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Previene il tempo in su l’aperta frasca,
E con ardente affetto il sole aspetta,
Fiso guardando pur se l’alba nasca. (c. XXXIII.)
.   .   come orologio che ne chiami
Nell’ora che la sposa di Dio surge
A mattinar lo sposo perchè l’ami;
Che l’una parte e l’altra tira ed urge,
Tintin sonando con sì dolce nota,
che il ben disposto spirito d’amor turge. (c. X.)
.   .   e cantando vanio
Come per acqua cupa cosa grave. (c. III.)
Qual lodoletta che in aere si spazia,
Prima cantando e poi tace contenta
Dell’ultima dolcezza che la sazia. (c. XX.)
Pareva a me che nube ne coprisse
Lucida, spessa, solida e pulita,
Quasi adamante che lo Sol ferisse.
Per entro sè l’eterna Margherita
Ne ricevette, com’acqua recepe
Raggio di luce, rimanendo unita. (c. II.)
Siccome schiera di api che s’infiora
Una fiata, ed una si ritorna
Là dove suo lavoro s’insapora. (c. XXXI.)
E vidi lume in forma di riviera,
Fulvido di fulgore, intra due rive,
Dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
E d’ogni parte si mettèn ne’ fiori,
Quasi rubin che oro circonscrive.
Poi come inebbrïate dagli odori
Riprofondavan sè nel miro gurge;
E s’una entrava, un’altra ne uscia fuori. (c. XXX.)

Queste tre ultime terzine sono mirabili di spontaneità e di evidenza. Il poeta ha circonfuso le celesti sustanze di tutto ciò che in terra è più ridente e smagliante. Siamo nell’empireo. La virtù visiva è stanca, ma si raccende alle parole di Beatrice, sì, che gli appare la riviera di