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quell’aurea età più illustri per santità e per scienza sono qui raccolti, come in un panteon; è il mondo eroico cristiano, succeduto a quel mondo eroico pagano stato descritto nel Limbo, e di cui Giustiniano fa il panegirico in Paradiso.
Questa età dell’oro collocata nel passato e messa a confronto con la tristizia di quei tempi ha ispirato a Dante una delle scene più interessanti, ed è la pittura dell’antica e della nuova Firenze, fatta dal Cacciaguida, uno de’ suoi antenati. Ivi inno e satira sono fusi insieme: vedi l’ideale dell’età dell’oro e della domestica felicità con tanta semplicità di costumi, con tanta modestia di vita, e di rincontro vedi il villano di Agubbio e le sfacciate donne fiorentine. La conclusione di questa scena di famiglia prende proporzioni epiche; Dante si fa egli medesimo il suo piedestallo. Nella predizione che Cacciaguida gli fa del suo esilio è tanta malinconia e tanto affetto, che ben si pare la profonda tristezza del vecchio e stanco poeta. L’esilio non è rappresentato ne’ patimenti materiali: Dio riserba dolori più acuti ai magnanimi, lasciare ogni cosa diletta più caramente e domandare il pane all’insolente pietà degli estranei: questo strazio di tanti miseri vive qui immortale ne’ versi divenuti proverbiali del più misero e del più grande. Ma è un dolore virile; tosto rileva la fronte, e dall’alto del suo ingegno e della sua missione poetica vede a’ suoi piedi tutt’i potenti della terra.
La letizia delle anime non è solo amore, ma visione intellettuale. La luce, il riso non sono altro che manifestazione del loro perfetto vedere: perciò la luce è detta intellettuale. Beatrice spiega così il suo riso a Dante:
S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore
Di là dal modo che in terra si vede,
Sicchè degli occhi tuoi vinco il valore,