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Al padre, al figlio, allo spirito santo
Cominciò gloria tutto il paradiso,
Tal che m’inebbrïava il dolce canto.
Ciò che io vedeva, mi sembrava un riso
Dell’universo, perchè mia ebbrezza
Entrava per l’udire e per lo viso.
O gioia! o ineffabile allegrezza!
O vita intera d’amore e di pace!
O senza brama sicura ricchezza!

È l’armonia universale, l’inno della creazione. La luce, vincendo la corporale impenetrabilità, e frammischiando i suoi raggi, esprime anche al di fuori questa compenetrazione delle anime, l’individualità sparita nel mare dell’essere. Il poeta, signore, anzi tiranno della lingua, forma ardite parole a significare questa medesimezza amorosa degli esseri nell’essere: inciela, imparadisa, india, intuassi, immei, inlei, s’infutura, s’illuia; delle quali voci alcune dopo lungo obblio rivivono. La redenzione dell’anima è la sua progressiva emancipazione dall’egoismo della coscienza; la sua individualità non le basta; si sente incompiuta, parziale, disarmonica, e sospira alla idealità nella vita universale. Questo è il carattere della vita in Paradiso. Non solo sparisce la faccia umana, ma in gran parte anche la personalità. Vivono gli uni negli altri e tutti in Dio.

Questo vanire delle forme e della stessa personalità riduce il paradiso a una corda sola, a lungo andare monotona, se non vi penetrasse la terra e con la terra altre forme ed altre passioni. La terra penetra come contrapposto a questa vita d’amore e di pace. È vita d’odio e di vana scienza, e provoca le collere e i sarcasmi de’ Celesti.

Il contrapposto è colto in alcuni momenti altamente poetici. Accolto nel sole gloriosamente allato a Beatrice si affaccia al poeta tutta la vanità delle cure terrestri: