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Di qua Dante, Virgilio, Stazio; di là Beatrice con gli Angioli: in mezzo al rio che li divide, bipartito in due fiumi, Lete, l’obblio, ed Eunoè, la forza. Nell’uno l’anima si spoglia della scoria del passato; nell’altra attinge virtù di salire alle stelle.

L’alto fato di Dio sarebbe rotto
Se Lete si passasse, e tal vivanda
Fosse gustata senz’alcuno scotto
Di pentimento che lagrime spanda.

Di là è Matilde, che tuffa le anime, pagato lo scotto del pentimento, e le passa all’altra riva, rifatte nell’antico stato d’innocenza. E lo specchio dell’anima rinnovellata è Matilde, che danza e sceglie fiori, in sembianza ancora umana celeste creatura, con l’ingenua giocondità di fanciulla, con la leggerezza di una Silfide, col pudico sguardo di vergine; il viso radiante di luce. Tale era Lia, affacciatasi al poeta in sogno, il presentimento di Matilde, il nunzio del paradiso terrestre.

La scena, dove questo mistero dell’anima si scioglie, ha le sacre e venerabili apparenze di un mistero liturgico, una di quelle sacre rappresentazioni che si facevano durante le processioni. Vedi una Chiesa animata e ambulante di processione: sette candelabri, che a distanza parevano sette alberi d’oro, e dietro gente vestita di bianco che canta Osanna, e le fiammelle lasciano dietro di sè lunghe liste lucenti, e sotto questo cielo di luce sfila la processione. Ecco a due a due i profeti e i patriarchi dell’antico testamento, sono ventiquattro seniori coronati di giglio,

Tutti cantavano: Benedetta tue
Nelle figlie di Adamo, e benedette
Sieno in eterno le bellezze tue.

Segue la chiesa in figura di carro trionfale, a due ruote