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d'Italia. Non havvi punto di vista più bello del vicino Capo Minerva, al di là del quale scorgonsi i monti di S. Angelo, le spiaggie di Salerno e di Amalfi, le quali a foggia di una grandiosa scena di teatro, si stendono in semicerchio fino a Pesto. L'aria era limpidissima, e vidi distintamente Pesto, Castel Baro, e la lontana punta di Licosa. Al cadere del sole tutti quei monti, il mare, si rivestono dei color dell'Iride, ed uno si sorprende a dubitare se quanto scorge sia la realtà, o non piuttosto una fantasmagoria.
V.
Una sera, mentre stava seduto sulle rovine della villa contemplando quella vista magica, il mio sguardo cadde sulla testa di un bianco argenteo di un serpe, il quale aveva mutato pelle di recente, e che stava a miei piedi. Lo considerai quale un felice presagio, riferendosi a qualche mia memoria di giorni trascorsi. Ricordai che Tiberio pure aveva un serpe favorito, a cui porgeva il cibo di sua mano, e col quale soleva scherzare. Scesi dal monte portando meco la mia scoperta, ed incontrai Mefistofele il quale saliva a cavallo di un asinello. Feci vedere al frate il mio piccolo serpe, ed imparai in quella occasione, che quell'uomo strano era un grande incantatore di serpenti, imperocchè mi narrò che prendeva e maneggiava a sua volontà qualunque specie di serpenti vivi. Gli domandai in qual modo ciò facesse. «Li prendo, mi rispose, dopo avere loro comandato di stare tranquilli; dessi si attortigliano tosto al mio braccio, ed allora li chiudo in un vaso, e li mando a Napoli ai farmacisti. — Ma come mai potete voi comandare loro di stare tranquilli?» Mi rispose con un sorriso diabolico. «Loro dico una parola, ed il nome di S. Paolo, ed allora non muovono più! — Non potreste insegnarmi quella parola, gli dissi, affinchè potessi io pure a mia volta comandare ai serpenti? — Mai no, mi rispose, io l'ho appresa da un altro eremita, ed ho giurato solennemente di non rivelarla a chicchessia.»