primo apparire dell’inferno, e come ci si sente la prima impressione, come si vede il poeta esaltato, turbato dalla sua visione, assediato di forme, di fantasmi, impazienti di venire alla luce. In quel diverse voci, orribili favelle ec. non ci è solo il grido de’ negligenti; ci è lì tutto l’inferno, che manda il suo primo grido. Quel canto del sublime è una sola nota musicale variamente graduata, è l’eterno, il tenebroso, il terribile, l’infinito dell’inferno che invade e ispira il poeta e vien fuori co’ vivi colori della prima impressione, è il vero canto del regno dei morti, della morta gente, è l’albero della vita, che il poeta sfronda a foglia a foglia ad ogni passo che fa e ne toglie la speranza:
Lasciate ogni speranza voi che entrate.
E ne toglie le stelle:
Risonavan per l’aer senza stelle.
E ne toglie il tempo:
Facevano un tumulto il qual s’aggira
Sempre in quell’aria senza tempo tinta.
E ne toglie il cielo:
Non isperate mai veder lo cielo.
E ne toglie Dio:
Ch’hanno perduto il ben dello intelletto.
Questa natura sublime dapprima è indeterminata, senza contorni, cerchio, loco, null’altro: la diresti natura vuota, se non la riempissero l’eternità e le tenebre e la morte e la disperazione. Nel regno de’ violenti prende una forma. Si esce dal sublime: si entra nel bello negativo. Incontri tutto ciò che è figura, ordine, regolarità, proporzione in terra; anzi con vocabolo umano è chiamata città, la città di Dite. Vedi selve, laghi, sepolcri; e l’effetto poetico nasce dal trovare la stessa figura, ma spogliata di tutti gli accessorii che la rendono bella in terra.
Non frondi verdi, ma di color fosco:
Non rami schietti, ma nodosi e involti:
Non pomi v’eran, ma stecchi con tosco.
La natura spogliata della sua vita, del suo cielo, della sua luce, delle sue speranze è un sublime che ti gitta nell’animo il terrore; la natura spogliata della sua bellezza è un bello negativo, pieno di strazio e di malinconia. È la natura snaturata, depravata, a immagine del peccato: con la virtù se n’è ita la bellezza, sua faccia.
Questa natura snaturata vien fuori con maggior vita nelle pene. Perchè il concetto nella natura sta immobile come nell’architettura e nella coltura; dove nelle pene acquista ogni varietà di attitudini e di movenze. Le pene sono la coscienza fatta materia, e qui esprimono la violenza della passione. In quella natura eterna e tenebrosa ode un mugghio come fa mar per tempesta, e il rovescio della grandine, e il cozzo delle moltitudini: moti disordinati, violenti, come i moti dell’animo. Vedi tombe ardenti, laghi di sangue, alberi che piangono e parlano, la natura sforzata e snaturata dal peccatore. Gli strani accozzamenti producono l’effetto del maraviglioso e del fantastico, ma il fantastico è presto vinto e ti piglia il raccapriccio e l’orrore. Il poeta prende in troppa serietà il suo mondo per darsi uno spasso di artista e sorprenderci con colpi di scena: tocca e passa, e non vuol fare effetto sulla tua immaginazione, vuol colpire la tua coscienza. Dove il fantastico è più sviluppato, è nella selva de’ suicidi; ma anche lì vien subito la spiegazione, e la maraviglia dà luogo ad una profonda tristezza.
Ma il concetto non ha ancora la sua subiettività, non è ancora anima. Un primo grado di questa forma è nel demonio. Cielo e inferno sono stati sempre popolati di legioni angeliche e sataniche, che riempiono l’intervallo tra l’uomo e Dio, tra l’uomo e Satana. E la storia del bene e del male che si sviluppa nella nostra anima, un progressivo indiarsi o indemoniarsi. Diversi di nomi e di forme secondo le religioni e le civiltà, i demonii hanno per base i diversi gradi del male, e per forma il gigantesco e il mostruoso, il puro terrestre, il bestiale giunto all’umano, e spesso preponderante, come nella sfinge, nella chimera, in Cerbero. Il demonio di Dante non ha più la sua storia, come in terra, spirito tentatore accanto all’uomo e ribelle e rivale di Dio. Qui è immobilizzato come l’uomo, la sua storia è finita; cosa gli resta? Soffrire e far soffrire, vittima e carnefice a un tempo, simbolo esso stesso e immagine del peccato che flagella nell’uomo. Il Satana di Milton e Mefistofele, che combattono contro di Dio e contro l’uomo, erano compiute persone poetiche. Altra è qui la situazione e altro è il demonio. Esso è il vinto di Dio, e meno che uomo, perchè non è dell’uomo, che una sua parte sola, il peccato. È piuttosto tipo, specie, simbolo, che persona. È il più basso gradino nella scala degli esseri spirituali, lo spirito tra l’umano e il bestiale, in cui l’intelletto è ancora istinto e la volontà è ancora appetito. Figure vive e mobili della colpa ma figure, semplice esteriorità: non carattere, non passione, non intelligenza, non volontà. Fra gl’incontinenti e i violenti il demonio è tragico e serio; è azione mimica e tutta esterna, passione tradotta in moti e gesti, senza la parola, salvo brevi imprecazioni. La natura ti dà figura e colore: qui la figura si muove, e il colore si anima, è la figura in azione. Il poeta ha scossa la polvere dalle antiche forme pagane, e le ha rifatte e rinnovate. Come a costruire il suo inferno toglie alla terra le sue forme, e strappandole dal circolo loro assegnato le compon diversamente e ti crea una nuova natura; così ad esprimere lo spirito toglie dalla mitologia tutte le forme demoniache, Minos, Caronte, Cerbero, Pluto, Gerione, le Arpie, le Furie, e le trasporta nel suo inferno: le trova vuote e libere, spogliate di concetto, di vita e di religione, e le ricrea, le battezza; impressovi sopra il suo pensiero e la sua religione. Il demonio meno lontano dall’uomo è Caronte, in cui vien fuori l’apparenza di un carattere: impaziente, rissoso, manesco, che grida e batte. Il poeta si è ben guardato di sviluppare il comico che è in questo carattere: la figura di Caronte rimane severa e grave, e non fa dissonanza con la solennità della natura infernale, dove si trova collocata. Minos è il giudizio rappresentato in modo affatto esteriore e plastico, e rapido come saetta:
Dicono e odono e poi son giù volte.
Le altre figure sono schizzi, appena disegnati; ingegnoso è il ritratto di Gerione, che ha ispirato una delle più belle ottave dell’Ariosto.
Noi concepiamo oramai la costruzione de’ singoli canti. Il poeta comincia col porci innanzi la natura del luogo e la qualità della pena; il demonio ora precede, ora vien subito dopo, poi vedi peccatori presi insieme e misti, non ancora l’individuo, ma l’uomo collettivo, gruppi di mezzo a’ quali spesso si stacca l’individuo e tira la tua attenzione.
I gruppi sono l’espressione generale del sentimento che riempie i peccatori nella società infernale; sono la parentela del delitto, dove trovi nello stesso lago di sangue i tiranni Ezzelino e Attila e gli assassini di strada Rinier da Corneto e Rinier Pazzo.
Come nella natura e nel demonio, così ne’ gruppi l’aspetto è dapprima severo e tragico. Essi esprimono il sublime dello spirito, la disperazione. L’uomo ha bisogno di avere innanzi a sè qualche cosa a cui tenda; al pensiero succede pensiero; il cuore vive quando da sentimento germoglia sentimento; l’uomo vive quando è in un’onda assidua di pensieri e di sentimenti; la disperazione è l’annullamento della vita morale, la stagnazione del pensiero e del sentimento, la morte, il nulla, il caos, le tenebre dello spirito, un sublime negativo. Come il sublime delle tenebre è nella luce che muore, il sublime della disperazione è nella morte della speranza:
Nulla speranza gli conforta mai
Non che di posa, ma di minor pena.
L’espressione estetica della disperazione è la bestemmia, violenta reazione dell’anima, innanzi a cui tutto muore, e che nel suo annichilamento involge l’universo.
Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,
L’umana specie e il luogo e il tempo e il seme
Di lor semenza e di lor nascimenti.
La passione trasforma la faccia dell’uomo abitualmente tranquilla, il peccato gli siede sulla fronte e fiammeggia negli occhi; momento fuggevole che Dante coglie e rende eterno ne’ suoi gruppi. Gli avari stanno col pugno chiuso, gl’irosi si lacerano le membra: violenza di moti appassionati, niente che sia basso o vile; puoi abborrirli, non puoi disprezzarli.
Immaginate una piramide. Nella larghissima base vedete la natura infernale. Più su è il demonio, figura bestiale in faccia umana, bestia talora in tutto, mai in tutto uomo. Alzate ancora l’occhio e vedete gruppi nella violenza della passione. È la stessa idea che si sviluppa e si spiritualizza, insino a che da questo triplice fondo si eleva sulla cima la statua, l’individuo libero, l’idea nella sua individuale realtà, e più che l’idea, sè stesso nella sua libertà. È di mezzo a quella folla confusa, a quei gruppi che escono i grandi uomini dell’inferno o piuttosto della terra; è da questa triplice base dell’eternità che esce fuori il tempo e la storia e l’Italia e più che altri Dante come uomo e come cittadino.
L’inferno degl’incontinenti e de’ violenti è il regno delle grandi figure poetiche. Qui trovi come in una galleria di personaggi eroici Francesca, Farinata, Cavalcanti, Pier delle Vigne, Brunetto Latini, Capaneo, Dante il Fato, Dio e la Fortuna. Sono in presenza forze colossali, la energia della passione e la serenità del Fato. Qui è Francesca eternamente unita al suo Paolo, là è la Fortuna che non ode le imprecazioni degli uomini e beata si gode. Ora ti percote il suono della divina giustizia che in eterno rimbomba; ora ti stupisce Capaneo che tra le fiamme oppone sè a tutte le folgori di Giove. Su questo fondo tragico s’innalza la libera persona umana e vi si spiega in tutta la ricchezza delle sue facoltà. Qui usciamo dalle astrattezze mistiche e scolastiche e prendiamo possesso della realtà. La donna non è più Beatrice, il tipo realizzato de’ trovatori, fluttuante ancora tra l’idea e la realtà; qui acquista carattere, storia, passioni, una ricca e vivace personalità è Francesca da Rimini, la prima donna del mondo moderno. L’uomo non è più il santo con le sue estasi e le sue visioni; qui ha la sua patria, il suo uffizio, il suo partito, la sua famiglia, le sue passioni e il suo carattere; è Farinata, è Cavalcanti, è Brunetto, è Pier delle Vigne, è Dante Alighieri, alla cui fiera natura Virgilio applaude:
Alma sdegnosa,
Benedetta colei che in te s’incinse!
L’inferno dà loro una realtà più energica, creando nuove immagini e nuovi colori. Pier delle Vigne giura per le nuove radici del suo legno. Farinata dice:
Ciò mi tormenta più che questo letto.
All’annunzio della morte del figlio, Cavalcanti
Supin ricadde e più non parve fuori.
Brunetto raccomanda il suo Tesoro, nel quale si sente vivere ancora. Capaneo può dire: qual io fui vivo, tal son morto. E Francesca ricorda il tempo felice nella miseria. L’inferno è il loro piedistallo, sul quale si ergono col petto e con la fronte, affermando la loro umanità. Nascono situazioni e forme novissime che dànno rilievo alle figure e a’ sentimenti.
Questo mondo tragico dove l’impeto della passione e la violenza del carattere mette in gioco tutte le forze della vita, ha la sua perfetta espressione in questi grandi individui rimasti così vivi e giovani e popolari, come Achille ed Ettore. È il mondo della grande poesia, della epopea e della tragedia. E ora quale contrasto! Lasciamo appena le falde dilatate di foco e la rena che s’infiamma come esca sotto fucile, e ci troviamo in una pozzanghera che fa zuffa con gli occhi e col naso. Lasciamo i tragici demonii dell’antichità, i centauri e le arpie, e incontriamo diavoli con le corna e armati di frusta, e vilissimi uomini che alle prime percosse scappano senza aspettar le seconde nè le terze. In luogo di Capaneo con la fronte levata, il primo che vediamo ha gli occhi bassi, vergognoso di mostrarsi: e Dante, così riverente e pietoso sinora e anche sdegnoso, diviene maligno e sarcastico e compone per la prima volta il labbro ad un sorriso sardonico. Chiama salse pungenti quel letamajo, che dagli uman privati parea mosso. Un altro lo sgrida: Perchè sei tu sì ingordo di riguardar più me che gli altri brutti? E Dante che lo vede col capo lordo, tanto che non parea s’era laico o cherco, gli ricorda crudelmente di averlo veduto in terra co’ capelli asciutti. E quegli esprime il suo dolore, battendosi la zucca. Tutto è mutato, natura, demonio e uomo, immagini e stile. cadiamo in pieno plebeo. Chi sono questi uomini? Sono adulatori e meretrici dannati alla stessa pena: gli uni vendono l’anima, le altre vendono il corpo. Sentite che noi passiamo in un altro mondo, nel mondo de’ fraudolenti.
Esteticamente, il mondo de’ fraudolenti è la prosa della vita, precipitata dal suo piedistallo ideale, e divenuta volgarità. È la passione che si muta in vizio; il carattere che diviene abitudine; la forza che diviene malizia. La passione è poetica, perchè ha virtù di concitare tutte le forze dell’animo, sì ch’elle prorompano di fuori liberamente: il vizio è la passione fatta abitudine, ripetizione degli stessi atti, un fare perchè si è fatto: è l’artista divenuto artefice, l’arte divenuta mestiere. L’uomo appassionato spiritualizza la sua azione, ci mette dentro sè stesso, ma nel vizioso l’anima è sonnolenta, la sua azione è stupida materia, atto meccanico a cui lo spirito rimane estraneo. La passione produce il carattere, la forte volontà che è la stessa passione in continuazione; il vizio ha compagna la fiacchezza e bassezza dell’anima, non essendo altro la bassezza che l’abdicazione e l’apostasia della propria anima. I grandi caratteri sicuri di sè hanno a loro istrumento la forza, impetuosi fino all’imprudenza, semplici fino alla credulità; gli animi fiacchi hanno a loro istrumento la malizia, coscienza della loro impotenza, e, pipistrelli notturni, assaltano alle spalle, e non osano guardare in viso.
In questo mondo il di fuori è mutato, perchè mutato è il di dentro, ove non trovi più caratteri e passioni, ma vizio, bassezza e malizia, lo spirito oscurato e materializzato, la dissoluzione della vita. A quei cerchi indeterminati, a quella città rosseggiante di Dite, nomi e figure terrene, succede un non so che, una cosa senza nome, che il poeta chiama bizzarramente Malebolge, una natura sformata e in dissoluzione, ripe scoscese, scogli mobili che fanno da ponticelli, e giù valloni paladosi, dove le acque finora impetuose e correnti stagnano e si putrefanno, valloni angusti, bolgie, valigie, borse, che stringendosi più e più vanno in un pozzo: natura piccola, in rovina e in putrefazione. Al demonio mitologico iroso e appassionato succede il diavolo cornuto, essere grottesco, o piuttosto i diavoli che vanno in frotte, e si mescolano in ignobili parlari con la gente più abbietta, e canzonano e sono canzonati, maliziosi, bugiardi, plebei, osceni. Al vivo movimento delle bufere e delle grandini e delle fiamme succede la materia in decomposizione, quanti strazi di carne umana ti offrono i campi di battaglia, e quante malattie ti offre lo spedale. Tali la natura, il demonio, le pene. Vedi ora l’uomo. La faccia umana è rimasta finora inviolata; innanzi all’immaginazione la passione invermiglia la faccia di Francesca, e la grandezza dell’anima pare nella faccia dell’uomo che si leva diritto dalla cintola in su. Qui la faccia umana sparisce: hai caricature e sconciature di corpi. Uomini cacciati in una buca, capo in giù, piedi in su; volti travolti in su le spalle, sì che il pianto scende giù per le reni; visi, occhi e corpi imbacuccati e incappucciati; musi umani fuor della pegola a modo di ranocchi; corpi altri smozzicati, accismati, altri marciti e imputriditi, scabbiosi, tisici, idropici. Di questa figura umana deturpata e contraffatta l’immagine più viva è Bertram dal Bormio, il cui busto si fa lanterna del suo capo che porta pesol per le chiome. In questo mondo prosaico e plebeo, che comincia con Taide e finisce con mastro Adamo, la materia ovvero la parte bestiale prevale tanto, che spesso siamo in sul domandarci. Costoro sono uomini o bestie? Non sono ancora bestie, e l’uomo già muore in loro:
Che non è nero ancor e il bianco muore.
Sono figure miste in una faccia tra bestiale e umana; e la più profonda concezione di Malebolge è questa trasformazione dell’uomo in bestia, e della bestia in uomo: hanno l’appetito e l’istinto della bestia, hanno la coscienza dell’uomo. Si sanno uomini e sono bestie; e qui è la pena, nella coscienza umana che loro è rimasta.
La forma estetica di questo mondo è la commedia, rappresentazione de’ difetti e de’ vizii. Fra tanta fiacchezza della personalità il grande uomo, l’individuo, è gittato nell’ombra, e vien su il descrittivo, l’esteriorità. Nell’inferno tragico le descrizioni sono sobrie e rapide, l’interesse principale è negli attori che prendono la parola; qui è un gregge muto visto da lontano; Virgilio dice a Dante: Vedi la Mirra, vedi Giasone, vedi Manto. Appena è se qualche epiteto ti segna in fronte alcuno dei più grandi personaggi, come si fa di Giasone:
E per dolor non par lacrima spanda.
Prima dite: il canto di Francesca, di Farinata, di Ser Brunetto Latini; ora dite: il canto dei ladri, de’ falsarii, dei truffatori: vi sono gruppi, non individui; vi è il descrittivo, manca il drammatico. Manca la grandezza negli attori, e manca la pietà negli spettatori. La figura umana così torta, che il pianto degli occhi bagnava le natiche, cava a Dante lacrime; l’homo sum si sente colpito in lui; ma Virgilio lo sgrida:
Ancor sei tu degli altri sciocchi?
Qui vive la pietà, quand’è ben morta.
Abbonda il descrittivo; l’immaginazione di Dante è così robusta, che avendo a fare con oggetti così fuori della natura, non che sentirsi impacciata, pare che scherzi: con tanta facilità e spontaneità esprime le più varie e strane attitudini: la fiamma parla come lingua d’uomo; le zanche piangono e fremono. Il più grande sforzo della immaginazione umana è la trasformazione di uomini in bestie, nel canto XXV, quantunque la soverchia minutezza generi sazietà.
Fra tanti gruppi sorge qua e là alcuno individuo in cui si sviluppa con più chiara coscienza il concetto di Malebolge. Un lato serio di questo concetto è lo spirito che varca il limite assegnatogli. Se la ragione potesse veder tutto, mestier non era partorir Maria. L’esperienza avea le sue colonne d’Ercole; la ragione aveva pure le sue colonne. Questo concetto qui è serio, non è sublime, nè tragico; perchè l’uomo che con la temerità oraziana sforza la natura, e qui non dirimpetto a Dio come Prometeo e Capaneo, ma colpito e soggiogato, senza che in lui paja vestigio di ribellione, di orgoglio e di violenza:
Dove vai,
Anfiarao? perchè lasci la guerra?
E non restò di rovinare a valle,
Fino a Minòs che ciascheduno afferra.
L’uomo di Orazio è sublime, perchè lo vedi nell’opera, senti in lui la voluttà del frutto proibito, malgrado Dio e la Natura. Anfiarao è un puro nome; sublime di terrore è quel suo precipitare a valle, mostrandocelo successivamente inabissarsi, ma il grottesco vien subito dopo:
Mira che ha fatto petto delle spalle:
Perchè volle veder troppo davante,
Di rietro guarda e fa ritroso calle.
Ulisse, che ha varcato i segni di Ercole, è travolto nelle acque per giudizio di Dio, come a lui piacque. Pure un po’ dell’audacia di Ulisse è ancora in Dante, che gli mette in bocca nobili parole, e ti fa sentire quell’ardente curiosità del sapere che invadeva i contemporanei. Ti par di assistere al viaggio di Colombo. Il peccato diviene virtù. Se la logica ghibellina pone in inferno l’autore dell’agguato contro Troja, radice dell’impero sacro romano, la poesia alza una statua a questo precursore di Colombo, che indica col braccio nuovi mari e nuovi mondi, e dice a’ compagni:
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Ulisse è il grand’uomo solitario di Malebolge. È una piramide piantata in mezzo al fango. Il comico penetra da tutt’i lati, traendosi appresso il lordo, l’osceno, il disgustoso: lo spirito, divenuto malizia, è qui decaduto, degradato; e con lui si oscura la nobile faccia umana. Ulisse stesso per la sua malizia ha la sua figura coperta e fasciata dalle fiamme. Siamo in un mondo comico.
La regina delle forme comiche è la caricatura, il difetto colto come immagine e idealizzato. Al che si richiede che il personaggio operi ingenuamente e brutalmente, come non avesse coscienza del suo difetto, a quel modo che si vede in Sancio Panza e in don Abbondio, eccellenti caratteri comici. I dannati di Malebolge sono così fatti: essi sono cinici e perciò ridicoli, come i diavoli nel canto XXII, rissosi, abbietti, vanitosi, bassamente feroci ne’ loro atti. Così sono i ladri, i truffatori, i barattieri, plebe in cui il vizio è così connaturato che non se ne accorge più. Tale è Nicolò III vano del suo papale ammanto, che crede Dante venuto nell’inferno apposta per veder lui. Tali sono pure Sinone e maestro Adamo. Essi si mostrano nella loro naturalezza, e possono essere rappresentati nella forma diretta e immediata, isolando il difetto dagli accessorii e idealizzandolo, divenuto un contro-modello, l’immagine opposta a quel tipo, a quel modello di perfezione che ciascuno ha in mente: qui è la caricatura. Le concezioni di Dante sono di un comico plebeo della più bassa lega: sia esempio la rissa tra Sinone e maestro Adamo. Si rimane nel buffonesco, l’infimo grado del comico. Quest’uomo, così possente creatore d’immagini nell’inferno tragico, qui si sente arido, freddo in un mondo non suo. Le situazioni sono comiche, ma il comico è rozzamente formato, e non è artistico, non ha la sua immagine che è la caricatura, nè la sua impressione che è il riso. Due persone in rissa cadono in un lago d’acqua bollente che li divide. Situazione comica, se mai ce ne fu. Il poeta dice:
Lo caldo schermidor subito fue.
Espressione vivace, ma che non sveglia nessuna immagine e ti lascia freddo. Non ha saputo cogliere quel movimento, quella smorfia che fanno quando si sentono scottare e si sciolgono. La pancia di mastro Adamo che sotto il pugno di Sinone sonò come fosse un tamburo, è una felice caricatura; ma è una freddura il dire:
E mastro Adamo gli percosse il volto
Col braccio suo che non parve men duro.
Manca spesso a Dante la caricatura, e i suoi versi più comici non fanno ridere. Perchè a fare la caricatura bisogna fermare l’immaginazione nell’oggetto comico, spassarcisi, obbliarsi in quello, alzarlo a contro-modello. Dante non ha questo sublime obblio comico, non ha indulgenza, nè amabilità. Teme di sporcarsi tra quella gente, e se ode, se ne fa rimproverare da Virgilio, e se ci sta, se ne scusa; ah fera compagnia! ma in chiesa co’ santi e in taverna co’ ghiottoni. Il suo riso è amaro; di sotto alla facezia spunta il disdegno; e spesso nella mano la sferza gli si muta in pugnale.
Il riso muore, quando il personaggio comico ha coscienza del suo vizio, e non che sentirne vergogna vi si pone al di sopra e ne fa il suo piedistallo. Allora non sei tu che gli fai la caricatura; ma è lui stesso il suo proprio artista, che si orna del suo difetto come di un manto reale, e se ne incorona e se ne fa un’aureola, atteggiandosi e situandosi nel modo più acconcio a dire: miratemi; più acconcio a dare spicco al suo vizio. La bestia non cela il suo vizio, e non arrossisce; il rossore è proprio della faccia umana. L’uomo consapevole del suo difetto, che vi si pone al di sopra, rinuncia alla faccia umana e dicesi sfacciato o sfrontato. Qui la caricatura uccide sè stessa, il comico giunto alla sua ultima punta si scioglie; e n’esce un sentimento di supremo disgusto e ribrezzo, che è il sublime del comico: la propria abbiezione predicata e portata in trionfo aggiunge al disgusto un sentimento che tocca quasi l’orrore. Qui Dante è nel suo campo. Il suo eroe è Vanni Fucci. Mastro Adamo è come animale, senza coscienza della sua bassezza, Vanni Fucci ha avuto la coscienza e l’ha soffocata; sono i due estremi nella scala del vizio; l’uno non è mai salito fino all’uomo; l’altro è passato per l’uomo ed è ricaduto nella bestia. Si sente bestia, e si pone come tipo bestiale, e sceglie le circostanze più acconcie a darvi risalto:
notaVita bestial mi piacque e non umana,
Siccome a mul ch’io fui. Son Vanni Fucci
Bestia, e Pistoia mi fu degna tana.
Ecco l’uomo che fa le fiche a Dio, il Capaneo di Malebolge, l’umano divenuto bestiale e idealizzato come tale.
Ma l’umano non muore mai in tutto. L’uomo diviene bestia, ma la bestia torna uomo. E con senso profondo Dante anche sulla faccia sfrontata di Vanni Fucci scoperto ladro gitta il rossore della vergogna:
E di trista vergogna si dipinse.
L’uomo che ha coscienza del suo vizio e se ne vergogna, in luogo di mostrarlo al naturale, ciò che produce la caricatura cerca occultarlo sotto contraria apparenza: il poltrone fa il bravo. Nasce il contrasto tra l’essere e il parere: la situazione divien comica, e la sua forma è l’ironia. Lo spettatore indulgente e che vuole spassarsi a sue spese finge di crederlo e di secondarlo; accetta come seria l’apparenza che si dà, anzi la carica ancora di più; fa il bravo, ed egli lo chiama un Orlando; ma accompagnando le parole di un cotale ammiccar d’occhi che esprima scambievole intelligenza, di un tuono di voce in falsetto, di un riso equivoco, che vuol dire: io ti conosco. Perciò l’essenziale dell’ironia non è nell’immagine, ma nel sottinteso: è il riflesso che succede allo spontaneo; immagine sottilizzata nel sentimento. Forma delicata, perchè lo spettatore, alla vista del difetto che altri cerca di mascherare, non sente collera, non gli strappa la maschera dal viso, anzi se la mette egli stesso e serba una compostezza e una pulitezza, equivoca ne’ movimenti e ne’ gesti. Forma di tempi civili, assai rara nelle età barbare e nelle poesie primitive. Dante, accigliato, brusco, tutto di un pezzo, com’è ne’ suoi ritratti, ha troppa bile e collera, e non è buono nè alla caricatura, nè all’ironia. Ma dalla sua fantasia d’artista è uscita una di quelle creazioni, che sono le grandi scoperte nella storia dell’arte, un mondo nuovo: il nero Cherubino, che strappa a san Francesco l’anima di Guido da Montefeltro, è il padre di Mefistofele. Egli crea il diavolo, gli dà il suo concetto e la sua funzione. Il diavolo è l’ironia incarnata; non ci è uomo tanto briccone che il diavolo non sia più briccone di lui, e capite che non è disposto a guastarsi la bile per le bricconerie degli uomini. L’uomo può ingannare un altro uomo, ma non può ficcarla al diavolo, perchè il diavolo nel suo senso poetico è lui stesso, la sua coscienza che risponde con un’alta risata a’ suoi sofismi, e gli fa il contro-sillogismo, e gli dice beffandolo:
Forse
Tu non sapevi ch’io loico fossi!
Il brutto come il bello muore nel sublime. E il brutto è sublime quando offende il nostro senso morale ed estetico e ci gitta in violenta reazione. Scoppia la collera, l’indignazione, l’orrore: il comico è immediatamente soffocato. Quando veggo un difetto rivelarsi all’improvviso, uso la caricatura. Quando veggo un difetto che cerca mascherarsi, prendo la maschera anch’io e uso l’ironia. Ma quando quel difetto mi offende, mi sfida, mi provoca, si mette dirimpetto a me come contraddizione al mio intimo senso, la mia coscienza così audacemente negata e contraddetta reagisce: io strappo al vizio la maschera e lo mostro qual è, nella sua laida nudità. La caricatura e l’ironia si risolvono in una forma superiore, il sarcasmo, la porta per la quale volgiamo le spalle al comico e rientriamo nella grande poesia.
Nel sarcasmo caricatura e ironia riappariscono, ma per morire; nasce la caricatura, ed è guastata; spunta la maschera ed è strappata. E la morte viene da questo che nella forma sarcastica del brutto ci è l’idea che l’uccide, il suo contrario. Nel canto de’ simoniaci il sarcasmo fa la sua splendida apparizione. Il comico muore sotto l’ira di Dante. L’antitesi tra quello che è di fuori e quello che è nella sua anima scoppia in ravvicinamenti innaturali, come calcando i buoni e sollevando i pravi, Dio d’oro e d’argento; e spesso in parole a doppio contenuto, che è la immagine del sarcasmo. Tale è la parola rimasa proverbiale, con che è qualificata la servilità della Chiesa. Parimente chiama adulterio la simonia, e idolatria l’avarizia, parole, nelle quali entrano come elementi la santità del matrimonio e il vero Dio; in una sola immagine c’è il brutto e ci è l’idea che lo condanna.
Ma il sarcasmo dee purificare e consumare sè stesso. Finchè rimane nel particolare e nel personale, il linguaggio è acre, bilioso; hai Giovenale e Menzini. Il poeta, non che rimanere imprigionato in quello spettacolo, dee spiccarsene, porcisi al di sopra, allargare l’orizzonte, essere eloquente, voce di verità, espressione impersonale della coscienza. Certo, in quel canto de’ simoniaci vive immortale la vendetta dell’uomo ingannato che anticipa a Bonifazio l’inferno, e del ghibellino e del cristiano che vede nel papato temporale una pietra d’inciampo e di scandalo. Ma i sentimenti e le passioni personali se hanno ispirato il poeta e resa terribilmente ingegnosa la sua fantasia, non penetrano nella rappresentazione. Bisogna sapere la storia per indovinare i terribili incentivi dell’alta creazione. Ciò che qui senti, è la convinzione, la buona fede del poeta, la sincerità e l’impersonalità della sua collera: onde sgorga dal suo labbro eloquente tanta magnificenza d’immagini e di concetti. Prima Dante è in collera con Niccolò, pinto in pochi tratti vano, piccolo, col cervello e co’ sensi nel piede. E comincia col tu, e l’assale corpo a corpo, con ironia amara che si trasforma nel pugnale del sarcasmo:
E guarda ben la mal tolta moneta,
Ch’esser ti fece contro Carlo ardito.
Ma nel pendìo dell’ingiuria si contiene d’un tratto, passaggio meritamente ammirato; la piccola persona di Nicolò scomparisce; sottentra il voi, i papi, il papato; le idee guadagnano di ampiezza senza perdere di energia, e da ultimo la collera svanisce in una certa tristezza pura di ogni stizza; è deplorare, non è più un inveire:
Ahi Costantin, di quanto mal fu matre
Non la tua conversion, ma quella dote
Che da te prese il primo ricco patre!
Nel pozzo de’ traditori la vita scende di un grado più giù: l’uomo bestia diviene l’uomo ghiaccio, l’essere petrificato, il fossile. In questo regresso dell’inferno, in questo cammino a ritroso dell’umanità siamo giunti a quei formidabili inizii del genere umano, regno della materia stupida, vuota di spirito, il puro terrestre, rappresentato ne’ giganti, figli della terra, nella loro lotta contro Giove, natura celeste e spirituale, inferiore di forza fisica, ma armato del fulmine:
Cui Giove
Minaccia ancor dal cielo quando tuona
Con questo mito concorda la storia biblica degli angeli ribelli. Qui all’ingresso trovi i giganti; alla fine Lucifero: mitologia e bibbia si mescolano, espressioni della stessa idea. La lotta è finita; i giganti sono incatenati; Lucifero è immenso e stupido carname, il gradino infimo nella scala de’ demoni. Il gigantesco è la poesia della materia; ma qui, vuoto e inerte, è prosa. Tra’ giganti e Lucifero stanno i dannati fitti nel ghiaccio. Le acque putride di Malebolge, ventate dalle enormi ali di Lucifero, si agghiacciano, s’indurano, diventano mare di vetro, di dentro a cui traspariscono come festuche i traditori contro i congiunti nella Caina, contro la patria nell’Antenora, contro gli amici nella Tolomea, e contro i benefattori nella Giudecca. La pena è una, ma graduata secondo il delitto. Il movimento si estingue a poco a poco, la vita si va petrificando, finchè cessa in tutto la lacrima, la parola e il moto. L’immagine più schietta di questo mondo cristallizzato è il teschio dell’Arcivescovo Ruggieri, inanimato e immobile sotto i denti di Ugolino.
L’Ugolino è una delle più straordinarie e interessanti fantasie. È per lui che la vita e la poesia entra in questo mare morto, dove la natura e il demonio e l’uomo è materia stupida e senza interesse. Come concetto morale, il tradimento è la colpa più grave; ma qui manca l’organo della colpa, il grido della coscienza sembra agghiacciato insieme col colpevole. Questo grido può uscire dal petto concitato di Dante, spettatore, come è già avvenuto in Malebolge, dove l’invettiva di Dante risolve il comico. Qui ci è di meglio. Tra questi esseri petrificati Dante gitta il suo Ugolino ghiacciato come gli altri, come traditore egli pure, ma col capo sul capo di Ruggieri, perchè insieme egli è il suo tradito, e il suo carnefice. È la vittima che qui alza il grido contro il traditore, e gli sta eternamente co’ denti sul capo, saziando in quello il suo odio, istrumento inconscio della vendetta di Dio. Così è nato l’Ugolino, il personaggio più ricco, più moderno, più popolare di Dante, dove l’analisi è più profonda e più sviluppata, nelle sue straordinarie proporzioni così umano e vero.
Prendete ora una carta topografica dell’inferno, e guardate questa piramide capovolta, a forma d’imbuto. Vedete l’immensa base alla cima, senza figura altra che di cerchi, fra le tenebre eterne, e poi quei cerchi prendon figura di città rosseggiante di fiamme, e la città di bolgia putrida e puzzolenta, e la bolgia di pozzo entro il quale è petrificata la natura; in cima l’infinito, alla fine il tristo buco sopra il qual pontan tutte le altre rocce; e voi avete così l’immagine visibile di questo inferno estetico. Gli è come nelle rivoluzioni. Nel primo entusiasmo tutto è grande; poi vien fuori il sanguinario, il feroce, l’orribile, finchè da’ più bassi fondi della società sale su il laido, l’abbietto e il plebeo. Questa decomposizione e depravazione successiva della vita è l’inferno.
L’inferno è l’uomo compiutamente realizzato come individuo, nella pienezza e libertà delle sue forze. E può misurare la grandezza dell’opera, chi vede gli abbozzi di Dino Compagni o lo scarno Ezzelino, o le rozze formazioni de’ misteri e delle leggende. L’individuo era ancora astratto e impigliato nelle formole, nelle allegorie e nell’ascetismo. In quelle vuote generalità ci è la donna e l’uomo, come genere, come simbolo, come l’anima; manca l’individuo. E manca tanto, che spesso non ha un nome, ed è la mia donna, o un giovine, un santo uomo. Non un nome solo era rimasto vivo nel mondo dell’arte fra tante liriche e leggende. Dante volea scrivere il mistero dell’anima; si cacciò tra allegorie e formole, ed ecco uscirgli dalla fantasia l’individuo, valente e possente, nel rigoglio e nella gioventù della forza, spezzato il nocciolo dove lo avea chiuso il medio evo. I pittori disegnavano santi e cupole; i filosofi fantasticavano sull’ente; i lirici platonizzavano; gli ascetici contemplavano e pregavano; Dante pensava l’inferno; e là tra’ furori della carne e l’infuriar delle passioni trovava la stoffa di Adamo, l’uomo com’è impastato, con la sua grandezza e con la sua miseria, e non descritto, ma rappresentato e in azione, e non solo ne’ suoi atti, ma ne’ suoi motivi più intimi. Così apparve sull’orizzonte poetico Francesca, Farinata, Cavalcanti, la Fortuna, Pier delle Vigne, Brunetto, Capaneo, Ulisse, Vanni Fucci, il nero Cherubino, Nicolò III, e Ugolino. Tutte le corde del cuore umano vibrano. Vedi attorno a questa schiera d’immortali, turba infinita di popolo nella maggior varietà di attitudini, di forme, di sentimenti, di carattere, che ti passano avanti, alcuni appena sbozzati, altri numero e nome, altri segnati in fronte di qualche frase indimenticabile, che li eterna, come Taide, Mosca, Giasone, Omero, Aristotile, papa Celestino, Bonifazio, Clemente, Bruto, Bocca degli Abati, Bertram dal Bormio.
Nel regno de’ morti si sente per la prima volta la vita nel mondo moderno. Come è bella la luce, il dolce lume, a Cavalcanti! Quanta malinconia è in quella selva de’ suicidi, spogliata del verde! Come è commovente Brunetto, che raccomanda a Dante il suo Tesoro, e Pier delle Vigne che gli raccomanda la sua memoria! Come ride quel giardino del peccato innanzi a Francesca! Col vivo sentimento della dolce vita, della bella natura, è accompagnato il sentimento della famiglia. Quel padre che cade supino, udendo la morte del figlio, e Ugolino che dannato a morire di fame guarda nel viso a’ figliuoli, e Anselmuccio che gli domanda: che hai? e Gaddo che gli dice: perchè non mi ajuti? sono scene solitarie della poesia italiana. Ciascuno è in una situazione appassionata. I sentimenti spinti alla punta idealizzano e ingrandiscono gli oggetti. Tutto è colossale, e tutto è naturale. E in mezzo torreggia Dante, il più infernale, il più vivente di tutti, pietoso, sdegnoso, gentile, crudele, sarcastico, vendicativo, feroce, col suo elevato sentimento morale, col suo culto della grandezza e della scienza anche nella colpa, coi suo dispregio del vile e dell’ignobile, alto sopra tanta plebe, così ingegnoso nelle sue vendette, così eloquente nelle sue invettive.
Queste grandi figure, là sul loro piedistallo rigide ed epiche come statue, attendono l’artista che le prenda per mano e le gitti nel tumulto della vita e le faccia esseri drammatici. E l’artista non fu un italiano: fu Shakespeare.
Chi vuole ora concepire il Purgatorio, si metta in quella età della vita che le passioni si scoloriscono e l’esperienza e il disinganno tolgono le illusioni, e scemata la parte attiva e personale, l’uomo si sente generalizzare, si sente più come genere che come individuo. Spettatore più che attore, la vita si manifesta in lui non come azione, ma come contemplazione artistica, filosofica, religiosa. In quella calma delle passioni e de’ sensi era posto l’ideale antico del Savio, l’ideale nuovo del Santo, fuso insieme in quel Catone, che Dante chiama nel Convito anima nobilissima e la più perfetta immagine di Dio in terra. Catone è il savio antico, pinto come i filosofi, con quella sua lunga barba, in quella calma e gravità della sua decorosa vecchiezza:
Degno di tanta riverenza in vista,
Che più non dee a padre alcun figliuolo.
Ma è qualcosa di più; è il savio battezzato e santificato, con la fronte radiante, illuminata dalla grazia, sì che pare un sole. Virgilio non comprende questo savio cristianizzato, e parla al Catone di sua conoscenza, ricordando la sua virtù, la sua morte per la libertà, la sua Marzia. E il nuovo Catone risponde: Marzia, che piacque tanto agli occhi miei, non mi move più; ma se donna del cielo ti guida, non ci è mestier lusinga:
Bastiti ben che per lei mi richiegge.
Che cosa è il Purgatorio? È il mondo dove questo doppio ideale è realizzato, il mondo di Catone o della libertà, dove lo spirito si sviluppa dalla carne e cerca la sua libertà:
Libertà va cercando ch’è sì cara,
Come sa chi per lei vita rifiuta.
Altro concetto, altra natura, altro uomo, altra forma, altro stile. Non è più l’Iliade, è l’Odissea, è un nuovo poema. Paragonare inferno e purgatorio, e maravigliarsi che qui non sieno le bellezze ammirate colà gli è come maravigliarsi che il Purgatorio sia purgatorio e non inferno. O se pur vogliamo maravigliarci di qualche cosa, maravigliamoci che il poeta abbia potuto così compiutamente dimenticare l’antico sè stesso, le sue abitudini di concepire, di disporre, di colorire, e seppellito in questo nuovo mondo ricrearsi l’ingegno e la fantasia a quella immagine, e con tanta spontaneità che pare non se ne accorga: obblio dell’anima nella cosa, il secreto della vita, dell’amore e del genio.
L’inferno è il regno della carne che scende con costante regresso sino a Lucifero. Il purgatorio è il regno dello spirito che sale di grado in grado sino al Paradiso. È là che si sviluppa il mistero, la commedia dell’anima, la quale dall’estremo del male si riscote e si sente e mediante l’espiazione e il dolore si purifica e si salva. Onde con senso profondo il purgatorio esce dall’ultima bolgia infernale, e Lucifero, principe delle tenebre, è quello stesso per le spalle del quale Dante salendo esce a riveder le stelle.
Ci è un avanti-purgatorio, dove la carne fa la sua ultima apparizione. Il suo potere non è più al di dentro; l’anima è già libera: della carne non resta che la mala abitudine. Gradazione finissima e altamente comica, dalla quale è uscito l’immortale ritratto di Belacqua, caricatura felicissima nella figura, ne’ movimenti, nelle parole, e tanto più comica quanto più Belacqua si sforza di rimaner serio, usando un’ironia che si volge contro di lui.
Questo avanti-purgatorio è quasi una transizione tra l’inferno e il purgatorio; il peccato vi è e non v’è; è ancora nell’abitudine, non è più nell’anima; il demonio ci sta sotto la forma del serpente d’Eva, involto tra le erbe e i fiori, cacciato via da due Angioli dalle vesti e dalle ali di color verde, simbolo della speranza. Comparisce per scomparire, quasi per far testimonianza che se ne va dalla scena per sempre. Innanzi alla porta del purgatorio purgatorio scompare il diavolo e muore la carne, e con la carne gran parte di poesia se ne va.
L’anima non appartiene più alla carne, ma l’ha avuta una volta sua padrona e se ne ricorda. La carne non è più una realtà come nell’inferno, ma una ricordanza. Nei sette gironi, rispondenti a’ sette peccati mortali, le anime ricordano le colpe per condannarle; ricordano le virtù per compiacersene.
Quel ricordare le colpe non è se non l’inferno che ricomparisce in purgatorio per esservi giudicato e condannato; quel ricordare le virtù non è se non il paradiso che preluce in purgatorio per esservi desiderato e vagheggiato: l’inferno ci sta in rimembranza; il paradiso ci sta in desiderio. Carne e spirito non sono una realtà; la tirannia della carne è una rimembranza; la libertà dello spirito è un desiderio.
Poichè la realtà non è più in presenza, ma in immaginazione, essa vi sta non come azione rappresentata e drammatica, ma come immagine dello spirito, a quel modo che noi riproduciamo dentro di noi la figura delle cose non presenti, e pingiamo al di fuori quello spettro della mente. Questa realtà dipinta vien fuori nelle pareti e nei bassi rilievi del Purgatorio. Nell’Inferno e nel Paradiso non sono pitture, perchè ivi la realtà è natura vivente, è l’originale, di cui nel purgatorio hai il ritratto. Inferno e paradiso sono in purgatorio, ma in pittura, come il passato e l’avvenire delle anime, non presenti agli occhi, ma all’immaginativa. Quelle pitture sono il loro memento, lo spettacolo di quello che furono, di quello che saranno, che le stimola, mette in attività la loro mente, sì che ricordano altri esempli e si affinano, si purgano.
Siamo dunque fuori della vita. Le passioni tornano innanzi alle anime, ma non sono più le loro passioni, sono fuori di esse, contemplate in sè o in altri con l’occhio dell’uomo pentito. Anche le virtù sono estrinseche alle anime, contemplate al di fuori come esempli e ammaestramenti. Le anime sono spettatrici, contemplanti, non attrici. Passioni buone o cattive non sono in presenza e in azione, ma sono una visione dello spirito, figurata in intagli e pitture.
Questa concezione così semplice e vera nella sua profondità è la pittura e la scoltura, l’arte dello spazio, idealizzata nella parola e fatta poesia. Perchè il poeta non dipinge, ma descrive il dipinto. La parola non può riprodurre lo spazio che successivamente, e perciò è inefficace a darti la figura, come fa il pennello e lo scarpello. Nè Dante si sforza di dipingere, entrando in una gara assurda col pittore. Ma compie e idealizza il dipinto, mostrando non la figura, ma la sua espressione e impressione: dinanzi all’immaginazione la figura diviene mobile, acquista sentimento e parola. Le aguglie di Trajano in vista si movono al vento; la vedovella è atteggiata di lagrime e di dolore; nell’attitudine di Maria si legge: Ecce Ancilla Dei; l’angiolo intagliato in atto soave non sembrava immagine che tace:
Giurato si saria ch’ei dicesse Ave.
Davide ballando sembra più e meno che Re; e gli sta di contro Micol, che ammirava,
Siccome donna dispettosa e trista.
Erano i tempi di Giotto; e parevano maravigliosi quei primi tentativi dell’arte. Quest’alto ideale pittorico di Dante fa presentire i miracoli del pennello italiano. Il poeta aveva innanzi all’immaginazione figure animate, parlanti, dipinte da Colui, che mai non vide cosa nuova, ben più vivaci che non gliele potevano offrire i suoi contemporanei.
Più in là il dipinto sparisce; senza aiuto di senso, per sua sola virtù lo spirito intuisce il bene e il male, ricorda i buoni e i cattivi esempli, vede da sè stesso e in sè stesso. La realtà non solo non ha la sua esistenza, come cosa sensata, il sensibile, ma neppure come figurativa, in pittura; diviene una visione diretta dello spirito, che opera già libero e astratto dal senso. Nasce un’altra forma dell’arte, la visione estatica. L’anima vede farsi dentro di sè una luce improvvisa, nella quale pullulano immagini sopra immagini come bolle d’acqua che gonfiano e sgonfiano, e l’universo visibile si dilegua innanzi a questa luce interiore, di modo che il suono di mille trombe non basterebbe a rompere la contemplazione. Dante trova forme nuove ed energiche ad esprimere questo fenomeno. Le immagini piovono nell’alta fantasia; la mente è sì ristretta
Dentro di sè, che di fuor non venìa
Cosa che fosse allor da lei ricetta.
L’immaginativa ne ruba di fuori, sì che uom non s’accorge:
Perchè d’intorno suonin mille tube.
L’anima volta in estasi ficca gli occhi nell’immagine con ardente affetto:
Come dicesse a Dio: D’altro non calme.
Tra queste visioni bellissima è quella del martirio di santo Stefano, un quadro a contrasto, dove tra la folla inferocita che grida: martira martira, è la figura del Santo, la persona già aggravata dalla morte e china verso terra, ma gli occhi al cielo preganti pace e perdono; è il soprastare dell’anima nell’abbandono del corpo.
Siamo dunque in piena vita contemplativa. Il processo della santificazione si sviluppa. Nell’inferno i tumulti e le tempeste della vita reale appassionata dal furore dei sensi: qui entriamo in quel mondo di romiti e di santi, in quel mondo de’ misteri e delle estasi, così popolare, nel mondo di Girolamo, di Francesco d'Assisi e di , dove la pittura attingea le sue ispirazioni.
Nella visione estatica lo spirito ha già un primo grado di santificazione, ha conquistato la sua libertà dal senso, ha già il suo paradiso; ma è un paradiso interiore, immagine e desiderio, e non sarà realtà, paradiso reale, se non quando quella luce e quelle immagini, vedute dallo spirito entro di sè, sieno fuori di sè, sieno cose, e non immagini. Il purgatorio è il regno delle immagini, uno spettro dell’inferno, un simulacro del paradiso.
Nella visione estatica lo spirito è attivo e conscio: nel sogno è passivo e inscio: è una forma di divisione superiore, non solo senza opera del senso, ma senza opera dello spirito; è visione divina, prodotta da Dio. Perciò il sogno sa le novelle anzi che il fatto sia e l’anima
Alle sue visïon quasi è divina.
Nel sogno si rivela il significato delle visioni e delle apparenze del purgatorio. Che cosa significano quelle pitture e quelle estasi? che cosa è il purgatorio? È il regno dell’intelletto e del vero, dove il senso è spogliato delle sue belle e piacevoli apparenze; e mostrato qual’è, brutto e puzzolento. L’apparenza è una sirena:
Io son, cantava, io son dolce Sirena,
Che i marinari in mezzo al mar dismago,
Tanto son di piacere a sentir piena.
Ma una donna Santa, la Verità, fende i drappi; e la mostra qual è, femmina balba e scialba, e mostra il ventre:
Quel mi svegliò col puzzo che ne usciva.
Vinto il senso e l’apparenza, si presenta a Dante in sogno l’immagine della vita, non quale pare, ma qual è, la vera vita a cui sospira e che cerca nel suo pellegrinaggio. E vede la vita nella prima delle due sue forme, la vita attiva, lo affaticarsi nelle buone opere per giungere alla beatitudine della vita contemplativa. La sirena è rozzamente abbozzata; manca a Dante il senso della voluttà; senti nel verso stesso non so che intralciato e stanco. Lia è una delle sue più fresche creazioni, personaggio tipico così perfetto nel suo genere, come la Fortuna. La sua felicità non è ancora beatitudine, come è della suora, che vive guardando Dio, il suo miraglio; ma appunto perciò è più interessante e poetica, più umana, più vicina a noi questa bella fanciulla, che va tutta lieta pel prato, e coglie fiori, e se ne fa ghirlanda e si mira allo specchio. Tale è la prima immagine che il giovine incontra sovente ne’ suoi sogni!
L’ultima forma sotto la quale si presenta la realtà è la visione simbolica, dove la forma non significa più se stessa, ma un’altra cosa. Il purgatorio finisce tra’ simboli; è il paradiso che si offre all’anima sotto figura. Cristo è un grifone, e il carro su cui sta è la Chiesa, e Dante ha una serie di strane visioni, che rappresentano simbolicamente la storia della Chiesa.
Così la realtà corpulenta e tempestosa dell’inferno si va diradando e sottilizzando per trasformarsi nella vera realtà, lo spirito o il paradiso. Questo processo di carne a spirito è il purgatorio, dove la forma diviene pittura, estasi, sogno, simbolo. Il simbolo già non è più forma, ma puro spirito, lavoro intellettuale. Sotto la figura ci è la nuova e vera realtà, pronta a svilupparsene e comparire essa direttamente.
L’uomo del purgatorio ha i sentimenti conformi a questo stato dell’anima. Il suo carattere è la calma interiore, assai simile alla tranquilla gioia dell’uomo virtuoso che nella miseria terrena sulle ali della fede e della speranza alza lo spirito al paradiso. Le ombre sono contente nel fuoco; gli affetti hanno dolci e temperati, il desiderio puro d’inquietudine e d’impazienza. Ne nasce un mondo idillico, che ricorda l’età dell’oro, dove tutto è pace e affetto, e dove si manifestano con effusione le pure gioie dell’arte, i dolci sentimenti dell’amicizia. In questo mondo di pitture e scolture Dante si è coronato di artisti: Casella, Sordello, Guido Guinicelli, Buonagiunta da Lucca, Arnaldo Daniello, Oderisi, Stazio, e ne ha cavato episodii commoventi, che fanno vibrare le fibre più delicate del cuore umano. Ricorderò il suo incontro con Casella, e il ritratto di Sordello, e i cari ragionamenti dell’arte con Guinicelli e Buonagiunta, l’incontro di Stazio e Virgilio. È un lato della vita nuova, pur così vero in tempi che la vita intima della famiglia, dell’arte e dell’amicizia era un rifugio e quasi un asilo fra le tempeste della vita pubblica. Come tocca il core l’amicizia di Dante e di Forese, fratello di Corso Donati, il principale nemico di Dante, e quel domandar ch’egli fa di Piccarda! I movimenti improvvisi dell’affetto e della maraviglia sono colti con tanta felicità che rimangono anche oggi vivi nel popolo, come è l’O lungo e roco delle anime che veggon l’ombra di Dante, o il paragone delle pecorelle, e la calma di Sordello a guisa di leon quando si posa, mutata subito in un sì vivace impeto di affetto, e Stazio che corre incontro a Virgilio per abbracciarlo, obliando di essere un’ombra, e il cerchio dell’anime intorno a Dante, quasi obliando d’ire a farsi belle, e Casella che se ne spicca e si gitta tra le braccia di Dante:
O ombre vane, fuor che nell’aspetto!
Tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
E tante mi tornai con esse al petto.
Questa intimità, questo tenere nel cuore un cantuccio chiuso al mondo, riservato alla famiglia, agli amici, all’arte, alla natura, quasi tempio domestico, impenetrabile a’ profani, è il mondo rappresentato nel purgatorio. Le ricordanze de’ casi anche più tristi sono pure di amarezza, raddolcite dalle speranze dell’ultimo giorno. Manfredi non ha una ingiuria per i suoi nemici, chiede perdono, ed ha già perdonato.
Io mi rendei
Piangendo a quei che volentier perdona.
Buonconte di Montefeltro racconta le circostanze più strazianti della sua morte con una calma e una serenità, che diresti indifferenza, se non te ne rivelasse il secreto il sentimento espresso in questi versi:
Nel nome di Maria finii, e quivi
Caddi, e rimase la mia carne sola.
Ciascuno ha conservato in quel cantuccio del cuore il suo tempio domestico. Come è caro quel Forese con quel Nella mia,
La vedovella mia che tanto amai!
E Buonconte ricorda la sua Giovanna e gli altri che si sono dimenticati di lui, e Manfredi vuol essere ricordato a Costanza, e Jacopo a’ suoi Fanesi, che pregassero per lui; la sola Pia non ha alcun nome nel suo santuario domestico, e non ha che Dante che possa ricordarsi di lei:
Ricordati di me, che son la Pia.
Questo mondo così affettuoso è penetrato di malinconia, sentimento nuovo, che avrà tanta parte nella poesia moderna, e generato qui, nel purgatorio. Questo sentimento ti prende a udir la Pia, così delicata nella solitudine del suo core; eppure non era sola, e ricorda la gemma, pegno d’amore. La tenerezza e delicatezza dei sentimenti dispone l’animo alla malinconia: perchè malinconia non è se non dolce dolore, dolore raddolcito da immagini care e tenere. Richiede perciò anime raccolte che vivano in fantasia, sieno pensose, non distratte dal mondo, chiuse nella loro intimità. La malinconia è il frutto più delicato di questo mondo intimo. Come ti va al core quell’ora che incomincia i tristi lai la rondinella, presso alla mattina, e quella squilla di lontano,
Che pare il giorno pianger che si muore,
e quell’ora della sera che i naviganti partono e s’inteneriscono pensando
Lo dì che han detto a’ cari amici: Addio!
Qui Dante gitta via l’astronomia che rende spesso così aride le sue albe e le sue primavere, e rende tutte le dolcezze di una Natura malinconica. Tra le scene più intime, più penetrate di malinconia, è il suo incontro con Casella. Cominciano espansioni di affetto. Nel primo impeto corrono ad abbracciarsi. Casella dice:
Così com’io t’amai
Nel mortal corpo, così t’amo sciolta.
Dante risponde: Casella mio! E lo prega a voler cantare, come faceva in vita, che col canto gli acquietava l’anima, e ora l’anima sua è così affannata. E Casella canta una poesia di Dante, e Dante e Virgilio e le anime fanno cerchio, rapite, dimentiche del purgatorio, sgridate da Catone. Ma se Catone non perdona, perdonano le Muse. Quest’oblio del purgatorio, questa musica che ci riconduce alle care memorie della vita, la terra che scende nell’altro mondo e si impossessa delle anime, sì che obliano di essere ombre e vogliono abbracciare gli amici, e pendono dalla bocca di Casella, questo è poesia. Ci si sente qua dentro la malinconia dell’esilio, l’uomo che giovine ancora desiderava con la sua Bice e i suoi amici e le loro donne ritrarsi in un’isola e farne il santuario dei suoi affetti e obliarvi il mondo.
E c’è la malinconia propria del purgatorio, quel vedere di là con mutati occhi le grandezze e gli affetti terreni, quel disabbellirsi della vita, quel cadere di tutte le illusioni.
Non è il mondan rumore altro che un fiato
Di vento, che or vien quinci ed or vien quindi,
E muta nome perchè muta lato.
Una delle figure più interessanti è Adriano. All’ultimo della grandezza dice:
Vidi che là non si chetava il core,
Nè più salir poteasi in quella vita:
Perchè di questa in me s’accese amore.
Questo Papa disilluso ha lunga e mala parentela, e sono tutti morti per lui, eccetto la buona Alagia:
E questa sola m’è di là rimasa.
Quest’ultimo verso è pregno di malinconia.
Questa calma filosofica che fa guardare dall’alto del purgatorio la vita e ne scopre il vano e il nulla, restringe il circolo della personalità e della realtà terrena. Gli individui appariscono e spariscono, appena disegnati; hanno la bellezza, ma anche la monotonia e l’immobilità della calma. Sono uomini che discutono e conversano in una sala, più che uomini agitati e appassionati. I grandi individui storici, le grandi creature della fantasia scompariscono.
Più che negli individui la vita si manifesta nei gruppi: la vita qui è meno individuo, che genere. La comune anima ha la sua espressione nel canto. Nell’inferno non ci son cori; perchè non vi è l’unità dell’amore. L’odio è solitario; l’amore è simpatia e armonia; la musica e il canto conseguono i loro effetti nella misurata varietà delle voci e degl’istrumenti. Qui le anime sono esseri musicali, che escono dalla loro coscienza individuale, assorte in uno stesso spirito di carità:
Una parola era in tutto e un modo,
Sicchè parea tra esse ogni concordia.
Le anime compariscono a gruppi e cantano salmi e inni, espressione varia di dolore, di speranza, di preghiera, di letizia, di lodi al Signore. Quando giungono al purgatorio le odi cantare: In exito Israel de Egipto. Giungono nella valle, ed ecco intonare il Salve Regina. La sera odi l’inno: Te lucis ante terminum Rerum creator poscimus. Entrando nel purgatorio, risuona il Te Deum. Sono i salmi e gl’inni della chiesa, cantati secondo le varie occasioni, e di cui il poeta dice le prime parole. Ti par d’essere in Chiesa e udir cantare i Fedeli. Quei canti latini erano allora nella bocca di tutti, erano cantati da tutti in chiesa; il primo verso bastava a ricordarli. Il poeta ha creduto bastar questo ad accendere ne’ petti l’entusiasmo religioso. E forse bastava allora, quando quei versi suscitavano tante rimembranze e immagini della vita religiosa. La poesia qui non è nella rappresentazione, ma in quei lettori e in quei tempi. Un nome, una parola basta in certi tempi a produrre tutto l’effetto: con quei tempi se ne va la loro poesia, e restano cosa morta. Molte parti del poema dantesco, aride liste di nomi e di fatti, soprattutto le allusioni politiche, allora così vive, oggi son morte. E tutta questa lirica del purgatorio è cosa morta. Perchè Dante non crea dal suo seno quei sentimenti, ma li trova belli e scritti nei canti latini, e si contenta di dirne le prime parole. Pure la situazione delle anime purganti è altamente lirica; la loro personalità non è individuale, ma collettiva, e l’espressione di quella comune anima svegliatasi in loro è l’onda canora de’ sentimenti. Qui mancò la vena e la forza al gran poeta, e si rimise a Davide di quello ch’era suo compito. Più che visioni e simboli e dipinti, la vita del purgatorio era questa effusione lirica di dolore, di speranza, di amore, di quell’incendio interiore che rende le anime affettuose, concordi in uno stesso spirito di carità. Ha saputo così ben dipingerle queste anime ardenti, che s’incontrano, si baciano e vanno innanzi, tirate su verso il cielo!
Lì veggio d’ogni parte farsi presta
Ciascun’ombra, e baciarsi una con una,
Senza restar, contente a breve festa.
Così per entro loro schiera bruna
S’ammusa l’una con l’altra formica,
Forse a spiar lor via e lor fortuna.
E che poteva e sapeva con pari felicità esprimere i loro sentimenti, non solo il vago e l’indeterminato, ma anche il proprio e il successivo, ed essere il Davide del suo purgatorio, lo mostra il suo paternostro, rimaso canto solitario.
Le fuggitive apparizioni degli angeli sono quasi immagine anticipata del paradiso nel luogo della speranza. In essi non è alcuna subbiettività: sono forme eteree vestite di luce, fluttuanti come le mistiche visioni dell’estasi, e nondimeno ciascuna con propria apparenza e attitudine.
Tal che parea beato per iscritto.»
Verdi come fogliette pur mo’ nate
Erano in veste, che da verdi penne
Percosse traean dietro e ventilate.»
Ben discernea in lor la testa bionda,
Ma nelle facce l’occhio si smarria,
Come virtù che a troppo si confonda.»
A noi venìa la creatura bella
Bianco vestita, e nella faccia quale
Par tremolando mattutina stella.»
Molto per la pittura, poco per la poesia. Manca la parola, manca la personalità. Ci è il corpo dell’angiolo; non ci è l’angiolo. Nelle dolci note, tra quelle forme d’angioli, l’anima s’infutura, gusta le primizie del piacere eterno. Di che prende qualità la natura del purgatorio, una montagna, scala al paradiso, in principio faticosa a salire.
E quando uom più va su, e men fa male.
Però quando ella ti parrà soave
Tanto che il su andar ti sia leggiero,
Come a seconda giù l’andar con nave,
Allor sarai al fin d’esto sentiero.
Il luogo è rallegrato da luce non propria, ma riflessa dal sole e dalle stelle, che sono il paradiso dantesco. La prima impressione della luce uscendo dall’inferno, cava a Dante questa bella immagine:
Dolce color d’oriental zaffiro
Che s’accoglieva nel sereno aspetto
Dell’aer puro infino al primo giro,
Agli occhi miei ricominciò diletto.
La natura è l’accordo musicale e la voce di quel di dentro: qui natura, angeli e anime sono un solo canto, un solo universo lirico. Scena stupenda è nel canto settimo, maravigliosa consonanza tra le ombre sedute, quete, che cantano Salve Regina, e la vista allegra del seno erboso e fiorito dove stanno:
Non avea pur natura ivi dipinto,
Ma di soavità di mille odori
Mi faceva un incognito, indistinto.
Salve Regina in sul verde e in su’ fiori
Quindi seder cantando anime vidi.
Le anime piangono e cantano; e il luogo alpestre è lieto di apriche valli e di campi odorati: il quale contrasto ha termine, quando l’anima si leva con libera volontà a miglior soglia, tolte le schiume della coscienza, con pura letizia. Così come nell’inferno si scende sino al pozzo ghiacciato della morte, nel purgatorio si sale sino al paradiso terrestre, immagine terrena del paradiso, dove l’anima è monda del peccato o della carne, è rifatta bella e innocente. Tutto è qui che alletti lo sguardo e lusinghi l’immaginazione; riso di cielo, canti di uccelli, vaghezza di fiori, e tremolar di fronde e mormorare di acque, descritto con dolcezza e melodia, ma insieme con tale austera misura, che non dà luogo a mollezza ed ebbrezza di sensi, nè il diletto turba la calma.
Il purgatorio è il centro di questo mistero o commedia dell’anima; è qua che il nodo si scioglie. Dante più che spettatore, è attore. Uscito dall’inferno, appena all’ingresso del purgatorio, l’Angiolo incide sulla sua fronte sette P, che sono i sette peccati mortali, che si purgano ne’ sette giorni. Da un girone all’altro una P scomparisce dalla fronte, finchè van via tutte, e puro e rinnovellato giunge al paradiso terrestre. Passa da uno stato nell’altro in sonno, cioè a dire per virtù della grazia, senza sua coscienza. È Lucia, nemica di ciascun crudele, che lo piglia dormente e sognante, e lo conduce in purgatorio. Così la storia intima dell’anima, i suoi errori, le passioni, i traviamenti, i pentimenti, sono storia esterna e simbolica; il dramma è strozzato nella sua culla. La crisi del dramma, il punto in cui il nodo si scioglie, è il pentimento, l’anima che si riconosce, e caccia via da sè il peccato, e si pente e si vergogna e ne fa confessione. A questo punto il dramma si fa umano, e ciò che avrebbe potuto far Dante, si vede da quello che ha fatto qui; ma una storia intima, personale, drammatica dell’anima, com’è il Faust, non era possibile in tempi ancora epici, simbolici, mistici e scolastici.
Qui tutt’i personaggi del dramma si trovano a fronte. Di qua Dante, Virgilio, Stazio; di là Beatrice con gli Angioli: in mezzo al rio che li divide, bipartito in due fiumi, Lete, l’obblio, ed Eunoè, la forza. Nell’uno l’anima si spoglia della scoria del passato; nell’altra attinge virtù di salire alle stelle.
L’alto fato di Dio sarebbe rotto
Se Lete si passasse, e tal vivanda
Fosse gustata senz’alcuno scotto
Di pentimento che lagrime spanda.
Di là è Matilde, che tuffa le anime, pagato lo scotto del pentimento, e le passa all’altra riva, rifatte nell’antico stato d’innocenza. E lo specchio dell’anima rinnovellata è Matilde, che danza e sceglie fiori, in sembianza ancora umana celeste creatura, con l’ingenua giocondità di fanciulla, con la leggerezza di una Silfide, col pudico sguardo di vergine; il viso radiante di luce. Tale era Lia, affacciatasi al poeta in sogno, il presentimento di Matilde, il nunzio del paradiso terrestre.
La scena, dove questo mistero dell’anima si scioglie, ha le sacre e venerabili apparenze di un mistero liturgico, una di quelle sacre rappresentazioni che si facevano durante le processioni. Vedi una Chiesa animata e ambulante di processione: sette candelabri, che a distanza parevano sette alberi d’oro, e dietro gente vestita di bianco che canta Osanna, e le fiammelle lasciano dietro di sè lunghe liste lucenti, e sotto questo cielo di luce sfila la processione. Ecco a due a due i profeti e i patriarchi dell’antico testamento, sono ventiquattro seniori coronati di giglio,
Tutti cantavano: Benedetta tue
Nelle figlie di Adamo, e benedette
Sieno in eterno le bellezze tue.
Segue la chiesa in figura di carro trionfale, a due ruote (i due testamenti), tra quattro animali (i quattro vangeli), tirato da un Grifone, simbolo di Cristo; a destra Fede, Speranza e Carità; a sinistra Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza, vestite di porpora; dietro due vecchi, san Luca e san Paolo, e dietro a loro quattro in umile paruta, forse gli scrittori dell’epistole, e solo e dormente san Giovanni dall’Apocalisse.
E diretro da tutti un veglio solo
Venir dormendo colla faccia arguta.
Si ode un tuono. La processione si ferma. Comincia la rappresentazione. Virgilio guarda attonito, non meno che Dante. Il senso di quella processione allegorica gli sfugge. La missione del savio pagano è finita. Hai innanzi la dottrina nuova, la Chiesa di Cristo co’ suoi Profeti e Patriarchi, co’ suoi evangelisti e apostoli, co’ suoi libri santi.
Fermata la processione, una canta e gli altri ripetono: Veni, Sponsa, de Libano, e sul carro si leva moltitudine di angioli che cantano e gittano fiori.
Tutti dicèn: benedictus qui venis,
E fior gittando di sopra e dintorno,
Manibus o date lilia plenis.
Tra questa nuvola di fiori appare donna sovra candido velo, cinta d’oliva, sotto verde manto, vestita di colore di fiamma; appare come la Madonna nelle processioni, sotto i fiori che le gittano dalle finestre i fedeli. Dante non la vede, ma la sente: è Beatrice.
Quest’apoteosi di Beatrice, questo primo apparire della sua Donna ancora velata fra tanta gloria scioglie l’immaginazione dalla rigidità de’ simboli e de’ riti, e le dà le libere ali dell’arte. Il dramma si fa umano; spuntano le immagini e i sentimenti.Io vidi già nel cominciar del giorno
Le parte orïental tutta rosata,
E l’altro ciel di bel sereno adorno
E la faccia del Sol nascere ombrata,
Sicchè per temperanza di vapori
L’occhio la sostenea lunga fïata:
Così dentro una nuvola di fiori,
Che dalle mani angeliche saliva
E ricadeva giù dentro e di fuori,
Sovra candido vel, cinta di oliva
Donna m’apparve sotto il verde manto,
Vestita di color di fiamma viva.
L’apparire di Beatrice è lo sparire di Virgilio. Qui l’astrattezza del simbolo è superata. Ti senti innanzi ad un’anima d’uomo. Quella donna è la sua Beatrice, l’amore della sua prima giovinezza; e Virgilio è il dolcissimo padre che sparisce, quando più ne aveva bisogno, quando era proprio come un fantolino in paura che si volge alla mamma, e si volge, e non lo vede più e lo chiama tre volte per nome nella mente sbigottita. Il mistero liturgico si trasforma in un dramma moderno.
E lo spirito mio che già cotanto
Tempo era stato che alla sua presenza
Non era di stupor tremando affranto,
Senza dagli occhi aver più conoscenza,
Per occulta virtù che da lei mosse,
D’antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che nella vista mi percosse
L’alta virtù che già m’avea trafitto,
Prima ch’io fuor di puerizia fosse,
Volsimi alla sinistra, col respitto
Col quale il fantolin corre alla mamma,
Quando ha paura o quando egli è afflitto,
Per dicer a Virgilio: Men che dramma
Di sangue m’è rimaso, che non tremi:
Conosco i segni dell’antica fiamma.
Ma Virgilio ne avea lasciati scemi
Di sè, Virgilio dolcissimo padre,
Virgilio, a cui per mia salute dièmi.
Dal pianto di Dante esce un felicissimo passaggio per introdurre in iscena Beatrice:
Dante, perchè Virgilio se ne vada,
Non pianger anco, non piangere ancora,
Che pianger ti convien per altra spada.
Gli occhi di Dante sono là verso la donna, che lo chiama per nome.
Guardami ben: ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti di ascendere al monte?
Non sape’ tu che qui è l’uom felice?
E gli occhi cadono nella fontana, e non sostenendo la propria vista, cadono sull’erba:
Gli occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
Ma veggendomi in esso, io trassi all’erba:
Tanta vergogna mi gravò la fronte.
Qui è la prima volta e sola che un’azione è rappresentata nel suo cammino e nel suo svolgimento, come in un mistero, e Dante vi rivela un ingegno drammatico superiore. I più intimi e rapidi movimenti dell’animo scappan fuori; i due attori, Dante e Beatrice, vi sono perfettamente disegnati; gli Angioli fanno coro e intervengono. La scena è rapida, calda, piena di movimenti e di gradazioni fini e profonde. La vergogna di Dante senza lagrime e sospiri giunge a poco a poco sino al pianto dirotto. Dapprima sta lì più attonito che compunto, ma quando gli Angioli nel loro canto hanno aria di compatirgli, come se dicessero: Donna perchè lo stempre? scoppia il pianto. Quello che non potè il rimprovero, ottiene il compatimento. Gradazione vera e profonda e rappresentata con rara evidenza d’immagine. Instando Beatrice:dì, dì, se questo è vero, tra confusione e vergogna, esitando e incalzato gli esce un tale sì dalla bocca, che si poteva vedere, ma non udire:
Al quale intender fur mestier le viste.
I sentimenti dell’animo scoppiano con tanta ingenuità e naturalezza, che rasentano il grottesco; quando Beatrice dice: Alza la barba, il nostro dottore con linguaggio della scuola riflette:
E quando per la barba il viso chiese,
Ben conobbi il velen dell’argomento.
Il berretto dottorale spunta tutto ad un tratto sul capo di Dante fra le lagrime e i sospiri, e dà a questa magnifica storia del cuore un colorito locale.
Queste gradazioni corrispondono alle parole di Beatrice. Qui non ci è dialogo: è lei che parla: le risposte di Dante sono le sue emozioni. Pure non ci è monotonia, nè declamazione; tutto esce da una situazione vera e finamente analizzata. Regalmente proterva, la sua severità è raddolcita poi dal canto degli Angioli. Beatrice non parla più a Dante; parla agli Angioli e narra loro la storia di Dante. La situazione diviene meno appassionata, ma più elevata; mai la poesia non si era alzata a un linguaggio sì nobile; lo spiritualismo cristiano trovava la sua musa:
Quando di carne a spirto era salita,
E bellezza e virtù cresciuta m’era,
Fui io a lui men cara e men gradita
E torse i passi suoi per via non vera,
Immagini di ben seguendo false,
Che nulla promission rendono intera.
Poi si volta a Dante, e il discorso diviene personale, stringente, implacabile nella sua logica. È una sola idea sotto varie forme, ostinata, insistente, che vuole da Dante una risposta. Sei uomo, hai la barba: come potesti preferire a me le cose fallaci della terra, o pargoletta, o altra vanità per sì breve uso? E quando Dante potè formare la voce, viene la risposta:
le presenti cose
Col falso lor piacer volser miei passi,
Tosto che il vostro viso si nascose.
Come si vede, è l’antica lotta tra il senso e la ragione che qui ha il suo termine; è la vita tragica dell’anima fra gli errori e le battaglie del senso che qui si scioglie in commedia, cioè in lieto fine, con la vittoria dello spirito. L’idea è più che trasparente, è manifestata direttamente nel suo linguaggio teologico. Ma la idea è calata nella realtà della vita e produce una vera scena drammatica, con tale fusione di terreno e di celeste, di passione e di ragione, di concreto e di astratto, che vi trovi la stoffa da cui dovea sorgere più tardi il dramma spagnuolo.
Dante pentito, tuffato nel fiume Lete, è menato a Beatrice dalle Virtù, sue ancelle:
Noi sem qui Ninfe; e in ciel semo stelle;
Pria che Beatrice discendesse al mondo,
Fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Merrenti agli occhi suoi.
E Beatrice gli svela la sua faccia. Non è poesia che possa rendere quello che Dante vede, quello che sente:
O splendor di viva luce eterna,
Chi pallido si fece sotto l’ombra
Sì di Parnasso, e bevve in sua cisterna,
Che non paresse aver la mente ingombra,
Tentando a render te, qual tu paresti,
Là dove armonizzando il Ciel ti adombra,
Quando nell’aere aperto ti solvesti?
Compiuta la rappresentazione, ricomincia la processione sino all’albero della vita, dove, antitesi a questa chiesa gloriosa di Cristo, apparisce in visione allegorica la Chiesa terrena, trafitta dall’impero, travagliata dall’eresia, corrotta dal dono di Costantino, smembrata da Maometto, e in ultimo meretrice fra le braccia del Re di Francia. Concetto stupendo, questo apparire della vita terrena nell’ultimo del purgatorio, germogliata dall’albero infausto del peccato di Adamo. Il terreno apparisce quando ci si dilegua per sempre dinanzi, non solo in realtà ma in ricordanza. Siamo già alla soglia del Paradiso.
Così finisce questa processione dantesca, una delle concezioni più grandiose del poema, anzi in sè sola tutto un poema, dove ci vediamo sfilare davanti tutt’i grandi personaggi della Chiesa celeste, immagine anticipata del regno di Dio, un’apoteosi del cristianesimo, entro di cui si rappresenta il più alto mistero liturgico, la commedia dell’anima.
Questa processione dovè far molta impressione in quei tempi delle processioni, de’ misteri e delle allegorie, quando gli angeli, le virtù e i vizii, e Cristo e Dio stesso entravano in iscena. Ma è appunto questo carattere liturgico e simbolico, che qui scema in gran parte la bellezza della poesia. Questo difetto nuoce soprattutto nella rappresentazione della chiesa terrena, dove l’aquila, la volpe e il drago e il gigante e la meretrice rimpiccoliscono un concetto così magnifico, una storia così interessante.
Lo stesso contrasto si affaccia a Dante, quando il me appare nella Città di Dio, di santo Agostino, e ne tovano Sordello, e sentendo Virgilio esser di Mantova, esce dalla sua calma di leone:
O Mantavano,
Io son Sordello. E l’un l’altro abbracciava.
E Dante pensa alla sua Firenze, dove
l’un l’altro si rode
Di quei che un muro ed una fossa serra.
Qui non è impigliato nelle allegorie. Scoppia il contrasto impetuoso, eloquente, e n’esce una poesia tutta cose, dove si riflettono i più diversi movimenti dell’animo, il dolore, lo sdegno, la pietà, l’ironia, una calma tristezza.
Il Purgatorio è il dolce rifugio della vecchiezza. Quando la vita si disabbella ai nostri sguardi, quando le volgiamo le spalle e ci chiudiamo nella santità degli affetti domestici tra la famiglia e gli amici, nelle opere dell’arte e del pensiero, il purgatorio ci s’illumina di viva luce e diviene il nostro libro, e ci scopriamo molte delicate bellezze, una gran parte di noi. Fu il libro di Lamennais, il Balbo, di Schlosser.
Viene il Paradiso. Altro concetto, altra vita, altre forme.
Il paradiso è il regno dello spirito, venuto a libertà emancipato dalla carne o dal senso, perciò il sopra sensibile,o come dice Dante, il trasumanare, il di là dall’umano. È quel regno della filosofia, che Dante volea realizzare in terra, il regno della pace, dove intelletto, amore e atto sono una cosa. Amore conduce lo spirito al supremo intelletto, e il supremo intelletto è insieme supremo atto. La Triade è insieme unità. Quando l’uomo è alzato dall’amore fino a Dio, hai la congiunzione dell’umano e del divino, il sommo bene, il Paradiso.
Questo ascetismo o misticismo non è dottrina astratta, è una forma della vita umana. Ci è nel nostro spirito un di là, ciò che dicesi il sentimento dell’infinito, la cui esistenza si rivela più chiaramente alle nature elevate.
L’arte antica avea materializzato questo di là, umanando il cielo; e la filosofia partendo dalle più diverse direzioni era giunta a questa conclusione pratica, che l’ideale della saggezza e perciò della felicità è posto nella eguaglianza dell’anima, ciò che dicevasi apatia, affrancamento dalle passioni e dalla carne: pagana tranquillità che vedi nelle figure quiete e serene e semplici dell’arte greca.
Questa calma filosofica trovi nelle figure eroiche del limbo:
Parlavan rado con passi soavi:
Sembianza avean nè trista nè lieta.
Virgilio n’è il tipo più puro, le cui impressioni vanno di rado al di là di un sospiro, o di un movimento tosto represso. Questa calma è la fisonomia del purgatorio, il carattere più spiccato di quelle anime, dove l’aspirazione al cielo è senza inquietudine, sicuro di salirvi quandochessia. Ma già in quelle anime penetra un elemento nuovo, l’estasi, il rapimento, la contemplazione; ci sta Catone, ma irradiato di luce.
Col cristianesimo s’era restaurato nello spirito questo inquieto di là, e divenne in breve molta parte della vita, anzi la principale occupazione della vita. E si sviluppò un’arte e una letteratura conforme. Chi vede gli ammirabili mosaici del paradiso sotto le cupole di San Marco e di San Giovanni Laterano, o le facce estatiche de’ Santi consumati dal fervore divino ha innanzi stampato il tipo di questo uomo nuovo. Quel di là, il celeste, il divino, appare su quelle facce, come appare nella Città di Dio di santo Agostino e nella Dieta salutis di . A questa immagine avea composta la sua Gerusalemme celeste Frate Giacomino da Verona nel secolo decimoterzo.
Questo di là, intraveduto nelle estasi, ne’ sogni nelle visioni, nelle allegorie del Purgatorio, eccolo qui nella sua sostanza, è il Paradiso. Il quale intraveduto nella vita ha una forma, e può essere arte; ma non si concepisce come veduto ora nella sua purezza, come regno dello spirito, possa avere una rappresentazione. Il paradiso può essere un canto lirico, che contenga non la descrizione di cosa che è al di sopra della forma, ma la vaga aspirazione dell’anima a «non so che divino», ed anche allora l’obbietto del desiderio, pur rimanendo un incognito indistinto, riceve la sua bellezza da immagini terrene, come nell'Aspirazione e nel Pellegrino di Schiller, e in questi bei versi del purgatorio, imitati dal Tasso:
Chiamavi il cielo e intorno vi si gira,
Mostrandovi le sue bellezze eterne.
Per render artistico il Paradiso, Dante ha immaginato un paradiso umano, accessibile al senso e all’immaginazione. In paradiso non c’è canto, e non luce e non riso, ma essendo Dante spettatore terreno del paradiso, lo vede sotto forme terrene:
Per questo la scrittura condescende
A vostra facultade, e mani e piedi
Attribuisce a Dio e altro intende.
Così Dante ha potuto conciliare la teologia e l’arte. Il paradiso teologico è spirito, fuori del senso e dell’immaginazione, e dell’intelletto; Dante gli dà parvenza umana e lo rende sensibile ed intelligibile. Le anime ridono, cantano, ragionano come uomini. Questo rende il paradiso accessibile all’arte.
Siamo all’ultima dissoluzione della forma. Corpulenta e materiale nell’inferno, pittorica e fantastica nel purgatorio, qui è lirica e musicale, immediata parvenza dello spirito, assoluta luce senza contenuto, fascia e cerchio dello spirito non esso spirito. Il purgatorio come la terra, riceve la luce dal sole e dalle stelle, e queste l’hanno immediatamente da Dio, sicchè le anime purganti, come gli uomini, veggono il Sole, e nel Sole intravvedono Dio, offertosi già alla fantasia popolare come emanazione di luce; ma i beati intuiscono Dio direttamente per la luce che move da lui senza mezzo:
Lume che a lui veder ne condiziona.
Adunque il paradiso è la più spirituale manifestazione di Dio; e perciò di tutte le forme non rimane altro che luce, di tutti gli affetti non altro che amore, di tutt’i sentimenti non altro che beatitudine, di tutti gli atti non altro che contemplazione. Amore, beatitudine, contemplazione prendono anche forma di luce; gli spiriti si scaldano ai raggi d’amore; la beatitudine o letizia sfavilla negli occhi e fiammeggia nel riso; e la verità è siccome in uno specchio dipinta nel cospetto eterno:
Luce intellettual, piena d’amore,
Amor di vero ben pien di letizia,
Letizia che trascende ogni dolzore.
Gli affetti e i pensieri delle anime si manifestano con la luce; l’ira di san Pietro fa trascolorare tutto il paradiso.
Il paradiso ha ancora la sua storia e il suo progresso, come l’inferno e il purgatorio. È una progressiva manifestazione dello spirito o di Dio in una forma sempre più sottile sino al suo compiuto sparire, manifestazione ascendente di Dio che risponde a’ diversi ordini o gradi di virtù. Sali di stella in stella, come di virtù in virtù, sino al cielo empireo, soggiorno di Dio.
Ad esprimere queste gradazioni unica forma è la luce. Perciò non hai qui, come nell’inferno o nel purgatorio, differenze qualitative, ma unicamente quantitative, un più e un meno. Prima la luce non è così viva che celi la faccia umana; più si sale e più la luce occulta le forme come in un santuario. Come è la luce, così è il riso di Beatrice, un crescendo superiore ad ogni determinazione; la fantasia formando non può seguire l’intelletto che distingue. Bene il poeta vi adopera l’estremo del suo ingegno, conscio della grandezza e difficoltà dell’impresa:
L’acqua che io prendo giammai non si corse;
Minerva spira e conducemi Apollo,
E nuove Muse mi dimostran l’Orse.
Dapprima caldo di questo mondo, sua fattura, allettato dalla novità o dal maraviglioso de’ fenomeni che gli si affacciano, le immagini gli escono vivaci, peregrine; poi quasi stanco diviene arido e da in sottigliezze9; ma lo vedi rivelarsi e poggiare più e più a inarrivabile altezza, sereno, estatico; diresti che la difficoltà lo alletti, la novità lo rinfranchi, l’infinito lo esalti.
Il paradiso propriamente detto è il cielo empireo, immobile e che tutto move, centro dell’universo. Ivi sono gli spiriti, ma secondo i gradi de’ loro meriti e della loro beatitudine appariscono ne’ nove cieli che girano intorno alla terra, La Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove, Saturno, le stelle fisse e il Primo mobile. Ne’ primi sette cieli che sono i sette pianeti, ti sta avanti tutta la vita terrena. La luna è una specie di avanti-paradiso. I negligenti aprono l’inferno e il purgatorio, e aprono anche il paradiso. E i negligenti del paradiso sono i manchevoli non per volontà propria, ma per violenza altrui. Il loro merito non è pieno, perchè mancò loro quella forza di volontà che tenne Lorenzo sulla grata e fe’ Muzio severo alla sua mano. Perciò in loro rimane ancora un vestigio della terra, la faccia umana. In Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove hai le glorie della vita attiva, i legislatori, gli amanti, i dottori, i martiri, i giusti. In Saturno hai la corona, e la perfezione della vita, i contemplanti. Percorsi i diversi gradi di virtù, comincia il tripudio, o come dice il poeta, il trionfo della beatitudine. Ed hai nelle stelle fisse il trionfo di Cristo, nel primo Mobile il trionfo degli Angioli, e nell’empireo la visione di Dio, la congiunzione dell’umano e del divino, dove s’acqueta il desiderio.
Questa storia del paradiso secondo i diversi gradi di beatitudine ha la sua forma ne’ diversi gradi di luce.
La luce, veste e fascia delle anime, è la sola superstite di tutte le forme terrene, e non è vera forma, ma semplice parvenza e illusione dell’occhio mortale. Essa è la stessa beatitudine, la letizia dell’anime, che prende quell’aspetto agli occhi di Dante:
La mia letizia mi tien celato,
Che mi raggia d’intorno e mi nasconde,
Quasi animal di sua seta fasciato.
Queste parvenze dell’interna letizia si atteggiano, si determinano, si configurano ne’ più diversi modi, e non sono altro che i sentimenti o i pensieri delle anime che pajon fuori in quelle forme. E n’esce la Natura del paradiso, luce diversamente atteggiata e configurata, che ha aspetto or di aquila, or di croci, or di cerchio, or di costellazione, ora di scala, con viste nuove e maravigliose. Queste combinazioni di luce non sono altro che gruppi d’anime, che esprimono i loro pensieri co’ loro moti e atteggiamenti. A rendere intelligibili le parvenze di questo mondo di luce, il poeta si tira appresso la natura terrestre e ne coglie i fenomeni più fuggevoli, più delicati, e ne fa lo specchio della natura celeste. Così rientra la terra in paradiso, non come sostanziale, ma come immagine, parvenze delle parvenze celesti. È la terra che rende amabile questo paradiso di Dante; è il sentimento della natura che diffonde la vita tra queste combinazioni ingegnose e simboliche. La terra ha pure la sua parte di paradiso, ed è in quei fenomeni che inebbriano, innalzano l’animo e lo spongono alla tenerezza e all’amore: trovi qui tutto che in terra è di più eterno, di più sfumato, di più soave. E come l’impressione estetica nasce appunto da questo profondo sentimento della natura terrestre, avviene che il lettore ricorda il paragone, senza quasi più sapere a che cosa si riferisca. Questi paragoni di Dante sono le vere gemme del paradiso:
Come a raggio di sol che puro mei
Per fratta nube, già prato di fiori
Vider coverti d’ombra gli occhi miei;
Vid’io così più turbe di splendori
Fulgorato di su da’ raggi ardenti,
Senza veder principio di fulgori. (c. XXIII.)
Siccome il Sol che si cela egli stessi
Per troppa luce, quando il caldo ha rose
Le temperanze de’ vapori spessi.
Per più letizia sì mi si nascose
Dentro al suo raggio la figura santa
E così chiusa chiusa mi rispose. (c. V.)
Come l’augello, intra l’amate fronde,
Posato al nido de’ suoi dolci nati,
La notte che le cose ci nasconde,
Che per veder gli aspetti desïati
E per trovar lo cibo onde gli pasca,
In che i gravi labori gli sono grati,
Previene il tempo in su l’aperta frasca,
E con ardente affetto il sole aspetta,
Fiso guardando pur se l’alba nasca. (c. XXXIII.)
. . come orologio che ne chiami
Nell’ora che la sposa di Dio surge
A mattinar lo sposo perchè l’ami;
Che l’una parte e l’altra tira ed urge,
Tintin sonando con sì dolce nota,
che il ben disposto spirito d’amor turge. (c. X.)
. . e cantando vanio
Come per acqua cupa cosa grave. (c. III.)
Qual lodoletta che in aere si spazia,
Prima cantando e poi tace contenta
Dell’ultima dolcezza che la sazia. (c. XX.)
Pareva a me che nube ne coprisse
Lucida, spessa, solida e pulita,
Quasi adamante che lo Sol ferisse.
Per entro sè l’eterna Margherita
Ne ricevette, com’acqua recepe
Raggio di luce, rimanendo unita. (c. II.)
Siccome schiera di api che s’infiora
Una fiata, ed una si ritorna
Là dove suo lavoro s’insapora. (c. XXXI.)
E vidi lume in forma di riviera,
Fulvido di fulgore, intra due rive,
Dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
E d’ogni parte si mettèn ne’ fiori,
Quasi rubin che oro circonscrive.
Poi come inebbrïate dagli odori
Riprofondavan sè nel miro gurge;
E s’una entrava, un’altra ne uscia fuori. (c. XXX.)
Queste tre ultime terzine sono mirabili di spontaneità e di evidenza. Il poeta ha circonfuso le celesti sustanze di tutto ciò che in terra è più ridente e smagliante. Siamo nell’empireo. La virtù visiva è stanca, ma si raccende alle parole di Beatrice, sì, che gli appare la riviera di luce, e fortificata, la vista in quella riviera, in quei fiori inebrianti, in quell’oro, in quei rubini, in quelle vive faville Dante discerne ambo le corti del cielo nel santo delirio del loro tripudio. Ma in verità gli scanni de’ beati sono meno poetici di queste due rive dipinte di mirabil primavera.
Ma la forma, come parvenza dello spirito, è un presso a poco, un quasi, un come, fiocca e corta al concetto. Questa impotenza della forma produce un sublime negativo che Dante esprime con l’energia intellettuale di chi ha vivo il sentimento dell’infinito;
. . . . appressando sè al suo desire
Nostro intelletto si profonda tanto
Che dietro la memoria retro non può ire.
. . . . ogni minor natura
È corto ricettacolo a quel Bene
Che non ha fine e sè in sè misura.
. . . . nella giustizia sempiterna
La vista che riceve il vostro mondo,
Com’occhio per lo mare, entro s’interna;
Che benchè dalla proda veggia il fondo,
In pelago nol vede; e nondimeno
Egli è, ma cela lui l’esser profondo.
La letizia che move le anime e trascende ogni dolzore, non è se non beatitudine. E rende beate le anime l’entusiasmo dell’amore e la chiarezza intellettiva, o come dice Dante luce intellettual piena d’amore. Esse hanno allegro il cuore e allegra la mente. Nel cuore è perenne desiderio e perenne appagamento. Nella mente la verità sta come dipinta.
La luce è forma inadeguata della beatitudine. Ti dà la parvenza, ma non il sentimento e non il pensiero. Spuntano perciò due altre forme, il canto e la visione intellettuale.
Quello che nel purgatorio è amicizia, nel paradiso è amore, ardore di desiderio placato sempre non saziato mai, infinito come lo spirito. Stato lirico e musicale, che ha la sua espressione nella melodia e nel canto. La medesimezza del sentimento spinto sino all’entusiasmo genera la comunione delle anime; la persona non è l’individuo, ma il gruppo, come è delle moltitudini nei grandi giorni della vita pubblica. I gruppi qui non sono Cori, che accompagnino e compiano l’azione individuale, ma sono la stessa individualità diffusa in tutte le anime, o se vogliamo chiamarli Cori, sono il Coro di personaggi invisibili e muti, di Cristo, di Maria e d’Iddio. Ecco il Coro di Maria:
Per entro il cielo scese una facella,
Formata in cerchio a guisa di corona,
E cinsela e girossi intorno ad ella.
Qualunque melodia più dolce suona
Quaggiù e più a sè l’anima tira,
Parrebbe nube che squarciata tuona,
Comparata al suonar di quella lira,
Onde si coronava il bel zaffiro,
Dal quale il ciel più chiaro s’inzaffira.
Io sono amore angelico che giro
L’alta letizia che spira dal ventre
Che fu albergo del nostro disiro;
E girerommi, donna del ciel, mentre
Che seguirai tuo figlio e farai dia
Più la spera superna, perchè lì entre.
Così la circulata melodia
Si sigillava, e tutti gli altri lumi
Facèn sonar lo nome di Maria.
E come fantolin che invèr la mamma
Tende le braccia, poi che il latte prese,
Per l’animo che infin di fuor s’infiamma;
Ciascun di quei cantori in su si stese
Con la sua cima sì che l’alto affetto
Ch’egli aveano a Maria, mi fu palese.
Indi rimaser lì nel mio cospetto,
Regina coeli cantando sì dolce
Che mai da me non si partì il diletto.
Quella facella è l’angiolo Gabriele, e il Coro è angelico. Angioli e Beati sono penetrati dello stesso spirito, hanno vita comune, se non che negli angioli la virtù è innocenza e la letizia è irreflessa: plenitudine volante tra’ Beati e Dio, che il poeta ha rappresentato in alcuni bei tratti; è un andare e venire nel modo abbandonato e allegro della prima età, tripudianti e folleggianti con una espansione che il poeta chiama arte e gioco:
Qual è quell’angel che con tanto gioco
Guarda negli occhi la nostra regina,
Innamorato sì che par di fuoco?
L’amicizia o comunione delle anime è detta dal poeta sodalizia. I loro moti sono danze, le loro voci sono canti: ma in quell’accordo di voci, in quel turbine di movimenti la personalità scompare; è una musica in cui i diversi suoni si confondono e si perdono in una sola melode. Non ci è differenza di aspetto, ma per dir così una faccia sola. Questa comunanza di vita è il fondo lirico del paradiso, ma è la sua parte fiacca, perchè il poeta, contento a citare le prime parole di canti ecclesiastici, non ha avuta libertà e attività di spirito da creare la lirica del paradiso, rappresentando nel canto i sentimenti e gli affetti del celeste sodalizio. E dove potea giungere, lo mostra la preghiera di San Bernardo, che è un vero Inno alla Vergine, e l’Inno a san Francesco d’Assisi e l’Inno a San Domenico, nella loro semplicità anche un po’ rozza tutto cose e più schietti che i magniloquenti inni moderni.
I canti delle anime sono vuoti di contenuto, voci e non parole, musica e non poesia: è tutto una sola onda di luce, di melodia e di voce, che ti porta seco:
Al padre, al figlio, allo spirito santo
Cominciò gloria tutto il paradiso,
Tal che m’inebbrïava il dolce canto.
Ciò che io vedeva, mi sembrava un riso
Dell’universo, perchè mia ebbrezza
Entrava per l’udire e per lo viso.
O gioia! o ineffabile allegrezza!
O vita intera d’amore e di pace!
O senza brama sicura ricchezza!
È l’armonia universale, l’inno della creazione. La luce, vincendo la corporale impenetrabilità, e frammischiando i suoi raggi, esprime anche al di fuori questa compenetrazione delle anime, l’individualità sparita nel mare dell’essere. Il poeta, signore, anzi tiranno della lingua, forma ardite parole a significare questa medesimezza amorosa degli esseri nell’essere: inciela, imparadisa, india, intuassi, immei, inlei, s’infutura, s’illuia; delle quali voci alcune dopo lungo obblio rivivono. La redenzione dell’anima è la sua progressiva emancipazione dall’egoismo della coscienza; la sua individualità non le basta; si sente incompiuta, parziale, disarmonica, e sospira alla idealità nella vita universale. Questo è il carattere della vita in Paradiso. Non solo sparisce la faccia umana, ma in gran parte anche la personalità. Vivono gli uni negli altri e tutti in Dio.
Questo vanire delle forme e della stessa personalità riduce il paradiso a una corda sola, a lungo andare monotona, se non vi penetrasse la terra e con la terra altre forme ed altre passioni. La terra penetra come contrapposto a questa vita d’amore e di pace. È vita d’odio e di vana scienza, e provoca le collere e i sarcasmi de’ Celesti.
Il contrapposto è colto in alcuni momenti altamente poetici. Accolto nel sole gloriosamente allato a Beatrice si affaccia al poeta tutta la vanità delle cure terrestri:
O insensata cura de’ mortali,
Quanto son difettivi sillogismi
Quei che ti fanno in basso batter l’ali!
Chi dietro a jura, e chi ad aforismi
Sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
E chi regnar per forza o per sofismi,
E chi rubare, e chi civil negozio;
Chi nel diletto della carne involto
S’affaticava e chi si dava all’ozio.
Un altro momento di alta poesia è quando il poeta dall’alto delle stelle fisse guarda alla terra:
e vidi il nostro globo
Tal ch’io sorrisi del suo vil sembiante.
La terra che ci fa tanto feroci, veduta dal cielo gli pare un’ajuola. Il concetto abbellito e allargato dal Tasso ha qui una severità di esecuzione quasi ieratica. Il Poeta si sente già cittadino del cielo, e guarda così di passata e con appena un sorriso a tanta viltà di sembiante, volgendone immediatamente l’occhio, e mirando in Beatrice:
L’aiuola che ci fa tanto feroci,
Volgendomi io con gli eterni Gemelli,
Tutta m’apparve da’ colli alle foci:
Poscia rivolsi gli occhi agli occhi belli.
Pure è quest’aiuola che desta nel seno de’ Beati varietà di sentimenti e di passioni, facendo vibrar nuove corde. Accanto all’inno spunta la satira in tutte le sue gradazioni, il frizzo, la caricatura, l’ironia, il sarcasmo. Qual frizzo, che l’allusione di Carlo Martello, così pungente nella sua generalità:
E fanno Re di tal, che è da sermone!
Beatrice, dottissima in teologia, si mostra non meno dotta nel maneggio della caricatura e dell’ironia, frustando i predicatori plebei di quel tempo:
Ora si va con motti e con iscede
A predicare, e pur che ben si rida,
Gonfia il cappuccio e più non si richiede.
Giustiniano conchiude il suo nobilissimo racconto dei casi e della gloria dell’antica Roma con fiere minacce ai guelfi, nemici dell’aquila imperiale. Papi e monaci sono i più assaliti. S. Tommaso, dette le lodi di san Francesco, riprende i francescani, e san Benedetto i benedettini, e san Pietro il Papa. Tutt’i re di quel tempo mandano sangue sotto il flagello di Dante. Non si può attendere da’ Santi alcuna indulgenza alle umane fralezze. La satira è acerba; la sua musa è l’indignazione, e la sua forma ordinaria è l’invettiva. Le forme comiche sono uccise in sul nascere e si sciolgono nel sarcasmo. Il sarcasmo non è qui nè un pensiero, nè un tratto di spirito, ma pittura viva del vizio, con parole anche grossolane, come cloaca, che mettano in vista il laido e il disgustoso. Il vizio è colto non in una forma generale e declamatoria, ma là, in quegli uomini, in quel tempo, sotto quelli aspetti, con pienezza di particolari ed esattezza di colorito: capilavori di questo genere sono la pittura de’ benedettini e l’invettiva di san Pietro.
Questo contrapposto tra il cielo e la terra non è altro se non l’antitesi che è in terra tra i buoni e i cattivi, e per scendere al particolare, tra l’età dell’oro e del cristianesimo e i tempi degeneri del poeta; è il presente condannato dal passato, è il passato messo in risalto dal suo contrasto con la corruzione presente. Ci erano i benedettini, ma ci era stato san Benedetto; ci era Bonifazio e Clemente, ma ci era stato san Pietro, e Lino e Cleto e Sisto e Pio e Calisto e Urbano. Gli uomini di quell’aurea età più illustri per santità e per scienza sono qui raccolti, come in un panteon; è il mondo eroico cristiano, succeduto a quel mondo eroico pagano stato descritto nel Limbo, e di cui Giustiniano fa il panegirico in Paradiso.
Questa età dell’oro collocata nel passato e messa a confronto con la tristizia di quei tempi ha ispirato a Dante una delle scene più interessanti, ed è la pittura dell’antica e della nuova Firenze, fatta dal Cacciaguida, uno de’ suoi antenati. Ivi inno e satira sono fusi insieme: vedi l’ideale dell’età dell’oro e della domestica felicità con tanta semplicità di costumi, con tanta modestia di vita, e di rincontro vedi il villano di Agubbio e le sfacciate donne fiorentine. La conclusione di questa scena di famiglia prende proporzioni epiche; Dante si fa egli medesimo il suo piedestallo. Nella predizione che Cacciaguida gli fa del suo esilio è tanta malinconia e tanto affetto, che ben si pare la profonda tristezza del vecchio e stanco poeta. L’esilio non è rappresentato ne’ patimenti materiali: Dio riserba dolori più acuti ai magnanimi, lasciare ogni cosa diletta più caramente e domandare il pane all’insolente pietà degli estranei: questo strazio di tanti miseri vive qui immortale ne’ versi divenuti proverbiali del più misero e del più grande. Ma è un dolore virile; tosto rileva la fronte, e dall’alto del suo ingegno e della sua missione poetica vede a’ suoi piedi tutt’i potenti della terra.
La letizia delle anime non è solo amore, ma visione intellettuale. La luce, il riso non sono altro che manifestazione del loro perfetto vedere: perciò la luce è detta intellettuale. Beatrice spiega così il suo riso a Dante:
S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore
Di là dal modo che in terra si vede,
Sicchè degli occhi tuoi vinco il valore,
Non ti maravigliar; ciò che procede
Da perfetto veder, che come apprende,
Così nel bene appreso move il piede.
La beatitudine è la contemplazione, e la contemplazione è appunto questa perfetta visione intellettuale. Perciò le anime non investigano, non discutono e non dimostrano, ma veggono e descrivono la verità, non come idea, ma come natura vivente. In terra ci è l’apparenza del vero, e perciò diversità di sistemi filosofici, come spiega Beatrice:
Voi non andate giù per un sentiero
Filosofando: tanto vi trasporta
L’amor dell’apparenza e il suo pensiero.
In paradiso la verità è tutta dipinta nel cospetto eterno; in Dio è legato con amore in un volume ciò che per l’universo si squaderna: vedere Dio è vedere la verità. E non è visione solo di cose, ma di pensieri e di desiderii. I Beati vedono il pensiero di Dante, senza che egli lo esprime.
La scienza com’era concepita a’ tempi di Dante, sposata alla Teologia, avea una forma concreta e individuale, materia contemplabile e altamente poetica. Un Dio personale, che immobile motore produce amando l’idea esemplare dell’universo, pura intelligenza e pura luce, che penetra e risplende in una parte più o meno in un’altra sino alle ultime contingenze: gli astri dove si affacciano i Beati, influenti sulle umane sorti e governati da intelligenze da cui spira il moto e la virtù de’ loro giri; il cielo empireo centro di tutt’i cerchi cosmici e soggiorno della pura luce; l’universo, splendore della divinità, dove appare squadernato ciò che in Dio è un volume; l’ordine e l’accordo di tutto il Creato dalle infime incarnazioni fino alle nove gerarchie degli Angioli; la caduta dell’uomo per il primo peccato e il suo riscatto per l’incarnazione e la passione del Verbo; la verità rivelata, oscura all’intelletto, visibile al cuore, avvalorato dalla fede, confortato dalla speranza, infiammato dalla carità10; in questa scienza della creazione il pensiero è talmente concretato e incorporato, che il poeta può contemplarlo come cosa vivente, come natura. Perciò la forma scientifica è qui meno un ragionamento che una descrizione, come di cosa che si vede e non si dimostra. Il perfetto vedere de’ Beati è privilegio di Dante; nessuno gli sta del pari nella forza e chiarezza della visione. Spirito dommatico, credente e poetico, predica dal paradiso la verità assoluta, e non la pensa, la scolpisce. Diresti che pensi con l’immaginazione, aguzzata dalla grandezza e verità dello spettacolo. Nascono ardite metafore e maravigliose comparazioni. L’accordo della prescienza col libero arbitrio è una delle concezioni più difficili e astruse; ma qui non è una concezione, è una visione, uno spettacolo: così potente è questa immaginazione dantesca:
La contingenza che fuor del quaderno
Della vostra materia non si stende,
Tutta è dipinta nel cospetto eterno.
Necessità però quindi non prende,
Se non come dal viso in che si specchia
Nave che per corrente giù discende.
Da indi, sì come viene ad orecchia
Dolce armonia da organo, mi viene
A vista il tempo che ti si apparecchia.
Guardando nel suo figlio con l’Amore
Che l’una e l’altro eternalmente spira
Lo primo e ineffabile Valore,
Quanto per mente e per occhio si gira,
Con tant’ordine fe’ ch’esser non puote
Senza gustar di lui chi ciò rimira.
Questa forma poetica della scienza, questa visione intellettuale, abbozzata nel Tesoretto, è condotta qui a molta perfezione. È un certo modo di situare l’oggetto e metterlo in vista, sì che l’occhio dell’immaginazione lo comprenda tutto. Se ci è cosa che ripugna a questa forma, è lo scolasticismo con la barbarie delle sue formole e le sue astrazioni; ma l’imaginazione vi fa penetrare l’aria e la luce: miracolo prodotto dalle due grandi potenze della mente dantesca, la virtù sintetica e la virtù formativa. Veggasi la stupenda descrizione che fa Beatrice del moto degli astri di poco inferiore alla storia del processo creativo, il capolavoro di questo genere. Qui la scienza della creazione è abbracciata in un solo girar d’occhio, con sì stretta e rapida concatenazione che tutto il creato ti sta innanzi come una sola idea semplice. Ci sono concetti difficilissimi ad esprimersi, come l’unità della luce nella sua diversità, e l’imperfezione della natura, che non ti dà mai realizzato l’ideale. I concetti qui non sono astrazioni, ma forze vive, gli attori della creazione, la luce, il cielo, la natura, e non hai un ragionamento; hai una storia animata, con una chiarezza e vigore di rappresentazione che fa di Dio e della natura vere persone poetiche:
Ciò che non nasce e ciò che può morire
Non è se non splendor di quell’idea,
Che partorisce amando il nostro Sire.
Che quella viva luce che si mea
Dal suo Lucente, che non si disuna
Da lui, nè dall’amor che in lor s’intrea;
Per sua bontate il suo raggiare aduna
Quasi specchiato in nuove sussistenze,
Eternalmente rimanendosi una.
Queste tre terzine sono una maraviglia di chiarezza e di energia in dir cosa difficilissima. Nè minor potenza di intuizione trovi nella fine quando paragonando l’ideale alla cera del sugello, aggiunge:
Ma la Natura la dà sempre scema,
Similemente operando all’artista,
Che ha l’abito dell’arte e man che trema.
Ed anche la mano di Dante trema, chè fra tante bellezze ci è non poca scoria. Non di rado vedi non il poeta, ma il dottore che esce dall’università di Parigi pieno il capo di tesi e di sillogismi. Molte quistioni sono troppo speciali, altre sono infarcite di barbarie scolastica definizioni, distinzioni, citazioni, argomentazioni. E questo è non per difetto di virtù poetica, ma per falso giudizio. A lui pare che questo lusso di scienza sia la cima della poesia, e se ne vanta, e si beffa di quelli che lo hanno sin qui seguito in piccola barca. Tornate indietro, egli dice; chè il mio libro è per soli quei pochi che possono gustare il pan degli Angioli: e sono i Filosofi e i dottori suoi pari. Perciò il paradiso è poco letto e poco gustato. Stanca soprattutto la sua monotonia, che par quasi una serie di dimande e di risposte fra maestro e discente.
La visione intellettuale è la beatitudine. L’esposizione della scienza riesce in cantici e inni, le ultime parole del veggente si confondono con gli osanna del cielo;
Finito questo, l’alta corte santa
Risuonò per le spere: Un Dio lodiamo,
Nella melode che lassù si canta.
Siccome io tacqui, un dolcissimo canto
Risonò per lo cielo, e la mia donna
Dicea con gli altri; Santo, Santo, Santo.
Così è sciolto questo mistero dell’anima. Adombrato ne’ simboli e allegorie del purgatorio, qui il mistero è svelato, e la divina commedia dell’anima, il suo indiarsi nell’eterna letizia. La forza che tira Dante a Dio, sì che sale come rivo «se di alto monte scende giuso ad imo» è l’amore, è Beatrice, che all’alto volo gli veste le piume. Beatrice è in sè il compendio del paradiso, lo specchio dove quello si riflette ne’ suoi mutamenti. Puoi dipingerla, quando prega Virgilio, o quando realmente proterva rimprovera l’amante; ma qui è spiritualizzata tanto, che è indarno opera di pennello. La stessa parola non è possente di descrivere quel riso e quella bellezza trasmutabile, se non ne’ suoi effetti su Dante e su’ Celesti. Ecco uno de’ più bei luoghi:
Quivi la donna mia vid’io sì lieta,
Come nel lume di quel ciel si mise,
Che più lucente se ne fe’ il pianeta;
E se la stella si cambiò e rise,
Qual mi fec’io, che pur di mia natura
Trasmutabile son per tutte guise!
Come in peschiera che è tranquilla e pura
Traggono i pesci a ciò che vien di fuori,
Per modo che lo stimin lor pastura;
Sì vid’io ben più di mille splendori
Trarsi ver noi, ed in ciascun s’udia:
Ecco chi crescerà li nostri ardori.
Spiritualizzato il corpo, spiritualizzata l’anima. L’amore è purificato: nulla resta più di sensuale. Dante che nel purgatorio sentì il tremore dell’antica fiamma, qui ode Beatrice con un sentimento assai vicino alla riverenza. Quando ella si allontana, ei non manda un lamento: ogni parte terrestre è in lui arsa e consumata. Le sue parole sono affettuose; ma è affetto di riverente gratitudine, siccome nel piccolo cenno che gli fa Beatrice, l’amore dell’uomo come ombra si dilegua nell’amore di Dio, ella lo ama in Dio:
Così orai, e quella sì lontana,
Come parea, sorrise e riguardommi:
Poi si tornò alla eterna fontana.
Come Dante non potè entrare nel paradiso terrestre a vedere il simbolo del trionfo di Cristo senza lo scotto del pentimento, così non può ne’ Gemelli o stelle fisse contemplare il trionfo di Cristo che non dichiari la sua fede. Allora san Pietro lo incorona poeta, e poeta vuol dire banditore della verità. San Pietro gli dice:
E non nasconder quel ch’io non nascondo.
Così la commedia ha la sua consacrazione e la sua missione. È la verità bandita dal cielo, della quale Dante si fa l’apostolo e il profeta: è il poema sacro. Con quella stessa coscienza della sua grandezza che si fe’ sesto fra cotanto senno, qui si pone accanto a san Pietro e se ne fa l’interprete, congiungendo in sè le due corone, il Savio e il Santo, l’antica e la nuova civiltà, il filosofo e il teologo.
Dichiarata la sua fede, consacrato e incoronato, Dante si sente oramai vicino a Dio. Avea già contemplata la Divinità nella sua umanità, il Dio-uomo. Il trionfo di Cristo, la festa dell’Incarnazione, sembra reminiscenza di funzioni ecclesiastiche, co’ suoi principali attori, Cristo, la Vergine, Gabriello. Cristo e la Vergine sono come nel Santuario, invisibili; la festa è tutta fuori di loro e intorno a loro. Succede il trionfo degli Angioli, e poi nell’Empireo il trionfo di Dio.
L’empireo è la città di Dio, il convento de’ Beati, il proprio e vero paradiso. Beatrice raggia sì, che il poeta si concede vinto, più che tragedo e comico superato dal suo tema, e desiste dal seguir più dietro a sua bellezza poetando,
Come all’ultimo suo ciascun artista.
Lo creatore a quella creatura
Che solo in lui vedere ha la sua pace.
La luce ha figura circolare, come il giallo di una rosa, le cui bianche foglie si distendono per l’infinito spazio e sono gli scanni de’ Beati. San Bernardo spiega e descrive il maraviglioso giardino. Il punto che più splende è là dove sono gli occhi da Dio diletti e venerati, dove è la Vergine e gli angioli. Quel punto è la pacifica orifiamma del paradiso, la bandiera della pace. Il giardino, la rosa, l’orifiamma sono immagini graziose, ma inadeguate. Queste metafore non valgono la stupenda terzina, dove san Bernardo è rappresentato in forma umana e intelligibile:
Diffuso era per gli occhi e per le gene
Di benigna letizia, in atto pio,
Quale a tenero padre si conviene.
Il paradiso, appunto perchè paradiso, non puoi determinarlo troppo e descriverlo, senza impiccolirlo. La sua forma adeguata è il sentimento, l’eterno tripudio: ciò che è ben colto in quella plenitudine volante di angeli, che diffondono un po’ di vita tra quella calma. Il vero significato lirico del paradiso è nell’Inno di Dante a Beatrice e nell’Inno di san Bernardo alla Vergine, ne’ quali è il paradiso guardato dalla terra con sentimenti e impressioni di uomo. I beati stessi diventano interessanti, quando tra quella luce vedi spuntare visi a carità suavi e atti ornati di tutte onestadi, o quando chiudon le mani implorando la Vergine.
Anche Dio ha voluto descrivere Dante, e vede in lui l’universo, e poi la Trinità, e poi l’Incarnazione, congiunzione dell’umano e del divino, in cui si acqueta desiderio, il desiro e il velle,
Siccome ruota ch’egualmente è mossa.
quasi tutta cessa
Mia visïone, ed ancor mi distilla
Nel cor lo dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
Così al vento nelle foglie lievi
Si perdea la sentenzia di sibilla.
L’immaginazione morendo manda in questi bei versi l’ultimo raggio. All’alta fantasia manca la possa; e insieme con la fantasia muore la poesia.
Così finisce la storia dell’anima. Di forma in forma, di apparenza in apparenza, ritrova e riconosce se stessa in Dio, pura intelligenza, puro amore e puro atto. Ed è in questa concordia che l’anima acqueta il suo desiderio, trova la pace. Nell’inferno signoreggia la materia anarchica: le sue forme ricevono d’ogni sorte differenze, spiccate, distinte, corpulente e personali. Nel purgatorio la materia non è più la sostanza, ma un momento: lo spirito acquista coscienza di sua forza, e contrastando e soffrendo conquista la sua libertà: la realtà vi è in immaginazione, rimembranza del passato da cui si sprigiona, aspirazione all’avvenire a cui si avvicina; onde le sue forme sono fantasmi e rappresentazioni dell’immaginativa anzi che obbietti reali: pitture, sogni, visioni estatiche, simboli e canti. Nel paradiso lo spirito già libero di grado in grado s’india; le differenze qualitative si risolvono, e tutte le forme svaporano nella semplicità della luce, nella incolorata melodia musicale, nel puro pensiero. Quel regno della pace che tutti cercavano, quel regno di Dio, quel regno della filosofia, quel di là, tormento e amore di tanti spiriti, è qui realizzato. Il concetto della nuova civiltà di cui avevi qua e là oscuri e sparsi vestigi, è qui compreso in una immensa unità, che rinchiude nel suo seno tutto lo scibile, tutta la coltura e tutta la storia. E chi costruisce così vasta mole, ci mette la serietà dell’artista, del poeta, del filosofo e del cristiano. Consapevole della sua elevatezza morale e della sua potenza intellettuale, gli stanno innanzi, acuti stimoli all’opera, la patria, la posterità, l’adempimento di quella sacra missione che Dio affida all’ingegno, acuti stimoli nei quali sono purificati altri motivi meno nobili, l’amor della parte, la vendetta, le passioni dell’esule: ci è là dentro nella sua sincerità tutto l’uomo, ci è quel d’Adamo e ci è quel di Dio. A poco a poco quel mondo della fantasia diviene parte del suo essere, il suo compagno fino agli ultimi giorni, e vi gitta, come nel libro della memoria, l’eco de’ suoi dolori, delle sue speranze, e delle sue maledizioni. Nato a immagine del mondo che gli era intorno, simbolico, mistico e scolastico, quel mondo si trasforma e si colora e s’impolpa della sua sostanza, e diviene il suo figlio, il suo ritratto. La sua mente sdegna la superficie, guarda nell’intimo midollo, e la sua fantasia ripugna all’astratto, a tutto dà forma. Onde nasce quella intuizione chiara e profonda che è il carattere del suo genio. E non solo l’oggetto gli si presenta con la sua forma, ma con le sue impressioni e i suoi sentimenti. E n’esce una forma, che è insieme immagine e sentimento, immagine calda e viva, sotto alla quale vedi il colore del sangue, il movere della passione. E con l’immagine tutto è detto, e non vi s’indugia e non la sviluppa, e corre lievemente di cosa in cosa, e sdegna gli accessorii. A conseguire l’effetto spesso gli basta una sola parola comprensiva, che ti offre un gruppo d’immagini e di sentimenti, e spesso, mentre la parola dipinge, non fosse altro, con la sua giacitura, l’armonia del verso ne esprime il sentimento. Tutto è succo; tutto è cose, cose intere nella loro vivente unità, non decomposte dalla riflessione e dall’analisi. Per dirla con Dante, il suo mondo è un volume non squadernato. È un mondo pensoso, ritirato in sè, poco comunicativo, come fronte annuvolata da pensiero in travaglio. In quelle profondità scavano i secoli, e vi trovano sempre nuove ispirazioni e nuovi pensieri. Là vive involto ancora e nodoso e pregno di misteri quel mondo, che sottoposto all’analisi, umanizzato e realizzato, si chiama oggi letteratura moderna.
Note
- ↑
Esce di mano a lui che la vagheggia
L’anima semplicetta che sa nulla... (Purg. XVI)
Innata vi è la virtù che consiglia...
L’anima ch’è creata, ad amar presta,
Ad ogni cosa è mobile che piace. (Purg. XVIII). - ↑
Ciascun confusamente un bene apprende. (Purg. XVII)
- ↑
Immagini di ben seguendo false. (Purg. XXX)
- ↑
Le presenti cose
Col falso lor piacer volser miei passi (Purg. XXXI) - ↑
Solo il peccato è quel che la disfranca
E falla dissimile al sommo Bene (Par. VII) - ↑
Questo è il principio, là onde si piglia
Cagion di meritare in voi ...
Color che ragionando andaro al fondo,
S’accorser d’esta innata libertade,
Però moralità lasciaro al mondo. (Purg XVIII). - ↑ Poeta agit de inferno isto, in quo, peregrinando ut viatores mereri et demereri possamus (Lettera a Can Grande).
- ↑ Omne quod bonum est, per hoc est bonum, quod in uno consistit.
Malum pluralitas principatuum; unus ergo princeps (De Monarchia).
Di picciol bene in pria sente sapore,
Quivi s’inganna e dietro ad esso corre,
Se guida o fren non torce suo amore.
Onde convenne leggi per fren porre,
Convenne rege aver che discernesse
Della vera cittade almen la torre.
Le leggi son; ma chi pon mano ad esse? - ↑ Ecco esempi di aridità e di sottigliezze:
. . . . e quale io allor vidi
Negli occhi santi amor, qui l’abbandono. (c. XVIII.)
E gli occhi avea di letizia sì pieni,
Che passar mi convien senza costrutto, (c. XXXIII.)
E tal nella sembianza sua divenne
Qual diverrebbe Giove, s’egli e Marte
Fossero augelli e cambiasser penne. (c. XXVII.)
Poscia tra esse un lume si schiarì,
Sì che se il cancro avesse un tal cristallo,
Il verno avrebbe un mese di un sol dì. (c. XXV.) - ↑ Vedi i canti XIII, II, XXX, XXXIII, X, XXVIII e XXIX, XXVII, VII, XIV, XXV, XXVI.