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230 | il secolo che muore |
— Così spero anch’io.
Omobono voleva con bel modo dispensare il conte da tenergli compagnia, ma siccome costui insisteva, egli non giudicò prudente mostrargli diffidenza: giunti pertanto sopra la soglia della porta di casa, rinnovati alla lesta i complimenti, si separarono.
Un pezzo andò il nostro giovane provando di tirare un occhio quanto più poteva a destra ed un altro a mancina, per sospetto che non gli capitasse qualche altra faldella; ne in veruna occasione (come egli ebbe a dire poi) desiderò mai avere un altro paio di occhi per metterseli di dietro e guardarsi le spalle. Il polso gli batteva a colpi di maglio: a mano a mano che rinasceva la sicurezza, quetavasi; all’ultimo allentò il passo, e quando gli parve essere affatto fuori di pericolo si pose a sedere sul primo muricciolo gli occorse davanti, e quivi sciolse un sospirone proprio dal cuore.
— Io l’ho scappata bella; — diceva ragionando seco — il pericolo non è stato certo di lieve momento.... eppure non so, se mi proponessero ricominciare quasi.... quasi accetterei — e qui si fregava le mani come il conte Cavour quando aveva dato a bere una balena all’onorevole Parlamento subalpino, trasformato più tardi in italiano. — Omobono di tratto in tratto prorompeva in uno scoppio di riso.... povero giovane! Gli si fossero spigionate le soffitte? Basti per ora sapere che egli se ne andò diritto al