Il secolo che muore/Capitolo VII
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Capitolo VII.
ADULTERI A TARIFFA.
I giovani credono troppo, ed i vecchi troppo poco. Di cui la colpa? Di nessuno. Nei primi anni della vita abbondano il volere e il potere, negli ultimi fa difetto il potere. L’uomo quando si pone davanti la sua giovinezza come un’anfora colma del vino di Opimio, ben può affogare in quello e mente e cuore, imbestiandosi turpemente nella ubbriachezza; ma questo egli non fa, o di rado fa, ed invece vi attinge le care fantasie dall’ale di farfalla, folleggianti intorno alle rose e i capricciosi ghiribizzi che si rincorrono perpetuamente sopra una ruota composta dei colori dell’iride: nel vino tinge, quanto dece, le fiorite guance Venere; nel vino, dicono, che spenga i suoi strali Amore, quando li cava ardenti fuori della fornace; nel vino talora l’eroe pesca i suoi entusiasmi di patria; la morte stessa talora si è spruzzata il teschio col vino.... e valga il vero, Leonida dove ordinò che andassero i suoi trecento innanzi che s’immolasero ai Geni della Libertà? Li mandò a desinare, perchè quanto alla cena, li aspettava allo inforno. Ora va pei suoi piedi che se li mandò a mangiare, li mandò altresì a bere, perchè il bere sta al mangiare come alla mossa il prete, e ci è da giocare il triregno contro un laveggio di Pistoia, che novantanove su cento bevessero vino. Gli uomini da secoli arrangolano per trovare la verità sulla terra, e non la trovano; in chiesa non ci bazzica più per paura delle scottature; in Corte nè manco, dacchè un ciambellano traditore lo diede il gambetto al sommo di una scala facendogliela ruzzolare fino all’ultimo scalino; dai Parlamenti la cacciarono via a furia di granatate; nella curia gli avvocati l’accecarono col fumo di paglia bagnata, cioè con le loro parole: in campagna i contadini le aizzarono allo gambe i cani da pagliaio, in città i cittadini le appiccarono la coda dietro, come i monelli costumano a mezza quaresima: perseguitata a morte, la verità si tuffò dentro un tino di vino e quivi chi la vuole vada a trovarla. In vino veritas, ha bandito lo Spirito Santo, personaggio dabbene ed incapace di profferire bugie.
Ma quando poi l’uomo vede innanzi a sè la vecchiezza sotto la l’orma dell’anfora vuota, sicuramente che non ci si potrà inebriare; bella forza! non ci è più vino. Il vizio non può più correre; lo ha attrappato la gotta: i peccati mortali o non mortali vorrebbero pure (tanto por non poltrire nell’ozio) esercitarsi in qualche consueto lavoro; ma, ahime! frugando per tutta la bottega non trovano più arnesi. La vecchiezza comparisce ravviata, positiva, unita come il suo cranio calvo; le illusioni non l’abbindolano più, la tentazione anco solleticandola con una penna di passero nelle narici non varrà a farla prorompere in uno starnuto; in compenso di tutto questo perduto, ella acquistò una qualità solenne, una qualità da mettersi sopra gli altari ed accenderlesi i moccoli ai piedi, da farla diventare nera in tre mesi a furia di suffumigi d’incenso.... la esperienza. Peccato! che questa matrona ti venga a casa in compagnia del falegname per pigliarti la misura della cassa da morto.
Il nostro Omobono pertanto come giovane credeva, e gli giovava credere, in moltissime cose: alle parole delle donne; quanto alle lacrime, non se ne discorre neppure.
Ma prima di proseguire, torno un passo indietro; e erano ci trovi a ridire, perchè senza passi indietro io non lessi mai storia, nè la udii raccontare.
Omobono dunque per le due avventure da me riferite, diventò il Saracino di piazza, o, come oggi si dice, il Lione. La fama, volando, portava il suo nome di bocca in bocca, senza stancarsi mai, anzi ci prendeva balia per volare più lontano; l’avo Omobono ne andava in visibilio, o ne faceva le viste; voglioso poi che il figliuolo della sua predilezione non iscomparisse rimpetto agli altri giovani incliti per censo o per lignaggio, volle che il nipote accettasse eleganti carrozzini e cavalli magnifici, così da tiro, come da sella, il groom e il tigre insieme alle altre diavolerie con le quali la dissipazione insapona le scale al fallimento: e per dire il vero, non ebbe a insistere troppo presso al nipote, ond’ei si lasciasse fare, che la vanità ha il sonno più leggero della lepre, che per poco stormire di frasca si risveglia; so l’avo si mostrava disposto a largire con una mano, l’altro era li pronto ad agguantare con due.
Se si conoscessero tutti i danni e i fastidi che partorisce la celebrità, io per me credo che non vi sarebbe uomo al mondo, il quale incontrandola per la via non fuggisse peggio di un cane arrabbiato. Ognuno sa dove gli fa male la scarpa. La fama è una croce come lo altre, e chi l’ha sulle spalle deve portarla fino al sommo del monte. Adesso continuiamo a raccontare di Omobono.
Certa sera, mentre egli se ne tornava placidamente a casa, ecco sente toccarsi sopra una spalla; si volta risoluto e vede davanti a sè mia donna aitante, di forme egregie di corpo, velata così da non lasciare conoscere la sua sembianza ne anco se fosse stato di giorno, figuratevi se di notte! Costei gli mette in mano un foglio e va via; e poichè egli, come era naturale, pigliò subito a perseguitarla, ella che se ne accorse, si volse a mezzo con la persona e con tale un gesto, che parve preghiera, ma che poteva ancora esser comando, gli intimò che cessasse ed egli obbedì, quantunque il suo cervello cominciasse a fermentare.
Riprese dunque il cammino di casa col passo consueto, deliberato di aprire il foglio in camera sua; ma la curiosità crescendo mano a mano che diminuiva la via, accelerava il passo, sempre fermo però di leggere il foglio a casa; però il vino di Opimio, che gli lavorava dentro non lo permise, sicchè il solletico della curiosità diventato insopportabile, egli ebbe ad accostarsi ad un muro, e quivi raccogliendo quanto più potè della luce di un lampione, spiegò la carta e si mise a leggere. Elegante tutto, inviluppo, carta, scrittura; il foglio dettato, già s’intende, in idioma francese esponeva: come qualmente una infelice femmina, di condizione contessa, di nazione lituana, vittima di un mostro (il mostro, va da sè, era il marito) che dopo essere stato da lei sposato ed arricchito con immense possessioni poste in Lituania, Posnania, e in altri siti (la Guascogna ai giorni nostri, mutato polo, andò li in Lituania) adesso, allegando per pretesto la sua infecondità, pretendesse ch’ella testasse, e lui di ogni suo avere instituisse erode; questo repugnare alla sua religione, alla sua coscienza ed al rispetto della propria famiglia, eccetera; il marito di lei, furibondo per siffatto contrasto, non lasciarle pace, nè quiete, ed ultimamente essere trasceso ad atti violenti, temere di peggio: allo improvviso, ed allo scopo di venire a capo dei suoi fini, egli averla trasferita a Milano, dove ella non conosceva anima viva; qui trovarsi da tre giorni, o qui avere il marito reiterato le istanze, e con le istanze le minaccie ond’ella facesse il testamento: per le quali ragioni, ella gittarsi nelle sue braccia, affinchè le procurasse la protezione della magistratura del paese; che, una volta posta in sicuro, troverebbe ella modo per informare S. M. l’imperatore di tutte le Russie, il quale, andava più che sicura, stante la nobiltà ed i molti meriti di casa sua, l’avrebbe liberata per sempre dal predetto mostro di suo marito. Rivolgersi a lui come a banchieore, che per onesto premio s’incarica curare gli interessi altrui, e perchè la fama glielo aveva dipinto (veramente la fama non maneggia pennelli, ma la lettera diceva dipinto) giovano discreto, quanto animoso, nato di madre esperta della sventura, di nome illustre, eccetera; e qui dàgli la soia a bocca di barile: confidare pertanto, non essersi rivolta a lui invano: ispirarla Dio; nè le sue ispirazioni averla delusa mai nelle avversità della vita. Si recasso il di seguente dopo l’una ora di notte al palazzo ***, e quivi senz’altro chiedesse del conte Kranoski; lo introdurrebbe una fidata cameriera: allora lo metterebbe a parte di ogni particolare e gli consegnerebbe lo carte necessario.
La lettera, la quale incominciava con la sua brava corona di perle, emblema di contea, finiva con la firma di contessa Dorliska Lubowmiska Kranoski.
O vanità, trasformati in Ebe e mesci due, quattro e dieci bicchieri del vino di Opìmio al nostro giovine, levato di punto in bianco alla dignità di servire di materia alle ispirazioni di Dio. Vedeste traverso il microscopio solare una stilla di acqua del Tevere? Se l’avete veduta, avrete notato altresì come miriadi di serpi nascano, scoppino per rinascere e scoppiare di nuovo con vicenda perpetua; così fantasmi sopra fantasmi pullulavano nel cervello di Omobono, sicchè al tramonto del giorno che successe a quello dello incontro con la contessa se lo sentiva tutto indolenzito. E sì, che nel canestro dei fiori l’aspide ci era, e si sentiva nella dichiarazione di essersi la contessa rivolta ad Omobono come banchiere, il quale dopo reso il servizio si paga, e chi ha avuto ha avuto: ma, si sa, nobili, preti e soldati vogliono sempre sgraffiare: colpa non loro, ma delle unghie appuntate di che li armò o la natura o l’arte.
Nella sera assegnata il martello batteva il primo tocco dell’un’ora di notte all’orologio del Duomo, ed Omobono poneva il piede sul primo gradino della scala del palazzo***. Andò su franco, non senza il consueto comporsi con la mano i capelli e i baffi; bussò discreto, e subito apertosi pianamente l’uscio s’incontrò nella faccia di un cosacco riposato, vestito da femmina.
— Si comincia male! — disse fra se Omobono; ne il presagio menti, che la vecchia megera in lingua francese (il lettore avrà notato come le brutte cose si sieno fatte fin qui in idioma francese, aspettando che in breve le si facciano in tedesco) gli disse come monsieur le comte, contro la sua abitudine, per quella sera non era ancora uscito di casa; essere madame fachèe, anzi disse propriamente désolée del contrattempo; supplicarlo a scusarla. Mon Dieu! ce n’était pas sa fante; sarebbe di sicuro per domani sera; con altre più parole ortatorie, alle quali il nostro giovine rispose: Stesse madama di buon’animo, che ciò non montava; assicurasse madama la comtesse della sua perfetta buona volontà, e addio per la stessa ora a domani.
In onta però alle belle parole, Omobono aveva un diavolo per capello, perchè i giovani sentono brulicarsi il mercurio nelle vene, e spettano per natura alla setta di coloro che dicono: pochi ma subito. Andando giù in fretta ed alla spensierata avvenne che di uno sconcio spintone urtasse nella spalla destra di un che saliva.
— Que diable! si esclamò da una parte: — Pardon, monsieur, dall’altra. — Ma tanto presto non potè comporsi cotesta faccenda, che urtante ed urtato non avessero agio di considerarsi bene al lume del lampione.
Omobono vide un cosaccio mal tagliato, creatura da caserma, fatto a tacche col coltello; di colore del vino puro, co’ pomelli delle gote rilevati a mo’ del cane da presa, e il naso in su come cane da fermo, il quale fiuti per l’aria l’onore militare: difatti cotesta attitudine gli veniva dal collare rigido ed alto, il quale costumano cani e soldati; gli enormi baffi su ritti per le guancie parevano due granatini di stipa, e la barbetta una coda di cavallo da barroccio cresciutagli sul mento, gli occhi tondi e strabuzzanti da destare nei bambini una sedizione di vermini: insomma un orco. Vestiva soprabito, secondo il costume soldatesco, abbottonato fino alla gola, dall’ultimo occhiello del quale un nastro rosso, forse per la vergogna, si affacciava peritoso quasi dicesse fra se: Mi mostro, o non mi mostro? Di vero egli era, a modo della testuggine, destinato a uscire dal guscio ovvero a ritirarcisi dentro: però a lode del nastro vuoisi confessare come egli non si affacciasse mai spontaneo, bensì costretto di obbedire alla potente spinta, che gli dava per di dietro il dito pollice del cavaliere.
Il sole puntuale come un mercante che ha da riscuotere una cambiale, si levò, camminò e andò a letto, mentre Omobono, puntuale quanto lui, al tocco dell’una ora di notte, era sull’uscio della contessa Dorliska Lubowmiska Kranoski. Gli aperse la solita megera, lo salutò sommesso, e senza altre parole lo mise dentro ad una camera oscura; non già che fosse buia affatto, ma poco ci si vedeva, e ciò perchè il lume del candelabro andasse avvolto di un fitto velo increspato: mobili molti a catafascio; in confuso ogni cosa, come chi o non ebbe tempo di ordinare la casa, o non la voglia ordinare, deliberato a farvi breve soggiorno: in mezzo un lettuccio magnifico, e sopra esso, quello che premeva di più, la donna. Costei mollemente adagiata, si faceva al capo colonna del braccio ignudo, a perfezione tornito e bianco, e giù dal capo le pioveva pel seno e per le spalle una vera cascata di capelli lucidi e neri più dello asfalto; la persona intera ella teneva avvolta dentro un’ampia zimarra di velluto nero, orlata e forse foderata di martora zibellina.
Dopo brevi istanti di silenzio, ella con voce che a tutti gli altri sarebbe parsa maschile, ma che ’Omobono giudicò divina, incominciò a sciorinare ringraziamenti, complimenti o caccabaldole di ogni maniera; invitato a sedere, il giovane prese una seggiola e si assettò pudicamente a pie’ del lettuccio, conforme l’uso, che vuole s’incominci in bemolle per giungere di rincorsa al cisolfautte. Allora la contessa esormò con moltissimi particolari la storia della quale ella aveva presentato lo epitome nella sua lettera; mentre stava por conchiudere, Omobono la vide di un tratto balzare di sul lettuccio e recarsi a certo stipo, che aperse mercè una chiave tirata fuori con precauzione dalle pieghe della zimarra: quivi prese parecchie carte condizionate ottimamente, e le depositò sopra una tavola dove stavano ammanniti carta, penne e calamaio.
— Ed ora, mio signore, fatevi avanti ed esaminate meco le carte, che io vi verrò mano a mano porgendo, onde vediate se bastino a indurre il magistrato a pigliarmi sotto 1a sua tutela.
— Non è caso, madama, ciò menerebbe troppo a lungo, ed io non dubito punto che questi fogli non confermino ampiamente la verità delle cose esposte da vostra signoria.
— Sia come volete — riprese la contessa levando la faccia verso la porta donde era entrato Omobono; poi domandò: — Che ora fa?
Ed Omobono, consultato il suo magnifico orologio, rispose: — Un’ora e mezza di notte.
— E vi va bene? — Oh! quanto a questo poi.....
La contessa sorrise alquanto e prosegui: — Tuttavia permettetemi, signore, che io vi accenni la importanza di questi fogli: questo è il testamento di mio padre, conte Daniele Casimiro Lubowmiski, aiutante di S. M. l’imperatore Niccolò; — e glie lo porse.
Omobono, a cui non premeva il testamento più di un bottone da camicia, attese alla mano e la rinvenne nobilesca aifatto, classica nei contorni, lun-. ghetta alquanto e nel mezzo del dorso quanto conviene carnosa; non vi eccedeva nodo, le vene un po’ troppo turchine, segno che non vi correva rapido, come un giorno, il sangue della gioventù: candida la pelle, ma raggrinzita in faccette romboidali, segno anche questo che i muscoli, dopo essere stati tesi al massimo grado, ora principiavano a rilassarsi. Tale diversità gli artefici industri rinvennero ab antiquo fra il marmo pario ed il pentelico: quello serrato in grani uniti e con superfìcie uniforme, rappresenta meglio la gioventù; questo, screziato in minutissime molecole la età che declina: prevalse il primo, e da quello gli eccellenti scultori ricavarono le più mirabili statue dell’antichità.
Certo la è una grande cosa la mano: tutti i poeti lo hanno detto in rima, ed ancora io lo dico in prosa; ma ad Omobono tardava contemplare in pieno la faccia di cotesta donna, la quale per istrano accidente fin lì rimasta fuori della zona luminosa, non si svelò quale era. Di un tratto con terribile fracasso, pari a quello che don Alfonso fece alla porta della camera di donna Giulia1, uguale a quello che mossero e moveranno tutti i mariti, quando chiappano o fingono chiappare le mogli in flagranti (e qui, dicano quello che vogliono i grammatici, la parola in flagranti cade a pennello, perchè denota i ferri arroventati al più alto punto d’incandescenza) ed un coso rosso e scarduffato casca in mezzo della stanza, come bomba in fortezza nemica. Appena Omobono lo fissò in viso lo riconobbe per quel desso, in cui aveva dato dentro la sera precedente, sicchè di un lampo ei venne in chiaro come egli avesse avuto il puleggio, non già perchè costui si trovasse in casa, bensì all’opposto, perchè non ci si trovasse. La donna, dopo avere mandato il solito grido, era caduta nel solito svenimento resupina sul solito letto; la zimarra apertasi davanti lasciò vedere com’ella vestisse sotto la semplice camicia, donde diffondevasi, anco troppo, la così detta copia di gigli e di rose': alla rovescia di Anna Bolena, la quale prima di mettere il collo sul ceppo, attese con pudore mirabile ad invilupparsi bene le gambe nel lembo della veste, onde nella siono della morte violenta non rimanesse disonestata, caso fosse, o consiglio, la nostra contessa mostrava le gambe fino al ginocchio; ma nella scompostezza dei moti, caduto il velo dal lume, che percotendo in pieno sul volto di costei, lo rivelò intero. Potenze e dominazioni del cielo! Quale disinganno, Omobono, fu il tuo! Non sacerdotessa, bensì diacona e archimandrita2 colei di Venere Pafia; il corpo suo, stadio dove l’Amore aveva corso più palii, che non tutti i cavalli della Sicilia e della Grecia nell’ippodromo olimpico; nè Venere solo ed Amore, ma eziandio Bacco ci si era messo in terzo, avendo lasciato la traccia del suo passaggio pel corpo della contessa, con molte rose di colore amaranto sul viso di lei.
La coscienza, la quale nel nostro fòro intorno sostiene le parti di procuratore del re, così rivolse la sua allocuzione ad Omobono: «Un pezzo di asino grosso come te, o figlio mio, non si vide fin qui in tutta la cristianità: un tonno, non che altri, avrebbe evltato la roto nella quale sei caduto tu; ma ormai che la frittata è fatta, occhio alla penna per uscirne pulito. Arme non hai, e questa dovevi portare; invece ti trovi addosso il portafogli con di molta moneta dentro, e questo non dovevi portare. Ma neanche l’arme ti gioverebbe; come uccidere, così potresti rimanere ucciso; pure parrebbe più facile che la peggio avesse a toccare a te; caso tu campassi la pelle, lo scandalo da un lato, la melensaggine stupenda della quale desti prova dall’altro, ti farebbero perdere in un attimo la riputazione acquistata; dunque senno adesso, che di quel del poi ne vanno piene le fosse, e sopra tutto bada a non lasciarti chiudere la coda fra l’uscio e il muro».
Tutti questi successi e tutte queste considerazioni furono compiti, già s’intende, in meno che non si dice amen. Tuttavia il conte marito aveva già messo mano alla sua terribile catilinaria, accompagnandola di temerari pugni nel capo e con frequenti comment se fait it? Come se fossero cose nuove, nel suo discorso ricorreva frequente il mon Dieu! che di simili feccende se n’è sempre lavato le mani, all’usanza di Pilato. Insomma egli gridava che ce misérable da gran tempo insidiava l’honneur di casa sua, tentando con arti diaboliques sedurre la faiblesse de sa femme, ed esserci, a quanto pareva, riuscito pur troppo! Oh rage!
— Creda, monsieur le comte, — rispondeva Omobono tutto contrito — ch’ella proprio s’inganna; creda in onore che io ebbi l’onore di conoscere la sua rispettabile dama unicamente da ieri l’altro sera, avendomi fatto l’onore d’invitarmi.....
— Tais-toi, misérable! Point de justifìcations avec moi..... sacre non.....
— Ma senta, signor conte, non s’inqmeti; la si lasci persuadere; miri qua veda: questo è giusto il biglietto che la sua signora mi mise in mano ieri l’altro verso l’un’ora di notte.
— Tais-toi encore une fois, lâche! Tu mi hai strappato il cuore dal petto, ed ora che farò io al mondo? Parbleu! ammazzerò prima, e dopo mi ammazzerò sopra un tas di cadaveri esempio memorabile al mondo ai traditori che fanno professione di contaminare i talami altrui,
E qui frugatosi in tasca, ne cavava un pugnale e due rivoltelle da sei colpi l’una. Ci era da ammazzare un battaglione di soldati; e sì, che in tutti, compreso lui, si riducevano a tre.
Omobono, che aveva capito la ragia, con ingenua malizia aggiungeva:
— In primis, senta, signor conte, ella fa torto e torto grave alla virtù della sua signora, ch’è svenuta là e poi, o come può ella credere sul serio che io, giovane di ventidue anni, abbia perso di un tratto il lume degli occhi per le bellezze postume di una donna di quaranta sonati?
— Tais-toi! Tonnerre.....
— Bellezze certo un dì da galleria, ma oggi da bottega di rigattiere.
La vanità mise la mano alla gola al delitto, e per un momento se lo cacciò di sotto, imperciocchè dalla parte dove stava giacente la donna s’intese un gnito di rabbia, che il conte si affrettò ad interrompere urlando:
— C’est fini! Ta deruiere heure.....
— A sonnè! Connu, mon cher comte, connu..... Or via, veniamo al sodo. Voi mi avete attirato qua per taglieggiarmi: ho dato del capo nella ragna. Pazienza! Chi non ha giudizio paghi di borsa. Da banda parolone e minacce: qui perdiamo tempo senza conclusione: voi volete il mio danaro, non il mio sangue: quanto dunque ha da costarmi questa pretesa seduzione?
— Vous avez, monsieur, une manière d’envisager les choses..... mais c’est égal..... la seduzione, allons donc, è pur troppo consumata, il mio onore a jamais perduto..... io non uso mercanteggiare, e vi propongo di un tratto una onorevole composizione au plus grand rebais.....
— Ebbene?
— Cinquecentomila franchi. Mon Dieu! C’est presque pour rien.
— E parlate sul serio?
— Mais certainement, prix fixe.
— Caro conte, io non costo tanto. E come la pigliate tanto alta, io vi dichiaro aperto che voi non buscherete nè manco un centesimo: voi volete godervi co’ miei danari, non già farvi tagliare la testa a Milano. Aggiustatela come volete, che io non intendo darvi nulla.
E qui si mise a sedere, con le mani sotto le ascelle, in atto napoleonico.
— Mon cher jeuìne homme, ne vous fachez pas: il y a des arrangements.... on nègocie.... e quanto pretendereste pagarmi por refezione di danni e interessi?
— Capisco che mi toccherà darvi più di quello che costate. Andiamo alle corte.... io vi darò diecimila franchi.... d’est a prendre, ou a laisser.
— Mais y songez vous? E non sapete che qui, in Milano, abbiamo debiti tout justement più del doppio.
— O che ve l’ho detto io che voi facciate tanti debiti?
— Qaesta non pretendo che fosse la vostra parte; la vostra parte è quella di pagarceli.... Orsù tagliamo la differenza in mezzo; ne pagherete soltanto la metà.... duecentocinquantamila.
— Venite qua, accomodatevi anche voi, e ragioniamo. La somma che mi estorcete ha da pagare il mio signor nonno, perchè io davvero non la possiedo, e voi lo dovreste sapere. Ora date spesa al vostro cervello: se il mio biglietto sarà presentato alla cassa O. Buoncompagni ascenderà a somma non eccessiva, sarà pagato senza osservazioni; al contrario, se soverchia, il cassiere entrerà in sospetto, ed è naturale che vada a informarsi dal nonno come sta questa faccenda: questi a volta sua ne chiedorà a me.... e voi capite che simili affari non amano lo soglie dei tribmiali.... le soglie dei tribunali, mon cher monsieur, voi lo avreste a sapere, sono come i carboni, o tingono o scottano.
— Ma il cassiere siete voi, mio caro giovane....
— No, io amministro la cassa, ma non faccio i pagamenti; a quest’ufficio è preposto il signor Nassoli.... uomo di naso lungo.
— Ebbene sarà pensiero vostro avvertire questo monsieur Nassoli di pagare senza difficoltà, tout de suite, a la présentation de votre hbillet de cliange.
— Questo sarà debito mio fare, quando saremo andati d’accordo, e avrò firmato il pagherò.... Il banclhiere che non onora la propria firma è perduto.
— Certo è cosa tres-grave, molto più che io girerò subito il paglierò a terzi, per mettermi al coperto di ogni eccezione personale.
— Pardon, monsieur, ma si vede chiaro che il diavolo a voi altri signori insegna faro le pentole, ma non i testi. E a chi volete voi, siate benedetto, girare il mio pagherò? A Isacco Levi? A Giacò Coen? A Sacerdoti e C, o ad altri cotali? Ma questi, intendete bene, non vi pagheranno la valuta, se prima non l’abbiano incassata. Lo girerete ad un barabba? Screditate la operazione, e, in caso di lite, basta l’odoro della truffa a mettere sopra le traccio il procuratore del re; e poi correte il rischio che il barabba, riscossa la somma, vi appiccichi una coltellata per pagamento. Sa rimanete a Milano, la girata ad un terzo non ci casca; o che siete mercante voi? Di questa maniera recapiti si riscuotono da sè. Dove al contrario giudichiate spediente partire, vi sarà mestieri confidarvi in altrui, e correrete sempre il pericolo di non vedere del sacco le corde. Se fossi nei vostri piedi, mi contenterei dell’onesto; dividerei i pagherò in quattro scadenze di mese in mese, onde io possa estinguerli coi miei, e senza che veruno della casa si accorga della ragia. E per finirla una volta, io mi obbligherò di pagarvi ventimila franchi; diecimila franchi per visita, mi sembra pagare da imperatore.
Il conte fischiò, la contessa grugni, ed Omobono si accorse di volo che non bastavano, onde, per non istare sui bisticci, vedendo bene incamminata la cosa, soggiunse:
— Mi penetro dei vostri bisogni: ebbene io vi darò tante volte mille franchi quanti anni ho già assegnato alla signora, la quale io pregherei a smettere lo svenimento ed a coprirsi meglio per timore del fresco: finita la commedia, si tira giù il sipario,
— Madama la contessa non conta già, mon cher, quarant’anni, come voi avete avuto la bontà di assegnarle, bensì quarantacinque; ora, supposto che anche io mi piegassi ad accettare la vostra spilorcissima profferta, vedete che non quaranta, bensì quarantacinquemila franchi sarebbero quelli che voi dovreste pagare.
E qui da capo la vanità, mettendosi sotto i piedi il delitto, costrinse la contessa, che aveva cessato lo svenimento, a gridare;
— Come puoi tu mentire così? Non ti ricordi che io nacqui al tempo che regnava in Francia Luigi Filippo? Ben io mi ricordo del giorno della mia nascita, come se fosse adesso: per me dichiaro che se arrivo a trentatrè, gli è quel più che possa concedere.
— Dunque defalchiamo — soggiunse Omobono.
— No davvero, — rimbeccò la contessa — anzi aumentiamo: diecimila si aumentino per la vostra insolenza, diecimila per l’audacia, diecimila....
— Silenzio, femmina. Ebbene divideremo le lire quarantamila in quattro pezzi; uno di ventimila pagabile fra cinque giorni, e gli altri tre di lire seimilaseicentosettanta in capo a ognuno dei tre mesi successivi.
— Non così non così potrei accettare; il primo sia di diecimila lire a cinque giorni data, e per questo mese basta; gli altri di lire diecimila l’uno, a trenta, sessanta e novanta giorni di data, come porta l’uso del commercio e la consuetudine della piazza.
— È impossibile; fate il secondo almeno a quindici giorni, mon cher.
— Sentite, al punto in cui siamo, vostro principale interesse è che i pagherò vengano puntualmente pagati: ora io non posso in modo diverso da quello che vi ho detto badate: a chi troppo tira, la corda si strappa.
— Je tiens, mon cher, a conservare la vostra amicizia, però brisons lù, e facciamo comò desiderate.
— Permettete adesso che vada pei pagherò — disse Omobono con aria da disgradarne san Luigi Gonzaga.
E l’altro con non meno semplicità:
— Oh! vi pare? Pigliarvi questo disturbo.
— Ebbene, andate voi.
— Neppure. Ecco qua i fogli poi pagherò.
— E i bolli? Altrimenti i biglietti non avrebbero valore.
— Abbiamo avvertito anche a questo: ecco i bolli.
— Va bene: incominciamo.
Omobono si tirò innanzi al tavolino: il conte gli pose sotto mano il necessario per iscrivere. Omobono, con mirabile disinvoltura intinse la penna nel calamaio, e il conte, con le lenti sul naso, gli si mise in piedi dietro la seggiola per vigilare quello che egli andava scrivendo. Omobono, come se dettasse a se medesimo, principiava:
— Milano, tre marzo milleottocentosessantasei. Buono per lire 10,000. A cinque giorni data pagherò.....
— No, mon cher, a questo modo non cammina.
— perchè non cammina? — interrogò Omobono, deponendo la penna.
— Perclhè ha da dire pagheremo, e voi dovete sottoscrivere in nome della ragionoe bancaria O. Buoncompagni e C.
— E vi pare egli che io deva..... che io possa obbligare la rispettabile casa del mio signor nonno in questa razza di negozi?
— Dovete, perchè lo voglio potete, perchè fino dal primo gennaio del presente anno il vostro signor nonno vi ha dato la firma della sua ragione, come resulta dalla circolare del medesimo giorno, depositata nella Cancelleria del Tribunale di Commercio il due del medesimo mese, e comparsa tre volte nella Gazzetta Officiale.
— Permettete che io vi faccia umilmente di berretta: voi vi siete corazzato fino ai denti. Che cosa volete? Io vi ammiro.....
— Eh! mon cher, procuro esercitare la mia professione con coscienza e puntualità.
— Voi meritate una corona d’alloro; dunque pagheremo all’ordine del signor....?
— Conte Adamo Kamieski.
— Come! O non vi chiamate Kranoski?
— E chi vi ha detto Kranoski? Io mi chiamo Kamieski.
— Oh! credeva ma non fa caso Kamieski, lire diecimila.
— Aggiungete in oro.
— In oro e la valuta come l’ho da mettere?
— Per altrettante somministrateci in contanti e in oro.
— Contanti.... oro. Baono...
— Avvertite segnare la somma in tutte lettere, articolo 273 del Codice di commercio.
— Omobono Buoncompagni e C, eccovi soddisfatto.
E così senz’altro accidente fa continuato fino al quarto biglietto, compiuto il quale, Omobono piacevolmente favellò:
— Adesso parmi di poter dire: Ite missa est.
— Sicuro, adesso voi potete andare: in ricompensa dei tanti e tanto savi avvertimenti che mi avete dato, permettete che vi consigli a tenere acqua in bocca; io non sono solo.... adoperate prudenza e vivrete.
— Lasciate fare a me — e si alzava per andarsene. Ma la contessa osservò:
— Finche mi duri la vita mi gioverà tener presente la memoria di quest’ora nella quale un breve errore mi traviò fuori dei miei doveri di sposa; epperò, signore, non vi sia grave lasciarmi il vostro orologio, dove mi sia dato contemplare quest’ora.... ahimè! di rimorso e altresì di desiderio....
— Di desiderio jmò darsi; quanto a rimorso, io protesto solennemente, che quanto a me il peccato non si affacciò nemmeno nei dominii della tentazione.... mia bella donna.... eccovi l’orologio.
— Oh! a proposito — esclamò il conte quasi punto da emulazione — e i bolli ce l’ho a rimettere io?
— Eccovi il borsellino — disse Omobono frugandosi prestamente in tasca, e presolo in mano l’offerse al nobile conte, aggiungendo poi piacevolmente: — Conte Adamo, richiamo poi la vostra attenzione, che se la vostra amabile signora e voi non ponete termine a queste gare, io corro rischio di riduimi a casa col vestito di Adamo nostro padre comune, e vostro protettore speciale.
— Eppure alleggerirlo di qualche altro arnese non sarebbe male — osservò la donna rapace.
— Ça suffit! femme; il troppo stroppia; gli è un caro giovane, ed a me preme conservare con lui la buona amicizia.... ed ora si vous plait, beviamo un coup.
— Merci, — rispose Omobono — già si fa tardi, e dove non possa servirvi in altro vi leverei lo incomodo.
— A votre aise — disse il conte, e si atteggiò ad accompagnarlo. La donna proterva nel dargli licenza gli porse la mano favellando:
— Sans rancune, e a rivederci in migliori occasioni.
— Così spero anch’io.
Omobono voleva con bel modo dispensare il conte da tenergli compagnia, ma siccome costui insisteva, egli non giudicò prudente mostrargli diffidenza: giunti pertanto sopra la soglia della porta di casa, rinnovati alla lesta i complimenti, si separarono.
Un pezzo andò il nostro giovane provando di tirare un occhio quanto più poteva a destra ed un altro a mancina, per sospetto che non gli capitasse qualche altra faldella; ne in veruna occasione (come egli ebbe a dire poi) desiderò mai avere un altro paio di occhi per metterseli di dietro e guardarsi le spalle. Il polso gli batteva a colpi di maglio: a mano a mano che rinasceva la sicurezza, quetavasi; all’ultimo allentò il passo, e quando gli parve essere affatto fuori di pericolo si pose a sedere sul primo muricciolo gli occorse davanti, e quivi sciolse un sospirone proprio dal cuore.
— Io l’ho scappata bella; — diceva ragionando seco — il pericolo non è stato certo di lieve momento.... eppure non so, se mi proponessero ricominciare quasi.... quasi accetterei — e qui si fregava le mani come il conte Cavour quando aveva dato a bere una balena all’onorevole Parlamento subalpino, trasformato più tardi in italiano. — Omobono di tratto in tratto prorompeva in uno scoppio di riso.... povero giovane! Gli si fossero spigionate le soffitte? Basti per ora sapere che egli se ne andò diritto al teatro, dove gli amici suoi noi videro mai allegro e contento come in cotesta serata.
E il giorno della scadenza del primo pagherò, otto marzo, e il conte Kamieski, il quale non estimandosi Giulio Cesare nè aspettava, nè temeva gli idi di questo mese sinistro, s’incamminava, con la contegnosa compostezza del gentiluomo di vecchia razza, verso il Banco Buoncompagni; sbirciando argutamente se alcuna cosa occorresse capace di dargli sospetto; niente apparisce mutato nè per di dentro nè per di fuori: la medesima frequenza di cui entra e di cui esce: i commessi intenti tutti allo proprie occupazioni. Omobono alla cassa: lo assiste il Nassoli, misurato come il pendolo; forse due scritturali, che gli siedono al fianco, non paiono ortodossi affatto..... non sembrava fossero troppo vaghi di cotesti esercizi; anzi tu li avresti giudicati, più che a menare la penna, capaci di trattare il remo.... ma le saranno state ubbie.
— Il cassiere — chiede il conte arrivato alle paratie dei commessi, con voce che studiava fare burbanzosa.
— Favorisca — risponde il ISTassoli, invitandolo col cenno della mano a passare dentro il bugigattolo della cassa.
Omobono, visto il conte, lo salutò graziosamente con un inchino del capo, accompagnato col più gentile dei suoi sorrisi; il conte da parte sua, col volto corazzato, gli rispose con un saluto di protezione.
— Comandi? — riprese il Nassoli.
E il conte:
— Vengo ad esigere un pagherò di diecimila lire, che scade oggi.
— Si compiaccia presentarmelo per vedere s’è in regola.
— In regolissima: eccolo....
Il Nassoli si tira su gli occhiali a mezza fronte, e, secondo il suo costume, accosta così il foglio alle palpebre, da parere ch’ei volesse co’ peli cancellarne le cifre; poi imperturbato lo rende con queste parole:
— È in regola.
— Ebbene lo paga?
— Che dubbio? Sarà pagato.
— Dunque lo paghi.
— Dunque non pago.
— Perchè non lo paga?
— O bella, perchè non è ancora scaduto.
— Come! non iscaduto? Oggi non abbiamo l’otto di marzo?
— Certo.
— O dunque?
— Signor conte, io non ho tempo da perdere; il biglietto ha da pagarsi un otto marzo, ma non quello di questo anno.
— Come! Come sta questa faccenda?
— Tal’è qual’è, come dice il cane quando lecca l’acqua; la si chiarifichi da sè; venga si accomodi, che lo potrà fare ad agio.
Il conte, che ormai aveva gli occhi tra i peli, leggeva e rileggeva e non si addava; il sangue gli era salito al capo, sicchè delle lettere del pagherò, parte gli sembravano scritte di rosso e parte di fuoco. Allora il Nassoli, pensando, che dai ma’ passi, quanto più presto si esce, e meglio egli è, notò:
— Osservandissimo padrone mio, favorisca leggere bene il millesimo, miri (e ci metteva il dito sopra) ci sta scritto tre marzo millenovecento sessantasei, la quale cosa, come vostra signoria può insegnarmi, significa, che se si compiacerà ripassare alla cassa da qui a cento anni, in questo giorno otto marzo, ella verrà puntualmente pagato....
— Ma questo e tradimento.... questo si chiama assassinare la gente.... io voglio il mio denaro.... il mio denaro: — e qui voltosi furibondo ad Omobono, continuava: — e voi signore, che me lo avete carpito, non dite nulla? Vi costringerò a parlare bene io, vi schiafferò in piazza.... vi strapperò il cuore dal petto e ve lo sbatterò in faccia....
— Queste cose, signor conte, una volta usavano in Inghilterra, e le faceva il boia coi traditori; e qui siamo a Milano — rispose Omobono, guardandolo fisso senza punto alterarsi, e poi: — il pagamento dei rocapili della banca non riguarda me, bensì sta nelle attribuzioni del signor cassiere.
— Al caseiere, furfante! spetta pagare i tuoi debiti? Al cassiere?
E qui agitato da terribile ira fece per avventarsi contro di lui; quando ecco i due commessi a latere del Nassoli balzare su come gente pratica ed acciuffarlo per le braccia e per la vita impedirgli ogni violenza: il mal capitato mugliava come un toro: forte egli era e dava strettoni da schiantare una porta di città; ma gli altri fra le guardie di sicurezza godevano fama di tanaglie maestre; onde egli con la bava alla bocca urlava:
— Lasciatemi, mascalzoni.... ladri da strada.... ora ve la farò vedere io, so giustizia vi è, il questore....
— Chi è mi cliiama? — si udì una voce al di là della paratia, e subito dopo comparve la nostra antica conoscenza, il questore Speroni, amico del cavaliere Faina: pareva venisse a festa, perchè, si sa, dell’arte sua ogni uomo s’innamora; e al conte, che dal caso inopinato pareva sbalordito domandò da capo: — Che cosa desidera la signoria vostra dal questore di Milano?
— Desidero, — rispose il conte fticendo come meglio poteva buon viso alla cattiva fortuna — desidero sapere se a Milano si pagano a questo modo i biglietti all’ordine? Ecco per avere domandato il mio mi trovo preso, come da sbirri (il povero uomo senza saperlo indovinava) e temerei di peggio se la presenza vostra non mi assicurasse; appena sia libero.... oggi.... al più lungo domani avrò l’V onore di recarmi al vostro ufficio per esporvi minutamente la odiosa insidia ordita a mio danno da cotesto ribaldo, contro cui fino da questo momento sporgo querela di truffa e di violenza....
— Illustre signore, ella ha da sapere come noi altri questori, prima di tutto per debito di ufficio e poi anco per genio, battiamo il ferro quando è caldo: le tracce dei reati da un punto all’altro si volatizzano peggio dell’etere; non perdiamo tempo, venga subito, e voi altri accompagnatelo.
— Come! Confida la mia custodia ai commessi di questo Banco.... o piuttosto di questa spelonca....?
— Stia tranquillo, io la confido nelle mani di due guardie di sicurezza.
— Signor questore.... sono gentiluomo....
— Non dubiti, che le saranno usati i debitt riguardi: giù ci aspetta una carrozza; anch’io desidero che le cose si facciano per benino.
Omobono a cui coceva essere stato tratto in trappola come un novizio, e non aveva potuto ancora digerire gli scherni della contessa, tanto non si potè tenere, che sul partire queste parole non dicesse al conte:
— Signor conte, quando rivedrete la rispettabile vostra signora, vi prego farle accettare i miei saluti, e dirle da parte mia, che finchè non si tira la rete in terra, non si può vedere se il pesce è preso.
Del conte e della contessa o Kranoski o Kamieski non parla più la nostra storia, eccettochè per dire che veramente nobili, anzi nobilissimi essi erano: avevano imitato nomi quanto paesi, da per tutto traendosi dietro una coda di truffe più lunga di quella delle comete. Per giuntare la nobilea facevano mostra di modi fastosamente superbi, che dura tuttavia la opinione essere la prepotenza indizio di nobiltà; co’ democratici poi ostentavano spiriti liberali e odio eterno contro il tiranno della sventurata sì, ma pur sempre infelice Polonia3: con tutti molto li avvantaggiò l’Amore, finchè la contessa lo potè agguantare, ma da- molto tempo in qua egli volava fuori di tiro; onde un giorno venuti meno tutti i partiti che rasentavano il Codice penale, bisognò appigliarsi ad uno di quelli che lo tagliano in mezzo: crederono agguantare e rimasero agguantati: scaltrissimi per lunga sperienza si lasciarono agguindolare da giovane inesperto, confermando il dettato, che in pellicceria ci ha più pelli di volpe che di asino.
Il Governo reputò prudente bandirli senz’altro, e fece bene, perchè sarebbe riuscita difficile la prova del delitto commesso; e tuttavia la contessa, costretta, rese l’orologio, e così ebbe a contentarsi per richiamare alla sua mente Omobono della sola immagine ch’ei le lasciava nel cuore.
Ma, se alla contessa fu forza restituire lo orologio, non per questo ritornò ad Omobono. Gli antichi solevano consacrare agli Dei inferi le membra dello agnello riscattate dalle zanne del lupo: Omobono lo consacrò al questore in memoria del fatto, e per testimonianza dell’animo grato.
Egli volle altresì usare cortesia con le guardie di pubblica sicurezza, le quali pertinacemente rifiutarono qualunque dono4: credeva facessero per burla, e s’ingannò; le guardie stettero ferme a sostenere che avevano compito il debito loro, ed il Governo pagarle giusto per questo, onde Omobono dopo un lungo contrasto, ebbe a concludere:
— Ma che sarebbe proprio vero, che per ravviare questa matassa arruffata della società, si dovesse incominciare da metterla sotto sopra? Eh! così si costuma con gli orologi a polvere, perchè non si potrebbe fare anco con gli uomini? Molto più, che gli uomini anch’essi sono polvere che passa e non misurano il tempo.
Note
- ↑ Byron, Don Giovanni, c. I.
- ↑ I diaconi erano i gestorì dei negozi ecclesiastici, archimandrita propriamente significa capo della mandra.
- ↑ Famoso motto del celebre Casati, il quale per la sua dottrina e per altri suoi meriti fu ministro del Regno d’Italia e presidente del Senato.
- ↑ Due fatti sono narrati in questo capitolo che parranno inverosimili, ed io posso assicurarli storici: il primo dei pagherò datati a un secolo di scadenza, accaduto, per lo appunto come viene esposto, a persona a me nota. Il secondo, delle intemerato guardie di sicurezza, attesto come di fatto mìo: saranno state rarae aves, non lo so, ma successe proprio così.