Ricordi storici e pittorici d'Italia/L'Isola di Capri
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Traduzione dal tedesco di Augusto Nomis di Cossilla (1865)
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L’ISOLA DI CAPRI
1853.
Votum fecit, gratiam recepit.
I.
Ho vissuto un mese intero di estate nell’isola di Capri, e vi ho goduta in tutta la sua pienezza la solitudine magica della marina. Così potessi io riprodurre le sensazioni che vi ho provato; ma non è possibile descrivere con parole la bellezza, la tranquillità, di quella solitudine romita.
Giampaolo Richter ha paragonato Capri ad una sfinge, contemplandola dalla terra ferma; la bella isola mi aveva l’aspetto di un sarcofago antico, fiancheggiato dalle Eumenide scarmigliate, in cima al quale campeggiasse la figura di Tiberio. Intanto esercitava un vero fascino sopra di me la vista di quest’isola, per la sua conformazione monumentale, per la sua solitudine, e per le cupe memorie di quell’imperatore romano, il quale signore del mondo intero, considerava quale sua proprietà unicamente quello scoglio.
Una domenica di buon mattino, con tempo stupendo, salimmo a Sorrento in una barca, e ci avviammo verso Capri. Il mare non era meno tranquillo del cielo, le linee del paesaggio si perdevano all’orizzonte in una luce vaga ed indecisa; ma Capri ci compariva davanti grandiosa, seria, sassosa, severa, co’ suoi monti selvaggi, colle sue rupi di roccia calcare rossiccia, tagliate a picco. Era vista imponente, e gradevole ad un tempo. Sull’altura sorgeva un bruno castello rovinato; qua e là avanzi di batterie, e gole aperte di cannoni che giacevano solitari, già quasi ricoperti dal ginestro selvaggio co’ suoi fiori gialli; scogli aspri e ripidi, in cima ai quali svolazzavano falchi di mare, uccelli indigeni, ed assuefatti al sole come dice Eschilo; al basso caverne, grotte oscure, misteriose; sul dorso del colle una piccola città di aspetto gaio, con case bianche, mura alte e colla cupola di una chiesa; al basso ancora sulla zona ristretta della spiaggia, un piccolo porto per i pescatori, ed una fila di barche tirate a terra.
Suonavano le campane, allorquando approdammo alla spiaggia, ed una graziosa ragazza, figliuola di un pescatore, avvanzandosi nelle onde afferrò la barca, tenendola fissa alla riva, per modo che ci fu dato scendere a piedi asciutti. Nello spiccare un salto sul suolo di questa singolare isola di Capri, che io mi ero rappresentata le tante volte sotto il nordico mio cielo natìo, mi parve trovarmi in casa mia. Tutto era silenzioso e tranquillo; non si vedevano che un pescatore, due ragazzi i quali stavano bagnando presso uno scoglio, due giovanette sulla spiaggia, e tutto all’intorno rupi severe e tranquille. Ero giunto in una solitudine selvaggia e romantica. Da quella marina partiva un sentiero ripido e scosceso, il quale fra le mura di giardini, porta alla piccola città di Capri. Quei giardini aperti nei seni della rupe, sono piantati di viti, di olivi, di agrumi, ma la vegetazione appare meschina, tanto più all’occhio assuefatto a quella lussureggiante della Campania. Anche gli alberi a Capri sembrano eremiti.
Per un ponte di legno e per una vecchia porta si ha accesso alla cittaduzza, la quale desta tosto l’idea di un romitaggio dove regni la pace e la tranquillità, e dove non si conoscano bisogni. Alcuni abitanti stanno seduti sui gradini della chiesa, vestiti a festa ciarlando; parecchi ragazzi si stanno divertendo allegramente sulla piccola piazza davanti al tempio, la quale pare formata appositamente per i loro giuochi. Le case sono piccole, con i tetti a foggia di terrazzo, e posseggono quasi tutti una pianta di vite, la quale si arrampica per le mura.
Una stradicciuola angusta, la quale non fu mai percorsa da verun veicolo, vi porta alla locanda di Don Michele Pagano, di fronte alla quale sorge una stupenda palma. Anche ivi si direbbe arrivare in un romitaggio, in albergo preparato per i pellegrini, colla cappa guarnita di conchiglie e col bordone.
Eravamo entrati appena nella nostra camera, che un canto per la strada ci chiamò alla finestra. Era giorno di domenica, e non poteva mancare una processione. Se non che, di quale strano ed originale aspetto! Seguivano la croce uomini e donne, quelli con cappucci bianchi, queste con bianchi veli! I cappucci erano circondati di una corona, formata a fronda di roveto spinoso, ed anche i lombi ricinti di una fune, accennavano a penitenza; la processione era dedicata alla crittogama. Procedevano cantando per le strade, e tutte quelle teste coronate di frondi, porgevano un aspetto pagano, per modo che si sarebbe detto fosse una processione di sacerdoti di Bacco, i quali coronati di pampini, si avviassero ad un tempio di Dionisio. Tutti gli uomini quasi portavano la corona di spine, ed anche taluni, i quali non rivestivano l’abito della confraternità. Mi fece particolare impressione la figura di un vecchio invalido, canutissimo di capelli e di barba, il quale con quella corona aveva propriamente l’aspetto di un satiro. Dopo gli uomini venivano le donne e le ragazze con bianchi veli, e le strade essendo strette per modo da dare passaggio a stento a due persone, erano piene da un muro all’altro.
Tale fu la mia prima vista in Capri. E siccome ho vissuto di poi colà giorni felicissimi, e non havvi località al mondo che io abbia così completamente visitata, perlustrata, in ogni sua altura, in ogni sua grotta accessibile, e quindi ho posto affetto a Capri, ed a suoi abitatori, voglio usare a questa isoletta il trattamento di quei navigatori riconoscenti, i quali appendono una tabella votiva, e sotto vi scrivono Votum fecit; gratiam recepit.
Il nome dell’isola presso i Greci ed i Romani fu Caprea. La si vuole spiegare col latino, quasi volesse accennare isola delle capre. Altri lo spiegano colla lingua fenicia, nella quale Caprain significa due città. I Greci la considerarono quale isole delle Sirene, ed oggidì tuttora un punto della spiaggia ha nome la Sirena. Se non che, le isole delle sirene di Omero giacevano di fronte a Capri verso Amalfi ed il capo della Minerva; e quella denominata in oggi Capo di Campanella, è ritenuta per l’isola di Circe. Tutto il mare all’intorno pertanto è mitologico, ricorda l’Odissea, ed il canto delle sirene, le quali traevano a rovina i naviganti, allorquando dal golfo di Possidonia si accostavano a questi ripidi scogli, che sorgono nelle onde.
Ignoravasi di dove siano venuti i primi abitatori dell’isola. Probabilmente vi vennero primi della terra ferma gli Osci vicini. In generale però si ritiene vi abbiano approdato pure i Fenici, e loro si attribuisce la fondazione delle due città, imperocchè l’isola, parte piana, parte montuosa, dovette di necessità avere due centri di popolazione, e Strabone lasciò scritto «Capri ebbe anticamente due città, ora non ne possiede più che una.»
Più tardi vennero i Greci nel bel golfo di Napoli, nel cratere come lo nomano gli antichi geografi, e presero stanza lungo le coste, e nelle isole di questo. Si stabilirono a Capri i Telebori, gente di stirpe acarnica, secondo quanto asseriscono Tacito, e Virgilio stesso. Il primo greco, signore dell’isola, ebbe nome Telone.
In quel periodo, un otto secoli prima della nascita di Cristo, i Greci si stabilirono nei due golfi di Possidonia, e di Napoli, edificarono Cuma e Napoli, e s’impossessarono delle isole di quello stupendo mare. Diedero all’abitato in alto di Capri il nome che oggidì tuttora conserva di Ana-Capri, che è quanto dire Capri superiore. Facendo attenzione al linguaggio odierno dei Capresi, si riconoscono tuttora parole d’origine greca; sono di tipo greco le fisonomie distinte e nobili delle donne, di foggia greca parimenti l’acconciatura dei loro capelli, ed il modo con cui dispongono il mucadore, sorta di velo col quale sogliono ricoprire il capo. E sebbene più tardi i Romani abbiano pure posseduta l’isola, è tuttora, come a Napoli, in gran parte sangue greco quello che scorre nelle vene de’ suoi abitatori, e dai Greci ripetono la grazia e la dolcezza che li rendono accetti allo straniero, che danno aspetto di un idillio alle loro nude roccie, e che fanno dimenticare perfino quel demone che fu Tiberio.
A quell’epoca i Greci costrussero nell’isola tempi, dei quali rimangono più vestigia, e si disse che la gioventù di Capri fosse valentissima nei ludi ginnastici, che si praticavano nella palestra greca. Apparteneva allora alla città greca di Napoli. Augusto s’innamorò di Capri. Diede ai Napolitani l’isola fiorita d’Ischia, e prese possesso dello scoglio di classico aspetto di Capri. Narrasi che sbarcando per la prima volta sulla spiaggia di questa, gli si annunciasse quale felice presagio, che un vecchio elce dissecato, avesse preso tutto ad un tratto a rinverdire, e che l’imperatore ne avesse provato cotanto piacere, da decidersi al cambio dell’isola.
Augusto, allorquando per gli anni gli venne meno la salute, soleva recarsi a respirare l’aria pura della Campania. Quella tutta balsamica della fresca isola, la rara bellezza di forme delle sue rupi, il carattere tutto greco degli abitanti, gli andarono a genio; si fece costrurre a Capri una villa, e giardini. Sorgeva quella secondo le ricerche degli antiquari in quel punto dove sussistono attualmente i ruderi grandiosi della villa di Giove, ai quali il popolo dà di preferenza nome di villa di Tiberio. La località è stupenda. Collocata al punto più elevato della spiaggia orientale, vi si gode la vista dei due golfi, e dell’ampio mare di Sicilia. Se non chè i ricordi spaventosi di Tiberio hanno spento nell’isola la memoria di Augusto, e non si sa più nè dove abbia questi fabbricate, nè dove sia stato, nè che cosa vi abbia fatto.
Fu senza dubbio ne’ suoi ultimi anni che suoleva portarsi a Capri. Poco tempo prima di morire vi passò quattro giorni in compagnia di Tiberio, e dell’astronomo Trasillo dedicandosi tutto al riposo, e di ottimo umore secondo quanto narra Suetonio. «Allorquando approdò nel golfo di Pozzuoli, era giunto pure colà un legno d’Alessandria di Egitto; i passeggieri e la ciurma indossarono abiti candidi, e mentre offerirono il sagrificio, cantarono le lodi dello imperatore, augurando salute a lui, dal quale dissero ripetere vita, commercio, libertà, ben essere. La qual cosa procurò all’imperatore tanta soddisfazione, che fece distribuire alle persone di suo seguito quattrocento monete d’oro, facendo loro promettere che le avrebbero impiegate unicamente nel fare acquisto di merci provenienti da Alessandria. Anche nei giorni seguenti, continuò a fare loro doni, particolarmente di toghe, e di pallii, ordinando che i Romani dovessero parlare greco, e vestire alla foggia greca, ed i Greci alla romana, e parlare latino. Volle assistere in Capri ai riti degli Efebi, dei quali esisteva tuttora un certo numero. Loro diede un banchetto alla sua presenza, accordando loro facoltà di portare via pomi, altre frutta, ed ogni specie di doni. Si prese in una parola ogni ameno sollazzo. Diede ad un’isola vicina a Capri il nome di Agrapopoli, a motivo dell’ozio in cui vivevano le persone di suo seguito le quali colà si portavano. Si compiaceva di dare ad uno de’ suoi favoriti, Masgaba, il nome di Ktiste, quasi lo ritenesse il fondatore dell’isola, e nel vedere, al sorgere dalle mense, circondata da una folla di lumi la tomba di quel Masgaba, il quale era morto un anno prima, improvvisò ad alta voce un verso greco il cui senso era: «veggo in fiamme, la tomba del fondatore.» Domandò di poi a Trasillo, compagno di Tiberio, il quale gli stava di fronte, se sapesse di qual poeta fosse il verso. E non avendo questi saputo dirlo, improvvisò un secondo verso dicendo: «Non vedi Masgaba onorato di fiaccole?» domandando parimenti di chi fosse. Ed avendo Trasillo risposto, che di chiunque fossero, i due versi erano eccellenti l’imperatore proruppe in uno scoppio di risa, e non cessò dallo scherzare.»
Poco dopo si portò a Napoli, quindi a Nola dove morì. Tali sono i particolari narrati da Suetonio, dell’ultimo soggiorno di Augusto a Capri. Per quanti siano scarsi, bastano a dare una idea della vecchiaia serena dell’imperatore, il quale si compiaceva scherzare cogli abitanti dell’isola. E questa serenità comparirà tanto più rimarchevole, ponendola a confronto di Tiberio, imperocchè troveremo questi pure, e diventato vecchio, a Capri.
La piccola isola fu durante undici anni il centro di Roma, e di tutto il mondo. I tempi erano diventati cupi ed oscuri, al pari dell’eremita il quale viveva su quello scoglio; la storia stessa del mondo, non era più che un cupo monologo dell’uomo, colla testa di Medusa.
Mentre io stava qui seduto sulle rovine della villa di Giove, contemplando lo splendido golfo irradiato dal sole, il Vesuvio che fumava, mi pareva questo quasi il Tiberio della natura, e credo che spesso da questo punto lo abbia contemplato Tiberio cupo e pensoso ravvisandovi la sua stessa immagine personificata nel demonio della distruzione. Nel contemplare il volcano, ed ai suoi piedi la fertile Campania e quel mare irradiato di luce, il monte solitario che terribile signoreggia quella felice regione, appare quasi simbolo della storia della umanità; ed il vasto anfiteatro di Napoli quale la più profonda poesia della natura. Cupo, solitario, maligno al pari del volcano verso la terra beata che si stende ai suoi piedi, dominava un dì l’eremita di Capri sopra il mondo intero, che obbediva alle sue leggi. L’animo suo mostruoso, invaso dal demone della distruzione, non sognava che sentenze di morte, rovine di città, proscrizioni, esilii.
La sua memoria dura tuttora nel popolo. I secoli non l’hanno spenta, imperocchè più tenace si mantiene la ricordanza del male che quella del bene. Danno i Capresi a Tiberio il nome di Timberio, come dicono Crapi a vece di Capri, e s’incontrano ad ogni passo nell’isola le traccie del terribile imperatore. Il suo vino più prezioso ha nome Lacrima di Tiberio, come quello del Vesuvio porta il nome di Lacrima Christi. E per dir vero, rara cosa dovettero essere le lacrime di un uomo qual fu Tiberio.
Ho trovata nell’isola una credenza popolare la quale mi ha recato grande stupore. Il popolo ritiene che profondamente sotto terra, dove stanno i ruderi della villa di Tiberio, stia una statua colossale in bronzo dell’imperatore a cavallo, e che tanto desso quanto il destriero abbiano gli occhi di diamanti. Si narra lo abbia visto un giovanetto, caduto a caso in una fessura della roccia, ma che si sia perduta la traccia della località. Ho raccolta questa favola dalla bocca di un frate francescano, il quale abita quale eremita alla villa di Tiberio, e la trovai riferita pure nel libro di Mangone intorno all’isola. Ricorda dessa la tradizione tedesca simile dell’imperatore Barbarossa, se non che sarà difficile che il popolo desideri vedere tornare in vita Tiberio.
Desso venne a Capri, nell’anno ventesimo sesto dopo la nascita di Cristo, e vi visse undici anni, flnchè venne a morte al Capo Miseno, dove si era portato per poco tempo. Aveva dedicata l’isola a Venere, ed ornatala magnificamente con tutte le divinità dell’Olimpo. Le ville che aveva erette alle dodici divinità maggiori, i molti altri edifici congiunti alla forma originale delle roccie, dovevano produrre un colpo d’occhio magico. Trovansi, oggidì tuttora, numerose vestigia di tutte quelle costruzioni, e molte ancora stanno sepolte sotto terra nelle vigne. Si scorgono tuttora fra le macerie le aperture delle volte e degli archi, quasi reliquie di una festa selvaggia, e producono sinistra impressione, mentre la fantasia le popola di figure cupide, bizzarre, orribili.
Morto il tiranno rimase deserto il teatro delle sue orgie; la magnificenza di Capri venne meno. Il popolo narra che i Romani vennero nell’isola, e ne atterrarono tutti gli edifici, la qual cosa per dir vero non è confermata dalla storia; ma tace questa del pari, se i successori di Tiberio abbiano visitata Capri. Caligola però era stato tuttora nell’isola; ivi si era fatta radere per la prima volta la barba, vi aveva vestita la toga, e si era formato alla scuola di suo zio. Anche Vitellio, l’imperatore crapulone, era stato da giovanetto nell’isola. Più tardi sotto il regno di Commodo vi furono mandate in esilio Crispina sua consorte, e Lucilla sua sorella, secondo quanto narra Dione Cassio, e come venne confermato da un basso rilievo scoperto a Capri nel secolo scorso, il quale rappresenta le due principesse nella mesta attitudine di chi domanda protezione.
Furono in seguito le sorti dell’isola uguali a quelle delle spiaggie vicine. Dopo la caduta dell’impero romano, venne come Napoli in possesso prima dei barbari, poscia dei Greci, e nel secolo IX passò sotto la signoria della fiorente repubblica d’Amalfi, la quale la ottenne in dono dall’imperatore Ludovico.
Col principiare della signoria dei Normanni nell’Italia meridionale, Capri venne tolta agli Amalfitani dal prode Ruggero in Sicilia; quindi fu posseduto dai Normanni, dagli Hohenstaufen, dagli Angioini, dagli Aragonesi, e retta dai Capitani. Nel 1806 gl’Inglesi la tolsero ai Napoletani, la occuparono in nome di Ferdinando re di Sicilia, vi si fortificarono accuratamente e vi posero a comandante quell’Hudson Lowe, il quale era destinato ad acquistare più tardi triste celebrità, nella qualità di carceriere di Napoleone a S. Elena. Tennero gl’Inglesi l’isola quasi tre anni, in fino a tanto che se ne impadronirono i soldati di Murat con un ardito colpo di mano. Lo storico Pietro Colletta, in allora ufficiale del genio, fu quegli che dopo di avere esplorata accuratamente Capri, segnò il punto dove fosse possibile salire all’assalto. L’isola fu presa il 4 ottobre 1808 dopo viva lotta, ed Hudson Lowe, fatto prigioniero, fu portato a Napoli.
Basteranno questi brevi cenni a dare una idea delle vicende storiche di Capri. Se non che, di tutti questi avvenimenti più recenti, scarsa ricordanza si serba nella popolazione dell’isola. Colui che vive tuttora di più nella memoria, si è il crudele Tiberio e spesso mi faceva strano senso udire risuonare quel nome terribile, sulle labbra di allegri ragazzi, i quali si stavano divertendo. Lo si sente ad ogni istante in qualunque punto dell’isola, imperocchè si è immedesimato con questa. La storia di quell’uomo la stringe da ogni lato, ed ha aggiunta alla natura già per sè severa di essi, il carattere tragico ancora della storia, rendendola accetta a quanti sono capaci di apprezzare questo senso della natura, come nella storia. Il terribile ed il piacevole vi producono un singolare contrasto. Le valli ridenti sono circoscritte da rupi tagliate a picco, le quali respingono ogni vegetazione e sorgono gigantesche e nude; e ad ogni tratto s’incontrano uomini di natura semplice, rispettabili per la povertà, e per la religione, nobilitati dal lavoro, che contrastano colla memoria di Tiberio mostro umano, di una corruzione diabolica. Il continuo contrasto che qui regna, non cessava dal recarmi stupore. Vi sono qui nude roccie in tanta abbondanza, che dovrebbero produrre la impressione di un deserto, ma accade altrimenti. La natura combatte l’idea del deserto colle linee, colle forme; quella della morte coll’ardore delle tinte, l’arido colla verzura delle piante, collo splendore dei fiori; e da questo complesso di deserto, di roccie, ne nasce un aspetto il quale tuttochè serio ed imponente, è pure grazioso ad un tempo. L’animo si sente sereno, inclinato ai pensieri tranquilli; il deserto invita alla vita romita. Monti, roccie, valli, esercitano su quello una influenza magica; lo rinchiudono quasi dietro ad una inferriata, a traverso la quale si può contemplare il più bel golfo della terra, circoscritte dalle più amene riviere, ed uno si sente come nel centro di un cerchio propriamente magico.
La somiglianza dell’aspetto naturale di Capri, con quello di Sicilia, è propriamente sorprendente. La si può dire veramente il vestibolo di quest’ultima, non solo per l’aridità del suolo, ma ancora per la tinta rossiccia delle sue roccie calcari, per l’aspetto grandioso e fantastico de’ suoi monti, per la stessa sua vegetazione. Questa è tutta meridionale, ma scarsa. Nelle fessure delle roccie, sulle pendici dei monti, crescono tutte le piante delle isole meridionali di Europa, ed imbalsano l’atmosfera dei loro profumi aromatici. Crescono colà il mirto, il rosmarino, la ruta, il citiso, l’albatro; i roveti, l’edera, la clematite, si avvitichiano alle rovine, le ricoprono, ed il ginestro co’ suoi fiori gialli d’oro occupa tutte le alture. Se non chè, la più bella pianta dell’isola, quella per avventura alla quale va debitrice del suo nome, non è punto il caprifoglio, o piede di capra, ma bensì il cappero; desso sorge contro ogni muro, contro ogni rupe, rallegrandoli co’ suoi abbondanti fiori bianchi, dai lunghi pistilli violacei. Sulle pendici stesse, gli abitanti con grande lavoro hanno formati a forza di muri piccoli piani, i quali costituiscono i loro campi, ed i loro giardini. Ivi crescano tutte le piante, tutti i fiori della Campania, gli elci, i gelsi, gli olivi, abbondanti e vigorosissimi; scarseggiano i pini, ed i cipressi, ma vi abbondano per contro le carubbe, i fichi, i mandorli; sono scarsi i noci, ed i castagni; abbondantissimi per contro, e di una inarrivabile bellezza, gli arranci ed i limoni, i cui frutti raggiungono non di rado il volume della testa di un bambino. La vite non vi è lussureggiante di fronde come nella Campania, ma ricca di grappoli, i quali maturati da quel sole ardentissimo, producono un vino stupendo. Quelli poi che danno alla piccola isoletta un aspetto del tutto siciliano, sono i fichi d’India, numerosissimi. La loro forma bizzarra, del tutto africana, corrisponde meravigliosamente alla severità delle roccie, allo splendore di quel sole tropicale.
II.
Nella stessa guisa che la natura colle sue forme, colle sue tinte, contribuisce a rendere eminentemente poetica quest’isola magica, fantastici parimenti, e degni di un idillio vi compaiono gli abitanti. La cittaduzza di Capri, la quale giace sopra una depressione del monte fra le colline di S. Michele e del Castello, ha aspetto sommamente originale. Le case piccole e bianche, hanno tetto a foggia di terrazzo, il quale s’incurva alquanto nel mezzo. Sono questi per la maggior parte ornati di vasi di fiori, ed ivi si sta la sera a godere il fresco, a contemplare la vastità del mare tinto in rosa. Le case sono attorniate per lo più da un terrazzo, o da una loggia coperta o veranda, la quale produce aspetto piacevolissimo, ornata quale si trova per lo più da una pianta di vite, e da vasi di ortensie, garofani, leandri. Quando il giardino è aderente alla casa, un pergolato vi dà per l’ordinario accesso, congiungendo questo a quella. Forma questo il più bello ornamento delle abitazioni dell’isola, imperocchè consistente in un basamento in muratura a doppia fila sui quali sorgono i pilastri che sostengono le traverse in legno a cui si appoggia la vite, tutti quei pilastri, quelle colonne danno alle case anche le più povere un certo aspetto grandioso, ed alla loro architettura carattere antico ed ideale. Si direbbero i portici di un tempio, e questi pergolati mi riccordarono più di una volta le colonne delle case di Pompei. Sorge qua e là nei giardini una palma, e la più bella si è quella del giardino del nostro albergatore Pagano, la cui casa, a paragone delle altre di Capri, può meritare il nome di palazzo.
Abitano pure fuori della città i vignaiuoli, sparsi nelle loro masserie e giardini sulle alture, od ai piedi delle rupi, nascosti e quasi sepolti fra le viti ed i leandri. Tutte quelle casette paiono sede della felicità, della tranquillità, di vita solitaria e romita.
I Capresi, due milla all’incirca, sono il popolo il più pacifico della terra, umano di sensi, dolce d’indole, svegliato, d’ingegno, dolorosamente povero, ed eminentemente operoso. Sono bifolchi, vignaiuoli, pescatori; e soltanto questi ultimi, posseggono qualcosa in proprio, la loro barca, ed il pesce che raccolgono. Gli altri, non sono in generale che semplici fittaiuoli, mezzadri; imperocchè le masserie appartengono per la maggior parte ai napoletani. Il fittaiuolo paga per lo più dagli ottanta ai centoventi ducati di fitto, che deve ricavare, oltre il suo sostentamento, dal vino, dall’olio, dalle frutta. Quando viene a mancare il vino, come ora accade da ben tre anni, il vignaiuolo cade nella miseria, e stringe il cuore il vedere tutte quelle vigne spoglie di grappoli, lo udire le lamentazioni di tutta quella povera gente. Trovai donne, le quali mi narravano, sospirando amaramente, avere dovuto vendere tutti i loro ori, annella, orecchini, ed è pure questo segno della più grande miseria, imperocchè soltanto a caso disperato, una donna si spoglia delle sue gioie. Qui le portano di continuo, e fa strana vista lo scorgere povere ragazze occupate ai lavori più pesanti della campagna, le quali portano grandi orecchini d’oro, e catenella d’oro al collo. Sono questi i loro gioielli, spesso tutto quanto posseggono, se non che sono di poco peso, e l’oro non è del più legittimo.
Il bestiame non è abbondante a Capri, però se ne esportano annualmente un duecento capi sul Napoletano, ed anche il cacio dell’isola è tenuto in pregio. Nell’autunno e nella primavera, si nutrono in buona parte quegl’isolani di cacciagione. Passano a quell’epoca stormi di volatili, i quali si dirigono dal mezzogiorno al settentrione o dal settentrione al mezzodì, particolarmente di quaglie. Quei poveri uccelli, spossati dal lungo viaggio, cercano riposo su’ quegli scogli infidi, e vi son presi a schiere, uccisi, o vivi nei lacci. L’isola del resto non ha selvaggina, nè animali da cacciare, che le sia propria; non vi sono nè volpi, nè martore, soltanto una sterminata quantità di conigli, i quali di nottetempo escono dalle fessure delle roccie, e prelevano nei campi un largo tributo sulla miseria dei poveri coloni. I conigli sono il flagello dell’isola, e meriterebbero pagare a caro prezzo il fio della loro vita di rapina.
Il mare è quello che procura reddito più sicuro agli abitanti di Capri. I pescatori vi trovano pesci di ogni specie, anche tonni, pesci spada, murene bellissime, e sovratutto poi sardelle e seppie, dette volgarmente calamai. La pesca vi si pratica per lo più di nottetempo. I pescatori escono in mare alla sera; i pesci sono allettati a salire alla superficie delle acque dal chiarore di una fiaccola; sono afferrati da una rete, sostenuta da legni leggieri che galleggiano, e vengono per tal guisa tirati su nella barca. I pescatori stanno in mare tutta quanta la notte; tornano a terra col levare del sole, pongono ad asciugare le loro reti, attendono a racconciarne i guasti, dormono un paio d’ore, e quindi si alzano, pronti a ricominciare la sera. È dura e faticosa la loro vita, imperocchè il mare è spesso fallace, e talvolta la preda di una intera compagnia di pescatori non raggiunge il valore di un carlino.
La vita animata della Marina Grande, unico porto dell’isola, dove sorge una fila di case, porge in ogni tempo uno spettacolo interessante. I pescatori sono uomini nerboruti, spesso di forme erculee, e le loro figure abbronzate, energiche, ottengono risalto dal berretto frigio che portano costantemente. Quando il mare è agitato, offre bello spettacolo il vederli occupati a trarre frettolosi le loro barche all’asciutto, sulla spiaggia. Questa è ristretta e neanco sicura tutta dall’urto dell’onde, e pertanto le barche vi hanno i loro ripari murati, nei quali sono tratte quando gagliarda infierisce la tempesta. Stanno su quella spiaggia un centinaio circa di barche, fra le quali tre di maggiore portata, le quali fanno il commercio con Napoli. Vi si recano al lunedì, ed al giovedì, e ne ritornano il martedì ed il venerdì. Regna allora una grande animazione sulla spiaggia, imperocchè anche le ragazze e le donne di Ana-Capri scendono dalla loro altura a ritirare gli oggetti che recano le barche. Allorquando il mare è agitato, i pescatori più giovani si cacciano in mare colla testa prima, quali tanti marangoni; coloro i quali stanno nella barca loro cacciano i remi ed i cordami, ed il peso di questa riesce per tal guisa alleviato finchè l’uno dopo l’altro saltano tutti a terra. Giunti colà, tirano la barca sulla spiaggia colle funi, gridando tutti a squarcia gola, e più possente di tutte risuona la voce del padrone della barca, il quale governa e regola i movimenti di tutta quella folla, mossa da una attività febbrile. Le donne si affollano attorno al carico, il quale si compone di articoli per la vita abituale, legumi, poponi, biscotto, oggetti di vestiario, masserizie di casa. Giungono pure da Napoli vaghi mazzi di fiori, e le canzoni stampate di recente sulla riviera di S. Lucia. Intanto lo straniero siede sopra uno scoglio presso la spiaggia, ed apre le lettere che gli vennero recate dalla barca.
Quasi tutte le barche della marina appartengono a pescatori di Capri; pochi ve ne sono ad Ana-Capri. La natura ha isolata questa ultima cittaduzza dal mare, imperocchè sorge in alto, verso la metà dell’isola, alla base del Solaro. Molti giovani robusti però di essa si recano con quelli di Capri alla pesca del corallo. Ne partono ogni anno non meno di duecento, che si portano per conto dei mercanti di corallo ad esercitare la loro industria nello stretto di Bonifazio e sulle coste d’Africa. Partono in marzo, e tornano in ottobre, trovando allora quando la sorte ha loro preparato durante l’assenza, nel loro piccolo mondo; piaceri e dolori, fedeltà ed obblio; nascite e morti. Quando hanno guadagnato cento ducati si accasano, sposando la loro innamorata; imperocchè un centinaio di ducati sono ritenuti necessari a Capri per contrarre matrimonio. Un pittore mi narrava il dialogo seguente che aveva avuto con un giovane il quale gli portava il cavalletto. Il giovane «Signore, avete voi moglie?» Il pittore: «No.» Il giovane: «Non avete voi dunque cento ducati.» Il pittore: «Sì che li ho cento ducati.» Il giovane grandemente attonito: «Come mai, signore, avete cento ducati e non prendete moglie?» Mi fece pensare a questo pescatore di coralli scapolo, una giovane la quale mi offrì un giorno alcune monete arabe, sulla salita che porta ad Ana-Capri. Suo fratello le aveva recate nell’anno precedente dal paese degl’infedeli. Le acquistai quale ricordo, e quali monete magiche, le quali dovevano riferirsi ad una storia misteriosa.
Anche sulla spiaggia di Capri si trovano coralli. Li raccolgono i ragazzi dei pescatori, e le giovanette, le quali tessono piccole ceste di paglia, le riempono di pezzetti di corallo, di frutti di mare, di conchiglie, e quando v’incontrano sulla spiaggia, vi presentano le loro cestelline, con un sorriso così grazioso, che è pure forza il fare un qualche acquisto. Tutto qui è grazioso, piacevole, in miniatura; e reca diletto l’osservare le ragazze nelle loro piccole case, occupate a dipannare le matasse di seta color d’oro, od a tessere nastri di variopinti colori. L’industria delle donne, sia di Capri che di Ana-Capri, consiste nella coltivazione di poca quantità di seta, e particolarmente nella tessitura dei nastri. I telai sono continuamente in moto. Il cotone e la seta vengono forniti dai mercanti di Napoli, i quali retribuiscono magramente l’opera di quelle assidue lavoratrici. Desse tessono nastri di ogni colore, ed il vederle intente a quel tranquillo lavoro omerico, nelle loro camerette, o sui terrazzi in mezzo ai fiori, alla vista del mare, produce uno spettacolo graziosissimo, e si scambiano volontieri alcune parole con quelle piccole Circe, dalla chioma corvina.
Sorge in Capri sopra una collina una casuccia solitaria, occupata da quattro ragazze snelle intente continuamente a filare seta, non che ad intrecciare paglia, per la formazione di cappelli. Quelle quattro ragazze sono il fiore del mondo femminile di Capri, e la loro stanzuccia il punto di ritrovo più frequente dell’isola. Vi si recano pure talvolta i forastieri. Gli artisti hanno dato il nome di Dee a quelle giovani, perchè loro si offrono di continuo sagrifici; ed il mio albergatore le chiamava le quattro stagioni. Un giorno che io mi ero recato colà, il mio occhio cadde sopra un foglio, che una delle sorelle aveva appeso accuratamente al suo telaio. Rappresentava un ramo d’edera, e sotto vi stava scritto il primo verso dell’Edipo Tiranno di Sofocle
«Α τεκνα Καδμου, του παλαι νεο τροφη»
(O ragazzi, giovane progenie del vecchio Cadmo).
La tessitrice mi pregò di spiegarle che cosa volessero significare quelle parole in lingua ignota, dicendomi averle scritte un inglese, il quale era stato colà. Le risposi che volevano dire «ragazza, di giorno sei il mio fiore, di notte la mia stella.» Dessa sorrise soavemente, e rimase soddisfatta.
Avevo osservato già parecchie volte con piacere nelle montagne d’Italia l’ingenuità del popolo, ma non avevo rinvenuto ancora un popolo ingenuo quanto questo. L’essere segregato dal mondo, ha mantenuta la dolcezza dei suoi costumi, la naturalezza attraente de’ suoi modi. Il forastiero vi è ricevuto quale un’antica conoscenza, e vi si trova come a casa sua, e per verità non si può trovare un maggior contrasto, che quello della popolazione di Capri e di Napoli.
Le donne di Capri non sono tanto belle, quanto piacevoli e graziose. I loro tratti hanno sovente un non so che di originale. Le linee del loro viso, sormontato da una fronte piccola, sono regolari; il loro profilo spesso distinto; i loro occhi sono di un nero ardente, o di un grigio verdognolo; il colorito bruno, la foggia della acconciatura del capo, i coralli e gli orecchini d’oro che portano costantemente, loro danno un aspetto orientale. Vidi soventi, particolarmente nell’appartato Ana-Capri, fisonomie di vera e rara bellezza; e nell’osservarle coi capelli scarmigliati, coi loro occhi nerissimi, grandi, che parevano lanciare fiamme, sorgere nelle camere oscure dai loro telai, e venir fuori, mi pareva veder comparire una Danaide. Per contro, in Capri s’incontrano di frequente figure che si direbbero staccate da una tela del Perugino, o del Pinturicchio, e che sono di una soavità incomparabile. Le donne portano, particolarmente in Ana-Capri, i cappelli disposti con gusto artistico nella sua semplicità, scendenti al basso, e trattenuti da uno spillo d’argento. Talvolta fissano il mucadore alla testa con una catenella, ed allora hanno propriamente l’aspetto di donne di paesi remoti. Pregio generale però delle donne di Capri, più prezioso dell’oro, sono i denti, che tutti gli abitanti dell’isola hanno stupendi, forse perchè non hanno sempre di che mangiare.
È d’uopo vedere queste belle fisonomie, riunite in gruppi, o contemplarle quando scendono dalla montagna portando sul capo brocche d’acqua di forme antiche, o ceste ripiene di terra ovvero di sassi, procacciandosi con questo lavoro faticoso di che sostenere magramente la vita. Imperocchè le donne compiono pur troppo a Capri le parti di bestie da soma, e si vedono le più graziose fanciulle dai quattordici ai venti anni, Gabriella, Costanziella, Mariantonia, Concetta, Teresa, e tante altre le cui fisonomie in Inghilterra, in Francia ed in Germania, sarebbero ammirate in un quadro, portare alla spiaggia sulle loro testine pesi, che altrove sarebbero gravi per un uomo. Due settimane fa approdava nell’isola un legno napoletano, il quale deponeva sulla spiaggia un carico di cubi di roccia calcare, destinati alla ricostruzione di un antico convento; e tutti quei pesanti materiali furono nello spazio di cinque giorni trasportati alla loro destinazione dalle ragazze dell’isola, sul capo. La strada è ripida per modo, che quando la facevo tornando dal bagno, e ristorato da questo giungevo alla sommità ansante, e spossato di forze. Eppure un trenta ragazze circa, fecero per cinque giorni più volte al giorno quella strada, cariche dei loro macigni. Le più robuste ne portavano due, le più deboli uno solo. Per avere un’idea del peso di quei sassi provai a sollevarne uno, e mi volle tutta la mia forza per riuscire a collocarlo sul capo di una di quelle povere giovani, alla quale mi parve aver reso non lieve servigio. Desse pregavano ingenuamente le persone che incontravano per istrada di dar loro aiuto in quel penoso lavoro di Sisifo, a cui attendevano dal levare del sole, finchè questo s’immergeva in mare, tingendo del più stupendo colore di porpora la lontana isola di Ponza; e facevano sotto la sferza del sole meridionale, per ben sedici volte, quella dura strada. Mentre prendevano i sassi alla marina uno scrivano ne pigliava nota, e sopra, alla Certosa, un altro li registrava, con tutta serietà in un libro. Gabriella ne aveva portati venti, e la bella Costanziella, poverina, non ne aveva recati che dieci! Il loro guadagno era da circa dieci carlini al giorno.
Nella loro ingenuità non avevano fatto contratto di sorta coll’impresario, e quando loro si domandava quanto avrebbero guadagnato in quel penoso lavoro, rispondevano: «Crediamo un carlino al giorno, o tanto pane di Castellamare per quel valore; sabbato sarà fatta la paga.»
In quel giorno l’isola presentava un bello spettacolo, ed i pittori non trascurarono di farne disegni. Quella roccia calcare di Ercolano essendo di un bel grigio, posata sul mucadore di colore rosso di quelle teste giovanili, sostenuta da un braccio o da entrambi, facevano bellissima vista, e la fila di quelle ragazze cariche dei loro sassi, mi ricordava la figura delle antiche canofore o le ragazze di Egitto, le quali recassero materiali per la costruzione delle piramidi. Non potevo saziarmi dal contemplarle, dall’ammirarle. Desse scherzavano, ridevano sotto il loro grave peso, allegre e graziose come sempre. Talvolta verso il mezzogiorno le vedevo sedute in circolo per terra, all’ombra di una pianta di carrubba, che stavano prendendo il loro pranzo, se pure si poteva dare tal nome ad alcune prugne mature per metà, ed a pane asciutto; e dopo tale refezione ciarlavano, scherzavano, e tornavano a riprendere saltellando, leggiere al pari di gazzelle, il loro faticoso lavoro.
Se dovessi rappresentare in un quadro la povertà tranquilla ed allegra, terrei a modello la figura della bella Costanziella. Dopo di avere sotto la sfera del sole portata una piramide di macigni, al monastero così pittoricamente collocato, siede dessa alla sera sulla porta della sua casetta e si ricrea colla musica, imperocchè dessa è distinta virtuosa di scacciapensieri. Mi ha fatto udire parecchi pezzi eseguiti con molta grazia, e con rara espressione; fantasie marine, cantate delle sirene, e della grotta azzurra; poesie senza parole; arie ammirabili che nessun mortale ha udito finora, o le quali non hanno nome. Suonava tutto ciò con una rara perfezione, mentre i suoi occhi nerissimi scintillavano quali quelli delle sirene, e la sua bruna capigliatura incolta, scherzava sulla sua fronte. Dopo avere suonato, Costanziella m’invitava col fare il più disinvolto ad entrare in casa, ed a prendere parte alla sua cena con sua madre; mi porgeva fichi d’india maturi, che sapeva staccare con molta destrezza col coltello dalla unica pianta che sorgeva davanti alla casa, senza pungersi le dita della piccola mano alle molte spine. Non si parlò mai colà di letteratura; Costanziella non conosce i nomi nè di Goethe, nè di Schiller, nè aveva parimenti la menoma idea della letteratura francese, od inglese. Le sue cognizioni letterarie non si estendevauo al di là di poche canzoni del porto di Napoli. Sua madre era donna come suol dirsi alla buona, ed i suoi discorsi si aggiravano per lo più intorno alle derrate, ai mezzi di sussistenza. Costanziella non aveva mai mangiato carne, portava sassi si ricreava colla musica, si cibava di pane asciutto, di patate con poco olio e sale. Rise di cuore una volta che le domandai se non avesse mangiato mai arrosto; ed intanto era fresca, ricciuta quanto Ebe, o Circe, o Diana caciatrice; e nessuna era di lei più allegra, più esperta nel suonare lo scacciapensieri.
Ad ogni momento in Capri vi si domandava un grano, un baiocco, o come dicono la bottiglia. Sono per lo più i ragazzi e le ragazze che fanno tal domanda, a cui non potrei dare nome di mendicità, imperocchè non ritrae punto della domanda di un’elemosina. Trovano naturale, essendo poveri, domandare a quelli che posseggono qualcosa; e quando loro non si dà nulla, vi fan buon viso ugualmente dicendovi: «Addì signoria». Vi si domanda sempre e dovunque. Un giorno che entrai nella scuola di Ana-Capri, tutta la scolaresca sorse da suoi banchi sciamando; «Signore la butiglia!» e quasi mi aspettavo la domandasse il maestro desso pure.
Entrando in una casa, si è certi che vi viene incontro un ragazza, la quale vi porge alcune foglie di maggiorana od un garofano, ed allora convien dare qualcosa. La è una mendicità esercitata per mezzo di fiori, ma non sempre, perchè anche senza di questi si domanda francamente, e liberamente il grano. Si possono fare felici con il più piccolo regalo; anche le persone adulte si rallegrano per la più piccola cosa al pari di ragazzi, e nasce allora il desiderio di possedere i tesori fosse di un solo fra i liberti di Tiberio, per farne parte a questo popolo buono, e riconoscente.
In questo momento si parla molto nell’isola di un matrimonio. Un ricco Inglese s’innamorò di una povera ragazza, al punto di esersi convertito per amore di lei alla religione cattolica. La bella giovane trovasi ora in un monastero a Napoli, ma nell’autunno deve tornare qui divenuta gran dama, e prendere possesso della nuova casa costrutta appositamente per essa sul monte Tuoro. La sorte toccata alla bella Annarella non eccita nessuna invidia, e non è quasi neanco considerata quale avvenimento straordinario. Trovasi già a Capri un altro Inglese, il quale vi ha presa stanza, ed abbandonata la sua patria per vivere qui vita romita. Capri è propriamente luogo di riposo per gli uomini, stanchi della vita, e non saprei trovare altra località al mondo, dove coloro i quali ebbero a soffrire traversie, potrebbero finire i loro giorni più tranquilli, che in questa piccola isola. Lo provano i soldati invalidi ai quali fu assegnata per dimora.
Trecento soldati, inabili alla vita militare attiva, per infermità o per vecchiaia, occupano la caserma posta al fine della città. Dessi danno all’isola il carattere di un asilo, perchè si vedono girare in ogni angolo, o stare seduti cantando le loro canzoni. Alcuni pochi sono tuttora veterani delle guerre napoleoniche; gli altri presero parte ai fatti che seguirono la rivoluzione del quarantotto. Sono in gran parte ciechi, ma siccome non vi sono nell’isola nè bestie da soma, nè carri, nè carrozze, i ciechi non vi corrono nessun pericolo. Si vedono girare di continuo per le strade tastando il terreno col loro bastone, e quasi uno non si accorgerebbe siano privi della vista. Nella festa di S. Anna vidi una schiera di essi i quali aprivano la processione; entrarono in buon ordine nella chiesa, ed al vederli mi sovvenne il versetto biblico.
«Beati coloro i quali non vedono, però credono.» Alla sera assistettero al fuoco d’artificio, godendo in mancanza di meglio, lo scoppio delle bombe e dei razzi. Quale disgrazia l’essere ciechi in Capri, dove la natura spiega tutte le sue bellezze con tutta la magica varietà, e splendore delle sue tinte! L’aggirarsi in questa contrada senza il beneficio della vista, la è un’amara ironia. Questi poveri ciechi si muovono però molto, e volontieri; hanno una loro passeggiata favorita, l’unica che sia alquanto piana, la bella strada nella valle Tragara, in mezzo agli olivi. Stanno pure volontieri seduti sui banchi di pietra sotto la porta della città, spiando i passi delle persone che entrano od escono, ed anche al di fuori della porta stessa, dove si gode la stupenda vista, da una parte del golfo di Napoli, del Vesuvio, e dall’altra delle ripidi pendici del monte Solaro, e della triplice sua vetta. Nel calore della giornata questi rupi splendono di una tinta incomparabile, ed a lume di luna, si perdono in una luce propriamente magica.
Si dilettano pure quei poveri ciechi di musica, ed ogni sera danno un piccolo concerto. Prendono posto a quell’ora due invalidi sul terrazzo del quartiere, l’uno suona la ghitarra, l’altro l’accompagna col fischio. La è propriamente musica singolare, la quale risuona in modo tutto particolare nel silenzio della notte, accompagnate di frequente dalle voci di un’aria melanconica. Suonano pure talvolta i due invalidi, al mattino sulla piazza radunando attorno a sè tutti i loro compagni, quelli che vedono e quelli che non ci vedono; quelli che possono camminare e gli storpi i quali non si muovono che a stento. Per tal guisa in quest’isola innocente, la fisica infermità del pari che la povertà, assume aspetto lieto, e compare rassegnata alla sua sorte.III.
Ogni cosa porta qui un’impronta per così dire fanciullesca, ed anche nelle fisonomie di parecchi vecchi, tanto uomini quanto donne, si scorge questo tipo in certo modo puerile. I ragazzi, tanto maschi quanto femmine, sono in generale bellissimi, e quantunque crescano senza veruna istruzione, la loro intelligenza è straordinariamente sviluppata. Portano tutti al collo un amuleto; i bambini, piccoli corni benedetti destinati a proteggerli contro lo spirito maligno; più grandicelli una medaglia della Madonna, od un’imagine della Beata Vergine del Carmine, impressa sopra un pezzo di stoffa.
Vidi un giorno esposto nella chiesa un cadavere di un bambino. Era coperto di un velo bianco, ornato di fiori, ed aveva attorno a sè mandorle inzuccherate: il poverino non avevane mai assaporate, mentre era in vita; cotali ghiottonerie, non si danno ai ragazzi dei pescatori che quando sono morti. Il cadavere fu deposto senza cerimonia nella sepoltura nell’interno della chiesa, dove, secondo l’usanza antica, si eseguiscono tutte le tumulazioni. Soltanto coloro che non sono Cristiani, come si esprimono per dire cattolici, vengono sepolti in qualche punto ameno e solitario della spiaggia.
Tali si è il popolo di Capri, e siccome per lo spazio ristretto in cui vive, tutti nell’isola si conoscono, il forastiero parimenti, non tarda ad essere conosciuto da ognuno, ed a diventare famigliare a tutti. Non tarda guari a non sentirsi più straniero, a considerarsi quale membro di quella comunità. La vita pubblica si concentra tutta quanta sulla piazza, presso la porta della città; ivi si vendono i pochi oggetti che rispondono agli scarsi bisogni della popolazione; ivi hanno luogo le feste religiose; ivi si radunano gli abitanti a ricrearsi col riposo dall’incessante lavoro, a trettenersi gli uni cogli altri. La vita solitaria è interrotta di quando in quando dall’arrivo di qualche forastiero, il quale prende alloggio nella locanda di Don Michele, visita rapidamente le rarità dell’isola, e poi riparte. Un certo numero di essi si ferma però alla locanda, dove siedono a mensa comune; sono per lo più pittori di tutte le nazioni, i quali formano una società caratteristica dell’isola, e si vedono in ogni angolo occupati a disegnare, ora una di quelle casuccie ridenti col suo pergolato, ora qualche roccia di forma bizzara, ora un grappo di alberi, od una marina.
Non havvi cosa più piacevole che lo aggirarsi per quei colli, che lo arrampicarsi su per quegli scogli, che passeggiare sulla sponda di quel mare, dove le onde mugghiano, e si frangono di continuo. La tranquillità profonda, la vista dall’ampio golfo, la vista dell’amene sue riviere, delle isole lontane, sono propriamente incantevoli, e si sta lunghe ore seduto sur uno scoglio a contemplare gli effetti mirabili e sempre vari di luce sulle coste, e sulla liquida pianura. Voglio ora condurre il lettore in tutta l’isola, imperocchè tutta quanto la conosco quasi mi trovassi a casa mia. Ci recheremo dapprima dove sorgeva l’antica Capri, la quale è scomparsa, dacchè venne distrutta dai Saraceni. Colà, dove sorge la rupe scoscesa di Ana-Capri, stanno ancora nei giardini i ruderi della città antica, non che la piccola ed antica chiesa di S. Costanzo. Dessa era l’antica parrocchia dell’isola e sede del vescovo, imperocchè fin dal secolo X Capri fu innalzato a sede vescovile, sotto la dipendenza dell’arcivescovo di Amalfi, e tale rimase fino al 1799; dopo d’allora la sede vescovile non venne più occupata, e la chiesa di Capri venne ridotta a collegiata, dipendente dall’arcivescovo di Sorrento.
S. Costanzo è piccolo, pesante, ha tutto l’aspetto di una chiesa di campagna. All’intorno si scorgono sotterrati nella terra avanzi di antiche mura. Si trovarono colà urne sepolcrali bassi rilievi, monete, e si scorge tuttora in una vigna un grande sarcofago in marmo, che venne dissotterrato da alcuni anni. Del resto le antichità scavate nell’isola, statue, bassi rilievi, mosaici, urne, ed avanzi di colonne, furono parte vendute dai contadini a vile prezzo, parte regalate a private persone dagli ufficiali pubblici incaricati degli scavi, e parte ancora trafugate di nascosto. Molte ne portarono via gl’inglesi, durante i tre anni che occuparono l’isola, e pochi oggetti pervennero al museo di Napoli, loro sede naturale. In nessuna parte del mondo, io credo, siasi fatto cotanto spreco delle antichità quanto in Napoli.
Gli scavi e le scoperte fatte a Pompei, furono quelle che chiamarono per la prima volta l’attenzione degli archeologi, sull’isola di Capri. Il primo, per quanto io sappia, a praticarvi ricerche, fu Luigi Giraldi da Ferrara nel 1777 a cui tenne dietro Hadrava, e nel principio di questo secolo Giuseppe Romanelli; quindi vennero Giuseppe Maria Secondo, ed il conte della Torre Rezzonico, i quali tutti publicarono scritti intorno all’isola. Nel 1830 ancora venne incaricato Feola di praticare scavi in questa, e vi tenne lunga dimora. Si scoprirono allora avanzi di antiche abitazioni, e parecchie sculture, della migliore epoca romana. Se non che, scarseggiando agli agricoltori la terra, riempirono di bel nuovo gli scavi, e ne disparvero le traccie sotto recenti piantagioni. Molti oggetti stanno tuttora nascosti, cbe attendono di vedere la luce. Quelli che ora si scoprono, di quando in quando a caso, sono monete degl’imperatori, frammenti di marmo. Nei pavimenti di Capri, nella pianura di Damecuta, presso Ana-Capri, si possono scorgere molti avanzi di marmi antichi. Ed anche qua e là, scorgonsi impiegati ad uso di soglie delle porte delle case, pezzi di marmo, con avanzi di iscrizioni diventate inintelligibili. Molti marmi antichi vennero impiegati del pari nelle fondazioni delle case, e non havvi per così dire angolo nell’isola, dove non si scorgano memorie, avanzi di tempi trascorsi.
Non lungi di S. Costanzo, vicino al mare, e sur un’altura dalla quale si gode la vista di questo, sorgeva l’antica villa di Tiberio detta oggidì palazzo al mare. Hadrava vi fece praticare scavi nel 1790, e ad onta la trovasse in gran parte già devastata, vi fece però ancora delle scoperte, fra le quali due colonne di cipollino, due di Porta Santa, uno stupendo capitello corinzio, che si trova oggi nel Museo di Napoli, due magnifici mosaici, che vennero in possesso l’uno di un Inglese, l’altro della contessa Woronzow, e finalmente un bello altare di Cibele, che il cavaliere Hamilton seppe procurare al museo britanico. Oggidì il palazzo presenta l’aspetto di una distruzione completa. Gran parte delle mura rovinarono in mare, altre giacciono disperse sul pendio dell’altura che scende alla spiaggia, però si possono scorgere ancora le traccie di un certo numero di sale, ed un numero di forma semicircolare, avanzo forse del tempio della divinità a cui era dedicata la villa, e sorge tuttora fra tutte quelle rovine l’avanzo di un fusto di colonna, di granito rosso orientale.
Più scarsi ancora sono gli avanzi della villa che sorgeva un dì sulla bella collina di Castello, la quale sta a cavaliere della città verso mezzogiorno. Dal lato del mare la rupe sorge tagliata a picco, ed a metà si apre l’adito ad una grotta. Verso terra stanno vigne, e sulla sommità, torreggia in istato tuttora di buona conservazione il castello di Capri, piccola fortezza con mura merlate e torri, la quale dà all’isola un’impronta di medio evo. Hadrava praticò scavi in quella località nel 1786 e vi scoprì buon numero di sale, e di bagni già devastati, vi trovò ancora pavimenti, statue, un bel vaso di marmo bianco, un basso rilievo rappresentante Tiberio nell’atto di offerire un sagrificio, un cameo col ritratto di Germanico, non che busti in marmo, ed in istucco. Ed anche tutti questi oggetti vennero dispersi regalandoli parte ad Hamilton, al pittore Tischbein, al principe Schwarzenberg, parte a Russi, ed Inglesi ignoti. Nel 1791, gli scavi furono di bel nuovo ricolmi di terra. Se non che tutte le rarità antiche scompaiono a fronte della vista stupenda, che si gode dalla collina di Castello, sul mare di Sicilia, sul golfo azzurro di Napoli, sulla rupe maestosa di Ana-Capri. Scorgesi pure di là la rupe tagliata a picco del lato di mezzodì, non che i tre picchi che si slanciano verso il cielo, a foggia di obelischi granitici, denominati i Faraglioni.
Ai piedi della collina trovavasi una delle località più romantiche dell’isola, la Marina piccola, spiaggia angusta, esposta a mezzo giorno, incassata nelle roccie, i cui massi rotolati in mare si avanzano in quello a foggia di penisola. Sorgono colà, quasi incassate nella roccia, due casette solitarie di pescatori, prestandosi la spiaggia a mala pena a dar ricetto a due sole barche. Questa spiaggia è uno scherzo di natura, e l’unica su tutto quanto il lato meridionale dell’isola. Sedendo colà uno si può credere solo al mondo. Il golfo di Napoli, le sue riviere, le sue isole, le sue vele sono scomparsi quasi non esistessero; la vista spazia unicamente sulla immensità del mare nella direzione della Sicilia, e più lontano dell’Africa. Non si vede che acqua, e la fantasia può trasportarsi ugualmente a Palermo, a Cagliari, ed a Cartagine, che tutte si specchiano in quel mare. Non si hanno all’intorno che nude roccie, scogli deserti, caverne che si aprono sulla riva ad ambi i lati, a destra il Capo Marcellino rupe erta, di aspetto colossale, il quale si avanza in mare; a sinistra, dentellato e merlato quasi castello antico, il Capo Tragara, ed in vicinanza a questo i Faraglioni, scogli giganteschi, inacessibili, d’oltre cento piedi di altezza, i quali emergono dal mare quasi piramidi. Sono di forma conica, l’uno in guisa che si direbbe lisciato per opera dell’uomo, l’altro frastagliato in modo fantastico e bizzaro. La loro ambra si stende sul mare, dando a questo aspetto malinconico; presso a loro si apre in uno scoglio l’arco stupendo di una caverna, dove possono entrare le barche, e sulla loro sommità ondeggiano agitati dal vento magri arbusti e piante selvatiche, e fa sentire la sua rauca voce l’alcione, che ammaestra al volo la giovane sua progenie.
Sedendo colà, ricorre alla memoria il passo del Prometeo incatenato di Eschilo, quando tutto ad un tratto pervengono all’orecchio dall’infelice il rumore del battere d’ali delle Oceanidi, e l’eco dei loro canti. Ho udito molte volte di buon mattino, allorquando il mare comincia splendere, la rauca voce degli uccelli marini, quando scendono dai loro scogli a vanno svolazzando sulle onde, ed alla sera quando tutto è tranquillo e che stando in cima ai Faraglioni fanno udire la voce loro lamentevole, che non si può ascoltare senza provare un senso di malinconia, imperocchè le loro voci sono meste quali le armonie delle arpe eoliche, e vi riportano involontariamente ai desideri del passato. Sapevo che sui Faraglioni si trovano pure alcioni venuti dall’isola d’Ustica, e della grotta di Alghero in Sardegna, e se io avessi avuto venti anni di meno, avrei domandato loro di portarmi in quella rara grotta, o nella foresta di Milis, dove cinquecento mila piante di aranci fanno pompa dei loro fiori e dei loro frutti, e dove notte e giorni risuona il canto dell’usignuolo. Colà mi avrebbero potuto deporre un mattino, ai piedi della pianta d’aranci più alta d’Europa, grande quanto un elce, dove il marchese Boyl fa a suoi ospiti gli onori della sua villa.
Sono sogni, ma per dir vero chi può star seduto alcun tempo alla Marina piccola di Capri, senza lasciare la briglia sciolta alla fantasia! La solitudine, l’aspetto deserto di questa spiaggia è propriamente magico, particolarmente nel silenzio della notte, al lume di luna, quando non si ode altro che il frangere delle onde che incessantemente le une alle altre si succedono; quando gli scogli ed i capi si perdono nell’ombra; quando le fiaccole delle barche dei pescatori si vedono ora brillare sulla superficie del mare, ora scomparire nelle onde di questo.
Sono pochi i pescatori i quali ivi tengono le loro barche. Si possono vedere seduti sulla sabbia bianca della spiaggia, intenti a racconciare le loro reti, e la loro solitaria occupazione corrisponde pienamente al carattere deserto e romito di quella località. Sono silenziosi, pensierosi, e si direbbe che sanno cose mirabili della profondità del mare, e delle sirene che vi abitano. Uno di quegli scogli ha nome appunto di scoglio delle Sirene. L’imaginazione del popolo sa sempre dare ai luoghi le denominazioni le più adatte, e non era possibile trovare in Capri sede migliore per collocarvi le Sirene.
Si possono passare quivi lunghe ore a godere la brezza marina, ed a contemplare gli effetti di luce sul mare: tutto è tranquillo, tutto risplende; scintillano le onde, gli scogli nel calore della giornata, e non si ode altro che il canto monotono delle cicale. Luce, aria, profumi, tutto è in armonia, l’animo si inebria di solitudine.
Tra la Marina piccola ed i Faraglioni, si apre una delle più vaste grotte dell’isola, ricca quanto ogni altra mai di tali caverne. Ha nome di grotta dell’arsenale. L’acqua non vi penetra, trovasi entro terra. Vi scorgono vestigia di costruzioni romane, e traccie di alcune stanze. Il nome basta a chiarire che fu un tempo un magazzeno della gente di mare, se pure non fu un ricovero per le galere di Tiberio, imperocchè la sua entrata è abbastanza grande per dar loro accesso, e sono tuttora visibili le impronte dello scalpello che devono averla allargata, e resa più regolare. Il punto della spiaggia dove si trova, porta il nome dell’Unghia marina, ed ivi pure, tanto al mare quanto in alto si scorgono vestigia di antichi muri. Anche al capo Tragara, presso il quale sorgono in mare i Faraglioni e lo scoglio detto il Monacone, si scorgono avanzi di antiche mura. Difatti ai tempi di Tiberio ivi stava un piccolo porto, e probabilmente vi si aveva accesso per una strada coperta dalla villa che sorgeva sul monte Tuoro, per trovare in ogni occorrenza le galere sempre pronte alla partenza, imperocchè anche in quel suo castello il tiranno viveva di continuo agitato per la paura, e si dava pensiero di avere sempre libera la via del mare.
Al capo Tragara si può scendere a terra dalla barca e salire sul monte Tuoro, dal quale si scopre bellissima vista, come da ogni eminenza dell’isola. Sorge colà sopra un antico muro un telegrafo aereo, ed è particolarità dell’isola di Capri che quasi ogni punto elevato trovasi occupato da un solitario, da un monaco o da un ufficiale telegrafico. Quello del monte Tuoro abita una piccola casa bianca. La sua stanza ha due piccole finestre, ed in ognuna trovasi fissato un telescòpio. L’ufficiale telegrafico, piccolo vecchietto dalla vista stanca, sta seduto ad un tavolo collocato fra le due finestre, sul quale si vede aperto un voluminoso registro. Ad ogni istante egli sorge dalla sua sedia, va all’una ed all’altra finestra ponendo l’occhio ai due cannocchiali, quindi torna a sedere con tranquillità filosofica davanti al suo registro, per portarsi di nuovo dopo pochi istanti alle finestre, e ciò dal mattino a sera. Il suo cane sta seduto davanti alla porta, spiando desso pure il mare senza canocchiale. In cima al Solaro, sopra Ana-Capri, sta un altro ufficiale telegrafico in osservazione dei legni che compaiono nel mare di Sicilia. Allorquando scorge qualche cosa degna di osservazione la segnala al suo collega del monte il quale ne dà avviso all’ufficio telegrafico di Massa, il quale sorge al di là dello stretto di mare sul promontorio della Minerva; questi manda l’avviso a Castellamare, e di là lo si trasmette al Castello S. Elmo di Napoli, di dove la notizia è tosto spedita al palazzo reale, vera sede di novello Atreo. L’ufficiale telegrafico del monte Solaro è quello che dà origine a tutto questo movimento, e quando lo vidi intento al suo ufficio di vigilanza, mi ricorse alla memoria la scolta del castello di Atreo nell’Agamennone d’Eschilo, il quale sta aspettando la fiammata che deve annunciare la presa di Troia.
Θεους μεν αίτω τονδ α παλλαγεν πονων.
(Supplico gli Dei di volere por termine alla mia fatica) e mi sovvennero pure i versi di Clitennestra, i quali descrivono con rara evidenza il modo di trasmessione dei segnali colla fiammate. La fiamma si accendeva sul monte Ida, giungeva su quello di Lemmno arrivava al monte Atos dedicato a Giove, e varcando le onde dell’Euripo, svegliava il guardiano di Mesapio; passava il fiume Asopo, giungeva sulla rupe di Ciotaro e passando per lo stretto di Gargopi, e per la vetta di Agiplanco, pel mare Saronico, e per la rupe Aracnea, arrivava finalmente al castello degli Atridi.
Se i Greci avessero comunicato con Troia per via di un telegrafo elettrico sottomarino, saressimo privi del piacere di leggere nei versi stupendi di Eschilo quella descrizione piena di verità.
Era venuta intanto la sera. L’ufficiale telegrafico del monte Solaro fecero un segnale, che quello del monte Tuoro trasmise tosto a Massa. Domandai che cosa volesse questo significare. «Oggi nulla di nuovo» mi rispose tutto soddisfatto il vecchietto, si stropicciò gli occhi, pose in ordine suoi stromenti, diede un fischio al suo cane e prese a scendere dal monte. Desso abita in Ana-Capri, ed ogni sera gli tocca scendere cinquecento sessanta gradini. Al mattino deve salirne altrettanti, e quando si pensi che da dieci anni compie ogni giorno al suo solitario ufficio, non eccettuate le feste, neppure quella di pasqua, si potrebbe calcolare matematicamente che questo omiciattolo ha praticata centinaia di volte l’ascenzione del Chimborazo, e ciò per la paga di trenta carlini al giorno.
Ad eccezione di questo guardiano che mi ricordò Eschilo, non ho trovata veruna antichità sul monte Tuoro. Però anche su quell’altura Tiberio ebbe una villa. Fra il monte Tuoro e quello di Castello, scende al mare la valle Tragara, tutta coltivata a viti, ed a olive. Giace in questa l’edificio più raguardevole del medio evo nell’isola, la Certosa, ora deserta, ed abitata un giorno dai monaci dell’ordine di S. Bruno. Occupa questa un grande spazio; la sua architettura originale, suoi portici, suoi campanili bizzaramente istoriati, le sue terrazze, suoi tetti fatti a volta, i quali sorgono in mezzo alla verzura e si specchiano in mare, le danno quell’impronta magica, la quale è caratteristica dell’isola. La navata angusta della chiesa senza cupola, è parimenti l’unico edificio in Capri il quale possegga un tetto di forma gotica, ricoperto di tegole. Le sue linee fine, e pronunciate, porgono deciso contrasto con i tetti fatti a volta delle celle, non che con i portici ad arco tondo del cortile. All’interno la chiesa è semplice, però non mancano le mura di qualche pittura a fresco. Entrando in essa, produce tutto assieme favorevole impressione. Le celle sparse qua e là, le piccole corti, i giardini deserti ed invasi da lussureggiante vegetazione spontanea, danno al monastero abbandonato l’aspetto di un laberinto romantico. La certosa è dedicata a S. Giacomo, e venne fondata nel 1363, da un nobile Caprese Giacomo Arcucci. Sua moglie era rimasta sterile al par di Sara, e desso aveva fatto voto di fondare un monastero, se Iddio gli avesse fatto dono di un figliuolo, Iddio esaudì suoi desideri, ed il dabben gentiluomo mantenne la sua promessa; fece edificare il convento sul disegno della stupenda certosa del Vomero di Napoli, dedicata a S. Martino, ed allorquando nei 1374 l’edificio fu compiuto, vi chiamò i padri di S. Martino. Col tempo la certosa diventò ricca, e le migliori terre dell’isola erano proprietà del monastero; se non che la repubblica partenopea la soppresse, in un con due conventi di Toresiani che esistevano pure nell’isola, incamerandone gli averi. Ora vennero questi in possesso della cattedrale d’Ischia, e la povera popolazione di Capri va soggetta alla grande ingiustizia di vedersi tolte le sue terre migliori, per arrichire il clero ozioso di un’isola straniera. All’epoca della occupazione inglese la certosa era diventata il quartiere generale di Hudson Lowe, ed anche dai francesi era stata dedicata ad usi militari. Oggidì tuttora, vi ha sede un ospedale militare. 1
IV.
Anche nella valle Tragara esistono avanzi di antiche costruzioni; pretendono gli archeologi, che ivi esistessero l’antico collegio degli Efebi, non che la villa Giulia, eretta da Augusto ad onoranza della figliuola sua dilettissima. Sorgeva ivi pure la Sellaria, quella vergognosa villa di Tiberio, dedicata alla Venere impudica, la quale al dire di Suetonio era ornata colle imagini le più oscene. Se non che tutte queste conghietture hanno poco fondamento, e del resto la destinazione di tutti questi avanzi di mura, denominati camerelle, i quali corrono in una linea ad arco sul Tragara fino ed al di là del Tuoro grande, è facile riconoscersi. Portano il nome di camerelle come parimenti alcuni avanzi della villa Adriana a Tivoli. Sono costrutte parte di roccia calcare dell’isola, parte in mattoni e nella loro fronte esteriore presentano una serie di camere, le cui volte sono tuttora in parte sussistenti. Ritengaro per la più probabile l’asserzione di Rosario Mangone, che queste camerelle sostenessero una strada la quale portava alla villa di Tiberio. Dessa si divideva in tre rami, che portavano l’uno al monte Tuoro, l’altro alla villa S. Michele, il terzo alla villa di Giove.
Sorge sopra le camerelle la collina di S. Michele, una delle più graziose dell’isola, dalla quale si gode una vista stupenda della sottoposta città. A cavalliere di questa s’innalza il forte Castello, e sopra questo sorgono le ripide pendici del Solaro, ed ai due lati si aprono vallette ricche di vegitazione, le quali scendono al mare ceruleo. La stupenda posizione di questo colle, basta ad indicare che ivi sorgeva uno dei palazzi di Tiberio. Si scorgono del resto ai piedi del monte rovine grandiose, ad una serie di volte, le quali fuor di dubbio sostenevano la strada che portava al monte. Sulla sommità di questo stanno giardini, case di vignaiuoli, ed il suono cupo che rende il terreno quando lo si percuote, indica manifestamente che al di sotto di questo stanno volte. Vi si scorgano ancora avanzi di mura ad opera reticolata e parecchie antiche stanze. Una di queste offre vestigia di una antica cappella, la quale era dedicata a S. Michele da cui il monte ha tolto il nome. Oggi sorge solitaria sulla collina una chiesetta del santo, la quale trae a sè l’attenzione per la sua architettura originale moresca. Circondata da un muro, in quelle roccie deserte ricorda le immagini della Mecca.
Si fecero pure alcuni scavi sul monte di S. Michele, ma le ricerche produssero poco risultamento. Gli agricoltori ridussero tutto il terreno all’intorno a terrazzi piantati ad olivi, e le case della città sono addossate al monte in guisa, che da questo si può scendere sui tetti. Una sera presi questa strada per rientrare in città, e passando da un tetto all’altro, riuscii ad arrivare a casa mia.
La vicina costa orientale dell’isola s’innalza ripida sul mare, all’altezza di novecento settanta piedi, in guisa che la villa di Giove trovasi al punto più elevato della spiaggia, la quale in questa località è dell’aspetto il più selvaggio. Scendendo dal Tuoro grande per la piccola valle di Matromania, verso la spiaggia a mezzogiorno-levante, si giunge ad un punto dove la costa si apre in uno spazio circondato da rupi tagliate a picco, dove regna una confusione fantastica ed inestricabile di scogli, uno dei quali aperto a foggia di portico ha nome l’arco naturale. Quel punto può dirsi il più solitario dell’isola. Ai piedi giace il mare di colore cupo, in alto si scorge il cielo limpido ed azzurro, tutto all’intorno stanno rupi di colore rossicio, e la vista si stende sopra il capo di Minerva, e sulla riviera di Amalfi e di Salerno.
Scendendo per un ripido sentiero si arriva alla grotta enigmatica di Matromania, piena di rovine. Vi si ha accesso per un ampio arco, imperocchè la caverna è larga circa cinquantacinque piedi, e profonda circa cento. Desso è opera della natura, migliorata però dalla mano dell’uomo; tanto all’ingresso quanto nell’interno vi si scorgono avanzi di mura romane. Nell’interno stanno disposti, a forma di semicircolo, due rialzi quasi banchi o sedili, ed alcuni gradini portano ad una nicchia, dove probabilmente stava la statua del nume. Il tutto da a dividere che la grotta era stata ridotta ad uso di tempio. Il nome di Matromania che il popolo con innocente ironia ha convertito in quello di Matrimonio, quasi Tiberio avesse celabrate ivi le sue nozze, vuolsi ripetere Magnæ Matris Antrum, ovvero da Magnum Mithræ Antrum. Si dice che il tempio fosse dedicato a Mitra, non tanto perchè il Dio Persiano del sole fosse venerato nella caverna, quanto per essersi scoperto in questa uno di quei bassi rilievi, i quali rappresentano il mistico sacrificio di Mitra, e che sono cotanto numerosi nel museo Vaticano. Ne vidi due negli Studi a Napoli, uno dei quali venne scoperto appunto in questa grotta, l’altro nella grotta di Posilippo. Rappresentano Mitra in ginocchio davanti al toro, nell’atto di piantargli il coltello nel collo, mentre il toro stesso viene ferito da un serpente, da uno scorpione, e da un cane. Non è fuori di probabilità che questa grotta fosse dedicata a Mitra, siccome quella che pure era adatta al culto del sole, rìguardando la sua apertura ad oriente; e dalla sua profondità si poteva scorgere il sole nascente imporporare i lontani monti, ed illuminare il mare. La situazione romantica e selvaggia della grotta, le rovine del tempio antico, il culto mistico di Mitra, il profondo silenzio, la luce crepuscolare, lo stillare dell’acqua goccie a goccie, finalmente la vista stupenda del mare, della campagna, tutto contribuisce a produrre una profonda impressione, ed anche chi nulla sapesse nè del culto di Mitra, nè della vita di Tiberio, non potrebbe a meno di provare, che qui si trova in un luogo pieno di mistero.
In questa caverna misteriosa, fu fatta la rara scoperta di una tavola di marmo, colla iscrizione seguente in versi greci «O regione dello Stige, spirti propizi che qui avete la vostra stanza, accogliete me pure, infelice che morte repentina colse nel fiore degli anni e della innocenza. Me pure aspettavano i favori di Cesare, ma ora per me, per i miei genitori, non havvi più speranza. Non avevo raggiunta l’età nè di venti nè di quindici anni, non godrò più della splendida vista del sole. Ipato fu il mio nome. Fratello, io mi rivolgo ancora a te! Genitori, ve ne scongiuro, non piangete più a lungo me poveretto.»
A quale orribite fatto possono alludere le parole misteriose di questa iscrizione? Havvi in questo un romanzo di Capri. La storia del povero Ipato è ignorata, però la si può indovinare. In un’ora demoniaca, Tiberio sacrificò il giovanetto suo favorito al Sole qui, in questa caverna, davanti alla imagine del Dio, nella stessa guisa che più tardi Adriano sacrificò Antinoo bellissimo al Nilo. Imperocchè a quei tempi i sacrifici umani, sebbene non frequenti, erano tuttora ancora in uso, e dedicati per lo più a Mitra.
Se questa grotta potesse aprire la bocca, se questi scogli volessero parlare, potrebbero narrare orrendi fatti della antichità. La tradizione accenna questa selvaggia riva, quale sito prediletto di Tiberio, quale teatro delle immani sue crudeltà. È la località più diabolica dell’isola. Procedendo sulla spiaggia verso mezzogiorno si arriva ad un punto denominato salto di Tiberio. La riva cade ivi a picco in mare, dall’altezza di più di ottocento piedi. Narra la tradizione, che da questo punto il mostro precipitasse le sue vittime in mare, e non havvi dubbio fosse questa la località riguardata fin dai tempi di Suetonio quale la più notevole dell’isola, imperocchè la memoria di fatti così abbominevoli non può venir meno. Narra Suetonio: «Si fa vedere in Capri il punto dove spiegava tutta la sua crudeltà, facendo precipitare in mare alla sua presenza, le sue vittime, dopo di averle a lungo martoriate con ogni maniera di tormenti. Cadevano in mezzo ad una squadra di marinai, i quali le percuotevano barbaramente con bastoni, e con i remi, in fino a tanto fosse spento in esso ogni soffio di vita.» Doveva essere per dir vero un piacere diabolico quello di lanciare disgraziate creature da quella altezza, vederle balzare di scoglio in scoglio, ed udire il tonfo dei loro corpi in mare.
A pochi passi dal salto crudele, sorge ora una casetta sulle cui porta sta scritto Restaurant. Nella stanza trovasi ad ogni ora apparecchiata una tavola con frutta, pane, ed un fiasco di lacrime di Tiberio. L’albergatore ha fatto costrurre al margine del salto un piccolo muro, e vi offre di ristorarvi sul teatro stesso di quegli orrori, se così vi garba.
Si passa da questa casa per arrivare all’antico faro di Capri, il quale non dista che un trenta passi dal salto. Trovasi in gran parte rovinato, ed i neri suoi avanzi, vennero alcuni anni sono colpiti dal fulmine. I materiali ne giacciono all’intorno, dispersi fra le vigne. Stanno tuttora in piedi reliquie di muri, di volte, le quali bastano a far comprendere che il faro era un edificio ampio, e ragguardevole. Poteva competere col faro di Alessandria, e colle torri di Ravenna, e di Pozzuoli. Il poeta Stazio, in un verso lo paragona alla luna, splendore delle notti. Suetonio narra che quella torre rovinò atterrata da un terremoto, pochi giorni prima della morte di Tiberio, ma convien dire sia stato ricostrutta dopo quel fatto, che altrimenti, Stazio non ne avrebbe potuto far parola. Attualmente la sua altezza non supera i sessanta piedi. Nel 1804 Hadrava fece praticare scavi al piedi della torre; vi rinvenne avanzi di un piano sotterraneo, alcuni marmi ed anche un basso rilievo, il quale rappresentava Lucilla e Crispina, in atto di pregare.
Dal faro salendo ancora pochi passi, si arriva alla rinomata villa di Giove, la quale secondo Suetonio era propriamente l’abitazione ordinaria di Tiberio, ed anzi dice espressamente che il tiranno dopo l’esecuzione di Sejano vi si tenne rinchiuso per ben nove mesi, per il timore di una congiura. È fuor di dubbio che le rovine che si scorgono al capo della spiaggia a settentrione levante dell’isola, appartengono a quella villa. Lo confermano, sia la tradizione la quale addita per la località più importante dell’isola, sia l’estenzione del palazzo, le cui rovine sono le più raguardevoli di tutta Capri, sia la natura delle costruzioni, le quali appartengono all’epoca migliore della architettura romana. Uno può aggirarsi colà in un vero labirinto di volte, di gallerie sotterranee, di numerose stanze, le quali furono in buona parte ridotte ad uso di cantine, e di stalle per il bestiame. Giacciono qua e la dispersi sul suolo capitelli, piedistalli, fusti di colonne, frammenti di marmo; alcune stanze presentano tuttora avanzi di stucco, ed in qualche punto si scorgono tuttora traccie di pitture in colore giallo, o rosso cupo, simili a quelle di Pompei. Sul suolo si vedono tuttora frammenti di pavimenti a mosaico, di marmo bianco inquadrati da una fascia nera, come pure sono tuttora visibilissime le scale, le quali portavano ai piani superiori.
Pare che la villa avesse parecchi piani, l’inferiore è tuttora sepolto sotto il suolo. Nel piano superiore si può tuttora riconoscere la distribuzione delle stanze, e dal lato verso il mare, la pianta di un semicircolo probabilmente di un teatro. In altro punto, nicchie, e mura circolari, accennano ad un tempio. Questa villa riuniva in sè tutto quanto apparteneva allo splendore della vita principesca, ed essendo stata così a lungo la sede della corte imperiale, doveva, prima che Nerone ed Adriano innalzassero i loro sontuosi palagi, sopravvanzare in bellezza tutta le altre ville di Roma. Doveva pure contribuire a farla tale la bellezza incomparabile della posizione sul mare, colla vista de’ due golfi. Da questo punto Tiberio dominava l’isola tutta quanta quasi un avvoltoio; vedeva pure le navi che traversavano il golfo, provenienti dalle Eladi, dall’Asia, dall’Africa, o che giungevano da Roma. Più bello però doveva essere la vista dal mare, veleggiando fra Capri ed il Capo di Minerva, contemplando nell’isola i palazzi marmorei, il faro, ed i tempi, imperocchè in cima di ogni vetta Tiberio aveva innalzata una torre od un tempio, fra quali, quelli rinomati di Minerva, delle Sirene, e di Eracleo.
Stetti lunghe ore seduto sulle rovine, cercando rappresentarmi l’antica Capri; e doveva pure essere questa stupenda, con ogni sua sommità, coronata da un tempio, con i suoi portici, teatri, ville, e strade popolate di tutto quel mondo romano, dalla corte di Cesare, da senatori, da legati di tutte le parti del mondo, dalle più belle donne dell’Ionia, dalle Etari seducenti dall’Asia, da squadre scapigliate di baccanti, da ninfe, da dee, da tutto un popolo di figure mitologiche. Imperocchè qui regnava Bacco, e la sua corte erano baccanti e satiri. Il lungo soggiorno di Tiberio a Capri non fu che una satira dell’uman genere, e probabilmente la più terribile che abbia mai avuto lungo.
La si può indovinare contemplando i tratti del principale attore. Esistono a Napoli bei busti, figure colossali di Tiberio; il migliore suo ritratto però, trovasi nel museo Vaticano a Roma. Osservai che quelli di Napoli lo rappresentano tutti inoltrato già negli anni; quello di Roma per contro tuttora giovane, probabilmente perchè la maggior parte dei busti degl’imperatori dissoterrati ad Ercolano ed a Pompei appartengono all’epoca del suo soggiorno in Capri. Nella galleria Chiaromonti del museo Vaticano, esiste la sua figura colossale scoperta a Veia; lo rappresenta giovane, divinizzato, ma però co’ suoi lineamenti reali. La sua testa è intelligente, ben formata, la bocca bella, e di una finezza indicibile; tutti i suoi lineamenti giovanili, hanno qualcosa di Dionisiaco, ed anche le forme del corpo sono piene, volottuose, in certa guisa femminili. Questo mostro morale, era al pari di Cesare Borgia, l’uomo più bello de’ suoi tempi; e fra tutti gl’imperatori romani, Augusto solo fu di bellezza più classica. Non è possibile dimenticare la figura di Tiberio, quando la si è vista una volta; ognuno aspettavasi trovare la figura orribile di una specie di demonio, ed invece si rimase sorpreso della bellezza de’ suoi lineamenti quasi femminili, che gli danno piuttosto l’aspetto di un Sardanapalo. Soltanto cogli anni la bocca acquista un’espressione di sarcasmo, d’ironia, e tutta la fisonomia di qualcosa di duro, di crudele, e ad un tempo di volgare. Tale lo si ravvisa nella testa colossale di Napoli, e nel suo busto in Campidoglio. Quando però si voglia avere una rappresentazione plastica di una scelleratezza veramente bestiale, fa duopo contemplare la testa diabolica di Caracalla, la quale è la rappresentazione la più perfetta di un carattere diabolico, a cui sia potuta giungere la scoltura.
Ritengo che quell’uomo scellerato, fu propriamente tale quale la storia lo ha descritto. Desso fu il solo monarca dopo Augusto, il quale abbia regnato tuttora colle forme republicane. Ebbe in retaggio un popolo diventato spregevole. Proclive alla scelleraggine, trovò un mondo pessimo, e vi si abbandonò interamente. Caligola vaneggiava di essere padrone del mondo, e non durò che pochi anni. E non fu meraviglia; il caso lo atterrò un giorno con tutti i suoi godimenti, i quali non furono che pazzie; desso avrebbe voluto sorbirsi il mondo, come si sorbe un uovo. Dopo la guerra civile, e dopo Augusto regnò un silenzio spaventevole nella storia del mondo; fu l’epoca la più cupa dell’umanità, la quale corruppe irremissibilmente il mondo antico. Augusto fu grande e felice perchè aveva dovuto acquistare la sua signoria; suoi successori furono miseri per non avere più nulla a conquistare. Venuti tutto ad un tratto in possesso di una dominazione stabilita da lungo, non sapevano qual impiego fare delle loro giornate, imperocchè anche i piaceri diventano insopportabili quando non li interrompa il lavoro e non diano loro pregio di quando in quando le privazioni. Caligola nella sua pazzia volle gettare un ponte sul mare; Claudio fu un pedante; Nerone incendiò Roma, e mentre questa era in fiamme suonava la cetra, faceva versi, e voleva essere ritenuto abile quale guidatore di cocchi e comediante. In quel periodo di sonnolenza generale del genere umano, noi troviamo l’uno dopo l’altro Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone, demoni e scellerati perchè la storia taceva. Senza esempi la natura sarebbe diabolica, e produsse allora quei mostri l’uno dopo l’altro, quasi per caso fortuito.
Sarebbe però fare ingiustizia al carattere di Tiberio, qualora lo si confondesse con i suoi successori. Questi furono puri e meri scellerati volgari, i quali avevano cacciata via ogni maschera, e che mettevano a nudo senz’ombra di vergogna la loro natura bestiale. Tiberio, superiore per ingegno alla sua epoca, fu uomo fino, diplomatico, della scuola dell’ipocrita Augusto. Tutta la sua fisonomia rivela la finezza, la dissimulazione, particolarmente il taglio della sua bocca gesuitica, e forse la natura non ha prodotto bocca più perfetta di diplomatico. Si direbbe che pronuncia la sentenza di Talleyrand, essere stata data la parola all’uomo per nascondere i suoi pensieri, e sappiamo da Tacito quanta fosse l’arte di Tiberio nel parlare. Desso si può dire l’inventore della grammatica, e della logica della diplomazia. Desso non prometteva, non giurava, non mentiva, imperocchè era una menzogna continua. Quanto non compaiono grossolani a fronte di questo despota finissimo, signore classico della storia nuova, quegli avventurieri venuti in possesso di un trono, quei re i quali rompono pubblicamente i loro giuramenti. Tiberio li avrebbe cacciati con un sorriso di disprezzo fra suoi liberti. Quest’uomo non lasciò mai presentire una volta sola che cosa volesse fare; il contrario era pure sempre possibile. Desso non governò punto col mezzo ruvido dei colpi di stato, padroneggiò sempre gli avvenimenti. Non lasciò mai trapelare nè la sua volontà, nè i suoi disegni. Basti ricordare il suo capo d’opera di governo, la caduta di Seiano.
Il proscritto dell’isola d’Elba, prese una volta a difendere calorosamente il carattere di Tiberio contro le accuse di Tacito, e della storia. Dopo di avere ridotta la diplomazia di Augusto a sistema del gesuitismo il più raffinato; Tiberio, compita la sua opera, e sazio della vita, si ritirò in quest’isola, per distrarvisi con i piaceri materiali. Non lasciò venir meno il terrore, che aveva eretto a principio di governo. Provò i piaceri di ogni sorta, ma l’umana natura è costituita per modo, che non può godere in una volta che poca parte di piaceri. Ce lo insegnano questo scoglio di Capri, e questa villa di Giove, nella quale erasi ritirato il signore del mondo, e che non considerava questi altrimenti che una specie di esilio. Fa orrore il pensare alle scene di cui furono testimoni queste mura, agli accessi di rabbia di un animo il quale non conosceva più freno di sorta. In queste mura le quali risuonavano un dì delle armonie dei flauti della Lidia, dei sorrisi delle più belle donne, mugghiano ora le mandre di poveri contadini; a tanto vennero ridotte le sale di Tiberio; l’edera, i fichi moreschi, le malve, le rose, le cinerarie, il melagrano, riempiono oggidì della loro vegetazione lussureggiante queste stanze rovinate; vi pendono i festoni delle viti, discendenti dell’antico Bacco di Capri, quasi fossero gli spirti di quelle Etari che quivi praticavano un tempo, alla presenza di Tiberio, le loro danze oscene.
Sorge attualmente fra le rovine, sul punto più elevato della villa, una cappella dedicata a S. Maria del Soccorso. Vi abita un eremita. Nessuna località al mondo è più adatta a fare penitenza, che queste rovine della villa di Tiberio, sotto il cui regno, e durante il suo soggiorno in Capri, venne Cristo posto in croce. La cappella sorge ivi, come il Cristianesimo stesso, sulle rovine del mondo Pagano, che venne ad emancipare. Questa coincidenza è singolare, e pochi siti io credo possono rinvenirsi adatti del pari alla meditazione. Imperocchè qui si presentano contemporaneamente alla imaginazione due figure coeve e rappresentanti di due periodi della storia dell’uman genere; ad occidente il demone canuto Tiberio, signore della terra rappresentante del mondo pagano che sta per scomparire, ed imagine ad un tempo, di tutti i mali di questo; ad oriente la figura giovanile dell’uomo Dio, di Cristo appeso alla croce, ma circondato dai profeti ispirati, di una rigenerazione novella dell’umanità. Queste due figure sorgono l’una di fronte all’altra come Arimano ed Orzmud, il Dio della luce, e quello delle tenebre.
Come si potrebbe qui non ricordare pure la figura di Giovanni di Patmos, inondata di luce, accanto alla quale l’acquila di Giove compare tuttora, quale un simbolo pagano?
Seduto sopra quelle rovine, immerso in quei pensieri nella meditazione del Cristianesimo primitivo, mi vidi tutto ad un tratto il rappresentante storico di quella religione ideale, nella persona dell’eremita, sudicio frate francescano, e poco mancò non mi ritraessi spaventato; era un vecchio monaco, con lunga barba bianca, vestito di una tonaca nera, zoppo, brullo, con due occhi da falco. Parvemi sorgessero davanti a me Tiberio o Mefistofele, i quali mi dicessero con sorriso beffardo «Redivivo! Soltanto mutato di aspetto.» Tale si è la storia del Cristianesimo.
Il vecchio frate mi condusse zoppicando nella sua cella. Diedi uno sguardo a’ suoi libri, e sur uno di quesi lessi il titolo seguente: «Leggendario delle sante vergini, le quali vollero morire per Nostro Signore Gesù Cristo.» Anche l’eremita Tiberio qui leggeva libri che parlavano di vergini; se non che non erano di quelle le quali volevano morire per il suo contemporaneo, ma bensì i libri della etara greca Elefanti, i quali insegnavano la scienza del piacere, ed erano allora di moda in Roma. Suetonio narra che Tiberio teneva quegli scritti nella sua stanza a Capri. Del resto trovai pure oggetto lascivo presso l’attuale eremita. Mi fece vedere la copia di un basso rilievo esistente nel museo di Napoli. Rappresenta un uomo vecchio affatto nudo a cavallo; siede in sella davanti a lui una ragazza, parimenti nuda, con una fiaccola in mano, ed un giovanetto, nudo desso pure, guida il cavallo verso la statua di un Dio. La rassomiglianza del vecchio con Tiberio è così sorprendente, che porta a credere rappresenti quel basso rilievo una scena notturna della sua vita di Capri, forse un sacrificio a Priapo; se non che la catena che il vecchio porta al collo, è quella stessa dei gladiatori combattenti e degli altri condannati, e punto non si addice all’imperatore Tiberio. L’eremita aveva copiato il basso rilievo ad acquarello con somma diligenza, e con vera intelligenza del nudo, ed apparteneva quello incerto modo alla sua abitazione imperocchè era stato scoperto fra le rovine della villa. Due volte furono praticati scavi in questa, sebbene in modo incompleto; la prima da Hadrava nel 1804, la seconda da Feola nel 1827. Vi si trovarono bei pavimenti di marmo, uno dei quali venne adatto davanti all’altare maggiore nella cattedrale di Capri, parecchie belle statue, fra le quali una piccola in lapis lazzuli, la quale venne acquistata da un Inglese; vari busti i quali andarono dispersi, e mosaici che si trovano attualmente nel museo di Napoli.
Nessun imperatore al mondo può vantare una villa, dalla quale goda vista uguale a quella di cui gode quell’eremita nella sua cella. Dalla sua finestra desso vede i due golfi di Napoli e di Salerno, le più belle coste ed isole d'Italia. Non havvi punto di vista più bello del vicino Capo Minerva, al di là del quale scorgonsi i monti di S. Angelo, le spiaggie di Salerno e di Amalfi, le quali a foggia di una grandiosa scena di teatro, si stendono in semicerchio fino a Pesto. L'aria era limpidissima, e vidi distintamente Pesto, Castel Baro, e la lontana punta di Licosa. Al cadere del sole tutti quei monti, il mare, si rivestono dei color dell'Iride, ed uno si sorprende a dubitare se quanto scorge sia la realtà, o non piuttosto una fantasmagoria.
V.
Una sera, mentre stava seduto sulle rovine della villa contemplando quella vista magica, il mio sguardo cadde sulla testa di un bianco argenteo di un serpe, il quale aveva mutato pelle di recente, e che stava a miei piedi. Lo considerai quale un felice presagio, riferendosi a qualche mia memoria di giorni trascorsi. Ricordai che Tiberio pure aveva un serpe favorito, a cui porgeva il cibo di sua mano, e col quale soleva scherzare. Scesi dal monte portando meco la mia scoperta, ed incontrai Mefistofele il quale saliva a cavallo di un asinello. Feci vedere al frate il mio piccolo serpe, ed imparai in quella occasione, che quell'uomo strano era un grande incantatore di serpenti, imperocchè mi narrò che prendeva e maneggiava a sua volontà qualunque specie di serpenti vivi. Gli domandai in qual modo ciò facesse. «Li prendo, mi rispose, dopo avere loro comandato di stare tranquilli; dessi si attortigliano tosto al mio braccio, ed allora li chiudo in un vaso, e li mando a Napoli ai farmacisti. — Ma come mai potete voi comandare loro di stare tranquilli?» Mi rispose con un sorriso diabolico. «Loro dico una parola, ed il nome di S. Paolo, ed allora non muovono più! — Non potreste insegnarmi quella parola, gli dissi, affinchè potessi io pure a mia volta comandare ai serpenti? — Mai no, mi rispose, io l'ho appresa da un altro eremita, ed ho giurato solennemente di non rivelarla a chicchessia.»
Allorquando gli domandai il perchè aggiungesse alla parola il nome di S. Paolo, mi rispose che S. Paolo era il patrono dei serpenti, e che tutti quanti gli animali avevano il loro patrono. Gli domandai allora quali fossero i patroni di alcuni animali. S. Gertrude lo è delle lucertole ed ebbi piacere saperlo, perchè amo le lucertole; hanno un non so che di grazioso e di amabile, sibilano pure in una maniera originale. S. Antonio è patrono dei pesci, S. Agata dei leoni, e S. Agnese degli agnelli.
Non mi ero punto ingannato pertanto, nel ritenete a primo aspetto quel frate per una specie di negromante, e chi sa che non pratichi ancora altre arti occulte, di notte tempo al lume della luna, fra mezzo alle rovine, con erbe, radici, ed animali velenosi.
Intanto ho dimenticato finora di accennare, che nell’isola havvi ancora un’altra piccola città, Ana-Capri, e la cosa non è strana imperocchè vivendo in Capri inferiore nè la si vede nè se ne sente parlare, tanto trovasi per posizione solitaria ed appartata. Si vedono bensì i molti gradini tagliati nello scoglio che portano a quella, e che per la loro ripidezza punto non invitano a salire; e non sarebbe per certo agevole cosa trovare altrove questa singolarità di due città poste in una stessa piccola isola, alla distanza di poco più di un quarto d’ora, se giacessero in pianura; le quali siano cotanto estranee l’una all’altra, i cui abitanti abbiano così scarse relazioni, non prendano parte gli uni alle feste degli altri, e che parlino perfino un dialetto diverso.
Secondo la tradizione Ana-Capri ripete la sua origine dall’amore. Nei tempi antichi, una amorosa coppia fuggì dalla città inferiore, si arrampicò su per gli scogli, e si costrusse una capanna fra mezzo ai cespugli, alla base del monte Solaro. Altri innamorati col tempo li seguirono, e ne nacque quella colonia d’amore, la quale oggi porta il nome di Ana-Capri. Ed ancora oggidi, amore alato vola come un falco di montagna su e giù da Capri ad Ana-Capri, e dà le sue ali in prestito al giovanetto della città inferiore, il quale ama una di quelle belle e ritrose ragazze, che lassù nella sua casetta, circondata da tralci di viti, siedono al telaio, tessendo nastri, e cantando canzoni d’amore come Circe nell’Odissea.
Trovasi Ana-Capri talmente disgiunta da tutto il rimanente dell’isola, che non havvi altra strada di sorta per accedervi, all’infuori dei cinquecento sessanta gradini di quella eterna scala di Giacobbe. lmperocchè gli scogli scendono a picco, verticali quasi un muro sulla città inferiore portando alla loro sommità simile al tetto di una basilica, il monte Solaro, ai piedi del quale stanno Ana-Capri e la sua segregata popolazione, quasi popolazione di eremiti. La scala aperta nel vivo della rupe, sale in ripidissimo zig-zag nella parete quasi verticale, finchè arriva all’altipiano. Si attribuisce quest’opera singolare ai tempi antichissimi allorquando i Fenici ed i Greci costrussero la città superiore, le quale unicamente per questa via poteva essere messa in comunicazione colla città inferiore. Si scorgono ancora le traccie di più antica salita. A metà dell’attuale sta una piccola cappella di forma bizzarra, dedicata a S. Antonio, dove uno può fermarsi a prendere fiato; quindi si sale di bel nuovo, e si arriva non senza essere spossato di forza alla sommità. Se non chè, giunti al piano, denominato Capo di Monte, si trova ampia ricompensa della fatica sostenuta nella vista di quell’altura coltivata, che ricorda gli orti pensili di Semiramide, della parte sottoposta dell’isola e della immensità del mare. Su quella pianura s’innalza ancora d’alcune centinaia di piedi il monte Solaro bruno d’apetto e selvaggio, il quale presenta in cima d’uno dei suoi picchi le belle rovine del castello di Barbarossa, il quale ripete il suo nome dal famoso corsaro che sorprese un giorno Capri.
Fatti appena alcuni passi sul piano, si apre davanti agli occhi una novella vista. Non si scorge più Capri al basso, e si entra in una solitudine di bellezza inarrivabile. Sorge di fronte il monte Solaro, che ha l’identica forma del monte Pellegrino di Palermo; desso è nudo, incolto, nero cosparso di massi staccati. Verso ponente e settentrione, scende alla pianura più ampia di tutta l’isola, e su quelle ripida pendice, ad altezza notevole sopra il mare, fra la piante verdeggianti ed i cespugli giace Ana-Capri. La piccola città può dirsi un complesso di romitaggi, imperocchè le case piccoline, di costruzione originale, sorgono sparse in mezzo ai giardini, la cui vegetazione è più rigogliosa di quella di Capri, particolarmente per gli olivi e per le vigne, le quali pendono in festoni dagli alberi, alla foggia delle pianure della Campania. Nel contemplare questa pittorica cittaduzza, questa profonda solitudine, non che la vista del mare ceruleo, nasce il desiderio di deporre il bastone di pellegrino, di dare un addio al mondo, e di costrurvi ivi una cella.
La tranquillità vi è maggiore ancora che in Capri, non vi si scorgono che uomini che stanno seduti, sulla porta delle loro case cantando, davanti al telaio od all’arcolaio, da cui dipannano la seta colore d’oro, ovvero intenti nei giardini a vangare od a raccogliere la foglia dei gelsi per i bachi, o che vengono dalla fonte colla loro brocca d’acqua sui capo. Siccome per essere la state tutti gli uomini stanno alla campagna, e molti giovani sono partiti per la pesca del corallo, non si vedono nella città quasi che donne; e si direbbe essere in Lemno, dove le donne sole sedute sulle loro rupi, lavorano indefessamente davanti ai loro telai.
Nei giorni e nelle ore in cui sogliono arrivare da Napoli le barche, trovai soventi volte sedute sulla lunga gradinata più di trenta giovani, alcune delle quali di rara bellezza. Stavano cinguettando fra loro, ed aspettando comparissero le vele per andare alla spiaggia. Sedeva fra mezzo a desse, aspettando con non minore desiderio la barca, per vedere se non mi recasse una qualche lettera in quella profonda solitndine. Tutte quelle giovani quasi, avevano in mano un mazzo di fiori, od un ramo di maggiorana, per domandare qualcosa coll’offrirlo. Antonietta poi aveva uno stupendo mazzo di garofani, di rose, di maggioranna, e di mirto legato con un bel nastro. Questo mazzo fu l’intermediario della nostra amicizia, e mi introdusse in una delle più linde e graziose casette di Ana-Capri, dove passai molte ore geniali con quelle ingenue creature. Antonietta tesseva in giardino sotto un pergolato fra le viti ed i leandri, ed era lesta e disinvolta tessitrice quanto Aracne; sua sorella maggiore non tesseva che nastri di un colore solo, ma dessa di moltiplici, ed istoriati. Dessa non suonava lo scacciapensieri ma era abilissima nel battere il tamburino. I fratelli delle due giovani erano in mare. L’attività di quelle donne, le quali attendono inoltre a tutte le cure di casa, è sorprendente, imperocchè fin dal levare del sole seggono al loro telaio, e vi stanno, salve poche interruzioni, fino a sera, e ciò durante tutto l’anno. Per vero dire non sono condannate a quei duri e pesanti lavori delle loro sorelle di Capri, ad eccezione di quando viene a mancare l’acqua nelle cisterne, che in allora loro tocca scendere a cercarla a Capri, dove sono quattro poveri fonti, e recarla nelle brocche, su per la lunga gradinata. Portano quasi tutte un qualche gioiello in oro o di corallo, e spilloni d’argento nelle trecce, ed infelice, si ritirebbe quella fanciulla, la quale non fosse in grado procurarsi cotali ornamenti.
La città possiede un bel camposanto, piantato di cipressi e popolato di fiori, se non che il più grande orgoglio lo ripongono gli Ana-Capresi nel cosidetto paradiso terrestre, vale a dire nel pavimento della loro chiesa, sui quadrelli della quale è rappresentato in ismalto il paradiso, opera di buon disegno del Chiaese, la quale risale al secolo XVII. Anche in Ana-Capri l’architettura di genere moresco è bizzarra ed originale, e vi sono masserie col loro pergolato le quali fanno bellissima vista. Sono poche in Ana-Capri le rovine di Tiberio, i coltivatori di vigne le hanno quasi tutte distrutte; del resto gli edifici romani erano qui in minor numero che a Capri. I ruderi romani di maggiore momento si rinvengono nella pianura di Damocuta, regione fertile, la quale scende dolcemente al mare, e nella cui riva trovasi la grotta azzurra. La è cosa singolare che il Capri superiore, ad onta della sua altezza possiede coste più basse che il Capri inferiore, imperocchè la montagna digrada dolcemente in mare, quantunque la spiaggia non sia accessibile nè alle barche nè alle persone, e si trovi senza sabbie, senza porto, ed irta, di scogli.
La torre di Damecuta indica ad un dipresso il punto dove sotto alla spiaggia trovasi la rinomata grotta azzurra, meraviglia di Capri, ma non però la sola che si rinvenga in questa isola delle sirene. Il mio albergatore Don Michele mi narrò quando, e come venne fatta la scoperta, alla quale prese parte essendo desso ragazzo. Suo padre Giuseppe ora defunto, Augusto Kopisch, il pittore Fries, ed il barcajuolo Angelo Ferraro, furono i primi i quali si arrischiarono a penetrare nella grotta. Ora sono morti tutti quanti, e Don Michele solo può ancora narrare la scoperta. Un suo zio sacerdote ammonì la compagnia di non volere tentare l’impresa, asserendo che la grotta era stanza di spiriti maligni, e sede di mostri marini, ed era pur anche malagevole la cosa, perchè a quell’epoca non esisteva in Capri veruna barca. Angelo pertanto si valse di una tinozza, mentre Kopisch e Fries si posero a nuoto. Il mio albergatore mi descrisse con vivacità la gioia dei due pittori, quando riuscirono a penetrare nella grotta, e mi disse che Fries particolarmente pareva fuori di sè, e che entrava ed usciva nuotando, e gettando continue grida per l’allegria. Augusto non ebbe riposo, finchè partì per Napoli onde far parte ai suoi amici della scoperta. Pagano conserva un vecchio registro dei forastieri quale una vera reliquia, ed in questo Kopisch ha fatta menzione sotto la data del 17 agosto 1826 nei termini seguenti della scoperta.
«Raccomando agli amanti delle curiosità naturali la scoperta che abbiamo fatta col nostro albergatore Giuseppe Pagano, e col signor Fries della grotta nella quale da secoli nessuno si arrischiava a penetrare, per timori superstiziosi. Finora non è guari accessibile che ai buoni nuotatori; quando il mare è pienamente tranquillo vi si potrebbe pure entrare con una piccola barchetta, però la cosa sarebbe sommamente pericolosa, imperocchè il più leggiero soffio d’aria basterebbe ad impedire l’uscita. Abbiamo dato nome a questa grotta di azzurra, imperocchè le acque del mare, sotto l’azione della luce vi assumono il più bel colore ceruleo. Recherà stupore il trovare che ogni onda del mare porge l’aspetto quasi di una fiamma azzurrina, in fondo trovasi un antico sentiero fra gli scogli, il quale porta probabilmente alla pianura superiore di Damecuta, dove secondo la tradizione di Tiberio manteneva una ragazza; ed è possibile che questa grotta sia stata un tempo, punto segreto di approdo. Finora un marinaio soltanto ed un conduttore di somari furono dotati di bastante coraggio di accompagnarmi nella grotta, sul conto della quale si spacciano le favole le più assurde. Consiglio però ad ognuno di concertarsi preventivamente seco loro circa il prezzo. L’albergatore che raccomando a tutti per la sua conoscenza dell’isola, ha in animo di far costrurre una piccola barchetta per agevolare l’accesso alla grotta. Finchè si abbia questa, non lo consiglierei che ai buoni nuotatori. Le ore migliori per visitare la grotta sono quelle del mattino; nel pomeriggio la soverchia luce che scende perpendicolare, menoma l’effetto magico. L’impressione pittorica sarà maggiore ancora, se si entrerà nella grotta nuotando con una torcia a vento accesa nella mano, siccome abbiamo fatto noi.»
Tali sono le parole di Kopisch. Il dabben uomo assicurò con questa scoperta la sua memoria nell’isola, e la meravigliosa grotta mi parve in certo modo proprietà tedesca, e simbolo tedesco. Non rimane la memoria soltanto di Kopisch nell’isola; vi si ricordano pure Tieck, Novalis, Fouquè, Arnim, Brentano, i quali tutti più non sono; come parimenti l’eccellente Eichendorff, ed Heine; l’ultimo scomparso di quella scuola poetica floridissima. Mandiamo pertanto, dalle onde azzurre di questa grotta un saluto alla loro memoria, imperocchè tutti l’hanno vagheggiata, ed era degna dessa realmente di essere scoperta da un pittore e da un poeta, ai tempi di coloro i quali cercavano il fiore della poesia nelle acque colle Ondine, nei monti con Venere, e nelle grotte sotterranee d’Iside. Dessi furono tutti graziosi ed amabili, giovani e vecchi, col loro corno magico. Il loro gran sacerdote Novalis compare quasi un bel giovanotto pallido, il quale abbia rivestita la lunga tonaca del defunto suo nonno, e che stia ragionando di una saviezza mistica, che nessuno sa dove il giovanetto abbia potuto imparare. La loro musa è una sirena. Dessa abita la bella grotta azzurra di Capri, dell’isola del crudele e lascivo Tiberio. Tutti udirono il di lei canto, ma nessuno la potè scoprire, e tutti la cercarono, e morirono per il desiderio di quel fiore azzurro misterioso. Goethe loro lo profetava nel suo pescatore «Ora lo chiamava a sè, ora si tuffava nelle onde, e non si lasciava vedere.» Ed ora che il misterioso fiore azzurro, vale a dire la meravigliosa grotta azzurra, il mistero ignorato venne scoperto, il prestigio è scomparso; ed il canto dei romantici avrà cessato di risuonare nelle regioni germaniche.
Nell’entrare nella grotta mi sovvennero tutte le storie delle fate, ascoltate con avidità da bambino. Il mondo ed il giorno sono scomparsi, uno si trova tutto ad un tratto in un elemento nuovo, di luce cerulea. Le onde si muovano appena, e scintillano con tutta la varietà di colori, con tutto lo splendore delle pietre preziose. Le pareti sono rivestite tutte di una misteriosa tinta azzurra, quasi fossero di un palazzo delle fate. Tutto colà è nuovo, strano, misterioso. Il silenzio vi è così profondo, che nessuno osa aprir bocca. Si prova a dire qualche parola, ma si tace tosto di bel nuovo, e non si ode più che il tonfo del remo della barchetta, ed il frangersi delle onde, contro le pareti delle quali si sprigionano sprazzi di luce fosforescente. Quell’acqua cerulea esercita un fascino magico. Sorge il desiderio di tuffarvisi per entro, d’immergersi quasi in un bagno di luce. Per me ritengo che qui si doveva bagnare Tiberio, e nuotare colle belle ragazze del suo serraglio, giusta quanto narra Suetonio. In queste onde fosforescenti, tutti quei corpi giovanili dovevano splendere di luce magica; qui non dovevano far difetto nè il canto delle sirene, nè l’armonia dei flauti, per fare di quel bagno il complesso il più voluttoso. Vidi dipinta sopra un vaso greco una sirena, la quale solleva due bianche braccia, sorride e batte l’uno contro l’altro due cimbali argentei. Tali devono essere le sirene di questa magica grotta, se non che soli le scorgono gli uomini prediletti dalla fortuna, ed i bambini.
L’abbondanza di grotte, di caverne, in quest’isola è straordinaria. Vi sono grotte marine, caverne sotto terra tutte belle, di forme le più bizzarre, ed in tanto numero, che non è possibile visitarle tutte. Sono entrato in più di quindici di esse, ed ho trovato sulla riva a mezzogiorno una piccola grotta con effetto di luce simile a quello della grotta azzurra. In altre invece, si rinviene una luce verdognola, e particolarmente in quella detta appunto la grotta verde, la quale per la vastità, e per le forme grandiose della sua architettura, è fuor di dubbio la più notevole dell’isola. Non è questa interamente sotterranea, e vi si può entrare ed uscire da due grandi aperture. Alcune di queste grotte hanno un nome, come la Marmolata, la Marinella, altre invece non ne hanno punto. Mi procurai la soddisfazione di battezzare tutte quelle che ho visitate, le quali non avevano nome, senza pretendere però punto alla fama di uno scopritore di caverne. So unicamente essere grandemente bella la grotta Stella di mare, essere popolata di numerose piante marine la grotta Euforio, ed essere variopinte dei più vivaci colori le pareti della grotta dei Ragni di mare. Trovai una grotta dove le onde erano di continuo agitate, e la dedicai alle Eumenidi. Trovansi quasi tutte dalla riva del Solaro ai Faraglioni; poco visibili però al di fuori, imperocchè la loro apertura sfugge ad un osservatore superficiale, ed all’interno sono alte, oscure, popolate da ragni, da uccelli, da ogni specie di animali marini.
Una bella passeggiata in mare, si è quella del giro di tutta quanta l’isola. Vi s’impegnano all’incirca tre ore, e si ha tempo di visitare ancora alcune grotte. La costa a ponente non offre di queste cavità, imperocchè ivi le pendici del Solaro digradano dolcemente in mare, fra i due capi denominati Punta di Vitareto, e Punta di Carena. Si avanzano colà in mare tre promontori, bassi ma ripidi, che hanno nome Campitello, Pino, ed Orica, e che sono muniti di alcune fortificazioni. Si fu in quella località che i soldati di Murat sorpresero di notte tempo l’isola, arrampicandosi su per gli scogli. Procedendo oltre la Carena, la sponda meridionale si presenta tutto ad un tratto altissima, e tagliata a picco, le rupi sono gigantesche, seivaggie, si specchiano in mare, e si innalzano verso il cielo. La riva presenta lo stesso aspetto sino alla punta di Tragara, e non è meno gigantesca e bizzarra tutta la costa a levante; fino al promontorio di Lo Capo a settentrione levante dell’isola, dove abbondano le grotte ricche di stalattiti.
Ci rimane a parlare della vetta più elevata dell’isola, del monte Solaro. Partendo da Ana-Capri, e salendo con istento per un malagevole sentiero, si arriva sul dorso del monte. La sua forma il suo aspetto sono strani, imperocchè alla sommità la montagna presenta una pianura arida, nericcia, quasi a foggia di terrazzo, sulle rupi che scendono sopra Capri. Si cammina colà in un labirinto di macigni calcari, facendo sorgere ad ogni passo sciami di locuste nere, le quali innumerevoli ricoprono tutto il suolo. All’orlo di questa pianura, sopra una rupe severissima che piomba in mare, sorge la cella dell’eremita di Ana-Capri; e non ho visto mai romitaggio, il quale fosse maggiormente degno di quel nome. Per entrare nella cella è d’uopo attraversare una antica cappella. Trovai tutte le porte aperte, e l’eremita assente; la sua tonaca era gettata sul muricciolo del giardino, e sopra il suo letto stavano appesi un’imagine di S. Antonio di Padova, un ramoscello di olivo, ed il suo rosario; nella sua stanza delle derrate una Madonna Addolorata era appesa propriamente sopra un mucchio di cipolle, e vi si vedevano una cesta piena di pane, e due piatti vuoti.
Vidi nel Campo Santo di Pisa quella pittura a fresco originalissima di Ambrogio e di Pier Lorenzetti, la quale rappresenta la vita degli anacoreti nel deserto, e posso dire di averla veduta qui riprodotta al vero. Credo che il vecchio romito di Capri farà qui ogni venerdì la predica ai pesci, come si può vedere in una pittura in Roma, S. Antonio seduto sur uno scoglio, che sta predicando verso il mare, che brulica di pesci colla testa fuori dell’acqua a bocca aperta. Mentre stava girando attorno alla casetta comparve il vecchio frate laico, con un fardelletto di legna sulle spalle. Tutto lieto di trovare un ospite, dimostrò il suo dispiacere di non avere vino ad offerirmi. Desso abita da ben trentadue anni su quell’altura, zoppicando desso pure nello arrampicarvisi, ma non ha punto l’aspetto mefistofelico dell’eremita zoppo della villa di Tiberio, anzi possiede quell’aria ingenua di bontà, propria dei santi e delle statue degli Dei indiani. Sorge sopra la sua casetta la vetta del Solaro, punto più eminente dell’isola colla stazione del telegrafista di cui ho fatta già parola. Saliti colà si ottiene ricompensa della fatica sostenuta, imperocchè si scopre con un solo colpo d’occhio tutta l’isola, ed una vista di bellezza inarrivabile. Stanno all’orizzonte, verso mezzodì il mare senza limiti, a ponente ed a settentrione l’isola di Ponza, quella torreggiante di Ischia, quelle di Vivara e di Procida, più lontani perduti nei vapori i monti di Gaeta, di Terracina, il promontorio di Miseno, a cui piedi finì suoi giorni Tiberio; i campi elisi e Cimmeri, le riviere azzurre di Baia, Pozzuoli, e Cuma, il monte Gauro, e la Solfatara, l’isola di Nisida col suo castello. Posilippo, la vetta dei Camaldoli, i monti di Capua, la splendida spiaggia di Napoli, con una collana di città fino a Torre del Greco, la punta del Vesuvio sormontata da una colonna di fumo; al basso Pompei, ed al di là i monti frastagliati di Sarno e di Nocera; a levante la spiaggia bruna di Massa, coi capi di Sorrento e di Minerva al di là il gigantesco monte S. Angelo, più oltre gli scogli delle sirene, e tutta la regione montuosa del golfo di Amalfi, e di Salerno; finalmente in lontananza i monti delle Calabrie, biancheggianti per le nevi, e la spiaggia da Pesto, al capo Licosa in Lucania.
Ad una tale altura, e con una tale vista davanti agli occhi, uno si sente quasi vivere doppiamente. Imperocchè è pur ristretta la cerchia dell’umana vita, tante sono le cose alle quali quotidianamente vi stringono, vi contrastano da ogni parte, vi condannano ad una lotta penosa, meschina, in un’orizzonte che sarebbe pure vasto. Se non chè ogni orizzonte è pur bello; come il contemplare dalla altezza della civiltà l’orizzonte del pensiero, delle scienze, delle arti, l’armonia che presiede all’ordine di tutte le cose create. In cima al monte Solaro io pensavo ad Humboldt, al cui genio, credo, andiamo debitori di trovare il mondo cotanto bello, cotanto mirabilmente ordinato; fissando poi lo sguardo sul Capo Miseno e sul Vesuvio pensavo pure a Plinio, l’Humboldt dei Romani, non che ad Aristotele genio veramente cosmico, ed ordinatore dell’umano sapere.
Lieto però di avere potuto contemplare tanto spettacolo delle armonie della natura, scesi di colassù, imperocchè il sole verso Ischia volgeva oramai al tramonto. Il mare si imporporava di già ad occidente, e l’isola di Ponza, la quale emergeva lontana e bella dalle onde, quasi giacesse in un’altra sfera di luce, rosseggiava dessa pure quasi fosse in fiamme. Addio pertanto, bella e romita isola di Capri.
Note
- ↑ [Nota manoscritta]Adesso (1890) serve come caserma ai soldati addetti alla Compagnia di Disciplina, relegati nell’isola.