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I.

Ho vissuto un mese intero di estate nell’isola di Capri, e vi ho goduta in tutta la sua pienezza la solitudine magica della marina. Così potessi io riprodurre le sensazioni che vi ho provato; ma non è possibile descrivere con parole la bellezza, la tranquillità, di quella solitudine romita.

Giampaolo Richter ha paragonato Capri ad una sfinge, contemplandola dalla terra ferma; la bella isola mi aveva l’aspetto di un sarcofago antico, fiancheggiato dalle Eumenide scarmigliate, in cima al quale campeggiasse la figura di Tiberio. Intanto esercitava un vero fascino sopra di me la vista di quest’isola, per la sua conformazione monumentale, per la sua solitudine, e per le cupe memorie di quell’imperatore romano, il quale signore del mondo intero, considerava quale sua proprietà unicamente quello scoglio.

Una domenica di buon mattino, con tempo stupendo, salimmo a Sorrento in una barca, e ci avviammo verso Capri. Il mare non era meno tranquillo del cielo, le linee del paesaggio si perdevano all’orizzonte in una luce vaga ed indecisa; ma Capri ci compariva davanti grandiosa, seria, sassosa, severa, co’ suoi monti selvaggi, colle sue rupi di roccia calcare rossiccia, tagliate a picco. Era vista imponente, e gradevole ad un tempo. Sull’altura sorgeva un bruno castello rovinato; qua e là avanzi di batterie, e gole aperte di cannoni che giacevano solitari, già quasi ricoperti dal ginestro selvaggio co’ suoi fiori gialli; scogli aspri e ripidi, in cima ai quali svolazzavano falchi di mare, uc-