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Ai piedi della collina trovavasi una delle località più romantiche dell’isola, la Marina piccola, spiaggia angusta, esposta a mezzo giorno, incassata nelle roccie, i cui massi rotolati in mare si avanzano in quello a foggia di penisola. Sorgono colà, quasi incassate nella roccia, due casette solitarie di pescatori, prestandosi la spiaggia a mala pena a dar ricetto a due sole barche. Questa spiaggia è uno scherzo di natura, e l’unica su tutto quanto il lato meridionale dell’isola. Sedendo colà uno si può credere solo al mondo. Il golfo di Napoli, le sue riviere, le sue isole, le sue vele sono scomparsi quasi non esistessero; la vista spazia unicamente sulla immensità del mare nella direzione della Sicilia, e più lontano dell’Africa. Non si vede che acqua, e la fantasia può trasportarsi ugualmente a Palermo, a Cagliari, ed a Cartagine, che tutte si specchiano in quel mare. Non si hanno all’intorno che nude roccie, scogli deserti, caverne che si aprono sulla riva ad ambi i lati, a destra il Capo Marcellino rupe erta, di aspetto colossale, il quale si avanza in mare; a sinistra, dentellato e merlato quasi castello antico, il Capo Tragara, ed in vicinanza a questo i Faraglioni, scogli giganteschi, inacessibili, d’oltre cento piedi di altezza, i quali emergono dal mare quasi piramidi. Sono di forma conica, l’uno in guisa che si direbbe lisciato per opera dell’uomo, l’altro frastagliato in modo fantastico e bizzaro. La loro ambra si stende sul mare, dando a questo aspetto malinconico; presso a loro si apre in uno scoglio l’arco stupendo di una caverna, dove possono entrare le barche, e sulla loro sommità ondeggiano agitati dal vento magri arbusti e piante selvatiche, e fa sentire la sua rauca voce l’alcione, che ammaestra al volo la giovane sua progenie.

Sedendo colà, ricorre alla memoria il passo del Prometeo incatenato di Eschilo, quando tutto ad un tratto pervengono all’orecchio dall’infelice il rumore del battere d’ali delle Oceanidi, e l’eco dei loro canti. Ho udito molte volte di buon mattino, allorquando il mare comincia splendere, la rauca voce degli uccelli marini, quando scendono dai

F. Gregorovius. Ricordi d’Italia. Vol. I. 15