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mania; ove portato aveva una lettera del marchese Francesco a Giambattista suo figlio, il quale uscito dall’accademia dei nobili di Modena, che poco innanzi (nel 1637) erasi unita a quel collegio di san Carlo, venne mandato a studio della lingua tedesca a Vienna. Un secondo memoriale presentò Raimondo, reduce appena dall’Italia, all’imperatore, intorno al quale scriveva aver avuto buone parole dai ministri imperiali. Si sarà egli per avventura ritrovato questa volta in Vienna col cugino Girolamo, dall’arciduchessa spedito a riverire in nome di lei la regina di Polonia. E qui racconta il Bolognesi che essendo già partito esso da Vienna, un corriere lo raggiunse a dodici leghe dalla città invitandolo a ritornare sui suoi passi, avendo l’imperatore a conferir seco circa i modi d’impedire nuovi progressi del nemico, e circa la difesa dei passi della Valtellina. Prova codesta della stima in che tenuti erano i consigli di quell’esperimentato cavaliere.
Partiva Raimondo il 7 dicembre del 1638 pel campo imperiale, avendo a compagni il già nominato barone di Fernemond, e quel colonnello Borri del quale anche più oltre avremo a tener parola. Il giorno nel quale intraprendevano essi quel viaggio, quello era in che il duca Bernardo di Sassonia Weimar, aveva fatto prodigi di valore, dopo essersi in quell’anno sbrigato dalle pastoie in cui lo teneva il cardinale Lavalette, strano condottiere di soldatesche; giungendo perfino a conquistare Breisach, che per essere la chiave dell’Alsazia più eserciti imperiali tentaron poscia successivamente di riacquistare. Fu quella piazza astretta a rendersi per fame dopo che la guarnigione imperiale ebbe diseppelliti i morti per cibarsi di ciò che rimaneva delle lor carni, e macellati otto fanciulli! Il suo comandante Reinach aveva ucciso la propria moglie perché vendeva vettovaglie ai nemici (Menzel). Quattro grandi vittorie nel corso di quattro mesi aveva riportato Bernardo; in una di esse 2000 soldati e 4 generali essendoglisi resi prigionieri. Tra questi erano Jean de Werth e il romano Savelli, che quattro giorni prima lo aveva forzato ad abbandonare l’assedio di Rheinfeld, e che fuggì poi di carcere, meritandosi per questo dal Menzel (chi il crederebbe?) la taccia di mancator di parola; quasicché vi fosse mai